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Messaggi - Koba

#31
Citazione di: Alberto Knox il 07 Ottobre 2025, 13:37:48 PMtutto sta a cosa intendeva Nietzche per uomo forte a questo punto . Sappiamo che la strada verso il superuomo non è mai una via di emancipazione collettiva , che possa riguardare, anche in un futuro lontano, tutta l'umanità, è invece sempre una prospettiva di eccezionale elevazione di alcuni singoli individui, rispetto alla mediocrità in cui la maggior parte delle persone accetta di vivere, per ignoranza, timore e abitudine. Sono queste le idee di forza e di vitalità riferite all uomo e rivolte a pochi. Purtroppo sono state interpretate male come abbiamo ben visto ad esempio dalla terribile ideologia nazista.
Ma chi è concretamente  il superuomo? l'oltreuomo di N. ? Chi è colui che riesce a superare l uomo stesso? in primo luogo è colui che uccide Dio e che sopratutto ne regge la morte. La morte di Dio comporta finalmente quella che N. chiama la trasvalutazione dei valori , il bene e il male. N. si proclama orgogliosamente immorale. Questo non significa che esaltasse la malvagià o il crimine . L attacco è rivolto alla morale dei sacerdoti fatta di umiltà , obbedienza , castità, ipocrisia e rinuncia della felicità in nome di un falso e ingannevole aldilà . A tale morale antivitale , N. contrappone quella ultravitale dei cavalieri , fondata sulla fierezza, la gioia , il coraggio e la volontà. Il superuomo supera la visione appollinea della vita, virtuosa e razionale propagandata da Socrate, Platone e dalla cristianità, per ritornare ad abbracciare ed esaltare lo spirito dionisiaco, vero e propio cuore pulsante della tragedia antica di Sofacle e di Eschilo, fatto di caos, infinito e tenebree governato dal fato.
Come dicevo per me l'opera di Nietzsche è un'opera aperta.
E la tua interpretazione è una delle possibili. È coerente. Non voglio aprire un dibattito sulla filosofia di Nietzsche presa nel suo complesso.
Però quando verso la fine del post dici che si tratta di abbracciare ed esaltare lo spirito dionisiaco secondo me la cosa non è così semplice. Se la forma razionale tende a proteggere dal volto terribile della vita, e se è vero che bisogna avere il coraggio di spingersi al di là di quelle "illusioni", d'altra parte la vitalità mostra sì un'esuberanza che rischiavamo di perdere, ma anche l'orrore. Quindi più che esaltare ed abbracciarlo si tratta forse di accettarlo, di sopportarlo.

Tutto ciò ci rimanda al §383, "La grande salute".
Inizia così: noi uomini nuovi (espressione molto più bella e meno ambigua di "superuomini") abbiamo bisogno di un nuovo mezzo per un nuovo scopo. Una nuova salute – più vigorosa, più temeraria, più gaia – per sperimentare la conoscenza della vita interiore di "un conquistatore e di uno scopritore dell'ideale, e così pure di un artista, di un santo, di un legislatore, di un saggio, di un dotto, di un devoto, di un profeta".
Una grande salute che possa sostenere lo sforzo per sprofondare in questi mondi, per capirne i meccanismi, per mostrarne i fondamenti nascosti.
E alla fine di questa grande avventura, "dopo che molto spesso incorremmo in naufragi e sciagure", a ricompensa di tutte le fatiche eccoci in "una terra ancora ignota, di cui nessuno ancora ha misurato con lo sguardo i confini, [...] un mondo ricco di cose belle, ignote, problematiche, terribili e divine".
Dopo un simile spettacolo "come potremmo noi [...] accontentarci dell'uomo di oggi?".
A precederci in questa terra sconosciuta, dice N., a mo' di guida, è un nuovo ideale: l'ideale di uno spirito che per esuberanza gioca con tutto quanto fino ad oggi fu detto sacro, divino. "Un ideale che apparirà spesso disumano". "Un ideale con cui comincia forse per la prima volta la grande serietà, con cui è posto per la prima volta il vero punto interrogativo".
#32
Citazione di: Phil il 07 Ottobre 2025, 21:50:32 PM[...] Provo comunque a seguirti: immaginiamo tutto il nostro sapere contemporaneo incarnato al punto da essere istintivamente connaturato al nostro agire, quale conoscenza guiderà istintivamente la nostra azione verso il prossimo (ad esempio)? Suppongo (ma potrei sbagliarmi) nessuna; perché se ci fosse una direttiva etica oggettiva e scientifica (soft) tale, l'etica diverrebbe una scienza dura, ma, come dimostrano più di duemila anni di pensiero umani, non lo è. E le scienze morbide non danno risposte univoche al punto da poter diventare una (sola) azione istintiva, poiché sono fatte anche di domande irrisolte, di interpretazioni, di dubbi, di aporie, etc. nulla che possa tradursi in un'azione spontanea degna di poter sintetizzare con un solo gesto tutta la conoscenza di quella disciplina (inclusi appunto dubbi, aporie, etc.).

