Siamo passati dalla fallacia naturalistica come «ciofeca» (cit. post 92) alla distinzione fra fallacia naturalistica in senso stretto e largo (post 106); direi «bene», se così facendo non ricadessi a mia volta nella fallacia. Battute a parte, l'ultimo tassello di questo percorso potrebbe essere osservare (oltre al fatto che in filosofia con «prescrizione» solitamente non si intende la prescrizione medica di restare vivi, semmai ci sia) che la fallacia non significa che non possa esserci nessun rapporto tematico fra descrizione e prescrizione, ossia che al dolore di un occhio strappato non si possa affatto associare un qualunque giudizio (etico, metafisico o altro). La fallacia, che come tutte le fallacie (se non erro) si occupa del piano logico, indica solo che non c'è inferenza logica fra quella descrizione e quel giudizio o prescrizione («vietato strappare gli occhi»); intendendo per logica non il semplice "ragionare in modo coerente", ma la logica in senso forte (accademico, se vuoi) come cogenza argomentativa («x implica y» e simili).
Ad esempio, dalla descrizione che le case hanno i tetti (riciclo il tuo esempio) non deriva logicamente che è bene (e nemmeno necessario) che le case li abbiano; può suonare strano, ma così è per la logica, che chiamerebbe questa (fallace) autoreferenza una petitio principii (se non ricordo male). Esempio ancora più semplice: perché bisogna (prescrizione) passare con il verde? Perché (descrizione) con il verde si passa; non c'è alcuna autentica argomentazione né implicazione logica che lega il passare al colore verde (sappiamo infatti che tale rapporto passare/verde è basato su una legge, non su un'argomentazione logica).
Torniamo alle case: la prescrizione («le case devono avere i tetti») si applica alla descrizione («le case hanno i tetti»), ma questa non è logicamente il fondamento del contenuto della prescrizione. La fallacia naturalistica invita ad argomentare senza usare la descrizione (che comporterebbe petitio principii), ovvero invita a non affermare «ciò che è, è bene come è, perché così è». Tradotto in pratica: è utile che le case abbiano i tetti, non perché è così che vengono fatte, ma perché il tetto svolge una funzione utile, strutturale, etc. La fallacia naturalistica invita a non sovvertire quel «perché», mutandolo in «è utile che le case abbiano i tetti perché le case hanno i tetti»; quando l'argomentazione corretta è invece «le case hanno i tetti (descrizione) perché è utile che li abbiano (altra descrizione, con valore argomentativo da esplicitare)». Lo stesso vale per i bambini senza braccia e per i lavoratori di Amazon: l'argomentazione a favore della cura verso gli uni e lo sdegno per la condizione degli altri, non si basa su descrizioni del corpo umano o delle routine di lavoro, ma sulla valutazione di tali descrizioni. Questo è ulteriormente dimostrato, concretamente, dal fatto che sono possibili anche interpretazioni differenti delle routine di lavoro (sulle menomazioni fisiche è meno evidente, dato il consenso in merito), interpretazioni che, se fossero davvero fondate logicamente sulla descrizione, verrebbero facilmente falsificate ricorrendo alla descrizione stessa (non ad altre interpretazioni).
Al livello della nuda vita, ad esempio, la "prescrizione" «abbi cura che la tua testa rimanga attaccata al collo» non ha alcun fondamento logico nella descrizione «l'uomo vivo è colui che ha (oltre ad altro) la testa attaccata al collo». Il fatto che gli uomini vivi abbiano la testa attaccata al collo non implica affatto logicamente che restare vivi sia bene, consigliabile, desiderato, etc.; il restare vivi può essere tutte questa cose a causa di motivi estranei alla mera descrizione dell'uomo vivo: motivi come l'istinto di sopravvivenza, il valore della vita, la scelta di non uccidersi pur potendolo fare, etc. Questi non sono affatto immanenti alla descrizione dell'uomo vivo con la testa sul collo, non hanno valore logico-argomentativo tale da poter affermare «è bene restare vivi perché siamo vivi».
