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Messaggi - Illuminismo Bastardo

#1
@iano
Le tue parole mi hanno portato il desiderio di spostare lo sguardo, anche solo per un momento, dal pensiero alla radice da cui il pensiero nasce.
Mi sento accolto nel modo in cui ti poni, e questo mi dà agio nel condividere qualcosa che per me ha un'origine più personale che teorica.
Metafold non è nato da un bisogno di dire, ma da quello di ascoltare meglio.
È la forma che ha preso, lungo il tempo, un'esperienza maturata in cammino con il Dharma.
Là dove tutto è interdipendente, e nulla esiste da solo,
mi è sembrato naturale iniziare a pensare la realtà non più come somma di cose,
ma come un campo vivo in cui ogni cosa si definisce solo nel modo in cui tocca, e viene toccata.
Non ho scelto di scriverlo per fissare qualcosa, ma per accompagnare la trasformazione che già accadeva.
Un tentativo di camminare con le parole senza perdere il silenzio.
Anche per questo non sento le differenze come fratture.
A volte, quando due prospettive non si sommano, si apre uno spazio in mezzo —
e può darsi che sia proprio lì, tra due modi di intendere, che qualcosa cominci a respirare.
Grazie per aver reso possibile anche questo tipo di deviazione.
A piccoli passi, continuo a camminare anche qui.
#2
@Tutti
Leggendo gli ultimi interventi — intensi, articolati, a tratti anche divergenti — mi rendo conto che la proposta iniziale di Metafold ha toccato qualcosa di più profondo di quanto avessi previsto. Non tanto per il contenuto specifico, quanto per il modo in cui sollecita lo sguardo a cambiare scala.
Mi permetto allora una breve parentesi di riepilogo metodologico, prima di proseguire.
Metafold nasce come modello speculativo, sì — ma non nel senso di "arbitrario" o "visionario". Speculativo, in questo caso, significa costruito a partire da relazioni logiche interne, aperto alla complessità, e disposto a spingersi dove i modelli tradizionali si fermano per mancanza di linguaggio.
Non pretende di sostituire la fisica, né la metafisica. Piuttosto, prova a metterle in relazione attraverso una struttura coerente che assume come elementi fondamentali: la pressione del possibile, la curvatura relazionale del campo e il collasso come gesto originario di coerenza.
So bene che molti dei termini utilizzati — come campo silente o gesto di collasso — non hanno una collocazione consolidata nel linguaggio accademico. Ma non per questo sono privi di rigore. Ognuno di questi concetti è definito nella sua funzione all'interno del modello, e inserito in una logica di soglia, tensione e non linearità, che può essere discussa o messa in dubbio, ma non è lasciata al caso.
Se in alcuni passaggi questa struttura ha dato l'impressione di una complessità eccessiva, vi ringrazio per averlo espresso. Ma forse è proprio la complessità a chiederci un nuovo linguaggio. E forse ciò che percepiamo come eccesso non è altro che il segnale che le nostre mappe — tutte, non solo la mia — stanno avvicinandosi ai propri limiti.
Il mio intento, in ogni caso, non è convincere ma condividere. E se anche uno solo dei concetti emersi potrà servire da leva per altri pensieri, allora il gesto che ho tentato di descrivere — quello che rompe il silenzio — avrà già avuto senso.
Resto qui, nel dialogo, aperto alle obiezioni, alle revisioni e anche alle incomprensioni. Perché credo che ogni buona idea cresca davvero solo quando incontra chi la mette alla prova.
#3
Citazione di: Alberto Knox il 14 Maggio 2025, 11:19:30 AMl'accelerazione, il tempo , la rapidità , il moto di per se  non sono sorgenti di ordine e oraganizzazione. Puoi usare tutto il tempo che vuoi ma se non c'è una forza ordinatrice non succede niente!
Non puoi assolutamente trascurare la gravità come sorgente dell ordine cosmico. Stiamo partendo di una distribuzione di materia relativamente omogenea , un amalgama di elementi costitutivi separati fra loro. è la gravità la responsabile dell aggregazione di strutture su grande scala dell universo, ed è all interno di questa struttura che operano el altre forze. Questo è possibile perchè,delle quattro forze fondamentali della natura solo la gravità agisce su distanze cosmologiche. Mentre ilcosmo diventa gradualmente piu strutturato la materia si raggruppa dapprima in ammassi , poi in ammassi di ammassi , e così via, dando origine alla fine ai buchi neri. Senza la gravità, l'universo sarebbe rimasto un panorama di gas inerte e amorfo. 
