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Messaggi - Phil

#1111
Senza addentrarsi nelle profondità filosofiche del «Credere di credere» vattimiano, mi pare comunque opportuno rilevare la dialettica fra il credere e il sapere (ma non quella che intende Hegel nell'omonimo testo): credo in/a qualcosa perché non ne ho conoscenza esaustiva, poiché se ne avessi conoscenza esaustiva non ci crederei, bensì lo saprei (o meglio, sarebbe per me un sapere certo, fino a prova contraria). Non credo che oggi sia l'otto agosto, so che oggi è l'otto agosto (sorvolando sulla convenzionalità sia del referente di tale sapere che dei fattori che lo legittimano).
Questa dialettica credere/sapere, che in campo religioso fa riecheggiare l'agostiniano «credo ut intelligam et intelligo ut credam», si declina nella complicità del sapere nei confronti del credere (che a sua volta è il requisito che fonda tautologicamente gli assiomi di ogni logica, formale o esistenziale che sia), complicità in cui talvolta è un sapere debole, o uno sperare, o un sentire indefinito, o persino solo una voce di corridoio, a preorientare e condizionare il credere (la cosiddetta precomprensione ermeneutica).
In generale, se cerco l'ago nel pagliaio è perché so che è possibile che ce ne sia uno (lo credo), o mi hanno detto che ce ne sia uno (e ci credo) o addirittura so per certo che ce n'è uno. Questo sapere (una possibilità o una certezza) o questo credere ad una supposizione e/o all'altrui credere/sapere, dà senso alla ricerca dell'ago. Facendo un passo indietro: tale sapere d'innesco per la ricerca, su cosa si fonda? Come so che è possibile (o addirittura sicuro o solo credibile) che ci sia un ago in quel pagliaio? Se guardo un pagliaio non è spontaneo supporre che ci sia un ago dentro, così come se partissi per un viaggio di esplorazione su una rotta mai percorsa, non avrei elementi certi per prevedere esattamente cosa troverò al mio arrivo; salvo non abbia già una precomprensione anticipatrice che mi dà attendibili indizi per ritenere che proprio in quel pagliaio si annidi un ago e proprio su quella rotta raggiungerò l'Asia.
Infatti Colombo sa che la terra è sferica e, per inferenza logico-spaziale, sa che salpando verso ovest approderà ad est del punto di partenza. Inoltre, se sa (o è convinto di sapere) anche quale paese vi troverà e poi tale sapere si rivela invece fallace, ciò dimostra che era un sapere "incompleto", ma non un sapere sbagliato (come confermerà poi Magellano).
Il movente nozionistico che ha innescato il viaggio verso ovest per giungere ad est, è un sapere che coniuga Eratostene e Marco Polo, un sapere verificato (al di là degli errori di calcolo riguardo le distanze), la cui applicazione ha prodotto altro (imprevisto) sapere. Tuttavia non sempre il credere è innestato in un sapere solido: quando i greci credevano che l'Olimpo fosse la casa degli dei, all'origine di questa credenza non c'era verosimilmente un sapere autentico, ma piuttosto un credere basato sulla capacità po(i)etica dell'uomo, che gioca con archetipi e mitologemi (la stessa indole che mi fa sperare che nel pagliaio ci sia la figlia del contadino piuttosto che l'ago, e mi fa invece temere che ci sia il contadino adirato, rendendo sempre e comunque scialba l'ipotesi che ci sia solo, banalmente, paglia).

L'incertezza epistemologica insita nel credere (spesso pungolata da intuizioni di varia natura), prima della sua falsificazione o incoronamento a sapere, è la spinta cognitiva che parte da un sapere o da una narrazione culturale (che è un credere perpetuato) e attende la sua verifica o la sua falsificazione. Chiaramente, se tale verifica o smentita è impossibile o incomunicabile, come nel caso del post mortem, "non ci resta che credere", nel pieno o nel vuoto, nei miti dell'occidente o dell'oriente o in nessun mito, sapendo di non voler poter, almeno per ora, sapere.
#1112
Tematiche Filosofiche / Re:La coscienza e le cose
10 Maggio 2020, 12:25:09 PM
Citazione di: Ilario Innocente il 10 Maggio 2020, 00:53:09 AM
Introdurre una cosa nella coscienza, evidentemente, significa lasciare che questa presieda alla coscienza, che sia la coscienza irriflessa stessa e la coinvolga senza misteri nella sua medesimezza: quando ho letto «introdurre tale opacità nella coscienza», infatti, sono maledettamente rimasto invischiato in un dilemma epistemologico prima che ontologico; guardavo ancora la coscienza farsi altra dalla cosa.
Credo sia emblematico che il testo sartriano parli di introdurre un'opacità nella coscienza, non di introdurre una cosa nella coscienza (il che produrrebbe un'aporia nella prospettiva sartriana). Essendo «l'inventario» dell'in-sé un «procedimento infinito», inevitabilmente alla coscienza non resta possibile che relazionarsi all'opacità finita che essa può cogliere in una sequenza di atti di coscienza finiti. L'intenzionalità si rivolge al mondo scorgendo un'opacità (prodotta dallo stesso sguardo intenzionale), una densità di in-sé che la coscienza chiama «cosa», pur essendo tale cosa un in-sé non sussumibile esaurientemente dal per-sé che la coscienza è (la cosa intenzionata non è la cosa in-sé, il fenomeno dell'essere non coincide con l'essere del fenomeno). Detto in altro modo: la percezione non fa entrare la cosa nella coscienza, ma solo la sua densità opaca intelligibile dalla coscienza; tale densità non essendo un'in-sé, ma solo una contenuto di coscienza (un noema direbbe Husserl) non è un in-sé (con infinito inventario) che compromette il per-sé della coscienza.