Qui stai fraintendendo tutto, come se si trattasse di un programma positivista e di un'etica "meccanica".
Che il sapere realmente incarnato diventi istintivo significa solo efficace, concreto. Non è forse il problema della psicoanalisi far maturare la consapevolezza del paziente in modo che sia assimilata e diventi carne e spirito, non solo mente? Che non rimanga solo comprensione logica del problema?
In quell'aforisma Nietzsche non a caso parlava dei sapienti antichi e immaginava nel futuro uomini della conoscenza della stessa coerenza di un Parmenide.
Naturalmente non essendoci una dottrina da incarnare ma un sapere essenzialmente critico-distruttivo la domanda da farsi è se poi sia sufficiente.
Il paziente, "guarito" (per ora) dalla sua nevrosi, smontato i meccanismi di quel conflitto, esce dallo studio e di fronte a delle scelte si sentirà più libero. Ovviamente la sua esperienza conoscitiva non consisterà nel disporre ora di una norma generale di comportamento. Ma solo di poter soppesare le diverse possibilità senza le costrizioni che venivano dalla nevrosi. La scelta che alla fine farà non dipenderà da una verità acquisita su se stesso, ma dallo smantellamento di un errore (il disturbo).
E' in questo senso, allargando lo sguardo a un sapere più ampio, che bisogna intendere quell'aforisma.

"[...] le virtù del leggere bene – oh che virtù obliate e ignorate son queste!" [La gaia scienza, §383].
#33
Faccio un ultimo tentativo.
Il film lo abbiamo visto tutti. Proprio per questo è interessante immaginare un finale differente.
Dicevi che la scienza non può fornire obiettivi all'agire perché si occupa di studiare e di comprendere le cause e non di prescrivere norme di comportamento. Fin qui siamo tutti d'accordo. Nei brani della Gaia scienza indicati da me si dice anche questo. Cioè N. fa riferimento anche alla situazione pericolosa per l'umanità di ritrovarsi appunto bloccati per aver smontato (e capito i meccanismi di base) delle norme e in generale di tutto ciò che determina le scelte degli individui.
Ai suoi tempi il lavoro era appena iniziato. Noi possiamo contare su conoscenze molto più vaste.
In "Gaia scienza" il termine "scienza" va inteso come conoscenza rigorosa in un senso ampio non solo limitata alle scienze della natura non per una scelta arbitraria di N. ma per il semplice fatto che il termine tedesco, tradotto in italiano con "scienza", ha un significato diverso da come appunto viene inteso in italiano. Si sarebbe dovuto tradurre con "Gaia conoscenza", ma il termine "conoscenza" sarebbe risultato troppo generico, non in grado di rimandare al senso di una conoscenza rigorosa.
Ora, quando tu hai descritto la scena dello scienziato da laboratorio che finché rimane con il camice addosso può anche alimentarsi solo di conoscenze, ma quando poi appende il camice sente il bisogno di altro ed è mosso da sogni, speranze ecc., ecco è proprio questo il punto: questo è il finale da cambiare.
Immaginiamo quel sapere rigoroso, comprensivo di tutte le discipline (dalla matematica alla psicoanalisi), che sia nello stesso tempo però realmente incarnato, reso istintivo tanto da non permettere più la dismissione del camice (nel caso lo si usasse).
In questo modo alla domanda se la conoscenza sia in grado di fornire obiettivi all'azione non è così ovvio rispondere di no.
Che manchi appunto la determinazione a incarnare fino in fondo ciò che si arriva a conoscere? Questo è un salto che noi diamo per scontato che non avverrà mai (nella lezioncina a cui mi riferivo) perché appunto la conoscenza nel suo aspetto negativo di critica non ha ancora acquisito lo stesso radicamento della forza quasi istintiva di un'ideologia o di una religione.
L'invito era quello di lasciare da parte queste certezze, almeno per un momento, e riflettere su possibilità che certo ancora oggi sono lontanissime – e la dimostrazione di questa distanza sono io stesso a fornirmela (tenendo conto dell'evidente modestia del mio sapere) nel momento in cui finito di scrivere questo post e spento il pc vengo risucchiato dalla solita melanconia della sera e da fantasticherie varie. Quindi una consapevolezza che è sì presente in parte ma richiusi i libri e i taccuini (non dispongo di camice), si disperde, come se non fosse niente.
#34
@Phil
Tutti i brani di Nietzsche che ho riportato si incentrano sul tema della conoscenza.
Ho sottolineato almeno tre volte nel Topic che Nietzsche quando parla di scienza non intende riferirsi alle sole "scienze dure", ma ad una conoscenza organica e complessiva. Per intenderci, gli studi storici sul cristianesimo della seconda metà dell'Ottocento per N. sono scienza.
Detto questo, che senso ha allora il tuo riferimento dello scienziato nel suo laboratorio? Ovviamente l'esperimento mentale di N. sulle conseguenze di una vera incarnazione della conoscenza (tanto da fare di essa qualcosa di istintivo) non riguarda quel tipo di studioso, ma una figura di filosofo e uomo di scienza la cui immagine più simile mi sembra quella dell'intellettuale del Rinascimento.
Poi affermi che a differenza dello scienziato da laboratorio, l'uomo della strada ha bisogno di ideali e utopie per orientarsi nel mondo. Ma, ancora, N. non si sta rivolgendo all'uomo della strada. È l'uomo della conoscenza ad essere l'oggetto di questo esperimento. Se non si tiene conto di questo aspetto tutto il discorso perde completamente senso, e ci si ritrova a ragionare sul tema della necessità delle illusione e degli ideali.
Poi dici che la scienza non è in grado di orientare l'azione. Ovvio che la risposta sia no, ma la domanda che emerge – che ho cercato di far emergere – è se l'estrema consapevolezza dell'uomo della conoscenza che viene da un lavoro immenso di smascheramento non possa bastare come una specie di bussola morale (diciamo così) basata appunto sullo smascheramento stesso, sul negativo (la critica) che però in un suo dosaggio iperbolico non riveli alla fine con sorpresa un positivo (di natura però diversa dal positivo delle tradizioni).
Così come il sapiente dell'antichità era colui che non soltanto credeva nella verità della sua dottrina ma che la incarnava fino alle estreme conseguenze, così l'esperimento mentale che ci propone Nietzsche è quello di immaginare che cosa vorrebbe dire oggi per il filosofo incarnare veramente il sapere attuale senza riserve, senza lasciare spazio a regressioni domestiche ecc.

