Citazione di: iano il 27 Giugno 2025, 13:20:57 PMSono giudizi di parte, ma non affrettati, se non per quella parte in cui vengono forzati per non restarvi invischiati a vita. Io non cerco coerenza nel mio pensiero, ma sono felice di verificarla a posteriori, come il prodotto di un pensiero libero, che rimane comunque sempre uno fra i tanti possibili, da difendere per quel che è, e non per il prestigio che ne posso ricavare.Colgo l'occasione che offre l'utente "iano", la cui posizione è emblematica, per lasciare un ampio discorso necessario, senza dover sottostare ai tempi lunghi dell'editoria.
Per quello che posso capire, e sarò lieto delle tue dotte correzioni, l'espediente di Platone per salvare l'essere e le idee è di sdoppiare l'uno riservando ad ognuno il suo spazio esclusivo.
Non contesto il fatto in sè, perchè l'uno è fatto per essere moltiplicato in una sua descrizione, ma il motivo per cui Platone lo fa, per salvare capre e cavoli, essenti e idee.
In questo modo però gli elementi della descrizioni prendono pregiudizialmente il posto di ciò che viene descritto, cioè dell'uno, o come preferisco dire, della realtà, intesa come mistero che tale rimane, contro la pretesa di poterla conoscere.
Ciò che noi sappiamo è solo come interagirvi, e non c'è un solo modo di farlo, ed ogni diverso modo di interagirvi corrisponde una diversa possibile descrizione nella misura in cui si mostra efficace..
Se dopo aver salvato capre e cavoli si vuol salvare anche la verità si potrà dire che le diverse descrizioni storicamente si susseguono approssimandosi alla verità, ma questa oltre ad essere una arbitraria illazione, e anche un assurdità che si può sostenere solo tacendola.
E ciò che si tace è che questa verità, essendo fatta di parole, darebbe alla parola un potere soprannaturale.
E' il Dio, che facendosi verbo non si degrada, ma trasferisce la sua divinità alla parola.
La stessa cosa si può dire affermando che Dio si è fatto uomo, cioè colui che possiede la parola.
Non è la conoscenza, e in particolare le teorie fisiche, ad approssimarsi alla verità, ma esse progrediscono nel farci sempre più padroni della parola con cui le esprimiamo, e che nel suo progredire oggi diremmo più propriamente linguaggio matematico.
Esso però non toglie perciò validità ad altri linguaggi, come quello usato in filosofia, e anzi di esso/essa la scienza non può fare a meno.
Per quanto il linguaggio matematico sia andato ben oltre le originarie parole, non troverai trattazione matematica che di quelle parole possa fare senza per essere compreso, ad eccezione che affidare la questione ad una macchina , che essendo priva di comprendonio, potrà farne effettivamente senza.
Il linguaggio matematico senza quello filosofico diventa muto. Sicuramente non bisogna dimenticare i poteri della filosofia e io non l'ho fatto. Ma il linguaggio matematico non è il linguaggio della conoscenza. Le scienze empiriche sono tante e nessuna assurge, né fisica né matematica... né neurologia né sociologia... né psicologia - alcuni vedono al vertice il metodo psicoanalitico e si sbagliano di più, innanzitutto perché i metodi sono solo metodi, quindi perché le analisi non sono teorie.
A parte il fatto che tu non hai considerato questi limiti delle scienze empiriche - quelle oggi perlopiù indicate come la totalità della scienza, ma non continuo con questo per non entrare nel merito di questioni linguistiche - io noto che tu porti avanti una posizione intellettuale agnostica. Entro questa posizione ti muovi con alquanta coerenza, ma i rapporti con gli altri?
La visione agnostica non è fatta per interagire con tutto. Conoscenze misteriose non sono allontanamenti dalla verità. Tu dici del mistero della realtà e di dover agire in e con essa, e affermi che in relazione a questa azione si produce la verità. Ma questo piano relativo non è l'unico. Se noi consideriamo le imprese nella vita, troviamo che con esse si raggiungono verità ultime, ma non nel senso che esse ineriscono alle imprese. Come lo schiudersi di una porta: dopo l'impresa si ottiene una verità sulla vita, non sull'impresa stessa. Questo è pragmatismo, quel che tu sostieni è prassi.
Mentre si ignorano verità ultime si vive al cospetto della realtà ultima e questa non appare differente a chi ignora e ciò è problematico.
Durante l'evo antico prima della diffusione e del prevalere del cristianesimo nel mondo ellenista si pensava a un generico astratto logos che poteva essere sia Dio che mondo. Quale astrazione del pensiero, una potenza strabiliante; ma le esigenze di vivere ancora o sopravvivere rendevano necessaria l'attenzione sulla differenza Dio/mondo. Solo con la fede cristiana si definì il Logos assoluto in distinzione netta dal relativo logos, riconoscendo che il primo non era gestibile arbitrariamente, che fondamentalmente procede da sé stesso. Storicamente va riconosciuto che il pensiero neoplatonico afferma che del logos non se ne dispone. Durante l'evo moderno riappare l'indistinzione, ma secondo il concetto di ragione. Si sa dei fasti e delle esagerazioni dell'Illuminismo. La dialettica e il razionalismo possono essere da un lato esenti dalla debolezza di chi pensa un logos generico, dall'altro lato ne possono essere una estremizzazione. Possiamo e dobbiamo farci una ragione di tutto, ma si tratta di un costrutto. Per questo l'identità di realtà e razionalità rischia di diventare un idolo e di fatto accadde - da qui le polemiche contro Hegel.
