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LOGOS - Argomenti => Tematiche Filosofiche => Discussione aperta da: Eutidemo il 22 Dicembre 2019, 15:47:11 PM

Titolo: La mano e la moneta
Inserito da: Eutidemo il 22 Dicembre 2019, 15:47:11 PM
Vi mostrerò ora, visivamente, un "gioco di prestigio", a cui mi pare di avervi già accennato di sfuggita in un altro mio TOPIC, (ma senza soffermarmici), il quale:
- a livello di "trucco manuale", di solito non riscuote un grande successo, perchè non ci casca (quasi) nessuno;
- a livello di "trucco logico", invece, spesso riscuote un grande successo, perchè sono in molti a cascarci.

Ora ve lo spiego per fasi:

A)
Mostrate una mano aperta, e fate notare che è assolutamente vuota.
(http://img18125.imagevenue.com/loc557/th_023043549_A_122_557lo.jpg)

B)
Chiudete la mano e sottolineate il fatto che, dentro, ovviamente non può esserci nulla.
(http://img18105.imagevenue.com/loc1186/th_702314141_B_122_1186lo.jpg)

C)
Concentratevi per qualche minuto, cercando "telecineticaménte" di materializzare una monenta al suo interno; dopodichè annunciate di essere riusciti in pieno, agitando il pugno in aria.
(http://img18115.imagevenue.com/loc764/th_023204158_C_122_764lo.jpg)

D)
Dopodichè, non contenti del risultato, dichiarate che adesso compirete un'altra più grande magia, facendo subitaneamente sparire di nuovo la moneta; e, dopo qualche secondo, annunciate di esserci perfettamente riusciti.
(http://img18104.imagevenue.com/loc1000/th_023268279_D_122_1000lo.jpg)

E)
Infine, aprite la mano per far vedere che la moneta è effettivamente sparita!
(http://img18116.imagevenue.com/loc965/th_023323101_E_122_965lo.jpg)

***
Se il pubblico è composto da spettatori di età superiore ai due anni, è molto probabile che verrete fatti oggetto di un nutrito lancio di pomodori. ;D  ;D  ;D
Nella migliore della ipotesi!
Però, coraggiosamente ripetendo l'esperimento, una volta che vi trovate nella fase C), provate ad esporre agli spettatori il seguente ragionamento:
"Va bene, il mio pugno è chiuso per cui voi non potete vedere la moneta che c'è dentro; però non potete neanche vedere che non c'è!
                                                 QUINDI
- così come io non posso dimostrare che c'è;
- allo stesso modo, però, voi non potete dimostrarmi che non c'è!"
Ed il bello è che, autosuggestionandovi, magari potreste davvero sentirla al tatto; però temo che il lancio di pomodori si ripeterebbe con maggiore intensità. ;)
Ma la cosa buffa è che, molti di quelli che vi lanciano i pomodori, in altri ambiti, senza neanche rendersene conto, si lasciano tranquillamente persuadere da ragionamenti sostanzialmente analoghi!

***
Come ho detto, in premessa, infatti:
- a livello di "trucco manuale", di solito non riscuote un grande successo, perchè non ci casca nessuno (salvo che non lo ipnotizziate);
- a livello di "trucco logico", invece, spesso riscuote un grande successo, perchè sono in molti a cascarci, lasciandosi ipnotizzare dal paralogismo della "falsa isostenia".
Lascio a voi sbizzarrirvi nel trovare qualcuno dei numerosi casi di questo genere:
- in filosofia;
- in politica;
- in economia;
e non solo!
(http://img18116.imagevenue.com/loc1003/th_770257873_000_122_1003lo.jpg)
Titolo: Re:La mano e la moneta
Inserito da: davintro il 22 Dicembre 2019, 16:44:47 PM
mi sembra che il tema proposto ricalchi quello classico dell' "onere della prova", e il principio per il quale sta a chi afferma qualcosa dimostrare la verità della propria tesi, senza pretendere che l'impossibilità di una smentita legittimi tale verità. Principio logicamente ineccepibile (salvo i casi in cui l'impossibilità della smentita consista non nell'impossibilità di trovare fatti empirici falsificanti un'affermazione, ma nella sua autocontraddittorietà: se una tesi non-A che smentisce A si rivela internamente incoerente, verrà necessariamente dimostrata la verità di A, tertium non datur), che però si rivela irrilevante e sterile nel contesto di una discussione in cui una delle due parti presenta una tesi che l'altra parte intende contestare. Infatti, da un punto di vista logico, ogni contestazione, cioè negazione di una tesi è a sua volta, sempre un'affermazione, l'affermazione della verità di uno stato di cose alternativo a quello presentato nella tesi che si intende contestare, che in quanto tale è soggetta alla responsabilità dialettica di provare la sua verità nella stessa misura in cui è soggetta l'affermazione a cui ci si oppone. Quindi, ad esempio, uno dei più consueti cavalli di battaglia dialettici dell'ateismo (non l'unico, lo chiarisco perché non vorrei che qualche ateo pensasse che voglia sminuire le possibilità del suo apparato argomentativo), quello di considerare l'affermazione sull'esistenza di Dio come necessitante di onus probandi a differenza della negazione di tale esistenza, che come "negazione" sarebbe libera da questa responsabilità, andrebbe del tutto invalidato. Infatti la negazione atea "Non c'è alcun Dio", può essere tranquillamente riformulata, senza che in nulla si alteri il suo significato in un'affermazione a tutti gli effetti "Esiste una realtà in cui Dio è assente", che andrebbe provata allo stesso modo della tesi opposta. Se nel merito del contenuto ontologico si parla della constatazione di un'assenza, a livello di forma logica, cioè l'ambito a cui il principio dell'onere della prova è riferito, si tratta di un'affermazione che "positivamente" propone una tesi sulla realtà e che dunque è soggetta agli stessi vincoli epistemici della tesi opposta. Quindi, tornando all'esempio del messaggio di apertura, quello che logicamente legittima il pubblico a tirare pomodori contro l'illusionista non è il fatto che quest'ultimo abbia mancato ad una sorta di "dovere" di prova dei suoi poteri, che SOLO A LUI, in quanto proponente un'affermazione, sarebbe richiesto, mentre il pubblico può starsene tranquillamente "con le mani in mano", per così dire, a limitarsi a negare l'affermazione, senza tenere a mente le ragioni del suo scetticismo, ma perché il pubblico stesso può già giovarsi di una larga tradizione di oneri della prova assolti, cioè di verifiche scientifiche empiriche che mostrano, almeno a livello probabilistico e non di certezza assoluta, l'impossibilità per la mente umana di creare oggetti dal nulla. Impossibilità che è un'affermazione che esige di essere provata nella stessa misura della tesi opposta, senza pretendere di porsi aprioristicamente su un piano di privilegio o rendita dialettica, entro cui doverla dare per scontata
Titolo: Re:La mano e la moneta
Inserito da: Ipazia il 22 Dicembre 2019, 18:14:37 PM
Mi pare un tantino tirata per i capelli una proposizione del tipo: "esiste una realtà in cui l'unicorno è assente". Poco epistemo-logica.
Titolo: Re:La mano e la moneta
Inserito da: viator il 22 Dicembre 2019, 18:50:03 PM
Certo che bisogna aver affrontato interminabili studi filosofici per giungere alla conclusione che ASSENZE - NULLA - VUOTI non sottostanno ad alcuna necessità di prova. Saluti.
Titolo: Re:La mano e la moneta
Inserito da: davintro il 22 Dicembre 2019, 20:38:04 PM
Citazione di: Ipazia il 22 Dicembre 2019, 18:14:37 PMMi pare un tantino tirata per i capelli una proposizione del tipo: "esiste una realtà in cui l'unicorno è assente". Poco epistemo-logica.

Perché tirata per i capelli? Una proposizione di questo tipo mantiene intatto lo stesso identico significato della sua versione negativa "Non esiste l'unicorno". Cambia la sintassi, non la semantica, non il contenuto di verità che nella tesi viene intenzionalmente posto come oggettivo, e che, al di là della struttura grammaticale-linguistica, le cui regole sono sempre una contingenza storica, è l'unico elemento che una dimostrazione razionale ha interesse a porre come suo oggetto di applicazione.  Si può certamente dire, ma uscendo dall'ambito di cui si sta qui trattando, dell'onus probandi, che, in assenza di motivazioni razionali riguardo l'esistenza dell'unicorno, la logica suggerisce di restare nella sospensione del giudizio circa tale esistenza, ma nel momento in cui si fa un passo in avanti e si passa dalla sospensione del giudizio, alla tesi della non esistenza dell'unicorno, posta come assoluto (cioè considerando tutta la realtà nel suo complesso, oltre il limite di ciò che finora si è potuto esperire) della, si compie inevitabilmente un'affermazione che riguarda una certa visione in positivo del reale, e che dunque richiede di passare per l'onere della prova allo stesso modo della tesi contraria. Il carattere intenzionale che attiene per essenza a ogni giudizio, per il quale ogni giudizio, affermativo o negativo che sia, è sempre la presentazione di una visione mirante a rappresentare il reale in modo oggettivo, fa sì che la differenza tra forma affermativa e negativa, resta un'accidentalità linguistica formale che può trapassare da un modo all'altro senza alterare il contenuto significato intenzionalmente posto
Titolo: Re:La mano e la moneta
Inserito da: Phil il 22 Dicembre 2019, 22:22:00 PM
Citazione di: davintro il 22 Dicembre 2019, 20:38:04 PM
Il carattere intenzionale che attiene per essenza a ogni giudizio, per il quale ogni giudizio, affermativo o negativo che sia, è sempre la presentazione di una visione mirante a rappresentare il reale in modo oggettivo, fa sì che la differenza tra forma affermativa e negativa, resta un'accidentalità linguistica formale che può trapassare da un modo all'altro senza alterare il contenuto significato intenzionalmente posto
Per me non è da confondere il referente dell'affermazione di esistenza con le qualità (o "accidenti") del referente affermato, soprattutto se una qualità apparente consiste in realtà in un (o più) altro referente:
- se dico «c'è una stanza», affermo l'esistenza di una stanza e magari poi la dimostro ricorrendo alla definizione di «stanza» e mostrando la sua corrispondenza con l'ente di cui si parla;
- se affermo «c'è una stanza rossa», affermo l'esistenza di un referente con una determinata qualità, è quindi anche possibile che esista il referente (stanza) ma non la qualità, o la qualità (il rosso) ma non nel referente affermato (ad esempio se sono in presenza di una macchina rossa, non di una stanza)
- se invece affermo «c'è una stanza in cui non ci sono sedie (ovvero in cui sono assenti sedie)» ci sono due referenti, due sostantivi (da «sostanza» intesa alla medievale), ovvero due presunte esistenze, distinte e separate, di cui si parla, la stanza e le sedie, e le dimostrazioni delle due affermazioni sono (onto)logicamente indipendenti: posso dimostrare l'esistenza di sedie, ma eventualmente non localizzate in una stanza (magari in un camion) o l'esistenza di una stanza ma senza sedie (se non se ne riscontra la presenza). La suddetta non è dunque una affermazione di esistenza, ma una affermazione di due esistenze o, ugualmente, due affermazioni di esistenza ipoteticamente correlate.