Citazione di: Ilario Innocente il 10 Maggio 2020, 00:53:09 AM
Ecco spiegato l'«inventario»: semplicemente l'in-sé ci appare nella sua densità infinita, e così anche l'«infinito».
A proposito dell'«infinità», soltanto non comprendo perché parli di ragioni quantitative.

«(oltre che per motivi quantitavi)»

La "quantità" non è già una de-terminazione del per-sé rispetto all'in-sé? Non eccede il «nucleo istantaneo» della coscienza, di cui ci stiamo occupando?
Era una postilla logica suscitata, preventivamente, dalla possibile osservazione (scollinando per un attimo fuori da Sartre) che una coscienza finita non può contenere un'infinità, per una mera questione di rapporto ontologico quantitativo.
#1113
Tematiche Filosofiche / Re:La coscienza e le cose
09 Maggio 2020, 16:45:11 PM
Su Sartre ho solo dato un'occhiata qui, quindi non sopravvalutare la mia opinione passeggera sulle tue questioni (e grazie per lo spunto d'approfondimento).
Citazione di: Ilario Innocente il 08 Maggio 2020, 16:21:07 PM
1) perché Sartre parla di «inventario»? 2) perché di «infinito»? Però, si sa, l'in-sé è una compressione d'essere infinita, dove il "sé", improprio, si scioglie in una massiva identità (ancora impropria, perché implica un rapporto con sé) del richiamante col richiamato: l'in-sé è ricolmo di sé. [Parla di «infinito» per questa ragione, per la densità infinita delle cose?]
Propenderei per il sì: l'inventario degli in-sé è infinito perché la densità opaca dell'oggetto di coscienza non può essere esaurita definitivamente dalla coscienza (intenzionale), che può vederci infinite percezioni in infiniti atti di coscienza. Questa "infinità" non può esser contenuta nella coscienza (oltre che per motivi quantitativi), sia perché ciò significherebbe «fare della coscienza una cosa», cioè un in-sé (tale possibilità è smentita dall'evidenza prelogica della spontanea ricettività della coscienza, in quanto per-sé), sia perché ogni coscienza intenziona i suoi vissuti (è sempre coscienza di), in assenza dei quali non può essa stessa esser un abissale vissuto di sé stessa, in quanto il nulla che la abita non può (in quanto nulla) esser oggetto di coscienza (la coscienza di nulla non sarebbe autentica coscienza). Questa impossibilità di «fare della coscienza una cosa» è per Sartre, se non ho frainteso, applicabile anche al cogito e al corpo, perché se fossero degli in-sé, pieni e opachi, non potrebbero esser parte del per-sé dell'uomo che è costitutivamente relazione (intenzionale, coscienziale) con il mondo "là fuori" degli in-sé; relazione che può esser tale proprio in virtù del suo non essere un in-sé (altrimenti tale opacità del suo stesso essere gli impedirebbe la limpida trasparenza di poter essere ricettiva del mondo e delle cose).

Citazione di: Ilario Innocente il 08 Maggio 2020, 16:21:07 PM
Già questa «trasparenza», naturalmente, esige che le cose siano conosciute e messe in rapporto tra di esse come non aventi rapporti tra di esse: l'uomo deve avere una comprensione dell'in-sé in quanto realtà assoluta, senza rapporto e contemporaneamente una di sé in quanto relazione assoluta (altrimenti da dove trarre il rapporto non cognitivo che la coscienza intrattiene con sé se l'uomo non fosse rapporto fin dall'intimo della propria esistenza, che è il cogito preriflessivo?). [...] Se le cose stanno così di fatto, di diritto potrebbero stare ancora così? Abbiamo detto di no, se la cosa dentro la coscienza condividesse il suo essere; se non lo condividesse, la coscienza sarebbe morta, irrigidita, oscurata nel proprio essere
Mi pare che la «cosa dentro la coscienza» non condivide con essa il suo essere, il suo in-sé: la sua proiezione intenzionale nella coscienza, la rende dato di coscienza senza che la cosa perda il suo in-sé e senza che la coscienza si ritrovi, al suo interno, un in-sé ad appesantire ed adombrare il suo costitutivo per-sé.
#1114
Citazione di: paul11 il 08 Maggio 2020, 22:06:08 PM
Nietzsche non può glissare il sistema uomo come natura e cultura  perché non gli va la morale. E come si sarebbero mai formati le tradizioni antichissime egizie, quella vedica indiana, quella sumerico assiro babilonese, se persino l'homo  neanderthaliano  seppelliva  in terra  i propri morti?
Il neanderthaliano  il sapiens sono   l'antesignano del metafisico che inizia il culto e i disegni nelle grotte è la prima estetica? La trascendenza non è  soltanto un concetto filosofico , la filosofia  lo concettualizza, lo codifica culturalmente, ma nasce con l'homo.
Glissare i fondamenti significa depistare tutta la cultura e sbagliare il segno, rimangono importanti riflessioni, quello sì.
La tematica del fondamento non è certo sdoganabile in una manciata di righe off topic, ma secondo me il fondamento, se inteso come chiave di lettura dell'esser-uomo-nel-mondo, non è tanto un archètipo d'innesco né un sommesso denominatore comune a tutte le epoche, ma piuttosto una dinamica fra fondamenti, alcuni sfondati (quindi non più fondanti), altri magari appena assunti a fondamento. Se l'uomo primitivo seppelliva i morti e dopo di lui fecero altrettanto egizi e altri popoli, ciò non è un fondamento né della cremazione (con origini forse altrettanto antiche) né aiuta a capire il rapporto con la morte delle ultime generazioni (quelle che vedono il vuoto nel folklore delle formalità funebri). I "maestri del sospetto", proprio come Mao, il nazismo, il comunismo russo, etc. sono fra i fondativi della società contemporanea: possono aver perso (se vincere è non essere criticabili o "durare per sempre"), tuttavia, senza una minima consapevolezza di loro, l'attualità risulta un mistero inintelligibile. E non sono fondanti solo della comprensione dell'oggi: soprattutto, le tangibili ripercussioni sociali, politiche, etc. della loro caduta nello stagno della storia, sono ancora performative e in atto (come centri concentrici nell'acqua, più si espandono e più si indeboliscono, perché inevitabilmente perdono la spinta iniziale e si incrociano con altri; ma non considerarli è pensare erroneamente che nello stagno ci sia ormai calma piatta).
Affermare che «passano  i regimi e riemergono le tradizioni storiche identitarie»(cit.) secondo me non rende giustizia a ciò che ha portato alla nascita di tali tradizioni identitarie (a discapito di altre, sconfitte), né all'estinzione in corso di molte tradizioni storiche (quelle delle minoranze culturali), né al condensarsi di nuove (neo)culture tramite ibridazione (si pensi alla globalizzazione) e a tutti quei cambiamenti dello scenario antropologico e sociale che ci distinguono dai sumeri.