@iano
La mia critica non si rivolgeva a te, ma alla risposta di Alexander.

@Alberto Knox
L'opera di Nietzsche è un'opera aperta. Ci sono contraddizioni e parti indigeste. Non è mia intenzione difenderlo. Ma non credo che la tua interpretazione venga dall'effettiva lettura delle sue opere. Mi sembra piuttosto la ripetizione del cliché del Nietzsche darwinista sociale.
Infatti se la sua risposta fosse la legge del più forte, come si spiegherebbe la presenza in Umano troppo umano, Aurora e Gaia scienza di questo tema sulle possibilità e sulle conseguenze di una conoscenza "iperbolica"? Non penso si possa dire che l'uomo della conoscenza sia l'uomo forte, giusto? Se la risposta è la forza, la potenza, perché interrogarsi sulle ricadute della conoscenza dal punto di vista dell'orientamento nel mondo?
Non voglio polemizzare poi con la tua di risposta, cioè "il cuore" (anche se non mi sembra possa bastare, se vogliamo fare filosofia anziché accontentarci di suscitare in noi quei buoni sentimenti che ci fanno tirare avanti).
Noto soltanto che il tema era un altro. Il problema è che ciascun utente prende una frase e parte per la sua strada. La frase specifica viene usata per poter dire qualcosa, indipendentemente dall'argomento in oggetto. Nulla di male. Solo che il risultato è un insieme di monologhi che spesso procedono paralleli senza mai toccarsi.
#35
La filosofia così come le altre vere forme di conoscenza – scienza della natura e arte – si basa sull'immaginazione. Immaginare possibilità e sviscerarle.
Di fronte quindi alle sollecitazioni che vengono dal testo di Nietzsche è inutile sia chiedere ironicamente delle risposte – tu non sei in grado di pensare? – così come ripetere la lezioncina che conosciamo tutti su scienza, etica e relativismo.
Inutile andare avanti, quindi.