Che esista almeno "una realtà (la nostra) in cui sono assenti unicorni" è empiricamente falsificato: esistiamo io e te (se anche fossimo due chatbot, saremmo comunque reali), o almeno uno dei due, quindi una realtà c'è, Cartesio docet. In tale realtà sono assenti gli unicorni? Non direi: possiamo pensarli, disegnarli, descriverli, etc. rendendoli una presenza.
Ritenere che gli unicorni siano reali oltre il loro essere disegnati, nominati, etc. non riguarda più la realtà di cui abbiamo (di)mostrato l'esistenza con la nostra conversazione (anche fosse un soliloquio onirico). La "nostra" realtà empirica è dimostrata dal "cogito" (o dallo "scrivo", nel nostro caso) così come il suo contenere unicorni, di cui stiamo ragionevolmente scrivendo.
Tuttavia, se si ritiene che gli unicorni abbiano un'esistenza che va oltre (meta-...) quella sperimentabile e verificabile in discorsi, disegni, etc., ciò riguarda chiaramente un'altra realtà che esula da quella sperimentata e verificata dal nostro scrivere (con tutte le eventuali esitazioni del caso). Che esista un'altra realtà in cui gli unicorni sono esseri viventi, indipendenti dal discorso che ne parla, resta quindi da dimostrare. Se poi definiamo gli unicorni in modo che risultino indimostrabili (impercepibili, infalsificabili, etc.) allora l'affermazione della loro esistenza non potrà percorrere la strada della dimostrazione epistemologica.

La differenza fra predicare l'esistenza e la non-esistenza è ontologica, prima che epistemologica; pur trattandosi formalmente di due affermazioni, la differenza è rilevante: nel primo caso ci si riferisce a qualcosa di esistente e presente, nel secondo invece ci si riferisce ad un'assenza determinata, ad un concetto senza referente empirico o "sostanziale" (sempre per dirla alla medievale).

Facendo dell'ontologia spiccia e limitata esemplificativamente alla percezione: posso avere (parafrasando Cartesio) «una percezione chiara e distinta» di ciò che è, ma non di ciò che non è; questo differenzia radicalmente l'affermazione di esistenza (e una sua possibile dimostrazione) da quella di non esistenza.
Infatti se parlassimo di "percezione dell'assenza di qualcosa" sarebbe un giocoso sofisma (che non hai commesso), come dire che guardando una stanza vuota ho una percezione delle persone che non ci sono, dei clowns che non ci sono, degli elefanti che non ci sono, etc. tutti enti che, al di là del sofisma, non percepisco affatto, perché la percezione (tanto sensoriale quanto intenzionale) in quanto tale, si rivolge alla presenza determinata non all'assenza indeterminata (l'assenza determinata del percepire che "qualcosa c'era ma ora non c'è più" richiederebbe addentrarsi sul tema della memoria, tangente ma non essenziale a quello della dimostrazione intersoggettiva di esistenza). Ha semmai senso affermare che percepisco il "vuoto" della stanza, non tutti gli infiniti enti possibili che potrebbero riempirla ma non ci sono (salvo riuscir a dimostrare che riesco a percepire l'infinito in un istante; anche in questo caso, è chi nega la percezione dell'infinito in un istante che deve dimostrarlo tanto quanto chi l'afferma? Comunque qui ce la caviamo facilmente facendo appello alla definizione stessa di "infinito" che mal si presta ad essere percepito esaustivamente in un batter d'occhio; salvo scenari estetici oppure accontentarsi del suo simbolo, confondendo così, quasi "dolosamente", segno e referente).
Titolo: Re:La mano e la moneta
Inserito da: davintro il 23 Dicembre 2019, 00:18:02 AM
Citazione di: Phil il 22 Dicembre 2019, 22:22:00 PM
Citazione di: davintro il 22 Dicembre 2019, 20:38:04 PMIl carattere intenzionale che attiene per essenza a ogni giudizio, per il quale ogni giudizio, affermativo o negativo che sia, è sempre la presentazione di una visione mirante a rappresentare il reale in modo oggettivo, fa sì che la differenza tra forma affermativa e negativa, resta un'accidentalità linguistica formale che può trapassare da un modo all'altro senza alterare il contenuto significato intenzionalmente posto
Per me non è da confondere il referente dell'affermazione di esistenza con le qualità (o "accidenti") del referente affermato, soprattutto se una qualità apparente consiste in realtà in un (o più) altro referente: - se dico «c'è una stanza», affermo l'esistenza di una stanza e magari poi la dimostro ricorrendo alla definizione di «stanza» e mostrando la sua corrispondenza con l'ente di cui si parla; - se affermo «c'è una stanza rossa», affermo l'esistenza di un referente con una determinata qualità, è quindi anche possibile che esista il referente (stanza) ma non la qualità, o la qualità (il rosso) ma non nel referente affermato (ad esempio se sono in presenza di una macchina rossa, non di una stanza) - se invece affermo «c'è una stanza in cui non ci sono sedie (ovvero in cui sono assenti sedie)» ci sono due referenti, due sostantivi (da «sostanza» intesa alla medievale), ovvero due presunte esistenze, distinte e separate, di cui si parla, la stanza e le sedie, e le dimostrazioni delle due affermazioni sono (onto)logicamente indipendenti: posso dimostrare l'esistenza di sedie, ma eventualmente non localizzate in una stanza (magari in un camion) o l'esistenza di una stanza ma senza sedie (se non se ne riscontra la presenza). La suddetta non è dunque una affermazione di esistenza, ma una affermazione di due esistenze o, ugualmente, due affermazioni di esistenza ipoteticamente correlate. Che esista almeno "una realtà (la nostra) in cui sono assenti unicorni" è empiricamente falsificato: esistiamo io e te (se anche fossimo due chatbot, saremmo comunque reali), o almeno uno dei due, quindi una realtà c'è, Cartesio docet. In tale realtà sono assenti gli unicorni? Non direi: possiamo pensarli, disegnarli, descriverli, etc. rendendoli una presenza. Ritenere che gli unicorni siano reali oltre il loro essere disegnati, nominati, etc. non riguarda più la realtà di cui abbiamo (di)mostrato l'esistenza con la nostra conversazione (anche fosse un soliloquio onirico). La "nostra" realtà empirica è dimostrata dal "cogito" (o dallo "scrivo", nel nostro caso) così come il suo contenere unicorni, di cui stiamo ragionevolmente scrivendo. Tuttavia, se si ritiene che gli unicorni abbiano un'esistenza che va oltre (meta-...) quella sperimentabile e verificabile in discorsi, disegni, etc., ciò riguarda chiaramente un'altra realtà che esula da quella sperimentata e verificata dal nostro scrivere (con tutte le eventuali esitazioni del caso). Che esista un'altra realtà in cui gli unicorni sono esseri viventi, indipendenti dal discorso che ne parla, resta quindi da dimostrare. Se poi definiamo gli unicorni in modo che risultino indimostrabili (impercepibili, infalsificabili, etc.) allora l'affermazione della loro esistenza non potrà percorrere la strada della dimostrazione epistemologica. La differenza fra predicare l'esistenza e la non-esistenza è ontologica, prima che epistemologica; pur trattandosi formalmente di due affermazioni, la differenza è rilevante: nel primo caso ci si riferisce a qualcosa di esistente e presente, nel secondo invece ci si riferisce ad un'assenza determinata, ad un concetto senza referente empirico o "sostanziale" (sempre per dirla alla medievale). Facendo dell'ontologia spiccia e limitata esemplificativamente alla percezione: posso avere (parafrasando Cartesio) «una percezione chiara e distinta» di ciò che è, ma non di ciò che non è; questo differenzia radicalmente l'affermazione di esistenza (e una sua possibile dimostrazione) da quella di non esistenza. Infatti se parlassimo di "percezione dell'assenza di qualcosa" sarebbe un giocoso sofisma (che non hai commesso), come dire che guardando una stanza vuota ho una percezione delle persone che non ci sono, dei clowns che non ci sono, degli elefanti che non ci sono, etc. tutti enti che, al di là del sofisma, non percepisco affatto, perché la percezione (tanto sensoriale quanto intenzionale) in quanto tale, si rivolge alla presenza determinata non all'assenza indeterminata (l'assenza determinata del percepire che "qualcosa c'era ma ora non c'è più" richiederebbe addentrarsi sul tema della memoria, tangente ma non essenziale a quello della dimostrazione intersoggettiva di esistenza). Ha semmai senso affermare che percepisco il "vuoto" della stanza, non tutti gli infiniti enti possibili che potrebbero riempirla ma non ci sono (salvo riuscir a dimostrare che riesco a percepire l'infinito in un istante; anche in questo caso, è chi nega la percezione dell'infinito in un istante che deve dimostrarlo tanto quanto chi l'afferma? Comunque qui ce la caviamo facilmente facendo appello alla definizione stessa di "infinito" che mal si presta ad essere percepito esaustivamente in un batter d'occhio; salvo scenari estetici oppure accontentarsi del suo simbolo, confondendo così, quasi "dolosamente", segno e referente).

senza dubbio affermazione e negazione differiscono in quando indicano cose opposte dal punto di vista ontologico, l'affermazione indica la presenza di un ente, la negazione la sua essenza. Resta il fatto che ogni negazione implica comunque sempre un'affermazione, un'affermazione nella quale giudico come oggettivamente reale ciò che indica la visione entro cui cogliere l'assenza di ciò che è negato. Non potrei giudicare "in questa stanza non ci sono sedie", senza che la negazione dell'esistenza delle sedie non sia accompagnata dal giudizio (non importa se a livello psichico non lo ponga come tema su cui focalizzare l'attenzione, resta comunque operante sullo sfondo della coscienza, in quanto legittima il giudizio di negazione rivolto alle sedie a cui invece sto rivolgendo il pensiero) in cui affermo la realtà della stanza, nella rappresentazione mentale in cui la percepisco. E se questa affermazione, in quanto tale, soggiace all'onere della prova, a questo obbligo epistemologico soggiace necessariamente anche la negazione della presenza delle sedie. Caduta la realtà della percezione della stanza senza sedie, caduta anche la negazione di queste ultime, dato che ammettere l'illusorietà della percezione della stanza aprirebbe la strada alla possibilità di una visione alternativa di una stanza in cui invece le sedie sarebbero presenti
Titolo: Re:La mano e la moneta
Inserito da: Ipazia il 23 Dicembre 2019, 00:27:35 AM
Sedie e stanze esistono; unicorni, no. Dire "in questa stanza... non ci sono sedie" o "...non ci sono unicorni" non è la stessa cosa. Ontologicamente prima che epistemologicamente, come ha opportunamente sottolineato Phil.
Titolo: Re:La mano e la moneta
Inserito da: Phil il 23 Dicembre 2019, 01:08:59 AM
Citazione di: davintro il 23 Dicembre 2019, 00:18:02 AM
Non potrei giudicare "in questa stanza non ci sono sedie", senza che la negazione dell'esistenza delle sedie non sia accompagnata dal giudizio [...] in cui affermo la realtà della stanza, nella rappresentazione mentale in cui la percepisco. E se questa affermazione, in quanto tale, soggiace all'onere della prova, a questo obbligo epistemologico soggiace necessariamente anche la negazione della presenza delle sedie.
Probabilmente è una questione di snellezza metodologica (e di "tempi ragionevoli"), nel senso che l'onere della prova dell'assenza rischierebbe di diventare, come accennavo, l'onere della prova dell'infinito: l'esistenza, in un dato intervallo di tempo, è fatta da un numero di enti verificabili finito, mentre i potenziali enti assenti sono infiniti, quindi è impossibile dimostrarne l'assenza in modo completo.