Ritornando all'indistinzione, l'agnosticismo può sembrare il modo di pensare più obiettivo. Di fatto l'hegelismo tendeva a fare dei costrutti razionali la chiave per comprendere e risolvere tutto, filosoficamente ciò è un relativismo polemico contro qualsiasi assolutismo. Con Feuerbach, Marx e i marxiani tale tendenza diveniva estrema, antiteologica ed antireligiosa, disconoscente la tradizione filosofica e i valori della filosofia occidentale. Si usava e si usa la prassi in opposizione alla teoria ma ciò non deve ingannare perché non esiste prassi priva di presupposto teorico e allora l'opporsi è solo apparente. Prevale così una cieca identificazione tra realtà e ragione.
Se procediamo considerando l'Assoluto e il relativo in qualità di verbo, ciò implica azione e ragione; ciò che è verbale in distinzione da ciò che è logico è dello stesso piano della dialettica razionale. Per un verso si evitano i conflitti tra pratiche della logica e della dialettica, per altro verso con tanta rigorosità in più l'illusione sui costrutti razionali può farsi più tenace fino all'inganno.
Agnosticamente tacendo la opposizione Dio-mondo - che non è un contrasto! - ci si attesta su un registro linguistico panteista; e il verbo si costituisce come alternativa della parola, perché questa contiene anche l'irrazionale, al contempo lo stesso generico verbo ruota sempre attorno a un generico logos. Se detto logos non serviva, non serve adeguatamente alle esigenze vitali, la sopravvalutazione di detto verbo diventa servizio di morte. Muoiono sentimenti importanti e finiscono emozioni preziose, ma ciò solo nelle premesse, perché nel restante ci sono le morti concrete degli esseri.
Hegel, non Leibniz, costruiva una teodicea filosofica dove il riconoscimento, nella storia anche dei suoi tempi, di un macello accadeva non durante una impresa per uscirne o farne uscire ma in una prassi che lo assumeva fatalisticamente come passaggio necessario. Ugualmente Marx, anche se questi rovesciava i termini della questione: non i gendarmi armati di fucili ma la plebe armata di pietre e il relativo macello erano assunti a passaggio necessario. Così la mondanità assunta a rimedio della mondanità andava producendo il disastro del totalitarismo, nel XX° Secolo devastante, consistente nel porre in atto una conclusione razionale senza tollerare quella altrui anzi facendo della propria la chiave universale di azione e realizzazione. Solo se si resta o si torna alla distinzione Dio/mondo, Logos/logos, Verbo/verbo, se ne viene a capo. Però procedendo nella illusione che la posizione agnostica sia punto di vista privilegiato, si perviene alla supervalutazione della generica parola, secondo l'illusione che l'alterità psicologica sia l'unica. Questo disastro finale è ravvisabile nell'esistenzialismo marxista. L'ammissione delle illusioni sulla ragione cedeva ad inganni sulla irrazionalità: la rabbia proletaria eletta a giudizio assoluto, a comando irreprensibile; il sentimento della fine di un'epoca trasformato in sentimento antioccidentale; lo spettacolo del negativo esibito come cifra del reale, di un reale nemico che non si rispetta sognandolo morto... le interpretazioni estreme della noia (Sartre), della peste (Camus) e quindi la falsa certezza che i regimi liberali e soprattutto le istituzioni religiose e spirituali che li sostenevano terminassero da sole, la speranza che la sindrome di immunodeficienza acquisita fosse la punizione per "i borghesi", per "i ricchi del mondo", constatando invece che essa non era il frutto di un vizio benestante ma in massima e decisiva parte la conseguenza di una scelta di vita incautamente edonista, in cui la medicina faceva effetto contrario: il rimedio materiale idoleggiato, senza accorgersi che la guarigione deve partire da una disposizione interiore, compiacendosi dei farmaci, diventa oggetto che fiacca, indebolisce, perturba, distrae. E' purtroppo nel tentativo mistico della estrema sinistra di sostituire allo Spirito la Materia il punto debole per un immenso numero di guai e difficoltà.
Il concetto di differenza ontologica Essere/ente viene in aiuto quanto quello della reductio ad unum, nel pensiero contemporaneo declinato fenomenologicamente. Se si resta o ci si arresta ai fenomeni, se per salvare l'idea si smarriscono i fenomeni o viceversa, non se ne verrà mai a capo. Unità ed essere sono una compresenza necessaria. Non è possibile far fronte alle necessità senza volgersi a un trascendente Uno e senza distinguere l'essere dal nulla, Dio dal mondo.
MAURO PASTORE