Un ultimo commento però, perché l'aforisma in oggetto intitolato "La coscienza", si lega a §7.
Si tratta di §11, un brano eccezionale.
Si parte dalla constatazione che nella nostra civiltà si tende a dare grande importanza alla coscienza, rimuovendo le sue intermittenze. In verità, dice N., se non fosse per la presenza di istinti possenti, le fantasticherie e gli errori della nostra coscienza ci avrebbero già da tempo condotti all'estinzione.
Ma proprio questa sopravvalutazione, e quindi il fatto che non ci si impegni a svilupparla, fa sì che, rimanendo un abbozzo, sia facilmente piegata dagli istinti vitali.
Ma è ancora una volta la conclusione dell'aforisma a colpire: ancora oggi, dice N., rimane un compito del tutto nuovo "incarnare in se stessi il sapere e di renderlo istintivo".
#36
In §7 abbiamo una versione simile al contenuto del brano "Origine della conoscenza", ma forse più interessante, almeno dal punto di vista dell'argomento di questo Topic.
Mi spiego. Il brano inizia con la considerazione che la conoscenza deve ancora portare avanti ricerche su tutto ciò che finora "ha dato colore all'esistenza".
Mancano ricerche "sulla coscienza, sulla devozione, sulla crudeltà", ma anche su aspetti concreti della vita degli uomini come gli influssi morali degli alimenti e del clima. Vastissime ricerche, insomma, di natura filosofica, psicologica, antropologica.
E conclude:
"Posto che siano effettuate tutte queste operazioni, comparirebbe in primo piano il più scabroso di tutti i problemi: se la scienza, cioè, sia in grado di fornire obiettivi all'agire, una volta che essa ha dimostrato di poterli raggiungere e demolire — e sarebbe allora [...] un lungo sperimentare di secoli che potrebbe mettere in ombra tutte le grandi opere e i sacrifici della storia finora trascorsa. Sino a oggi la scienza non ha ancora elevato le sue costruzioni ciclopiche: verrà il tempo anche per questo." [Sottolineatura mia].
Ma che cosa sono state l'etnologia e l'antropologia del Novecento, la psicanalisi, la filosofia contemporanea, se non la realizzazione (parziale) di questo grande progetto conoscitivo?
Da questo punto di vista, il tema della creazione di nuovi valori perde ogni interesse. Ci si chiede infatti: e se invece fosse sufficiente la demolizione delle nostre illusioni su noi stessi e sugli altri? Se bastasse la consapevolezza dell'origine ambigua di ogni virtù e di ogni vizio – non dico per essere operatori di pace – ma almeno per dirsi: ma non vale la pena sprecare tempo ed energia in questa guerra! C'è ben altro da indagare e sperimentare che non sia l'odio per il mio nemico, che so essere un'accozzaglia di condizioni contingenti, mie e sue, personali e storiche! Ma insomma dedichiamoci a qualcosa di serio!

Un luogo comune che si sente spesso è: la scienza ha fatto e fa passi da gigante, l'etica non tiene il passo.
E se invece bastasse l'ethos dello smascheramento? Dobbiamo per forza fingere di avere nuova fede in certi valori? Ci tocca ancora una volta ricostruire da capo la retorica sulla gentilezza, sulla generosità, sull'amore verso l'altro? Non è abbastanza evidente che non funziona con homo sapiens?
#37
In aggiunta al post precedente.
L'ateismo non è una verità positiva. È verità solo nel senso di smascheramento di un errore antico.
Il materialismo invece ha un suo specifico contenuto. È una metafisica.
Ora, l'ateismo, in quanto confutazione di immagini tradizionali, non ha quello status di verità di cui dicevo nel post precedente, cioè uno status del tutto simile a quello dell'errore. Non si pone sullo stesso livello di invenzione utile alla vita in cui si pone la religione. Non è un'interpretazione del mondo che prende il posto di quella tradizionale. È solo una negazione che viene dal processo della conoscenza. Dallo sviluppo della critica su storia e antropologia.
Per il materialismo invece le cose stanno diversamente. Qui sì che si combatte ad armi pari con le altre metafisiche. In questo senso lo si può definire errore o verità solo in base a ciò che il soggetto conoscente (spesso inconsciamente) ritiene sia utile alla conservazione di sé e della propria specie. Ma dal punto di vista epistemologico non c'è differenza rispetto a dottrine quali il neoplatonismo.
Se mi ingegno per trovare e definire questa differenza vuol dire che sto lavorando (inconsciamente o meno) in funzione di un'utilità per la mia vita (cioè per qualche ragione ritengo sia più utile il materialismo). Ma se sono filosofo, come ho spiegato sopra, il sospetto che il mio lavoro sia solo funzionale alla mia vita, deve esserci. Il che mi deve far ammettere che pensare al materialismo come verità e al neoplatonismo come errore sia da ingenui.
#38
Se leggi i brani di Nietzsche a cui mi sono riferito finora, vedrai che il termine "verità" viene usata in due modi:
1. la verità come smascheramento di idee antiche, che una volta confutate appaiono come errori;
2. poi, nella prosecuzione di questo processo di indagine, la verità come oggetto stesso della critica; qui, mostrando di avere un'origine simile a quella dei pregiudizi antichi, cioè di venire dalle stesse forze utili alla conservazione della vita, finisce per perdere il suo status speciale.
Conclusione del cammino della conoscenza: errori e verità non si distinguono dal punto di vista epistemologico. Sono entrambi funzionali alla vita. Le verità di oggi saranno presto smascherate. Fino a quel momento l'uomo della strada le considererà appunto verità nel senso del realismo, cioè nel senso di rappresentazioni adeguate a esprimere la realtà.
Ma il filosofo no, la conoscenza filosofica è appunto questa: tenere ferma questa conclusione e accettare il paradosso. Che è l'effetto dell'estensione del processo di critica alla critica stessa. Infatti se la ragione è uno strumento utile alla vita, se non è quindi uno strumento puro, incontaminato, universale, allora tutti i suoi prodotti, compresa l'analisi filosofica dello stesso Nietzsche, non sono altro che prospettive utili alla vita. Anche là dove si presentano come disinteressate e neutre, la loro origine resta spuria.
D'altra parte il filosofo non è mai solo tale, cioè è anche uomo della strada. Per cui la sua interpretazione della vita sarà un miscuglio di errori e verità ma con la consapevolezza (quando si ricorda di essere filosofo) che tali verità sono sullo stesso piano degli errori. Questa è la condizione nuova della filosofia contemporanea, per quanto la tendenza alla regressione nel realismo sia sempre in agguato.
L'esperimento è questo: quanto smascheramento siamo capaci di sopportare? E in più, andando un po' più a fondo: quanto riusciremo ad essere creatori di nuovi valori, di nuove prospettive, essendo consapevoli dell'origine spuria di questa stessa attività? Quanto riusciremo ad abbandonarci in questa avventura sapendo che è sempre lo stesso gioco?
#39
La morale della favola si è sempre rivolta agli individui, non alle società. Ed è valida oggi così come nell'epoca agricola. Infatti con la fine dello stato sociale se ti ammali e non hai risparmi di tocca rinunciare alle cure. Tanto per fare un esempio.
Mentre per le aziende la favola non ha mai avuto senso: non hanno mai pensato di accumulare risorse per sopravvivere perché sarebbe stata una strategia suicida, piuttosto sono sempre state spinte a ingrandirsi, indebitarsi, ecc.
Quindi i beni immateriali a cui ti riferisci tu, per gli individui, non capisco quali sarebbero? Reti di relazioni sui social? Dobbiamo pensare ad archivi digitali personali come beni economici, che però a differenza di quelli classici si lasciano con difficoltà accumulare?
Questo presuppone l'idea neoliberista tradotta nell'economia digitale secondo cui il cittadino non smetta mai di svolgere un ruolo economico, che debba sempre in qualche modo produrre, quando non consuma. Scrivere recensioni gratuite, inviare like, mantenere relazioni con centinaia di amici facebook e via dicendo.
Certo tutto questo non è facilmente accumulabile come lo è invece un compenso per una prestazione lavorativa.
Qualcuno in questo forum parlando del proprio impegno diceva: peccato non essere pagato...
#40
Citazione di: niko il 01 Ottobre 2025, 13:07:31 PMInsomma la post modernita', e' tutta nell'affermazione che la verita', non si lascia esaurire dalla conoscenza. Per non parlare di manipolazione, pubbicita', iperealismo, propaganda, psicologia delle folle.