In ottica volontaristica ciò è ancor più lampante: «è bene restare vivi perché vogliamo restare vivi» prescinde, argomentativamente, dalla semplice descrizione dell'esser vivi; che rimane ovviamente necessaria per capire, in pratica, come poi alimentare tale voler restare vivi. La descrizione e la prescrizione non sono contraddittorie (non essendo nemmeno sullo stesso piano, a voler essere precisi) e possono benissimo essere dialettiche nel reciproco "collegarsi", almeno finché la descrizione non viene fallacemente intesa come fondamento della prescrizione.
Il cogito può confutare al massimo chi dica che cibarsi e respirare siano illusione, nel senso di non reali (inteso come: non c'è un io che mangia, non c'è il magiare, etc.), o che la vita e la morte non siano reali (ma non mi sembra sia quello che tu proponi); il che non significa, in questo il cogito docet, che debbano essere esattamente come ce li rappresentiamo. Se penso, sono certo di esistere, non di essere esattamente l'utente Phil che scrive su un forum; questa auto-rappresentazione potrebbe essere l'inganno del genio maligno, etc. in questo senso parlavo di «residuo fenomenologico» minimo dell'esistenza, ossia: per quanto estendiamo ciò che definiamo «illusione» (se lo abbiamo definito...) l'essere "qualcosa" (il sum) non può essere considerato un'illusione. Ma da qui a sostenere che il cogito addirittura confuti le illusioni (seppur definite ad libitum) o il volontarismo o l'utilitarismo (come potrebbe?), c'è un salto che non ho mai fatto e, a dirla tutta, non consiglierei nemmeno (come vedi, un po' di paziente ermeneutica sul testo altrui, a volte eviterebbe fraintendimenti colossali).
Per me, da bieco fanfarone, la vita può anche essere illusione, ma non nel modo vitalistico e volontaristico che intendi tu (miro molto più ad oriente in questo). La fede nel razionalismo, tanto più cartesiano o illuminista che sia, non è affatto la mia fede (dopo tutti i miei prediconi sull'attualizzare la filosofia, ti pare che potrei essere davvero un fan di Cartesio che cita Derrida e consiglia Ricoeur?). Il resto del tuo discorso, dopo la citazione messa sopra, soprattutto quando parla di "proiezione di perfezione"(?), "prescrizioni corporee"(!), parla quindi di te e di qualcun altro, di cui non posso fare le veci.
Ad esempio, dalla descrizione che le case hanno i tetti (riciclo il tuo esempio) non deriva logicamente che è bene (e nemmeno necessario) che le case li abbiano; può suonare strano, ma così è per la logica, che chiamerebbe questa (fallace) autoreferenza una petitio principii (se non ricordo male). Esempio ancora più semplice: perché bisogna (prescrizione) passare con il verde? Perché (descrizione) con il verde si passa; non c'è alcuna autentica argomentazione né implicazione logica che lega il passare al colore verde (sappiamo infatti che tale rapporto passare/verde è basato su una legge, non su un'argomentazione logica).
Torniamo alle case: la prescrizione («le case devono avere i tetti») si applica alla descrizione («le case hanno i tetti»), ma questa non è logicamente il fondamento del contenuto della prescrizione. La fallacia naturalistica invita ad argomentare senza usare la descrizione (che comporterebbe petitio principii), ovvero invita a non affermare «ciò che è, è bene come è, perché così è». Tradotto in pratica: è utile che le case abbiano i tetti, non perché è così che vengono fatte, ma perché il tetto svolge una funzione utile, strutturale, etc. La fallacia naturalistica invita a non sovvertire quel «perché», mutandolo in «è utile che le case abbiano i tetti perché le case hanno i tetti»; quando l'argomentazione corretta è invece «le case hanno i tetti (descrizione) perché è utile che li abbiano (altra descrizione, con valore argomentativo da esplicitare)». Lo stesso vale per i bambini senza braccia e per i lavoratori di Amazon: l'argomentazione a favore della cura verso gli uni e lo sdegno per la condizione degli altri, non si basa su descrizioni del corpo umano o delle routine di lavoro, ma sulla valutazione di tali descrizioni. Questo è ulteriormente dimostrato, concretamente, dal fatto che sono possibili anche interpretazioni differenti delle routine di lavoro (sulle menomazioni fisiche è meno evidente, dato il consenso in merito), interpretazioni che, se fossero davvero fondate logicamente sulla descrizione, verrebbero facilmente falsificate ricorrendo alla descrizione stessa (non ad altre interpretazioni).