Banalmente, se affermo che c'è una sedia nella stanza e ne dimostro la presenza, non ho bisogno di dimostrare la sua assenza; se dimostro invece l'assenza di una sedia, dovrei tuttavia poi dimostrare l'assenza di infiniti enti prima di poter affermare «la stanza è vuota»; oppure per concludere che «nella stanza c'è solo una sedia» dovrei dimostrare che non ce ne siano due, né tre, né quattro, etc. poi che non c'è nemmeno un tavolo, etc. all'infinito.
Chiaramente finché si tratta di enti empirici facilmente enumerabili, poiché chiusi in una stanza, la situazione è rapidamente risolvibile, basta la vista e poco altro; se invece qualcuno afferma che «nel mondo c'è un dragone», o peggio, senza dare indizi, «esiste un dragone», «un dragone c'è», mi sembra più ragionevole che sia lui a dimostrarne l'esistenza, piuttosto che noi a perlustrare tutto il globo o il cosmo solo per dimostrare a lui la falsità della sua affermazione (pur concedendogli la buona fede).
Va infatti notato come nell'affermare la non-esistenza ci si possa limitare ad un «fino a prova contraria», che nel caso dell'esistenza suonerebbe un po' meno razionale: si potrebbe affermare l'esistenza di qualunque fantasia o ente e poi avallarlo con un «fino a prova contraria» lasciando agli altri l'onere di dimostrare falsa l'affermazione di esistenza.

In ambito più euristico, va comunque considerato che per quanto riguarda l'esistenza ha senso pragmatico ed utilità epistemologica apportare prove (o anche indizi) di evidenza positiva e dimostrativa; la più antica, che precede logicamente il di-mostrare, è il mostrare («guarda, ecco qui il dragone»). Mentre per la non-esistenza sarebbe contraddittorio poter portare prove di evidenza positiva, e quelle negative sarebbero molto più dispersive e inefficienti: «qui il dragone non c'è... aspetta che guardo sotto il letto... no, non è neanche lì... forse è in frigo... no...» e così all'infinito per ogni ente pensabile e immaginabile.
Titolo: Re:La mano e la moneta
Inserito da: Eutidemo il 23 Dicembre 2019, 06:59:04 AM
Ciao Davintro. :)
Per quanto concerne il termine "Dio", poichè si tratta di una locuzione a cui non corrisponde nulla di oggettivamente riscontrabile, nè un concetto unanimamente condiviso, le discussioni sulla sua esistenza diventano sempre molto ambigue e inconcludenti; ed infatti, alcuni considerano "dio" un animale totemico, altri un idolo di pietra, altri  un dio antropomorfo, altri un dio catafatico (ed antropopatetico), altri un dio apofatico!

***
Al contrario, nessuno discute su che cosa sia una "moneta"; per cui, al riguardo, si può solo discettare se essa ci sia "veramente" nel pugno chiuso oppure no, ma non che esistano monete in generale!

***
Se io, invece, avessi eseguito il mio gioco con un elefante, a ben vedere, non avrei neanche potuto tentare il mio provocatorio "sofisma isostenico"; ed infatti, in tal caso, gli spettatori avrebbero potuto dimostrarmi "scientificamente" (e logicamente) che le dimensioni di tale animale non consentono neanche ipoteticamente di poterlo fisicamente contenere in un pugno chiuso!
Non è possibile! ;)

***
Per  tornare alla moneta, invece, io conosco almeno tre trucchi per  farla "effettivamente" apparire "dal nulla" in un pugno chiuso; di cui vi mostro il più semplice, eseguito da un mio giovane allievo:
https://www.youtube.com/watch?v=xgBQ0kE54t4
Per cui, per tornare al "gioco di prestigio" illustrato nel mio TOPIC iniziale, quando, nella FASE C)3), io dichiaro di aver fatto apparire una moneta nel mio pugno chiuso, in effetti, io potrei averla fatta apparire "davvero"; e poi, nella FASE D)4), potrei "davvero" averla fatta sparire di nuovo, con la stessa tecnica. ;)

***
Ovviamente, nessun prestigiatore si esibirebbe mai in un trucco così idiota, perchè nessuno spettatore potrebbe vederne gli "effetti"; e, quindi, nessuno di loro crederebbe che essi si siano realmente verificati.

***
Però, per tornare all'aspetto "logico" della questione, gli spettatori che negassero il verificarsi dell'apparizione e della sparizione "nascoste", non avrebbero tutti i torti; ed infatti sta a chi afferma l'esistenza di un fenomeno di dimostrare che esso si è realmente verificato, e non a chi lo nega dimostrare il contrario.
Altrimenti, si potrebbe sostenere QUALSIASI COSA, anche l'esistenza degli "unicorni"; ed infatti, poichè non si può dimostrare:
- nè che ci sono;
- nè che non ci sono;
seguendo il "paralogismo isostenico", qualcuno potrebbe affermare che la possibilità che esistano unicorni, è al 50% con la possibilità che essi non esistano.
E lo stesso dicasi, visto il periodo natalizio, per Babbo Natale e la Befana!

***
Però, "tecnicamente", non si può neanche affermare con certezza al 100% che gli unicorni non esistano, in quanto la loro esistenza non è logicamente "autocontraddittoria"; cosa che, invece, si può tranquillamente affermare per gli "esapodi-quadrupedi", perchè un "artropode" o ha sei arti, oppure ce n'ha solo solo quattro, per cui la possibilità della loro esistenza è pari allo 0%.
(http://img18126.imagevenue.com/loc967/th_079900120_UNICORNO_122_967lo.jpg)

Un saluto ed un augurio di buone feste! :)
Titolo: Re:La mano e la moneta
Inserito da: Ipazia il 23 Dicembre 2019, 08:27:39 AM
Citazione di: Phil il 23 Dicembre 2019, 01:08:59 AM
In ambito più euristico, va comunque considerato che per quanto riguarda l'esistenza ha senso pragmatico ed utilità epistemologica apportare prove (o anche indizi) di evidenza positiva e dimostrativa; la più antica, che precede logicamente il di-mostrare, è il mostrare («guarda, ecco qui il dragone»). Mentre per la non-esistenza sarebbe contraddittorio poter portare prove di evidenza positiva, e quelle negative sarebbero molto più dispersive e inefficienti: «qui il dragone non c'è... aspetta che guardo sotto il letto... no, non è neanche lì... forse è in frigo... no...» e così all'infinito per ogni ente pensabile e immaginabile.

Questo argomento mi pare dirimente per stabilire l'insuperabile differenziale logico tra l'ontologia positiva dell'essere/esistere e quella negativa del non-essere/non-esistere. Incluso il corrispettivo epistemico ed epistemologico.

Vi è solo un caso in cui l'ontologia "negativa" diventa legittima e vieppiù necessaria: quando si ricerca l'anello mancante per la compiutezza di una teoria. In tal caso il dragone bisogna cercarlo dappertutto e una volta trovato diventa ontologia "positiva". Dopodichè non si può più invocare il diritto dell'ontologia negativa alle infinite alternative, ma scatta l'onus probandi della falsificazione che può avvenire solo attraverso fatti reali, concreti, positivi. Siano essi il cigno nero che compare in tutta la sua realistica magnificenza o teorie (costruite su fatti) con un grado di esplicabilità superiore alla teoria falsificata.
.
Titolo: Re:La mano e la moneta
Inserito da: Eutidemo il 23 Dicembre 2019, 14:48:40 PM
Ora vi faccio vedere come con una mano sola, vi faccio apparire non una moneta da un euro, ma addirittura una banconota da 50 euro! :D
https://www.youtube.com/watch?v=Su8UKKv9D5w
BUON NATALE A TUTTI!!! :-*
Titolo: Re:La mano e la moneta
Inserito da: davintro il 23 Dicembre 2019, 17:34:24 PM
mi pare di scorgere tra le obiezioni di Phil e di Eutidemo ai miei modesti appunti un tratto comune, cioè l'inserimento di istanze metodologico di stampo prettamente pragmatista e di "economia del pensiero" all'interno della questione epistemologica della legittimità razionale di un discorso (che è qualcosa che mi sa sempre di mentalità "anglosassone").Phil parla di un rallentamento della procedura di verifica che si verrebbe a determinare nel caso di dover applicare l'onus probandi a una tesi negativa, un verificare l'assenza del mostro nella stanza andando a cercare in ogni angolo, Eutidemo si preoccupa che, caricando dell'onere delle prova anche chi si limita a sostenere l'assenza di un fenomeno, si arriverebbe a un totale "liberi tutti" nei confronti di qualunque tesi impossibile da smentire a livello di pura logica atta a rilevarne le contraddizioni interne. Quello che mi verrebbe da dire è che questi rilievi in realtà non sollevano problemi da un punto di vista teoretico (che personalmente è il punto di vista che personalmente più mi interesserebbe a trattare in contesti come questo), ma pratico, riguardo cioè l'eccessiva lentezza che ne deriverebbe nei contesti dialogici in cui le tesi si dibattono, oppure il timore di un'impossibilità a smentire tesi APPARENTEMENTE illogiche in quanto chi le contesta sarebbe a sua volta tenuto ad argomentare le sue contestazioni. Da un punto di vista della questione della fondazione razionale dei discorsi queste preoccupazioni pragmatiche andrebbero messe fra parentesi, in quanto, se tale questione è correlata allo statuto ontologico della realtà (in quanto si tratterebbe di individuare metodologie di ricerca il più possibile coerenti con le proprietà oggettive delle cose stesse che si intendono indagare), allora valutare o escludere una strategia argomentativa sulla base di un'esigenza di "comodità euristica", proietterebbe delle istanze del tutto pratiche-personali che vanno a sovrapporsi a quella teoretica-oggettiva di legittimare un metodo attinente a giungere a una visione di verità nei confronti della realtà, con l'inevitabile conseguenza di falsare la metodologia, deviandola dall'obiettivo di conoscere la realtà oggettiva, e fermarsi a concezioni dogmatiche che rinunciano già in partenza a mettere in discussione gli assunti derivanti dai pregiudizi tradizionali e consolidati, ma non per questo razionali. Così, diamo per scontato che il drago non sia nella stanza, solo perché per pigrizia non si ha voglia di andare a esplorare ogni angolino, perché richiederebbe troppo tempo (ma che fretta c'è in fondo!?) e tiriamo pomodori all'illusionista o a chi parla di unicorni, perché non si ha voglia di ammettere quel margine di errore irriducibile che rende le verifiche sperimentali in cui l'unicorno non appare esistere solo probabilistico e non certo. Tutto legittimo, ma a condizione di allontanarci dalla risoluzione dei problemi epistemici. Checchè ne pensi il pragmatismo anglosassone, l'epistemologia è una branca della filosofia teoretica, non applicazione di una saggezza pratica, e la teoresi ha tanto più successo nella misura in cui si pone in rapporto col reale di pura contemplazione, sospendendo, epoche fenomenologica, ogni istanza pragmatica e performativa, per porci in uno stadio di passiva ricezione delle cose stesse per come si manifestano alla coscienza, utilizzando poi la logica per astrarne le strutture evidenti. Cioè l'obiettivo dell'epistemologia dovrebbe essere l'individuazione della strategia argomentativa che sia più funzionale ad aprire la coscienza a rivelazione delle cose stesse, rendendola il più possibile ad essa fedele, e non a formulare un metodo tarato sui nostri bisogni di uomini pratici alle prese con urgenze di natura extrateoretica. Nessuno ci obbliga a fare lo scienziato-filosofo ricercatore della verità, ma se si sceglie di farlo occorre mettere in conto che l'efficacia del lavoro implichi per forza sacrificare tempo ed energie dedicabili ad altri ambiti. Quindi se si vuole argomentare razionalmente l'assenza del mostro nella stanza, ci si prende tutto il tempo che occorre per ispezionarla da cima a fondo, e se non si ha tempo o voglia di farlo, la cosa più onesta sarebbe sospendere in modo più o meno neutro il giudizio riconoscendo il margine di incertezza dovuto ai limiti della visione del reale entro cui è riferita l'assenza del fenomeno in questione.
Titolo: Re:La mano e la moneta
Inserito da: Eutidemo il 23 Dicembre 2019, 18:36:18 PM
Ciao Davintro. :)
Se per "economia del pensiero" intendi il principio "Entia non sunt multiplicanda sine necessitate", e, cioè, il "Rasoio di Occam", ci hai preso in pieno! ;)
Ed invero, come tu hai scritto, io appunto ritengo che caricando dell'onere delle prova anche chi si limita a sostenere l'assenza di un fenomeno (non verificabile in alcun modo), si arriverebbe a un totale "liberi tutti" nei confronti di qualunque tesi impossibile da smentire a livello di pura logica atta a rilevarne le contraddizioni interne. 
I tuoi argomenti, contrari al mio assunto, sono tutti interessanti, e niente affatto privi di senso logico; penso che essi siano perfettamente "sintetizzati" dalla tua icastica conclusione: 
"Quindi se si vuole argomentare razionalmente l'assenza del mostro (o di un unicorno) nella stanza, ci si prende tutto il tempo che occorre per ispezionarla da cima a fondo, e se non si ha tempo o voglia di farlo, la cosa più onesta sarebbe sospendere in modo più o meno neutro il giudizio riconoscendo il margine di incertezza dovuto ai limiti della visione del reale entro cui è riferita l'assenza del fenomeno in questione."
Capisco esattamente quello che vuoi dire, che è, in buona parte, condivisibile. :)