Credo che la post modernità stia piuttosto nell'affermazione che la verità, così come l'abbiamo intesa fino alla filosofia di inizio Ottocento, non esiste.
Parlare di una verità che non si lascerebbe del tutto conoscere significa invece presumere che tale verità esista.

Esempio dell'inconscio: esiste una mia verità? Se mi inventassi un metodo per far fronte ai processi di rimozione riuscirei finalmente ad attingere la mia verità? O comunque ad avvicinarmi ad essa?
Nietzsche non credo avrebbe sottoscritto questa idea che ha alla base tutto sommato un apparato positivista. Per lui non esiste alcuna verità ma il soggetto, così com'è in questo momento, è piuttosto una prospettiva che esce fuori da quella battaglia di forze diverse ecc.

Comunque se vogliamo dire che c'è sintonia tra quello che hai scritto sulla cultura del Novecento e la filosofia di Nietzsche, ok, certo, è così.
Ma se vogliamo andare ai brani della Gaia scienza o anche di Umano troppo umano, il modo con cui è trattato il tema della conoscenza ha un taglio diverso. Ho cercato di spiegarlo nel post precedente.

Considera che io sto leggendo i brani di Nietzsche con questa domanda sullo sfondo (che è una domanda tutta mia, magari gli altri la considerano un'idiozia, non so):
un uomo interessato alla conoscenza, che è passato attraverso la filosofia contemporanea, quindi attraverso la grande ondata di scetticismo del '900, può rivolgersi alla scienza moderna con la realistica speranza di fare della gaia scienza?
Che sia magari necessario modificare atteggiamento? Cioè essere più liberi (per quanto si può essere liberi dovendo maneggiare la matematica), meno ossessionati dalla ripetizione oggettiva del sapere dentro di sé, più orientati all'aspetto ipotetico, problematico, sperimentale?
Oppure al contrario, la scienza moderna, essendo che alla sua base assume senza riflessione un punto di vista realista, lo assume d'istinto, non può che rimandare ad un sapere duro, serio, pesante e quindi addio gaia scienza?
#41
@Phil
Sarò sincero: la tua lettura, per quanto ingegnosa, mi sembra fine a se stessa. Una specie di performance di virtuosismo interpretativo che non ha come obiettivo chiarire il brano o il pensiero di Nietzsche, tanto meno rispondere alla domanda del topic sulla gaia scienza.
È molto lontana dallo spirito del brano che dovrebbe interpretare, e in generale dall'atteggiamento che Nietzsche mostra nel suo complesso quando tratta della conoscenza, da Umano troppo umano a La gaia scienza.
Infatti proporre la possibilità che N. immagini una verità che non si fa del tutto esaurire dalla conoscenza, rendendo così possibile ancora e per sempre l'avventura della scienza, significa rimanere nei pressi di una concezione realista del sapere – anche se con la domanda finale dell'aforisma si rimanda ad un misterioso limite –. Se fosse così N. sarebbe caduto in una clamorosa regressione filosofica. A me sembra impossibile. Rileggo allora quel brano e ne faccio una sintesi più accurata.