C'è indubbiamente un residuo sapienziale che rende ancora attuali testi antichi, perché in fondo si parla pur sempre di uomini il cui funzionamento psicologico, neurologico, etc. non è stato stravolto negli ultimi duemila anni. La "semplicità" con cui l'uomo antico era decifrabile, "semplicità" che rende appunto attuale una certa riflessione sull'uomo, oggi è insufficiente per capire l'uomo contemporaneo: «insufficiente» non significa che sia inutile o non possa più trasparire dalle pieghe dell'attualità; «insufficiente» significa che, se togliamo tutti i fondativi che si sono accumulati fra noi e l'impero romano, difficilmente riusciremo a capire (e poi a spiegare) come mai non siamo semplicemente degli etruschi che usano gli smartphone.


P.s.
Siamo comunque in un topic su Nietzsche e non vorrei deviarlo, eventualmente ne riparleremo altrove.
#1115
Citazione di: paul11 il 08 Maggio 2020, 18:49:44 PM
non so cosa oggi le università inseriscano nei corsi di studi, ma so che storicamente c'era la filosofia morale
Concordo: la «filosofia morale» (ovvero, in una parola, etica) non una disciplina chiamata «morale».
Quel «da sempre l'etica è la prassi»(cit.) non so se trovi adeguato riscontro filologico; Ipazia ha già linkato in merito e il modo in cui alcuni filosofi parlano di etica credo minacci quel «da sempre», almeno se inteso nella filosofia. Si tratta di capire se si vuole usare il linguaggio comune o quello settoriale o quello di un filosofo in particolare.

Citazione di: paul11 il 08 Maggio 2020, 18:49:44 PM
Che piaccia o no alcuni concetti  stessi utilizzati da Nietzsche , di arianesimo, pangermanesimo, patria, popolo, nazione e i relativi rituali e simboli , feste nazionali, bandiere, vessilli, inni nazionali vengono dalle morali non dalle etiche, perché sono identitarie in qualunque popolo e tradizione.
Concordo: vengono dalle morali, non dalle etiche (cioè dalle filosofie morali), proprio perché
Citazione di: Phil il 08 Maggio 2020, 14:38:08 PM
la morale viene intesa come l'apparato di valori propri di una comunità, mentre l'etica è piuttosto la riflessione filosofica sua tali valori


P.s.
Chiaramente, nulla vieta di dare ai due termini un significato personalizzato, siamo pur sempre su un forum, non all'università.
#1116
Citazione di: Ipazia il 08 Maggio 2020, 10:17:28 AM
Che poi, essendoci un solo ethos, voler trovare differenze sostanziali tra morale ed etica è antropologicamente insostenibile. Semmai differenze funzionali sulle quali è consistente la definizione hegeliana di morale come empiria dell'ethos ed etica come sua scienza. Interpretazione sostenuta anche dall'etimo e dal pensiero classico
Citazione di: paul11 il 08 Maggio 2020, 13:34:02 PM
E ridargli con questa etica...... Non caverai mai un ragno dal buco iniziando  dai comportamenti
pratici degli umani che sono così ampi, dall'onesto  al disonesto, dal pensiero all'azione, dal conveniente al solidale...vi troverai oceani di contraddizioni che piacciono alle analisi statistiche sociologiche e dei marketing: a questo serve.
In aggiunta a quanto ricordato da Ipazia, non so se ciò possa essere ulteriore elemento utile nella diatriba forumistica fra «etica» e «morale»: tra i corsi universitari, non mi pare ci siano corsi di «filosofia etica», bensì o di «filosofia morale» o di «etica» (magari declinata con specificazioni, «della comunicazione», o altro). Questo perché, come spiegato solitamente nelle prime lezioni (se non ricordo male), l'etica è la riflessione (filosofica) sulla morale; per cui "filosofia etica" sarebbe ridondante e «filosofia morale» è solo una perifrasi di «etica» che mette l'accento sull'ambito filosofico.
Detto in sintesi, la morale viene intesa come l'apparato di valori propri di una comunità, mentre l'etica è piuttosto la riflessione filosofica sua tali valori, sul loro fondamento, etc. poi nel linguaggio comune, giustamente generalista e vago, sono spesso sinonimi (dipende quindi da quale linguaggio vogliamo usare).