***
Però, io avevo scritto una cosa un po' diversa da quella che tu critichi, e, cioè: "...non si può affermare con certezza al 100% che gli unicorni non esistano, in quanto la loro esistenza non è logicamente "autocontraddittoria"; cosa che, invece, si può tranquillamente affermare per gli "esapodi-quadrupedi", perchè un "artropode" o ha sei arti, oppure ce n'ha solo solo quattro, per cui la possibilità della loro esistenza è pari allo 0%."
Quindi, secondo me, almeno a livello di "dubbio filosofico":
a) nel caso dell'esistenza o meno dell'unicorno, teoricamente, possiamo pure benignamente  "sospendere il giudizio" in attesa che se ne trovi uno in qualche valle sperduta dell Himalaya; ;)
b) nel caso dell'esistenza  di un "esapode-quadrupede" (o di un elefante racchiuso nel mio pugno), invece, secondo me non dobbiamo "sospendere" assolutamente niente, perchè si tratta di fenomeni logicamente e fisicamente impossibili. ;)

***
Quanto al caso a), evitiamo pure di dare per scontato che "il drago non sia nella stanza", solo perché per pigrizia non si ha voglia di andare a esplorare ogni angolino, e perché richiederebbe troppo tempo; però, se invece di una stanza mi devo mettere ad esplorare l'intera Africa, non ho nè tempo nè denaro da spendere in una ricerca tanto onerosa, e dai risultati così altamente improbabili!
Il che, però, non esclude che un drago da qualche parte possa pure esserci.
Hai visto mai!

***
Al di fuori di esempi paradossali, il ragionamento di cui sopra vale pure per le sedute spiritiche e le capacità paranormali, riguardo alle quali io non ho mai escluso "a priori" che si tratti di cose "teoricamente" possibili;  anche se ritengo che "alcuni" presunti fenomeni, specie quelli spiritici, non possano verificarsi nè "fisicamente"  nè "logicamente" (della qual cosa, però, bisognerebbe parlare in un topic a parte).

***
Tuttavia, resta il fatto che sin dal 1° maggio 1996, la James Randi Educational Foundation (JREF) di Fort Lauderdale, in Florida, ha messo in Palio UN MILIONE di dollari per chi, sotto controllo scientifico e di un comitato di prestigiatori professionisti, riuscirà a dimostrare di possedere "davvero" poteri medianici e facoltà paranormali; ma, a tutt'oggi, nessuno ha ancora ritirato il premio!
Per cui, per me, i casi sono i seguenti:
- o tutti i medium e i soggetti paranormali sono ricchi sfondati, e, quindi, disinteressati al premio;
- oppure hanno tutti fatto voto di povertà;
- oppure sono tutti dei ciarlatani o degli illusi;
- oppure riescono a far apparire i soldi dal nulla, come me: ;D 
https://www.youtube.com/watch?v=Su8UKKv9D5w
Non mi si affacciano alla mente altre ipotesi plausibili!

***
Comunque, proverò adesso anche un esperimento di chiarroveggenza, in quanto, in questo momento, ho già indovinato la sesta parola del tuo prossimo intervento; ne sono assolutamente certo!

Un saluto! :)
Titolo: Re:La mano e la moneta
Inserito da: Phil il 23 Dicembre 2019, 20:31:37 PM
Citazione di: davintro il 23 Dicembre 2019, 17:34:24 PM
mentalità "anglosassone").Phil parla di un rallentamento della procedura di verifica che si verrebbe a determinare nel caso di dover applicare l'onus probandi a una tesi negativa, un verificare l'assenza del mostro nella stanza andando a cercare in ogni angolo [...]Così, diamo per scontato che il drago non sia nella stanza, solo perché per pigrizia non si ha voglia di andare a esplorare ogni angolino, perché richiederebbe troppo tempo (ma che fretta c'è in fondo!?) [...]Quindi se si vuole argomentare razionalmente l'assenza del mostro nella stanza, ci si prende tutto il tempo che occorre per ispezionarla da cima a fondo, e se non si ha tempo o voglia di farlo, la cosa più onesta sarebbe sospendere in modo più o meno neutro il giudizio riconoscendo il margine di incertezza dovuto ai limiti della visione del reale entro cui è riferita l'assenza del fenomeno in questione.
Il problema sorge, come ho già anticipato, non tanto se si tratta di una ricerca confinata in una stanza o in uno spazio dove la pazienza e la fattibilità della ricerca è decisamente a misura d'uomo:
Citazione di: Phil il 23 Dicembre 2019, 01:08:59 AM
Chiaramente finché si tratta di enti empirici facilmente enumerabili, poiché chiusi in una stanza, la situazione è rapidamente risolvibile, basta la vista e poco altro; se invece qualcuno afferma che «nel mondo c'è un dragone», o peggio, senza dare indizi, «esiste un dragone», «un dragone c'è», mi sembra più ragionevole che sia lui a dimostrarne l'esistenza, piuttosto che noi a perlustrare tutto il globo o il cosmo solo per dimostrare a lui la falsità della sua affermazione (pur concedendogli la buona fede).

Va inoltre considerato che se si richiede l'onere della prova a chi afferma qualcosa (sia essa esistente o non esistente), sarebbe al contempo un tiro piuttosto mancino prospettargli una ricerca che va oltre le sue concrete possibilità di "prova", ovvero una dimostrazione impraticabile. Se parliamo di (dimostrazioni di) esistenza è secondo me inevitabile valutare lo sporcarsi le mani con la realtà, considerare i limiti delle verifiche possibili, fare i conti con gli aspetti pragmatici del metodo di verifica, etc.
L'appello alla concretezza "anglosassone" della prassi dimostrativa non può essere accantonata se ciò che si richiede è appunto una dimostrazione epistemologica e non un'ammissione di possibilità di "esistenza fino a prova contraria" (che si può, volendo, concedere facilmente, ma al prezzo di abbandonare l'onere della prova e quindi il piano epistemologico).

Inoltre, sempre guardando alla concretezza della ricerca (filosofica o altro), o meglio alla pratica della ricerca: se affermo l'esistenza di qualcosa, è plausibile che lo faccia perché ho indizi, spunti, intuizioni, etc. che mi spingono a ritenerlo esistente; proprio da questi spunti che posseggo è ragionevole che parta una possibile prova dell'esistenza. Chiedere a chi non ha avuto quelle "prove", indizi, spunti, etc. di dimostrare che mi sono sbagliato è metodologicamente ostile e inefficiente: se non provo a dimostrare l'esistenza di qualcosa che credo esista per determinati motivi, perché mai delego ad altri l'onere della dimostrazione del contrario (assolvendomi dall'onere della prova affermando che «l'assenza di prove d'esistenza non è prova dell'assenza dell'ente»)?

Proviamo a calare tale differenza di oneri (esistenza / non-esistenza) all'interno di una verosimile equipe di ricerca: ci sono alcuni ricercatori che collaborano negli stessi esperimenti alla ricerca di una nuova molecola, uno di loro afferma che tale nuova molecola c'è (e magari ne descrive anche le proprietà), tuttavia anziché di-mostrarne l'esistenza ai colleghi (che magari sono scettici in merito) chiede loro di dimostrare che tale molecola non esiste... onestamente, non credi che converrebbe, sotto tutti i punti di vista, che sia lui a svelare la nuova molecola (di)mostrandone l'esistenza?
Titolo: Re:La mano e la moneta
Inserito da: baylham il 24 Dicembre 2019, 09:24:11 AM
A me sembra che ci sia una differenza teorica e non solo pratica tra la tesi che afferma l'esistenza di qualcosa e la tesi contraria, che sostiene l'inesistenza di qualcosa: la prima è una proposizione infalsificabile, la seconda è falsificabile.
Questa differenza mi sembra avvantaggi la religione, la metafisica, il soprannaturale, la magia, il miracolo.
Titolo: Re:La mano e la moneta
Inserito da: Eutidemo il 24 Dicembre 2019, 09:54:42 AM
Citazione di: baylham il 24 Dicembre 2019, 09:24:11 AM
A me sembra che ci sia una differenza teorica e non solo pratica tra la tesi che afferma l'esistenza di qualcosa e la tesi contraria, che sostiene l'inesistenza di qualcosa: la prima è una proposizione infalsificabile, la seconda è falsificabile.
Questa differenza mi sembra avvantaggi la religione, la metafisica, il soprannaturale, la magia, il miracolo.

Giusto! :)
Però, secondo me, non c'è "equipollenza" tra una proposizione infalsificabile ed una  falsificabile; chi sostiene che ci sia, secondo me, cade nel sofisma della "falsa isostenia"
Titolo: Re:La mano e la moneta
Inserito da: Phil il 24 Dicembre 2019, 12:10:59 PM
Citazione di: Eutidemo il 24 Dicembre 2019, 09:54:42 AM
Citazione di: baylham il 24 Dicembre 2019, 09:24:11 AM
A me sembra che ci sia una differenza teorica e non solo pratica tra la tesi che afferma l'esistenza di qualcosa e la tesi contraria, che sostiene l'inesistenza di qualcosa: la prima è una proposizione infalsificabile, la seconda è falsificabile.
Questa differenza mi sembra avvantaggi la religione, la metafisica, il soprannaturale, la magia, il miracolo.