Brano n.110, "Origine della conoscenza"
Per lunghissimi periodi l'intelletto umano non ha creato altro che errori. Alcuni di questi errori si rivelarono utili alla sopravvivenza e furono tramandati alle generazioni successive.
"Tali erronei articoli di fede sono per esempio [...] che esistano cose uguali, che esistano cose, materie, corpi, [...] che il nostro volere sia libero, che quanto è per me bene lo sia anche in sé e per sé".
Solo molto più tardi si iniziò a mettere in discussione la fondatezza di questi convincimenti di base.
E si presentarono dei pensatori che vollero non solo sostenere certe idee opposte, ma anche incarnarle. Venne così inventato il saggio. Che però, per essere coerente con la sua dottrina, dovette "negare il potere degli istinti nella conoscenza, e concepire in generale la ragione come attività pienamente libera scaturita da se stessa".
Questi primi saggi (Nietzsche fa l'esempio degli Eleati) furono spinti a negare il fatto che la loro dottrina era funzionale alla vita – ad una specifica forma di vita. Anche la loro verità era cioè utile alla vita, per quanto in modo indiretto e nascosto rispetto agli errori utili della tradizione.

Quindi ricapitolando: con un'operazione apparentemente contro-natura i primi filosofi concepiscono il logos come autonomo e universale, come uno strumento disinteressato. Ma in realtà tale operazione è funzionale alla costruzione di una determinata forma di vita. Operazione non necessariamente finalizzata all'ottenimento di prestigio e potere. Poteva essere anche il desiderio di porre una distanza rispetto al caos della vita e della società. Elevare una barriera immunologica al divenire o anche soltanto all'idiozia degli uomini.

Dopo i primi filosofi-sapienti, l'istinto alla verità – con lo scetticismo – si espande e finisce per mettere in discussione ogni posizione, ogni dottrina.
"La conoscenza [...] si trasformò in una potenza continuamente crescente: finché da ultimo ogni conoscenza e ogni originario errore di fondo vennero in urto tra di loro, entrambi come vita, entrambi come potenza, entrambi nello stesso uomo".

Poi si conclude con il brano che ho trascritto nel post n.23.
In esso Nietzsche dice che il pensatore, oggi, è la creatura in cui lo scontro tra verità ed errori utili ha una nuova forma in quanto si è dimostrato (paradosso della conoscenza che indaga anche se stessa) che l'istinto di verità è una potenza intesa alla conservazione della vita.
Questa consapevolezza cambia completamente le carte in tavola. Perché? Forse perché la verità perdendo il suo statuto non può che essere soggetta a sistematici sospetti. E gli errori utili alla vita, riabilitati – diciamo così – si fanno più resistenti alla critica della ragione.
In questa battaglia per Nietzsche "si pone il problema ultimo della condizione della vita e si fa il primo tentativo di rispondere con l'esperimento".
E conclude con la frase oggetto del nostro dibattito:
"Fino a che punto la verità sopporta di essere assimilata? – questo è il problema, questo l'esperimento".
Secondo me l'esperimento è quello che vive l'uomo della conoscenza che non potendosi più fidare del tutto dell'istinto alla verità si ritrova a dover navigare a vista sperimentando alchimie personali di verità ed errori, scienza e natura, filosofia e arte.
Il che mi porta a chiedermi se la "gaia scienza" sia proprio quel tipo di conoscenza che porta  alla costruzione di questi aggregati artigianali o alchimie personali.

L'espressione "gaia scienza" viene nominata due volte. In §1 la gaiezza viene descritta come l'esito del processo della conoscenza. La conoscenza infatti smascherando le pretese tragiche delle dottrine religiose e morali, rivela l'immagine autentica della vita: una commedia.
Il riso come l'effetto della verità, quindi. Per questo motivo si può dire che la conoscenza e il riso alla fine si ritrovano uniti. Ma il procedere che porta a smascherare la tragicità della vita di per sé non ha niente di gaio. Non è un processo conoscitivo creativo, leggero ecc. Niente di tutto questo. Qui abbiamo la serietà dell'indagine filosofica che fa a pezzi le idee che vogliono ancorare la vita ad un senso etico, religioso, metafisico.