Al livello della nuda vita, ad esempio, la "prescrizione" «abbi cura che la tua testa rimanga attaccata al collo» non ha alcun fondamento logico nella descrizione «l'uomo vivo è colui che ha (oltre ad altro) la testa attaccata al collo». Il fatto che gli uomini vivi abbiano la testa attaccata al collo non implica affatto logicamente che restare vivi sia bene, consigliabile, desiderato, etc.; il restare vivi può essere tutte questa cose a causa di motivi estranei alla mera descrizione dell'uomo vivo: motivi come l'istinto di sopravvivenza, il valore della vita, la scelta di non uccidersi pur potendolo fare, etc. Questi non sono affatto immanenti alla descrizione dell'uomo vivo con la testa sul collo, non hanno valore logico-argomentativo tale da poter affermare «è bene restare vivi perché siamo vivi».
In ottica volontaristica ciò è ancor più lampante: «è bene restare vivi perché vogliamo restare vivi» prescinde, argomentativamente, dalla semplice descrizione dell'esser vivi; che rimane ovviamente necessaria per capire, in pratica, come poi alimentare tale voler restare vivi. La descrizione e la prescrizione non sono contraddittorie (non essendo nemmeno sullo stesso piano, a voler essere precisi) e possono benissimo essere dialettiche nel reciproco "collegarsi", almeno finché la descrizione non viene fallacemente intesa come fondamento della prescrizione.
Citazione di: niko il 26 Luglio 2025, 12:17:34 PMTu dici:Qui devo fermarti subito: quando l'ho detto o vagamente lasciato intendere? Perché non l'ho nemmeno pensato. Il cogito non confuta, ma anzi semmai fonda, il volontarismo e ogni illusione; dal momento in cui «io voglio» ha senso solo se esisto (sum) in quanto «io». E non credo si possa usare il cogito per avversare le illusioni di questo io, giacche il dubbio metodico cartesiano non è confutazione metodica.
C'e' qualcosa di descrittivo e non volontaristico >>> il cogito >>> che confuta l'illusorieta' volontaristica e utilitaristica della vita.
Il cogito può confutare al massimo chi dica che cibarsi e respirare siano illusione, nel senso di non reali (inteso come: non c'è un io che mangia, non c'è il magiare, etc.), o che la vita e la morte non siano reali (ma non mi sembra sia quello che tu proponi); il che non significa, in questo il cogito docet, che debbano essere esattamente come ce li rappresentiamo. Se penso, sono certo di esistere, non di essere esattamente l'utente Phil che scrive su un forum; questa auto-rappresentazione potrebbe essere l'inganno del genio maligno, etc. in questo senso parlavo di «residuo fenomenologico» minimo dell'esistenza, ossia: per quanto estendiamo ciò che definiamo «illusione» (se lo abbiamo definito...) l'essere "qualcosa" (il sum) non può essere considerato un'illusione. Ma da qui a sostenere che il cogito addirittura confuti le illusioni (seppur definite ad libitum) o il volontarismo o l'utilitarismo (come potrebbe?), c'è un salto che non ho mai fatto e, a dirla tutta, non consiglierei nemmeno (come vedi, un po' di paziente ermeneutica sul testo altrui, a volte eviterebbe fraintendimenti colossali).
Per me, da bieco fanfarone, la vita può anche essere illusione, ma non nel modo vitalistico e volontaristico che intendi tu (miro molto più ad oriente in questo). La fede nel razionalismo, tanto più cartesiano o illuminista che sia, non è affatto la mia fede (dopo tutti i miei prediconi sull'attualizzare la filosofia, ti pare che potrei essere davvero un fan di Cartesio che cita Derrida e consiglia Ricoeur?). Il resto del tuo discorso, dopo la citazione messa sopra, soprattutto quando parla di "proiezione di perfezione"(?), "prescrizioni corporee"(!), parla quindi di te e di qualcun altro, di cui non posso fare le veci.