Giusto! :)
Però, secondo me, non c'è "equipollenza" tra una proposizione infalsificabile ed una  falsificabile; chi sostiene che ci sia, secondo me, cade nel sofisma della "falsa isostenia"
Non credo che l'affermazione di esistenza sia di per sé infalsificabile: se affermo che nella stanza c'è una sedia, tale proposizione può essere falsificata verificando che nella stanza non c'è nessuna sedia.
L'affermazione di esistenza diventa infalsificabile se lo spazio e/o il tempo e/o le modalità dell'adeguata verifica di esistenza eccedono l'efficacia del praticabile metodo di verifica (v. la famosa teiera di Russell); oppure se si afferma l'esistenza di qualcosa per sua stessa definizione infalsificabile (una sedia invisibile, intangibile, etc.).
Titolo: Re:La mano e la moneta
Inserito da: davintro il 24 Dicembre 2019, 15:25:18 PM
Avevo già considerato l'evidente differenza ("differenza", sesta parola del mio messaggio, chissà se Eutidemo l' ha azzeccata...) che passa tra una stanza in cui verificare la mancanza di un mostro e delle sedie e un mondo intero dove dover verificare l'inesistenza di un unicorno, ed è un'obiezione che mi aspettavo di ricevere. Ma questa differenza, per quanto abissale, resta pur sempre un differenza quantitativa, e non qualitativa, e in quanto tale non può mai incidere sul problema della distinzione tra un approccio argomentativo sufficiente a legittimare la razionalità di un discorso e uno insufficiente, distinzione che resta uno stacco qualitativo, in quanto la categoria di "vero", da riferire a una tesi è una categoria che si oppone al "falso" in un aut aut qualitativo e non come sfumatura in un continuum di "più o "meno" (che un discorso complesso possa contenere sia elementi di verità o di falsità non cambia i termini della questione, in quanto questo discorso complesso sarà sempre una sintesi di singole tesi che considerate una per una non escono dal bivio "tesi vera" "tesi falsa"). Le difficoltà tecniche di applicazione di una metodologia di ricerca non riguardano il lavoro dell'epistemologo-filosofo (faccio coincidere le due categorie, in quanto l'epistemologia è branca della filosofia, se coincidesse con una delle scienze di cui si occupa di argomentare i presupposti, il margine di validità della metodologia e i limiti, non potrebbe astrarsi da essa per valutarla in modo autonomo, come se in un processo l'imputato fosse al tempo stesso accusatore) , che si ferma nel momento in cui vengono chiarite le condizioni a priori di verifica della razionalità di un discorso, per poi lasciare spazio ai problemi tecnici al ricercatore empirico che applica un metodo all'interno della particolare regione ontologica a cui riferisce le questioni che mira a risolvere. Pensare che le difficoltà applicative debbano arrivare a incidere sul lavoro teorico pregresso dell'individuazione dei criteri di razionalità del discorso, vuol dire snaturare il secondo, sovrapponendo il piano pragmatico a quello teorico. E ciò è da rigettare non, ovviamente, in nome di una superiorità assiologica della teoria sulla prassi (al di là del fatto delle personali legittime priorità di interesse che noi tutti siamo liberi di coltivare), ma in nome della distinzione di due punti di vista che restano ben distinti, quello teorico delle garanzie universali di razionalità del metodo, di cui un sapere non empirico ma eidetico come quello filosofico si occupa, e quello tecnico di superamento delle difficoltà contingenti di applicazione del metodo in uno specifico contesto esistenziale. Pretendere che le difficoltà del secondo piano debbano riversarsi sul primo, sarebbe come se io contestassi la bontà della ricetta di una torta solo perché i negozi dove acquistare gli ingredienti indicati sono troppo lontani, e non c'ho voglia di uscire di casa, oppure anche mettendomi alla ricerca non farei in tempo per la cena di stasera. La bontà della ricetta non è determinata dalla facilità di realizzazione, ma dal fatto che, nel momento in cui la realizzazione venisse messa in atto, la torta risulterebbe comunque gustosa, tradotto nel nostro caso, il riconoscimento della razionalità del discorso ne garantirebbe l'oggettività.
Titolo: Re:La mano e la moneta
Inserito da: Phil il 24 Dicembre 2019, 17:06:13 PM
Citazione di: davintro il 24 Dicembre 2019, 15:25:18 PM
il riconoscimento della razionalità del discorso ne garantirebbe l'oggettività.
Eppure, ha davvero senso fondare la presunta "oggettività" sulla razionalità del discorso e non piuttosto sulla realtà dei presunti oggetti?
Se vogliamo dimostrazioni, oneri della prova d'esistenza, verità, etc. possiamo davvero fare a meno di rivolgerci alla concretezza di dati, fatti ed eventi, in nome di una deduzione in cui gli assiomi chiudono sempre tautologicamente il loro cerchio teorico, a prescindere dalla loro pertinenza con la realtà (ovvero basta che il sistema non sia autocontraddittorio per essere razionale e, a quanto proponi, garante di "oggettività")?
Se parliamo di esistenza, non è forse fondamentale coinvolgere pragmaticamente gli esist-enti?
Un'epistemologia che non considera la prassi delle scienze a cui si riferisce, non resta sempre "monca" e nondimeno narcisista (per non dire inservibile)?
La differenza fra fisica teorica e fisica sperimentale è secondo me eloquente in merito a oneri della prova, oggettività, verificazione contro possibilità etc.
Titolo: Re:La mano e la moneta
Inserito da: Eutidemo il 26 Dicembre 2019, 07:57:05 AM
Per tornare al "rasoio di Ockham", per sintetizzare al massimo il concetto, esso si riassume brevemente in questo: a parità di elementi la soluzione di un problema è quella più semplice e ragionevole.
Ma la faccenda non è così "liscia" :) .

***
Ad esempio, due secoli fa, se, trovandoci di notte in un cimitero, avessimo assistito al fenomeno dei "fuochi fatui", la spiegazione "più semplice" sarebbe potuta sembrare quella che si trattava degli spiriti dei defunti, sepolti nella terra proprio nel punto da cui scatuirivano le misteriose fiammelle; ed invece, riflettendoci sopra, avremmo dovuto sospettare che quella, invece, era la spiegazione più "complicata".
Ed infatti, per spiegare un fenomeno più o meno misterioso, supporre che esso sia dovuto all'intervento di entità "non fisiche", in  realtà, è molto più "complicato" che supporre che esso si verifichi per il concorso, seppur complesso, di fattori meramente "fisici"; perchè questo ci spingerebbe a supporre qualcosa di non verificabile (e non "falsificabile").
Ed infatti, approfondendo la natura fisica del fenomeno, alla fine si scoprì che si trattava semplicemente di fiammelle derivate dalla combustione del metano e del fosfano dovuta alla decomposizione dei cadaveri; con conseguente fuoriuscita del metano originato dalla decomposizione della salma.
Ma, ad una mente "non scientifica", probabilmente anche oggi l'ipotesi dei fantasmi sembra sempre la più "semplice"! ;)

***
Quanto sopra, peraltro, non vale solo per l'alternativa "fisico"/"metafisico", ma anche al mero livello "fenomenico".
Ed infatti, il mancato uso del rasoio di Ockham è una caratteristica delle "pseudoteorie", in tutti quei casi in cui si cerca di spiegare un fenomeno più o meno misterioso ipotizzandone altri di ancora più improbabili.
Per esempio, le piramidi d'Egitto sono meraviglie architettoniche e non è ancora del tutto chiaro come gli antichi Egizi riuscirono a costruirle, per cui:
a)
E' senz'altro possibile congetturare che lo abbiano fatto grazie a tecnologie avanzate fornite loro da civiltà aliene, magari anche basandoci su presunti "indizi";
b)
Però, seguendo "il principio di economia" di Ockam, è sicuramente preferibile supporre che ci siano riusciti da soli sfruttando in modo ingegnoso le conoscenze dell'epoca.
Ed infatti, nel secondo modo non siamo costretti ad ipotizzare una serie di condizioni particolari (e non dimostrate), e, cioè:
- che gli alieni esistano;
- che siano riusciti ad arrivare sulla Terra;
- che siano riusciti a comunicare con gli Egizi;
- che, infine, siano scomparsi senza lasciare tracce, e senza più tornare a darci una mano (cosa di cui oggi avremmo estremo bisogno).
Per cui è molto più "semplice" (e plausibile) spiegare lo stesso fenomeno delle piramidi, facendo ricorso a "meno" ipotesi consequenziali, e che gli Egizi ci siano riusciti da soli. ;)

***
Fin qui tutto bene, ma, come osserva A.Ferrero, le cose:
1)- diventano "più complicate" se proviamo a definire esattamente che cosa vuol dire "più semplice";
2)- perché mai, comunque, dovremmo preferire la spiegazione più semplice e non quella "più complicata".

***
1)
Quanto alla questione sub 1), la "teoria più semplice":
- da alcuni è ritenuta quella che richiede meno entità dello stesso tipo (semplicità quantitativa);
- da altri è ritenuta quella che richiede meno tipi diversi di entità (semplicità qualitativa);
- ovvero ancora,  quella che richiede meno tipi di processi causali diversi, o meno ipotesi ausiliarie, o meno asimmetrie.
***
In filosofia della scienza, peraltro, ci sono almeno una decina di definizioni diverse di "semplicità":
- alcune delle quali riguardano ciò che pensiamo del mondo (per esempio quante forze fondamentali o quante particelle elementari pensiamo che esistano);
- altre riguardano   la struttura che vogliamo dare alle nostre teorie (per esempio se si possano mettere alla prova sperimentalmente, o se si possano esprimere in equazioni brevi e con poche variabili).
***
Ed allora, come facciamo a valutare una teoria che è più semplice di un'altra secondo uno di questi criteri, ma più complicata secondo un altro?
Come decidiamo se aggiungere a un modello una variabile che ne aumenta il potere esplicativo, a prezzo però di un aumento della complessità che lo rende meno plausibile?
Per chi interessa, l'argomento è trattato approfonditamente dal filosofo della scienza Elliott Sober nel libro Ockham's Razors – A User's Manual, Cambridge University Press, 2015.
***
A tutt'oggi, scientificamente, non esiste il consenso su una definizione specifica e precisa di "semplicità; tuttavia, da Galileo, a Newton, a Lavoisier ad Einstein, fino agli scienziati attuali, tutti sono d'accordo che essa sia un principio basilare della conoscenza.
***
Per quel poco che può valere la mia modesta opinione, tutto dipende da quanto rigorosamente si vuole applicare tale principio; ed invero, se si rispettano "tutti" i parametri di cui sopra (nei casi in cui è possibile), non c'è dubbio che si tratti della teoria preferibile; altrimenti la questione diventa più opinabile.
Quanto al problema di come facciamo a valutare una teoria che è più semplice di un'altra secondo uno di questi criteri, ma più complicata secondo un altro, i casi sono due:
- se è possibile si sceglie  una via di mezzo;
- se non è possibile, ognuno si sceglie la teoria che preferisce.
Tanto, in ogni caso, nè il "Rasoio di Ockham", nè alcun altro metodo umano, ci daranno mai la "certezza assoluta" riguardo a niente!