L'altra citazione si trova nella Prefazione del 1887: "Gaia scienza: vuol significare i saturnali di uno spirito, che ha resistito con pazienza a una lunga, orribile oppressione [...] e che ora, tutt'a un tratto, è invaso dalla speranza, dalla speranza di salute, dall'ebbrezza della convalescenza".
Qui per "gaia scienza" N. sembra voler intendere un ribaltamento: dopo il pessimismo, dopo la distruzione delle illusioni, dopo lo smascheramento cinico dei fondamenti della civiltà, dopo questa fase di malattia, ecco la gioia della convalescenza (notare: non dice guarigione; parla di speranza di salute). Quindi un nuovo inizio.

In conclusione qualche domanda: la contrapposizione drammatica tra arte e filosofia, presente nei testi precedenti di N. – da arte come soluzione e antidoto al dramma della vita ad arte come suggestione che viene scalzata dalla filosofia, dalla scienza –, sembra ricomposta. Il filosofo da qui a qualche mese inizierà lo Zarathustra, il suo poema. Sarebbe questa una prova di "gaia scienza"? Una semplice questione di comunicazione filosofica? Di forma espressiva? E poi: nel rapporto con le scienze della natura, come si fa a portar avanti una conoscenza che sia anche gaia?
Tornare a riflettere sul Rinascimento?
#42
Citazione di: daniele22 il 29 Settembre 2025, 11:21:22 AM
Non avendo fino a oggi cavato un ragno dal buco, mi chiedo comunque ancor ora quale peso abbiano i sesterzi sulla psiche.. si intenda: se la fame di verità sta nell'istinto, dovreste semplicemente mangiarla. Io l'ho mangiata, sono rimasto sorpreso, ma mi è piaciuta.. beato me. Per male che vi vada dovreste solo digerire un boccone amaro, ma a mio vedere salutare e perfettamente assimilabile.
La verità è sempre dialogica finché siamo confinati nel tempo ed è inesauribile poiché la dialogicità è sempre promossa dai problemi del tempo in cui si vive.
Se la conoscenza è funzionale alla vita, sia nella sua opera di smascheramento sia nella costruzione di ipotesi utili all'esistenza, allora essa non ha mai un esito definitivo.
Cioè non conclude né in una verità assoluta (che sia metafisica o meno), né in quella del relativismo. Dirsi: ecco, abbiamo capito che la verità è legata alle vicissitudine della storia, che è interpretazione, ecc., non comporta mai che tale processo si fermi.
Anche questa ipotesi, come tutte, – la verità come interpretazione –, verrà un giorno sezionata e smascherata.
Il boccone che dici di aver mandato giù – l'istinto alla verità, la passione per la verità (se ho capito bene quello che hai scritto) – mi sa che ti toccherà di nuovo e per sempre inghiottirlo, almeno finché sarai soggetto al fascino della conoscenza.
C'è naturalmente anche l'opzione "ultimo uomo" (che Nietzsche descrive nel Prologo dello Zarathustra): sa che Dio è morto ma rimuove il fatto di trovarsi nei pressi dell'abisso.  Tappa il buco con la sicurezza, il benessere, una cultura "leggera". Sicuramente è democratico e fautore del dialogo, così può stare in compagnia...
#43
Nel post n.23 io non ho fatto una traduzione ma una sintesi semplificata. Infatti l'ho preceduta dal termine "Sinossi:".
La traduzione dell'edizione Adelphi (che è ovviamente quella di riferimento per le opere di Nietzsche), nel punto indicato da Phil, è la seguente:

"Il pensatore: questo è ora l'essere in cui l'istinto della verità e quegli errori utili alla conservazione dell'esistenza si scontrano nella prima battaglia, essendosi dimostrato che anche l'istinto di verità è una potenza intesa alla conservazione della vita. In rapporto all'importanza di questa battaglia tutto il resto è indifferente: qui si pone il problema ultimo della condizione della vita e si fa il primo tentativo di rispondere con l'esperimento a questo problema. Fino a che punto la verità sopporta di essere assimilata? – questo è il problema, questo l'esperimento".