Edit: doveroso ricordare che quando si parla di «codice etico aziendale», di «certificazione etica Sa 8000», etc. non si sta usando un linguaggio strettamente filosofico, ma con l'aggettivo «etico» si allude a principi e valori sociali o di gestione delle risorse umane.
#1117
Sopra ho già accennato a una «estetica complice di un'etica (arte sacra, etc.)»: l'immagine di un Cristo o una Madonna è un elemento estetico o etico? Il contenuto della raffigurazione non va confuso con le modalità di presentazione: una dottrina può ricorrere all'estetica per comunicare, come è tipico della religione cristiana nelle nostre chiese, ma questo non comporta confondere i piani di ciò che si rappresenta (una religione) con il canale scelto (un quadro, un affresco, etc.). D'altronde, la bellezza della raffigurazione di una Madonna, sta nel suo esser immagine di una Madonna o in come è rappresentata? Il messaggio religioso sta nell'esser ben rappresentato o in cosa viene rappresentato? Un crocifisso disegnato con un dito sulla sabbia, "opera" dallo scarso impatto estetico, può ricordare ad un credente l'intero impianto etico della sua fede (v. simboli incisi nelle catacombe), mentre una Madonna affrescata può incantare lo sguardo anche di un ateo o di chi non sa nemmeno cosa sia la religione cristiana.
Ora che l'alfabetizzazione è piuttosto diffusa, il messaggio etico può ancora strumentalizzare la dimensione estetica (v. "pubblicità impegnate" e simili), proprio come una messaggio estetico può andare contro l'etica (scandalismo artistico), ma, appunto i due piani confermano così la loro essenziale separazione nel momento in cui una non si dissolve mai nell'altra. Resta dunque l'asimmetria di cui sopra; un caso in cui l'estetica condizioni l'etica (il che non significa semplicemente rappresentarla) non mi viene in mente; viceversa, gli esempi non mancano.

Sull'orrore delle bruttezza e quello della crudeltà, possiamo appellarci all'esperienza empirica con un esperimento: il sentimento che ti suscita la bruttezza di un pessimo abbinamento cromatico dei vestiti è accostabile al sentimento che ti suscita la bruttezza di un gesto irrispettoso o una battuta offensiva nei confronti di una persona menomata? La bruttezza è "omonima", ma il suo corrispettivo semantico, psicologico e (volendo giocare il jolly) "spirituale", credo sia ben differente; anche se le mie esperienze personali in merito magari non corrispondono alle tue (prospettivismo docet; per tornare in topic).

Sempre a filo di omonimia (omografia?) che taglia i due ambiti: quello che è "brutto" per l'etica non lo è per l'estetica. Guernica è brutta? Rappresenta (non «è») una bruttura etica, la guerra, ma lo fa con la bellezza dell'arte (che non è la bellezza dell'estetista). Le sensazioni dell'estetica non sono giudizi etici (le neuroscienze hanno spiegato che, come aveva intuito Kant se non erro, il sublime, con le sue "vertigini", è una questione percettiva di "sproporzioni", nulla a che vedere con il disappunto o la condanna morale).
Indubbiamente etica ed estetica possono essere accostate (nel sovrainsieme comune della filosofia) ed interagire, come detto l'estetica può esser strumento dell'etica, ma secondo me va comunque distinto il pennello (estetica) dalla mano che lo regge, considerando che la mano (quella dell'etica) non ha essenziale bisogno del pennello e il pennello può esser usato anche da altre mani (non etiche).


P.s.
Sulle citazioni: al netto di quanto detto sopra, nei «panni curiali» di Machiavelli non vedo nulla di etico, né una sinergia fra etica ed estetica; in che senso la riscontri? Sul motto di Dante invece non colgo l'appello a fuggire la bruttezza (e se ci fosse sarebbe, visto il contesto, quasi un imperativo morale, nulla di estetico). Sulla contiguità fra brutto e bruto nel cristianesimo, probabilmente siamo di due parrocchie diverse (nella mia, se il flash-back ai tempi del catechismo non mi inganna, la bruttezza morale non ha nulla di estetico).
#1118
@Ipazia