***
2)
Mettiamo allora da parte  la questione di che cos'è la "semplicità" e proviamo a capire meglio perché gli scienziati preferiscono le teorie "più semplici"; ed infatti, perchè mai non si dovrebbero preferire le teorie "più complicate"?
Il "tafazzismo", infatti, non è certo un reato!
Al riguardo:

a)
La risposta più "semplice" è che le teorie più "semplici" hanno più probabilità di essere "vere"; ma non è del tutto esatto!
Ed infatti, la storia della scienza ci mostra molti esempi di teorie più complicate che hanno soppiantato teorie più semplici e lineari.
Per fare un esempio, qualunque sia la nostra definizione di semplicità, è difficile negare che i 118 elementi chimici attualmente noti formino un quadro più complesso delle 33 sostanze elementari identificate da Lavoisier e delle quattro di Empedocle (aria, acqua, terra, fuoco).
Per fare un altro esempio, la fisica subatomica di oggi, con i suoi numerosi tipi di particelle elementari, è un modello molto più "complesso" di quella del primo Novecento, che si fermava a protoni, neutroni ed elettroni.
E si potrebbero fare molti altri esempi; però, secondo me, non bisogna confondere:
- le teorie "semplici" con le teorie "meno aggiornate", perchè scientificamente più antiche e, quindi, meno "elaborate";
- le teorie gratuitamente "complicate" con le teorie "più complesse", in quanto dovute ad un maggior "progresso scientifico" rispetto al passato.

b)
Però si può fare un diverso ragionamento, per trovare una giustificazione metodologica del rasoio di Ockham: e, cioè, che, proprio perché la natura è complicata ed è probabile che le mie ipotesi si rivelino sbagliate, la "semplicità" mi aiuta a ridurre il rischio di errore, perché meno ipotesi introduco nella mia teoria e più riduco il rischio di sbagliare.
Detto in altre parole, se io parto da teorie "semplici", composte da poche ipotesi e quindi più facili da verificare, e solo dopo aver corretto gli errori comincio ad affinarle, aggiungere altre ipotesi e renderle man mano più "complicate", sarà più "semplice" costruire un po' per volta una rappresentazione sempre più accurata della realtà.
Forse il mio ragionamento può sembrare un po' contorto, ma, almeno secondo me, è del tutto sensato.

c)
Ed invero, quando si fa un esperimento scientifico:
- è tecnicamente impossibile verificare singolarmente le diverse ipotesi che compongono una teoria;
- per cui è inevitabile dover mettere alla prova contemporaneamente diverse ipotesi collegate fra loro;
- e, se il risultato non è quello previsto, almeno ne deduciamo che una delle ipotesi è errata...pur non sapendo, sul momento, quale.

d)
Ne consegue che più sono numerose le ipotesi che mettiamo alla prova allo stesso tempo e più diventa difficile capire quali sono quelle sbagliate se i risultati sperimentali sono diversi da quelli previsti.

e)
In questo senso la versione più adatta del "principio di economia" di Ockham è quella di Bertrand Russell, il quale spesso ripeteva che: "Ogni volta che sia possibile, occorre sostituire le spiegazioni che usano enti sconosciuti con quelle che usano enti conosciuti".

***
In conclusione, l'importanza del rasoio di Ockham sta:
- nel costringerci a distinguere tra ciò che sappiamo da ciò che non sappiamo;
- nel proibirci di andare oltre la più semplice descrizione possibile.
In pratica, quindi, il rasoio di Ockham ci aiuta a stare alla larga dalle conoscenze "presunte" (come quella dell'etere luminifero) ed a capire dove le nostre teorie sono incomplete e hanno bisogno di essere migliorate.

Un saluto a tutti :)
Titolo: Re:La mano e la moneta
Inserito da: Ipazia il 26 Dicembre 2019, 16:07:03 PM
Citazione di: Eutidemo il 26 Dicembre 2019, 07:57:05 AM
Per fare un esempio, qualunque sia la nostra definizione di semplicità, è difficile negare che i 118 elementi chimici attualmente noti formino un quadro più complesso delle 33 sostanze elementari identificate da Lavoisier e delle quattro di Empedocle (aria, acqua, terra, fuoco).

Non è così. Nel caso della chimica Ockham funziona perfettamente: bastano 3 enti per scrivere tutta la tabella di Mendeleev, disponendoli diversamente come mattoncini lego. Inclusi gli eventuali elementi futuri che si dovessero produrre artificialmente. Ancora meno dei 4 arcaici e con una teoria esplicativa che non ha confronto. E molto meno dei 33 elementi di Lavoisier che non avevano alcun denominatore comune.

CitazionePer fare un altro esempio, la fisica subatomica di oggi, con i suoi numerosi tipi di particelle elementari, è un modello molto più "complesso" di quella del primo Novecento, che si fermava a protoni, neutroni ed elettroni.

Per l'atomo i 3 enti sono sufficienti a dar ragione di tutta la chimica. A livello subatomico si cerca comunque di unificare le teorie riducendo gli enti in gioco, in cui spesso non si tratta di nuovi enti ma di aggregazione di enti più semplici

CitazioneE si potrebbero fare molti altri esempi; però, secondo me, non bisogna confondere:
- le teorie "semplici" con le teorie "meno aggiornate", perchè scientificamente più antiche e, quindi, meno "elaborate";
- le teorie gratuitamente "complicate" con le teorie "più complesse", in quanto dovute ad un maggior "progresso scientifico" rispetto al passato.

Su questo, e sulle conclusioni del post, concordo. Però va sottolineato che una maggiore complicazione teorica deve avere controfiocchi sperimentali per sopravvivere al rasoio di Ockham, che rimane un criterio epistemologico irrinunciabile.

A livello di ricerca fondamentale l'attrazione verso l'unificazione e semplificazione è irresistibile e il successo più clamoroso riguarda il mondo della vita, unificato sotto un unico ente originario: il DNA.
.
Titolo: Re:La mano e la moneta
Inserito da: davintro il 26 Dicembre 2019, 16:14:34 PM
Citazione di: Phil il 24 Dicembre 2019, 17:06:13 PM
Citazione di: davintro il 24 Dicembre 2019, 15:25:18 PMil riconoscimento della razionalità del discorso ne garantirebbe l'oggettività.
Eppure, ha davvero senso fondare la presunta "oggettività" sulla razionalità del discorso e non piuttosto sulla realtà dei presunti oggetti? Se vogliamo dimostrazioni, oneri della prova d'esistenza, verità, etc. possiamo davvero fare a meno di rivolgerci alla concretezza di dati, fatti ed eventi, in nome di una deduzione in cui gli assiomi chiudono sempre tautologicamente il loro cerchio teorico, a prescindere dalla loro pertinenza con la realtà (ovvero basta che il sistema non sia autocontraddittorio per essere razionale e, a quanto proponi, garante di "oggettività")? Se parliamo di esistenza, non è forse fondamentale coinvolgere pragmaticamente gli esist-enti? Un'epistemologia che non considera la prassi delle scienze a cui si riferisce, non resta sempre "monca" e nondimeno narcisista (per non dire inservibile)? La differenza fra fisica teorica e fisica sperimentale è secondo me eloquente in merito a oneri della prova, oggettività, verificazione contro possibilità etc.


Penso che questa impostazione sconti pregiudizi di natura empirista e materialista, per i quali si limita il campo della "concretezza" del contenuto di ogni possibile conoscenza scientifica ai dati appresi per via sensibile, all'interno di un'esperienza spazio-temporale, relegando la logica deduttiva a discorso meramente astratto e tautologico, impossibilitato a render ragione di alcunché di reale. Questa impostazione non tiene conto del principio per cui ogni atto di pensiero implica l'assunzione a livello intenzionale (cioè, anche se un giudizio fosse errato di fatto, resterebbe il fatto che nell'intenzionalità del soggetto giudicante il suo contenuto è sempre posto come verità oggettiva) del proprio contenuto come reale stato di cose, e dunque se gli assiomi della logica formale sono norme necessarie per ognuno di questi atti di pensiero, allora devono anche essere norme necessarie delle cose reali, che sono il contenuto che sempre tali atti intenzionano. Se in assenza di logica ogni pensiero sarebbe assurdo, e ogni pensiero è sempre pensiero riferito alla realtà, allora, perché la realtà non sia assurda, dovrebbe condividere le stesse regole logiche che strutturano il pensiero. L'errore empirista sta nell'associare tutto ciò di inerente al "formale", con l'astratto, cosicché la logica formale viene vista come circolo del tutto autoreferenziale impossibilitato a fondare un proprio specifico contenuto di conoscenza attinente al reale, non considerando come, aristotelicamente, le forme sono a tutti gli effetti elementi ontologici, rendono ragione della struttura essenziale degli enti, anche se applicate alla materia. Quindi, quando parliamo di principio di identità o di terzo escluso, non stiamo solo parlando di principi di pensiero, ma di ontologia, in quanto sono principi che ogni ente concreto segue, e da cui la filosofia si impegna a dedurre una serie di corollari che nel loro complesso formerà un sistema di verità metafisiche, che se non riguardano gli aspetti sensibili e contingenti delle cose, quelle di cui si occupano le scienze naturali, non per questo riguardano sfere meno reali e scientifiche di quegli altri. All'interno di questo sistema, questa sfera trascendentale, fanno parte i princìpi epistemologici tramite cui si fissano le condizioni di validità di ogni discorso vero, dunque le condizioni di validità di ogni altra scienza. L'accusa di narcisismo e autoreferenzialità ad una filosofia che non si faccia influenzare nel suo lavoro di individuazione delle condizioni di validità metodologica sulla base dei problemi contingenti di applicazione, penso abbia un senso solo nel momento in cui si intenda la filosofia come mero strumento in funzione del lavoro delle scienze naturali, mentre in realtà l'epistemologia non va vista primariamente come servizio che la filosofia sarebbe chiamata a svolgere (al di là del fatto che poi, effettivamente le riflessioni epistemologiche siano di giovamento agli scienziati) ma come conseguenza del fatto che la filosofia si occupa di questioni teoretiche distinte da quelle di ordine tecnico-applicativo, la cui risoluzione non può dunque influenzare la ricerca riguardo alle altre.



Per quanto riguarda il Rasoio di Ockam, penso che bisognerebbe cominciare a mettere in discussione l'idea che "semplicità" o "complessità" siano categorie davvero attinenti per descrivere e distinguere le teorie. Cioè, non penso che esistano teorie oggettivamente più "semplici" o più "complesse" di altre, ma che semplicità e complessità siano solo nostre percezioni circa una teoria, relative al grado di approfondimento analitico, con cui le si interpreta. Una visione del mondo non è una somma delle parti, una sorta di "magazzino" di fenomeni che si fa tanto più "complessa" quanto più si aggiungono enti che si vanno a sommare ad altri, come un negozio che diventa sempre più pieno quanto più si introducono cose. Una concezione meramente quantitativa che non tiene conto che se, come detto prima, ogni negazione può essere convertita in affermazione modificando la sintassi senza che la semantica muti, vale anche l'inverso, cioè, alla Spinoza, omnis determinatio est negatio, ogni ente che "si aggiunge" implica la negazione di tutti quei dati che legittimerebbero la sua esclusione. Non si tratterebbe di "allargare" in senso quantitativo la visione del mondo introducendo fenomeni di cui si dovrebbe chieder ragione, al contrario dei vecchi fenomeni di cui non si avrebbe necessità di ridiscuterli, si tratta piuttosto di una riformulazione qualitativa, in cui il nuovo elemento non va sommarsi, bensì ne SOSTITUISCE altri, logicamente incompatibili con esso. Le condizioni che si dovrebbero introdurre per giustificare l'ipotesi dell'origine aliena delle Piramidi egizie (ipotesi, a cui, a scanso di equivoci, personalmente non credo) non rendono il discorso più complesso/più improbabile, perché la loro considerazione coinciderebbe automaticamente con il venir a cadere delle condizioni che giustificherebbe ogni ipotesi alternativa a quella aliena, compresa ovviamente la più probabile, cioè la creazione ad opera degli antichi egizi. Se si vede ciò come una "complicazione" è solo perché la forza dell'abitudine ci porta a vedere le condizioni che sorreggono la teoria preesistente come qualcosa di ovvio e scontato, invece che come qualcosa di consistente a sua volta in una serie di fenomeni a cui associamo la corrispondenza con la verità. Nella misura in cui analizziamo le singole componenti di un modello teorico, tale modello apparirà più complesso, nelle misura in cui ci fermiamo a un'unità sintetica immediata, ci apparirà semplice, ma tutto questo riguarda unicamente l'impatto psicologico che si ha di fronte a una teoria, non il contenuto oggettivo della teoria in sé, e se la verità di una teoria riguarda la sua corrispondenza con la realtà oggettiva, cioè la natura del  contenuto intrinseco di tale teoria e non il modo soggettivo in cui la percepiamo, va da sé che la dicotomia semplice-complesso (che invece riguarda la nostra percezione) non ha nulla a che fare con le condizioni di verità di una teoria, e il Rasoio resta un mero accorgimento economico-pratico di comodità metodologica per chi vuole evitare di rimettere in discussione tutte gli elementi pregressi di fronte a nuove ipotesi, ma niente affatto un principio di verificazione razionale di verità delle teorie.