Dal momento che in Nietzsche la verità è una costruzione umana, dal momento che Nietzsche non fa mai ragionamenti ambigui come quelli di Heidegger su una verità che misteriosamente prende l'iniziativa e si manifesta da sé, io l'ho interpretata in riferimento alla battaglia tra conoscenze utili alla conservazione della vita e verità che le smascherano, pur essendo tali verità, in generale la ricerca della verità, una potenza anch'essa utile alla vita.
Cioè ho interpretato il passo intendendo come soggetto il pensatore che fa l'esperimento di questa battaglia dentro se stesso, per cui la frase va intesa nel senso: quanta verità può essere assimilata. Verità che distrugge, ma verità che è nello stesso tempo l'espressione di un istinto comunque funzionale in qualche modo alla vita. Perché appunto la condizione nuova è la consapevolezza di questi due aspetti attinenti la ragione, che non può più essere intesa come una facoltà pura, distaccata dalla vita.
Naturalmente chi non è d'accordo è libero di esprimere interpretazioni differenti, anziché limitarsi a interrogativi sulla bontà della mia lettura. Io infatti non sono qua a cercare di dimostrare alcunché. Non ho una tesi specifica da difendere. Non a caso il titolo del topic è "Alla ricerca della gaia scienza", e non "Cos'è la gaia scienza".
#44
Citazione di: green demetr il 26 Settembre 2025, 17:46:33 PMDopo aver letto Montinari capisco che Nietzche non è mai andato oltre Umano Troppo Umano. La sua opera finale è infatti l'Anticristo.
La gaia scienza rimbalza di nuovo nella sua impossibilità.
A mio modo di vedere togliendo la morale Nietzche si è auto-sabotato.
E' normale che sia tornato al punto di partenza, e anzi si sia definitivamente ammalato.
Naturalmente sono ben conscio che quando lui attacca la verità, in realtà sta attaccando la menzogna.
Putroppo dopo di lui, tutti hanno finto che la verità non sia una ridicola menzogna.
E questa menzogna si chiama cristianesimo, non si scappa.
Il vittimismo soverchiante di chi è abitato dalla volontà di potenza, la sua menzogna in tutte le salse, non si chiama forse scienza?
E' la scienza a essere ridicola nell'affermare di poter dire il vero.
Quando è un semplice psicologismo. E anche da lì non si scappa.
Non vorrei davvero tornare a dove citare heideger, ma la sua critica alla scienza mi pare ancora citabile. Lasciando perdere tutto il resto della sua squinternata "visione del mondo".
Nietzche si riferisce a quello che i greci sapevano già molto bene, ossia che è la phisis stessa a essere la risposta ai quesiti dell'uomo.
Quando guardiamo un monte, un lago, un mare: gli uomini impazziscono divorati dalla loro nevrosi, e loro sono sempre là, imperturbabili. La natura regna, il resto sono solo scuse di un epoca impazzita nel momento in cui ha deciso che non esiste più un Dio.
Ciao green.
Non sono sicuro di aver capito quello che intendi dire. Come si può criticare e dissolvere la metafisica e la religione senza intaccare l'insieme di quei valori etici che derivano da esse?
Subito dopo Umano troppo umano, in Aurora e poi in Gaia scienza, Nietzsche mi sembra faccia i conti con la conoscenza. Conoscenza che è appunto smascheramento delle menzogne religiose e metafisiche, ma anche conoscenza in quanto passione (che lui conosceva bene).
Un'opera aforistica, come fa notare Montinari in "Che cosa ha detto Nietzsche", è sempre un'opera aperta.
Io ho l'impressione, mentre leggo questi testi, di rimbalzare dall'uno all'altro affrontando gli stessi nuclei tematici da visuali però differenti.
Lo spirito libero di Umano troppo umano diventa così l'uomo della conoscenza di Aurora e Gaia scienza. Il quale poi con l'idea dell'eterno ritorno è chiamato a fare un salto di qualità, diciamo così, ad andare oltre se stesso, ad essere "superuomo".
Belle le pagine di Montinari dedicate alla fase preparatoria dell'idea dell'eterno ritorno. Cioè la ricerca da parte di Nietzsche di un'attendibilità scientifica di essa attraverso la consultazione di alcuni testi di fisica di quel tempo. Sembra che comunque – così dice Montinari – la sua ricerca puntasse a trovare le prove della non contraddittorietà dell'eterno ritorno (non contraddittorietà rispetto alle conoscenze scientifiche del tempo). Affinché rimanesse in piedi l'ipotesi, insomma. Così da poter dare frutti.
Ancora oggi sembra che per tenerla in piedi ci si possa rivolgere a certe speculazioni cosmologiche bizzarre sì ma possibili. Nonostante il problema rappresentato dall'entropia.
#45
Attualità / Re: La flottilla
28 Settembre 2025, 13:57:50 PM
@niko 
Hai voluto fraintendere il mio post.
È evidente che indicare la causa di un evento bellico non significa legittimarlo, né dal punto di vista del diritto internazionale né da quello etico.
Far finta che il bombardamento di Gaza non abbia una causa specifica, cioè l'attacco del 7 ottobre, e farlo passare come un piano di annientamento della popolazione palestinese in quanto tale, è un errore.
Questo non toglie l'orrore di ciò che sta accadendo, non toglie che la scelta di Israele poteva essere completamente diversa, così come gli alleati avrebbero potuto risparmiare Dresda.