Tuttavia, fuori da quel frangente storico (e fuori dalla narrazione leggendaria dell'evento), o anche, concediamolo pure, forse proprio a partire da esso, il percorso delle due mi pare sia rimasto sempre ben separato. Risincronizzandoci al qui ed ora, affermare che oggi «Kalos compete nel campo etico» non so se trovi riscontro nella nostra realtà (occidentale, non tribale, etc.), in cui si insegna perlopiù la negazione di kalòs kagathòs (certo, se ne può discutere) ovvero che il bello non è di per sé virtuoso (eticamente) e viceversa; sempre considerando che finché «etico» non è sinonimo di «sociale», la frase non può essere intesa come «Kalos compete nel campo sociale». Se per «compete» si intende «esser di competenza di», allora è difficile non concordare: usi e costumi competono solitamente alla morale, che dà il suo giudizio di valore anche sulla lunghezza delle gonne, sul rapporto fra bellezza femminile e giudici, sul tener a bada gli ormoni, etc. C'è indubbiamente una moralità che giudica e quindi influenza l'estetica (come già accennato), ma un'estetica che condizioni l'etica non mi pare abbia trovato nella nostra storia un adeguato simmetrico influsso.
Sul «potere redentivo» del Bello, c'è da chiedersi se redima eticamente o da questioni etiche, se sia (as)soluzione o evasione, oppure (considerando tutto quello che presuppone la categoria di «redenzione», nelle sue differenti declinazioni) rimanga ancora "insolubile" nell'etica, confermando appunto la differente "materia" delle due.
#1119
Citazione di: Ipazia il 05 Maggio 2020, 22:01:57 PM
D'accordo sulla relazione genetica tra estetica ed etica, ma appena diventa grandicella l'estetica instaura una relazione retroattiva con la madre tale da modificarne il modo di pensare. Ecco allora che Frine, accusata dello stesso reato di Socrate, riesce a scampare dalla medesima condanna mostrandosi nuda ai giudici. Un caso clamoroso di estetica capace di modificare, o quantomeno mettere seriamente in crisi, gli orizzonti di senso etico precedenti
Mi pare di non rilevare una modifica o una messa in crisi dell'etica da parte dell'estetica, piuttosto una conferma della divergenza fra le due; se l'etica, come ricordato (da Kierkegaard e altri), ha intrinseche velleità universali, il caso di Frine è semmai l'eccezione che conferma la regola: mostrare la propria nudità per ottenere una riduzione della pena o l'assoluzione, non è diventata da allora una prassi che ha modificato il diritto di quella comunità, tantomeno la tradizione etica di quel popolo. Ciò che quel gesto «ha messo in crisi» è l'immanente capacità di giudizio di alcuni specifici individui, ma non l'universalità della loro etica, confermata tale proprio dallo sbandamento per motivi estetici; sbandamento che non ha costituito un caso esemplare, un precedente poi tradotto in norma, restando fine a se stesso (come una certa estetica tende ad essere).
L'estetica, come esemplificato proprio da Frine, può tentare e sedurre i "ministri dell'etica", o più in generale tutti i soggetti in quanto attori etici, quasi fosse un invito, direbbe Kierkegaard (ma non io), a "passare al lato oscuro della forza", ovvero dalla "illuminata" forza della morale alla forza della "cupa cupidigia" animal-edonistica (anche se l'estetica non è questo, vedi in seguito). Più che suddetta «modifica» c'è insidia, in caso di estetica tentatrice, o approvazione/supporto, in caso di estetica complice di un'etica (arte sacra, etc.). Mi risulta difficile pensare ad un "hackeraggio estetico" dell'etica che non si limiti ad epifenomeni contingenti, come la scelta testosteronica di quei giudici. La figura dell'esteta che costeggia la morale o la infrange è un noto cliché, come quello dell'artista dissoluto, nondimeno c'è anche un'estetica che resta nei binari etici; in entrambi i casi, mi pare permanga comunque una differenza chiara fra i due orizzonti.
Ovviamente l'estetica non è una mera questione di "leva ormonale", anzi, nell'istinto all'accoppiamento c'è più neurobiologia che estetica (al massimo "neuroestetica"): il pavone che apre la sua ruota o un numero speciale di Playboy hanno "in sé" valenza estetica perlopiù metaforicamente, almeno se intendiamo l'estetica di cui si occupa la filosofia (riflessione sul bello e dintorni, non ostensione del bello in quanto tale).
#1120
@Lou

Sul rapporto estetica ed etica (restando al di qua della loro comune copertura del velo di Maya, del prospettivismo interpretante, etc.) riprenderei il fugace accenno con cui ho accostato Nietzsche ad un'estetica à la Kierkegaard, il che aiuta a spiegare in che senso vedo soprattutto risaltare la divergenza fra etica ed estetica, piuttosto che una comune genealogia (ci tornerò a fine post). Per Kierkegaard, lo stadio estetico dell'esistenza (l'ho rapidamente ripassato qui) è incentrato sulla ricerca di edonistica pulsionalità (ebrezza dionisica?), su una volontà (di potenza?) di vita sempre attiva e insaziabile, con in sottofondo la musica di Mozart (a cui si ispirerà Wagner?), del Don Giovanni (epigono borghese di Dioniso?), seguendo il motto «carpe diem» (frammento atomico dell'«amor fati»?) alla continua ricerca di vette eccezionali e individuali su cui ergersi sopra la folla noiosa e flaccida (dei filistei?). Tuttavia, l'esito, per Kierkegaard è la disperazione, mentre per Nietzsche è la tensione verso l'uomo che "diventa ciò che è", forse due condizioni attraversate da un medesimo nichilismo disagio esistenziale trasversale.
Lo stadio etico è invece quello che Nietzsche forse definirebbe apollineo, basato sul rigore, sul (auto)controllo, sulla libera scelta sempre sottomessa all'universalità della morale, quindi al divino (o al metafisico), in una sintesi che produce, per il danese, l'esito del pentimento; è lo stadio del kierkegaardiano «trasformare se stesso nell'individuo universale», in contrasto al suddetto nietzschiano «diventare ciò che si è».