Vorrei proporre un ulteriore esempio sperando di riuscire a chiarirmi meglio... Se due persone osservano uno stesso tavolo e la prima sostiene di vedere di fronte a sé un tavolo con nulla appoggiato sopra, (ipotesi A) e la seconda un tavolo con sopra dei bicchieri (ipotesi B), non avrebbe alcun senso pensare che l'ipotesi A sia più "semplice" di quella B, e dunque meno necessitante di onus probandi o addirittura più probabile, in quanto non è quantitativamente più ampia, non richiede davvero una serie maggiore di fenomeni di cui rendere conto. Infatti quel "nulla appoggiato sopra" non è affatto un vero e proprio nulla, chiamarlo così è un'imprecisione. I bicchieri compresi nell'ipotesi B non si sommano alla visione A, ma ne sostituiscono dei tratti di sfondo oltre il tavolo che hanno una loro datità fenomenica visuale. Se la persona che sostiene l'ipotesi A non vede i bicchieri è perché AL LORO POSTO vede quei tratti di parete posta sullo sfondo che invece la persona che sostiene l'ipotesi B non vede perché coperti (o offuscati se si tratta di bicchieri in vetro, questo non ha importanza) dai bicchieri. E la presenza reale di questi tratti di parete l'ipotesi A è chiamata a render ragione nella stessa esatta misura in cui l'ipotesi B è chiamata a render ragione dell'esistenza dei bicchieri, senza sperare di appellarsi ad una inesistente maggior semplicità esplicativa. Non esiste alcun modello esplicativo che sia più ampio o più complesso di un altro, i modelli differiscono solo qualitativamente, e il fatto che alcuni appaiano più semplici di altri deriva dal non tenere in conto tutta una serie di dettagli dati per scontati che sorreggono la sintesi, solo apparentemente più "compatta" e coesa

Un augurio di buone feste a tutto il forum, sempre ringraziando per la pazienza di leggere i miei interventi, non così meritevoli di ciò
Titolo: Re:La mano e la moneta
Inserito da: Phil il 26 Dicembre 2019, 18:07:15 PM
@davintro
Preso atto della consolidata divergenza di prospettive, sollecito ancora l'esitazione con un paio di domande:
Citazione di: davintro il 26 Dicembre 2019, 16:14:34 PM
ogni atto di pensiero implica l'assunzione a livello intenzionale [...] del proprio contenuto come reale stato di cose, e dunque se gli assiomi della logica formale sono norme necessarie per ognuno di questi atti di pensiero, allora devono anche essere norme necessarie delle cose reali, che sono il contenuto che sempre tali atti intenzionano. Se in assenza di logica ogni pensiero sarebbe assurdo, e ogni pensiero è sempre pensiero riferito alla realtà, allora, perché la realtà non sia assurda, dovrebbe condividere le stesse regole logiche che strutturano il pensiero.
eppure, è la logica a forgiare la realtà o è la realtà (enti, eventi, "meccanicismi" naturali, etc.) a forgiare la (fruibilità pragmatica, non solo autoreferenziale della) logica?
Chi cerca di tradurre, con/per i suoi canoni, le leggi di chi?

Citazione di: davintro il 26 Dicembre 2019, 16:14:34 PM
L'accusa di narcisismo e autoreferenzialità ad una filosofia che non si faccia influenzare nel suo lavoro di individuazione delle condizioni di validità metodologica sulla base dei problemi contingenti di applicazione, penso abbia un senso solo nel momento in cui si intenda la filosofia come mero strumento in funzione del lavoro delle scienze naturali, mentre in realtà l'epistemologia non va vista primariamente come servizio che la filosofia sarebbe chiamata a svolgere (al di là del fatto che poi, effettivamente le riflessioni epistemologiche siano di giovamento agli scienziati) ma come conseguenza del fatto che la filosofia si occupa di questioni teoretiche distinte da quelle di ordine tecnico-applicativo, la cui risoluzione non può dunque influenzare la ricerca riguardo alle altre.
Pur confinandoci nella fenomenologia husserliana (perpetrando un'ingiustizia per i suoi sviluppi, francesi e non, oltre che al resto del '900, i pluricitati Godel, logiche polivalenti e paraconsistenti, etc.), senza voler valicare i limiti dell'approccio trascendentale (gesto amichevolmente ermeneutico, per garantire un minimo di aderenza alla tua prospettiva, di cui ti chiedo), non andrebbe almeno considerato seriamente, se non attualizzato, l'invito husserliano a «tornare alle cose stesse»?
Ecco, come regalo post-natalizio, il passo dalle Ricerche Logiche:
«Non  vogliamo  affatto  accontentarci  di  "pure  e  semplici  parole",  cioè  di  una comprensione  puramente  simbolica  delle  parole,  cosÏ  come  ci  è  data  anzitutto sul  senso  delle  leggi,  presentate  dalla  logica  pura,  concernenti  i  "concetti", "giudizi", "verità", ecc., in tutte le loro specificazioni. Non ci possono bastare significati  ravvivati  da  intuizioni  lontane  e  confuse,  da  intuizioni  indirette  - quando  sono  almeno  intuizioni.  Noi  vogliamo  tornare  alle  "cose  stesse".  Vogliamo  rendere  evidente,  sulla  base di  intuizioni  pienamente  sviluppate,  che  proprio  ciò  che  è  dato  nell'astrazione attualmente effettuata è veramente e realmente corrispondente al significato delle parole nell'espressione della legge; e, dal punto di vista della praxis della conoscenza, vogliamo suscitare in noi la capacità di mantenere i significati nella loro irremovibile identità, mediante una verifica, sufficientemente ripetuta, sulla base dell'intuizione  riproducibile  (oppure  dell'effettuazione  intuitiva  dell'astrazione). In  questo  modo,  portando  alla  luce  i  significati  variabili, che uno stesso termine logico  assume  in  contesti  enunciativi  diversi,  ci  convinciamo  appunto  dell'esistenza  dell'equivocazione; diventa per noi evidente che ciò che la parola significa in questo o quel luogo trova il suo riempimento in formazioni o momenti sostanzialmente diversi dall'intuizione, cioè in concetti generali essenzialmente differenti. Specificando  i  concetti  confusi  e  modificando  opportunamente  la  terminologia,  otteniamo allora anche la desiderata "chiarezza e distinzione" delle proposizioni logiche».
Titolo: Re:La mano e la moneta
Inserito da: Eutidemo il 27 Dicembre 2019, 09:16:40 AM
Ciao Davintro. :)
Come vedi, ho azzeccato in pieno la mia previsione del 23/12/19! :)
(http://img18125.imagevenue.com/loc404/th_434282743_davi1_122_404lo.jpg)
Per sicurezza, e per meglio dimostrare la cosa, l'avevo persino messa per scritto, datandola.
(http://img18116.imagevenue.com/loc1169/th_434336689_davi2_122_1169lo.jpg)
Ed infatti, tu, il 24/12/19, hai confermato che la mia predizione era esatta: la tua sesta parola era, appunto "differenza"! ;)
(http://img18116.imagevenue.com/loc201/th_434375950_DEVI3_122_201lo.jpg)
Come te lo spieghi? ;D
Un saluto! :)
Titolo: Re:La mano e la moneta
Inserito da: bobmax il 28 Dicembre 2019, 10:40:03 AM
Applicando il rasoio di Ockham, dovremmo convenire che probabilmente il libero arbitrio è un'illusione.

In quanto la sua eventuale esistenza richiederebbe la presenza di elementi che trascendano il mondo fisico, così come lo concepiamo.

Elementi solo supposti, ma che non hanno alcuna conferma nelle leggi fisiche che abbiamo sviluppato e sulla cui base, senza eccezioni, ci inoltriamo nel mondo.

Anche solo per semplicità, sarebbe meglio almeno provare a considerare fasulli questi elementi.
Titolo: Re:La mano e la moneta
Inserito da: Ipazia il 28 Dicembre 2019, 14:41:20 PM
Il trascendentale umano si concretizza in speculazione razionale e produzione artificiale trascendendo il mondo fisico, così come lo concepiamo, incluso il suo deterministco divenire. Il rasoio è ricetta epistemologica, non dogma di fede o legge naturale. E' un etico invito alla sobrietà, come risulta dalla sua versione autografa:

Frustra fit per plura quod fieri potest per pauciora.

È inutile fare con più ciò che si può fare con meno.


Precetto antifrustrazione che rimanda ad Epicuro ed alla sapienza greca. E vale pure quando esercitiamo il nostro libero arbitrio, sollecitandoci al miglior dosaggio di ragione e desiderio.
Titolo: Re:La mano e la moneta
Inserito da: bobmax il 28 Dicembre 2019, 18:14:40 PM
Citazione di: Ipazia il 28 Dicembre 2019, 14:41:20 PM
Il trascendentale umano si concretizza in speculazione razionale e produzione artificiale trascendendo il mondo fisico, così come lo concepiamo, incluso il suo deterministco divenire. Il rasoio è ricetta epistemologica, non dogma di fede o legge naturale. E' un etico invito alla sobrietà, come risulta dalla sua versione autografa:

Frustra fit per plura quod fieri potest per pauciora.

È inutile fare con più ciò che si può fare con meno.


Precetto antifrustrazione che rimanda ad Epicuro ed alla sapienza greca. E vale pure quando esercitiamo il nostro libero arbitrio, sollecitandoci al miglior dosaggio di ragione e desiderio.

Non vi è alcuna prova che la speculazione razionale e la produzione artificiale trascendano il mondo fisico.
Per affermare che lo trascendono occorre infatti una "prova" che dimostri la loro incommensurabilità rispetto ad esso.
Ma così non è.
Né potrà mai esserlo.
Per la semplice ragione che se ciò davvero avvenisse... il mondo fisico ne verrebbe esso stesso irrimediabilmente compromesso. Non più Cosmo, bensì Caos!

Questo voler credere a qualcosa di "trascendente" è il peccato originale di ogni religione, anche dello scientismo. E' superstizione.
Anche il voler credere nel libero arbitrio, non è che superstizione. Ossia una fede mal posta.

Quando finiremo per renderci conto che solo una può essere l'autentica fede?
Che ogni altra non è che superstizione?
L'unica possibile fede è fede nella Verità.
Titolo: Re:La mano e la moneta
Inserito da: davintro il 28 Dicembre 2019, 18:59:12 PM
tengo a precisare che quella che ho provato a esporre in questa discussione non vuole essere una critica in assoluto al Rasoio di Ockam. Ne posso riconoscere l'utilità come espediente strategico di economia del pensiero, di risparmio del tempo, per evitare di considerare immotivatamente nuovi elementi in una teoria, dovendo nel caso rivalutare tutte le condizioni entro cui era verificata la teoria che i nuovi elementi andrebbero a modificare,  ma ne considero un abuso nel momento in cui lo si intenda applicare come criterio epistemico di riconoscimento della razionalità di un discorso. "Non moltiplicare gli enti se non necessario" resta da un lato un richiamo generico, in quanto non indica di per sé alcuna condizione entro cui riconoscere la necessità. In assenza di questo chiarimento, il rasoio di Ockam resta di per sé inservibile al fine di poter essere utilizzato come fattore di verifica di verità. Il concetto di "necessario" si identifica in un contenuto del tutto soggettivo, sempre impossibilitato a porsi come schema entro cui pretendere di comprendere oggettivamente la realtà. E dall'altro lato non c'è una ragione per cui una visione del reale dovrebbe essere tanto più vera quanto più coincide con i nostri schemi soggettivi entro cui consideriamo la considereremmo "necessaria". L'abuso del Rasoio come principio di verità nasce dall'errore di confondere l'idea di "non-necessità", "contingenza" con quello di "irrazionalità", di fatto un'indebita proiezione del nostro pensiero soggettivo sulla realtà, che si vuole forzata alle nostre comodità euristiche. La pura contingenza di un ente dovrebbe portare a non pretendere di avere la certezza della sua esistenza, ed eventualmente a ricercare un ente altro da esso, al suo contrario necessario che renda ragione del suo essere, ma non è di per sé motivo razionale per argomentarne l'inesistenza
Titolo: Re:La mano e la moneta
Inserito da: Ipazia il 28 Dicembre 2019, 20:11:59 PM
Citazione di: bobmax il 28 Dicembre 2019, 18:14:40 PM
Non vi è alcuna prova che la speculazione razionale e la produzione artificiale trascendano il mondo fisico.