Sul "riposare" dell'etica sull'estetica, almeno se mi affido al senso comune, sono propenso a leggerlo al contrario: l'etica è uno dei fondamenti della vita comune, sin dai tempi dei primitivi, l'estetica viene dopo (così come la poesia viene dopo la scrittura "utile") e si installa fra paletti (sacri o meno) già posti e da non superare (il che "dà il la" ad ogni ribellione per via estetica). Questo, secondo me, perché la dimensione estetica presuppone un precedente orizzonte di senso (da cui scaturisce), che presuppone una cultura di partenza (seppur sovvertibile e rinnegabile), che presuppone una società, che presuppone un collante etico (in quanto comune accettazione o sottomissione a norme di condotta, che presuppone la volontà/necessità di vivere assieme).
#1121
Citazione di: viator il 03 Maggio 2020, 17:16:19 PM
Ma chi sceglie i criteri per giudicare chi sia "più capace" dovrebbe essere egli stesso ancora ed ancora "più capace" dei "più capaci" che che deve "esaminare".
Tralasciando l'epistocrazia, tale regresso all'infinito è nella prassi evitato nel momento in cui un consesso specialistico stabilisce per consenso interno prima i criteri e poi, tramite essi, chi fra loro è più idoneo ad un certo ruolo; poiché, almeno fra "pari", il riconoscere chi è meglio di me in qualcosa, non prevede il paradosso che io debba essere meglio di lui per constatare il suo esser meglio (in caso di dubbio, entrano inevitabilmente in gioco altri fattori meno oggettivi).
Questo accade solitamente in tutti i settori, ad esempio, se non erro, nella scuola: chi giudica i docenti adeguati ad essere tali? Altri docenti. E chi giudica tali "altri docenti" in grado di decidere chi può essere docente? Ulteriori docenti... e sembrerebbe di poter proseguire a oltranza, fino a rendere pressoché impossibile la presenza di un docente in aula. Per fortuna, si arriva convenzionalmente ad un punto in cui (semplificando) un gruppo di docenti decide chi fra loro è più adatto a decidere chi giudicherà altri futuri neo-docenti (tramite concorso o simili), e qui la catena si interrompe.
D'altronde, meglio una decisione fra i (più o meno) pari di ruolo, fra i competenti (o meno incompetenti), oppure meglio sia la massa degli alunni a decidere democraticamente chi può essere loro insegnante?
Se la priorità è rendere soddisfatta la quantità maggiore di alunni possibile, avrebbe (quasi) senso far votare tutti gli alunni, semplicemente in quanto tali, per eleggere i professori (e in caso di proteste studentesche avere l'alibi dell'«li avete votati voi»); se la priorità è la qualità dell'insegnamento, mi pare ragionevole abbiano voce in capitolo solo coloro che sanno (ri)conoscere i parametri di tale qualità (sapere che potrebbe forse appartenere anche ad alcuni alunni, ma che esula dal semplice "essere alunno in quanto tale").
C'è un possibile compromesso fra qualità e quantità? Un compromesso efficace solitamente prevede criteri e metodo, in una parola, di nuovo, episteme.
#1122
Citazione di: Santos il 03 Maggio 2020, 15:59:41 PM
Allora io mi chiedo: è saggio dare il potere di fare leggi e di decidere la politica dell'Italia ad una massa che per il 28% (secondo altri studi anche di più) è composta da analfabeti funzionali, che credono alle fake news e alle teorie complottiste più varie, che ragionano con la pancia invece che con la testa? È davvero auspicabile una democrazia diretta, o è meglio una forma di meritocrazia (Jason Brennan la chiama "epistocrazia"), dove a governare sono i migliori (magari scelti per concorso)?
Pur trovando, da un lato, ovvia la ragionevolezza insita nell'epistocrazia, e dall'altro, altrettanto ovvia la non facilità della sua proceduralizzazione, sono anche consapevole che, per motivi storici e culturali, è un tabù che suscita le più disparate reazioni avverse, nemico comune di molte (tutte?) le fazioni politiche. Nondimeno, riprendendo la differenza fra episteme e doxa, per me si pone come male minore valutabile alternativa alla "dossocrazia", all'oclocrazia, etc.
Senza volermi addentrare nel discorso politico, leggendo en passant la considerazione di Ipazia che «(non) tutti possono improvvisarsi vigili del fuoco»(cit.), mi sono chiesto se "tutti possono improvvisarsi pensatori politici" (sia come votanti che come votati), dove con «pensatore politico» non intendo aulicamente ammiccare alla sofocrazia utopica, ma semplicemente l'esser in grado di pensare politicamente (a prescindere da quale si ritenga sia il Bene della polis) con (minima?) cognizione di causa, ovvero, appunto, con episteme.
#1123
Citazione di: Ipazia il 02 Maggio 2020, 19:59:35 PM
Resta l'arte, ma come insegna L.Wittgenstein, etica ed estetica pari sono. E in FN sono ancora più (con)fuse in una unio mystica inscindibile, che contrassegna pure la sua metafisica dionisiaco-apollinea e si libra nelle figure a lui più care: amor fati, eterno ritorno, trasvalutazione über-omistica (o forse: -omystica) .
Wittgenstein era un logico, per questo nella (sua) logica, etica ed estetica rientrano nello stesso insieme (quindi simili ma non identiche, se andiamo al di là del motto letterale): quello dei giudizi di valore (non di fatto), quello della trascendenza (non del «mondo») quello dell'indicibilità (e indecidibilità chioserebbe qualcun'altro, ma è un'altra storia...) il cui "gioco linguistico", come dirà dopo il Tractatus, è eventualmente oggetto di studio della logica e della filosofia del linguaggio. Il valore "mistico" che Wittgenstein assegna ad alcuni tipi di discorso, è comunque una tassonomia, non un'assegnazione positiva di "valore trasvalutativo". Lo strappo con cui Wittgenstein e Nietzsche si slacciano dalla metafisica classica è infatti piuttosto differente, la stessa differenza con cui la tragedia e l'autopsia parlano comunque entrambe della morte.
Nietztsche non era esattamente un logico, quindi se accomuna etica ed estetica, credo lo faccia su un piano esistenziale e, scommetto, è l'etica ad estetizzarsi (in quanto suo contenuto prospettico) più di quanto non sia l'estetica ad eticizzarsi (come, se non erro, propone Wittgenstein nella sua «Conferenza sull'etica», posteriore al Tractatus).