Non lo trascendono nel modo miracolistico della trascendenza religiosa, ma in quello immanente della creatività umana.

CitazionePer affermare che lo trascendono occorre infatti una "prova" che dimostri la loro incommensurabilità rispetto ad esso.

Perchè il trascendentale umano dovrebbe essere incommensurabile con il mondo fisico, da cui trae il materiale per la sua attività creativa ? Come "prova" basta un traliccio.
Titolo: Re:La mano e la moneta
Inserito da: viator il 28 Dicembre 2019, 21:33:44 PM
Salve Ipazia. Citandoti : "Perchè il trascendentale umano dovrebbe essere incommensurabile con il mondo fisico, da cui trae il materiale per la sua attività creativa ? Come "prova" basta un traliccio".

Poichè "trascendentale" dovrebbe definire ciò che si pone oltre/sopra ciò che si è appena nomimato quale riferimento del trascendere stesso, il "trascendentale umano" dovrebbe porsi oltre la condizione umana. Quindi sicuramente al di fuori dell'uomo.
Se però lo stesso"trascendentale umano" risultasse commensurabile con il mondo fisico, ecco che si troverebbe a farne parte.

Non afferro il riferimento al traliccio. Saluti.
Titolo: Re:La mano e la moneta
Inserito da: bobmax il 28 Dicembre 2019, 22:10:49 PM
Citazione di: viator il 28 Dicembre 2019, 21:33:44 PM
Salve Ipazia. Citandoti : "Perchè il trascendentale umano dovrebbe essere incommensurabile con il mondo fisico, da cui trae il materiale per la sua attività creativa ? Come "prova" basta un traliccio".

Poichè "trascendentale" dovrebbe definire ciò che si pone oltre/sopra ciò che si è appena nomimato quale riferimento del trascendere stesso, il "trascendentale umano" dovrebbe porsi oltre la condizione umana. Quindi sicuramente al di fuori dell'uomo.
Se però lo stesso"trascendentale umano" risultasse commensurabile con il mondo fisico, ecco che si troverebbe a farne parte.

Non afferro il riferimento al traliccio. Saluti.

Hai colto il cuore della questione!

Aggiungerei che se si inizia a tirare in ballo il "trascendentale" poi non ci si può più fermare a nostro piacimento.
Perché allora i vegetali trascendono i minerali e gli animali i vegetali e gli umani gli animali e gli dei...

O si tiene a bada il trascendente, e cioè lo si considera Nulla, oppure torniamo all'alchimia, alla magia.

Il traliccio è espressione di questo mondo fisico!
Che altro dovrebbe essere?

Tirare in ballo il trascendentale non è altro che un atto fideistico, cioè una superstizione.
Titolo: Re:La mano e la moneta
Inserito da: Ipazia il 29 Dicembre 2019, 09:54:58 AM
Citazione di: bobmax il 28 Dicembre 2019, 22:10:49 PM
Citazione di: viator il 28 Dicembre 2019, 21:33:44 PM
Salve Ipazia. Citandoti : "Perchè il trascendentale umano dovrebbe essere incommensurabile con il mondo fisico, da cui trae il materiale per la sua attività creativa ? Come "prova" basta un traliccio".

Poichè "trascendentale" dovrebbe definire ciò che si pone oltre/sopra ciò che si è appena nomimato quale riferimento del trascendere stesso, il "trascendentale umano" dovrebbe porsi oltre la condizione umana. Quindi sicuramente al di fuori dell'uomo.
Se però lo stesso"trascendentale umano" risultasse commensurabile con il mondo fisico, ecco che si troverebbe a farne parte.

Non afferro il riferimento al traliccio. Saluti.

Hai colto il cuore della questione!

Aggiungerei che se si inizia a tirare in ballo il "trascendentale" poi non ci si può più fermare a nostro piacimento.
Perché allora i vegetali trascendono i minerali e gli animali i vegetali e gli umani gli animali e gli dei...

O si tiene a bada il trascendente, e cioè lo si considera Nulla, oppure torniamo all'alchimia, alla magia.

Il traliccio è espressione di questo mondo fisico!
Che altro dovrebbe essere?

Tirare in ballo il trascendentale non è altro che un atto fideistico, cioè una superstizione.

Il trascendentale umano trascende l'uomo in quando prodotto evolutivo deterministico, manifestando fenomenologicamente il "salto quantistico" dalla materia inanimata all'autocoscienza intelligente e creatrice - altrettanto e specificamente umana - senza la quale il traliccio, o la stazione orbitante, non esisterebbero.

E' l'unico dualismo di cui abbiamo contezza da cui si diramano, dallo stesso tronco Natura, il naturale tout court (deterministico e necessitato) e l'artificiale (indeterministico e finalizzato) la cui dialettica si attua nell'unico disegno intelligente di cui possiamo dire qualcosa di fondato, perchè esperito realmente.
Titolo: Re:La mano e la moneta
Inserito da: bobmax il 29 Dicembre 2019, 11:46:29 AM
Ipazia, sento stridere le unghie sui vetri...

Salto quantico!
Cosa non ci si inventa pur di non guardare la nostra nullità...

Che poi questo salto quantico non ha niente di diverso, nella sostanza, rispetto all'intervento di un Dio creatore.

Superstizione.
Titolo: Re:La mano e la moneta
Inserito da: Ipazia il 29 Dicembre 2019, 12:04:03 PM
Citazione di: bobmax il 29 Dicembre 2019, 11:46:29 AM
Ipazia, sento stridere le unghie sui vetri...

Salto quantico!
Cosa non ci si inventa pur di non guardare la nostra nullità...

Che poi questo salto quantico non ha niente di diverso, nella sostanza, rispetto all'intervento di un Dio creatore.

Era opportunamente tra virgolette, metaforico. La differenza tra l'intervento di un Nume è che il processo è avvenuto per motu proprio. L'universo ad un certo punto ha preso coscienza di se e l'ha fatto, per quel che ne sappiamo accidentalmente, attraverso un medium di sostanza biochimicofisica che si è preso anche il lusso di creare in proprio, imitando la natura dapprima e inventando, per il gusto d'inventare, poi. Tutto questo senza che l'ipotesi Dio fosse necessaria. Con grande soddisfazione filosofica, ma non teologica suppongo, del teologo Guglielmo.
Titolo: Re:La mano e la moneta
Inserito da: bobmax il 29 Dicembre 2019, 17:26:56 PM
Citazione di: Ipazia il 29 Dicembre 2019, 12:04:03 PM
Citazione di: bobmax il 29 Dicembre 2019, 11:46:29 AM
Ipazia, sento stridere le unghie sui vetri...

Salto quantico!
Cosa non ci si inventa pur di non guardare la nostra nullità...

Che poi questo salto quantico non ha niente di diverso, nella sostanza, rispetto all'intervento di un Dio creatore.

Era opportunamente tra virgolette, metaforico. La differenza tra l'intervento di un Nume è che il processo è avvenuto per motu proprio. L'universo ad un certo punto ha preso coscienza di se e l'ha fatto, per quel che ne sappiamo accidentalmente, attraverso un medium di sostanza biochimicofisica che si è preso anche il lusso di creare in proprio, imitando la natura dapprima e inventando, per il gusto d'inventare, poi. Tutto questo senza che l'ipotesi Dio fosse necessaria. Con grande soddisfazione filosofica, ma non teologica suppongo, del teologo Guglielmo.

Ma l'universo è la natura. Che poi è il Tutto.

Di modo che, se imita, imita se stesso. E se inventa, donde trae le sue invenzioni se non da se stesso?

Se l'universo è qualcosa, ciò che inventa non può che derivare dal qualcosa che già è.
Se è qualcosa non è perciò davvero libero di inventare. Perché condizionato da ciò che esso stesso è.

Almeno che con "universo" si intenda il Nulla...

Allora è effettivamente libero di creare e inventare.

Ma quel Nulla, Ipazia, è Dio.
Titolo: Re:La mano e la moneta
Inserito da: Ipazia il 29 Dicembre 2019, 20:26:06 PM
Dio, Tutto, Nulla sono fantastiche astrazione del prodotto evolutivo di un universo che attraverso la sua mente umana ha potuto riflettere su se stesso. Di reale c'è solo l'universo e la sua autocoscienza umana. L'unica che conosciamo e a cui possiamo attingere.
Titolo: Re:La mano e la moneta
Inserito da: viator il 29 Dicembre 2019, 22:23:52 PM
Salve Ipazia. Dio, Tutto e Nulla. Beh........., io farei un'astrazione, una realtà concretissima e logicissima, un'altra astrazione. Saluti.
Titolo: Re:La mano e la moneta
Inserito da: bobmax il 30 Dicembre 2019, 06:46:19 AM
Citazione di: Ipazia il 29 Dicembre 2019, 20:26:06 PM
Dio, Tutto, Nulla sono fantastiche astrazione del prodotto evolutivo di un universo che attraverso la sua mente umana ha potuto riflettere su se stesso. Di reale c'è solo l'universo e la sua autocoscienza umana. L'unica che conosciamo e a cui possiamo attingere.

Non sono astrazioni, ma espressione della maggior concretezza possibile da parte della mente umana.

La consapevolezza del Nulla è presente in noi dalla nascita. Prima di ogni pensiero determinato. E ci accompagna in ogni istante di vita.

L'uni-verso è idea necessaria del Tutto. Altro che astrazione... È impossibile non avere questa idea, che è un'idea aperta.

Dimentichi di questi fondamenti del nostro stesso esserci, ci perdiamo nei "qualcosa"...
Scambiamo il Tutto per un qualcosa!

Mentre il Tutto non può essere assolutamente un qualcosa.
Il Tutto è infatti il nostro fondamento.

In definitiva, è ciò che noi siamo.
Titolo: Re:La mano e la moneta
Inserito da: Ipazia il 30 Dicembre 2019, 09:09:44 AM
Tutto, Nulla, Dio, ... Essere, sono astrazioni su cui si può soltanto filosofeggiare; con tutta la dignità della speculazione logica, ma sempre su concetti astratti si rimane. L'universo è il nome al "tutto" concreto che ci contiene nello spazio e nel tempo. Il "nulla" sappiamo che tale, concretamente, non è, e non è neppure realizzabile: una vibrazione, un quanto di tempo, massa o spazio comunque rimane. Dio ed Essere sono astrazioni antropomorfiche di forme ideali genetiche e gnoseologiche di scarsa utilità pratica di fronte ad un qualcosa che abbiamo imparato a conoscere e misurare e che ostinatamente rimanda a se stesso e a null'altro. Null'altro logico, ovviamente.