Citazione di: Lou il 03 Maggio 2020, 08:35:46 AM
E il famoso caos della stella danzante è propio questo, quella cifra di differenza che agisce creativamente che non possiamo riuscire a elaborare in una sintesi che risolva il suo carattere contradditorio e "Altro", a differenza di Hegel. Però ecco, in Nietzsche, c'è coerenza, infatti se parliamo di "edificazione" di un'etica certo non siamo di fronte a un sistemone entro cui ogni elemento ( atomo :P ) trova perfettamente una graziosa posizione  e una descrizione coerente nell'economia del tutto, ma più eroicamente occorre un moto di accettazione, che non ha le sembianze del dovere, più dell'amore. L'amor fati di Nietzsche. Questa è la pedagogia etica in una realtà in cui non c'è un dolore da cui dover guarire, ma da accettare poichè connaturato all'esistenza, nel suo non-senso. Ma connaturata alla vdp c'è pure un afflato estetico che gioca un ruolo decisivo, abbiamo l'arte per non perire.
Eppure, se non ci sono stelle fisse a fare da riferimento, ma solo stelle danzanti, le rotte dei paradigmi (etici, "pedagogici", etc.) che vi si orientano, risulteranno parimenti danzanti e instabili. Per un singolo può andar anche bene, ma non risulta una proposta plausibile o applicabile per una comunità, una società. Quindi: un'etica, un'epistemologia e, soprattutto, una metafisica, non solo «non risolutive» (come giustamente osservi) ma tendenzialmente individualiste, soggettive (e di un soggetto che «è finzione», come dice l'autore stesso), sono ancora tali? Concordiamo che gli sviluppi del pensiero successivo (poststrutturalismo, etc.) ne daranno una eloquente risposta.
Per questo, mi pare, Nietzsche non riesca a (semmai lo abbia mai voluto) fare proposte sociali o politiche, ma perlopiù "estetiche" (anche in senso kierkegaardiano o, mutatis mutandis, levinassiano); l'"amor fati di massa" sarebbe un non-senso o una pia utopia. Una differenza essenziale fra estetica ed etica è in fondo anche questa: sebbene entrambe ambiscano ad essere universali, a rivolgersi a tutti, l'etica è un'esperienza sociale (l'Altro è un uomo, vige un reciproco "per noi"), l'estetica è un'esperienza individuale (l'altro è l'arte, la natura, etc. vige il "per me").
#1124
Al di là della questione dell'atomo, inteso scientificamente, mi suscitano una certa risonanza le sue affermazioni (purtroppo giunte come "diario filosofico" più che saggio argomentativo) critiche riguardo l'atomo come metaforico elemento stabile di identificazione permanente, "parmenidea", come puntello a cui appendere credenze illusorie (nel senso che ho accennato in altro topic di altra sezione):
Citazione di: Ipazia il 30 Aprile 2020, 13:03:37 PM
perfino la materia è un antichissimo pregiudizio innato, derivante dal fatto che l'occhio vede superficie piane e il tatto umano è un organo molto ottuso: dove cioè si percepiscono punti di resistenza, ci si costruiscono spontaneamente dei piani continui resistenti (che però esistono solo nella nostra rappresentazione), sotto l'illusione, ormai diventata abitudine, dell'occhio che rispecchia e che in fondo non è altro, appunto, che un grossolano organo di tatto. [...] Oggi siamo abituati a distinguere l'oggetto mosso e il movimento; ma in mosso è inventato, è messo dentro la realtà con la fantasia, perché i nostri organi non sono abbastanza sottili da percepire dovunque il movimento e ci mettono innanzi qualcosa di persistente, mentre in fondo non vi sono « cose », né vi è alcunché di persistente.
[...]
Il mondo per noi è qualcosa di più di un compendio di relazioni misurate in un certo modo ? Appena questa misura arbitraria viene a mancare, il nostro mondo si dissolve !
[...]
Una volta che si sia capito che il «soggetto » non è niente che produca effetto, ma solo una finzione, molte cose ne seguono. Solo in base al modello del soggetto abbiamo inventato le cose e le abbiamo introdotte nel guazzabuglio delle sensazioni. Se non crediamo più al soggetto agente, cade anche la credenza nelle cose agenti, nell'azione reciproca, nella causa ed effetto fra quei fenomeni che chiamiamo cose. Cade con ciò naturalmente anche il mondo degli ATOMI AGENTI, che si postulano sempre presupponendo che si abbia bisogno di soggetti. Cade infine anche la «COSA IN SÉ» : perché questa è in fondo la concezione di un «soggetto in sé». Ma noi abbiamo capito che il soggetto è finzione. La contrapposizione fra «cosa in sé » e « apparenza» è insostenibile ; ma con essa cade anche il concetto di «apparenza»
Sono invece un po' perplesso riguardo questa interpretazione (anche se sicuramente si basa su una conoscenza di Nietzsche ben superiore alla mia):
Citazione di: Ipazia il 30 Aprile 2020, 13:06:00 PMil compendio finale, incompleto nella stesura ma non nelle intenzioni, della filosofia di FN: metafisica, epistemologia ed etica.
Se, dopo aver scritto i frammenti pazientemente riportati nei primi due post, si volesse edificare etica, epistemologia e persino metafisica, dubito si potrebbe sviluppare un discorso organico e coerente; si finirebbe con il tentare di mettere assieme i pezzi di due puzzle ben differenti: da un lato, il soggetto è finzione, dall'altro, l'etica (che non sia convezione giuridica o contingenza socioculturale) si fonda esattamente sul contrario; da un lato, l'atomo (portabandiera dell'ontologia) è feticcio apollineo, dall'altro, l'epistemologia esige che non lo sia, perché per lei deve essere un dato di coscienza manipolabile e utilizzabile (oltre che esplicativo); da un lato, la metafisica è smembrata in storia del pensiero, «horrendum pudendum», psicologia, estetica, etc. dall'altro, è un po' troppo tardi (a fine '800) per proporre una "nuova" metafisica basata sulla fusione di letteratura (poesia, miti greci, etc.) e psicologismo ingenuo (Freud è già dietro l'angolo). Se quest'ultima "metafisica" fosse la sua proposta, sarebbe incompatibile con il prospettivismo che l'autore stesso propone: una metafisica che ha come pietra angolare la volontà di potenza di un soggetto che è finzione, al contempo interpretata ed interpretante, è troppo debole per poter scalzare le altre metafisiche giocando al loro stesso gioco (dunque si "umilierebbe" per confermare il prospettivismo da cui deriva, tuttavia non sarebbe nemmeno necessario).
Soprattutto, Nietzsche pare minare il discorso veritativo-metafisico alla sua base «La volontà di verità è un rendere saldo, un rendere vero-durevole, un eliminare dalla nostra presenza quel carattere falso,una reinterpretazione dello stesso nel senso dell'essere. La verità non è pertanto qualcosa che esista e che sia da trovare, da scoprire, - ma qualcosa che è da creare e che dà il nome a un processo, anzi a una volontà di soggiogamento, che di per sé non ha mai fine : introdurre la verità, come un processus in infinitum, un attivo determinare, non un prendere coscienza di qualcosa <che> sia « in sé » fisso e determinato. È una parola per la «volontà di potenza».»(cit.). Vengono sterilizzati così, in un colpo solo, sia qualunque progetto epistemologicamente forte, essendo la verità non scoperta ma «da creare» (cit.), sia qualunque metafisica autorevole intesa come «prendere coscienza di qualcosa che sia in sé fisso e determinato»(cit.). Una volta inibite alla radice l'epistmologia e la metafisica forti, con conseguente confinamento dell'etica in mero accidente storico-prospettico, non resta che una visione potentemente estetica:
«quanto più disumanizziamo la natura, tanto più essa diventa vuota, priva di significato per noi. L'arte si fonda integralmente sulla natura umanizzata, sulla natura irretita e intessuta di errori e illusioni, dalla quale non vi è arte che possa prescindere»; già, compresa l'arte della filosofia (cavalcando il richiamo al vuoto di significato e all'illusione, osserverei che la visione "disumana" della natura è una visione fuori dall'illusione-maya-samsara del prospettivismo condizionante e convenzionale della ragione calcolante-apollinea).
Gli sviluppi di questa impostazione, più che a costruire una metafisica, un'etica e un'epistemologia, mi pare abbiano portato (se non sono troppo di parte) al pensiero postfenomenologico francese e più in generale al pensiero debole postmoderno, che, non a caso, hanno in Nietzsche una delle loro muse più rilevanti.
#1125
Tematiche Spirituali / Re:L'illusione dell'io
30 Aprile 2020, 15:03:53 PM
Citazione di: Ipazia il 30 Aprile 2020, 09:46:52 AM
Mettendomi nei panni dell'umile tenaglia, evidenzio la sua memoria di essere stata essa stessa presa e forgiata da altre tenaglie e da un maglio che le ha dato la forma in cui potersi manifestare nella sua prensile natura. Non del tutta avulsa da una sua capacità speculativa nel vedere agire altre tenaglie simili a lei per funzione e sostanza.
Concordo, questa è esattamente la civiltà della specie "tenaglia sapiens": accomunate per sostanza, per range di capacità operative, per struttura materiale, per modalità di interazione con il mondo secondo il dualismo prendibile/non-prendibile, per storia evolutiva delle tenaglie, per rivoluzione delle tecniche di prensione, etc. e ne ha costruite molte di opere mirabili, questa stirpe di tenaglie («canaglie» tuonerebbe forse Madre Natura, ma meglio non accavallare troppo le metafore).

Citazione di: Ipazia il 30 Aprile 2020, 09:46:52 AM
Autocoscientemente maturando la consapevolezza della sua insostituibilità ogni volta che il mondo incappa in qualche bullone da avvitare o svitare.
Qui la relazione disillusa che proponevo è invece rovesciata: non è il mondo ad incappare in bulloni da svitare, ma è la tenaglia, in quanto tale, a vedere nel mondo bulloni da girare; un pennello vedrebbe bulloni da dipingere (e magari non li chiamerebbe nemmeno «bulloni»); ognuno secondo la sua naturale prospettiva.

Come detto, l'esser consapevoli del proprio esser-tenaglia è il punto di partenza per disilludersi che il mondo sia solo una questione di girar bulloni, anche se così facendo si è storicamente costruito già molto. Lasciarsi attanagliare dal dubbio che tutto ci paia prensibile/non-prensibile solo perché siamo tenaglie, può aiutarci a capire l'illusione che la (com)prensibilità, che la nostra prospettiva impone al mondo, coincida con la realtà assoluta del mondo: come suggerito, ibridando Nagarjuna con Husserl, la "realtà ultima" (invalicabile, fino a prova contraria) è probabilmente quella in cui, lasciando fenomenologicamente tra parentesi il nostro esser tenaglia e il connaturato criterio di (com)prensibilità, non c'è nulla da (com)prendere e, a ben vedere, nemmeno nessuna "tenaglia" (intesa come identità convenzionale e permanente).
In breve, sunyata zen demistificato, realismo alogico (il termine etimologicamente esatto sarebbe «nichilismo», se non fosse già così stracarico di storia, concettualizzazioni, pregiudizi, etc.).

Citazione di: Ipazia il 30 Aprile 2020, 09:46:52 AM
E trovando alfine la sua gloria nel canto di chi, nella "chiave a stella", ne colse e narrò la grande bellezza siderea.
Per me, più che nella decodifica siderale, la (vana)gloria delle tenaglie è forgiata nella fucina di Efesto: "gloria operaia" del formicaio di industriose (ed industriali) creature, che risolvono con la "tecnica della complessità" il complesso di inferiorità verso gli altri animali. Naturalmente, più vogliono esser prime per pienezza di conoscenza, più si allontanano dalla vacuità della realtà ultima.