(L ' organizzazione genera organizzazione) L'agglomerazione dei gas primordiali costituì il passaggio cruciale nella formazione delle stelle e delle galassie , una volta che queste si furono formate , la strada era aperta per la formazione di elemeti pesanti , dei pianeti, della vasta gamma di sostanze chimiche , dei mattoni della vita alla biologia e infine all uomo. In questo senso, qundi, la gravità è la sorgente di tutta l organizzazione cosmica . Nelle primissime fasi della storia dell universo , la gravità innescò una cascata di processi autoadattanti che condussero , un passo dopo l altro , agli individui coscienti che ora contemplano il cosmo e se ne chiedono il significato.
Ti ringrazio per aver portato la conversazione su un terreno tanto nitido quanto fertile.
Hai esposto con coerenza una linea causale che parte dalla gravità come forza ordinatrice per eccellenza e arriva fino alla coscienza come punto di riflessione sul cosmo stesso.
È una visione che ha il merito della chiarezza e della forza narrativa.
Ma proprio per questo, vorrei provare a interrogarla da un'altra angolatura.
Dici: "Puoi usare tutto il tempo che vuoi, ma se non c'è una forza ordinatrice, non succede niente."
È un pensiero potente, ma tradisce due presupposti che non condivido:
  • Che la forza debba essere esterna, causale, riconoscibile come "agente";
  • Che il tempo sia una condizione neutra disponibile a ospitare gli eventi, piuttosto che qualcosa che emerge insieme agli eventi stessi.
Nel modello di Metafold, che ho provato a delineare nelle fasi precedenti, cerco di esplorare ciò che avviene prima che possano esistere forze, massa, tempo, gravità.
Mi domando: cosa accade nello stato in cui tutto è ancora possibile, ma nulla è ancora accaduto?
Lì non serve una "forza" nel senso classico.
Serve una soglia di coerenza, una curvatura del campo potenziale che collassa in una configurazione.
La gravità, il tempo, la materia: vengono dopo.
Sono effetti della selezione relazionale — non le sue cause.
So che tutto questo può apparire speculativo. E lo è.
Ma non è arbitrario.
Ogni concetto in Metafold nasce da un principio di coerenza logica interna:
  • il Campo Silente non è un vuoto lirico, ma la struttura delle possibilità non scelte,
  • il gesto non è volontà, ma curvatura relazionale che diventa osservabile,
  • l'organizzazione non si genera da sé, ma si distingue da un equilibrio instabile.
Forse, più che una "forza ordinatrice", all'origine c'è una crisi fertile, una pressione che non può più restare inespressa.
Da lì nasce il gesto — e con esso, ciò che chiamiamo tempo, direzione, gravità.
Se siamo d'accordo su questo anche solo in parte, credo che stiamo osservando lo stesso paesaggio — solo da due piani differenti.
E c'è un'ultima cosa, che riguarda proprio la chiusura del tuo intervento.
Dici: "L'organizzazione genera organizzazione."
È un'affermazione affascinante — quasi aforistica — ma credo che meriti un piccolo scavo.
Nella fisica dei sistemi chiusi, l'organizzazione non si autoalimenta:
il secondo principio della termodinamica ci ricorda che, senza apporto di energia, l'entropia tende ad aumentare, non a diminuire.
L'ordine, cioè, non prolifera spontaneamente, se non a spese di qualcosa che lo sostenga o lo compensi altrove.
Esistono sistemi complessi in cui l'organizzazione sembra generarsi (strutture dissipative, dinamiche fuori equilibrio...),
ma anche lì non è l'organizzazione a produrre sé stessa: è un'interazione delicata tra instabilità, energia, e coerenza transitoria.
Per questo in Metafold, più che parlare di "organizzazione che genera organizzazione", parlo di:
collasso da instabilità,
che produce forme temporanee di coerenza,
immerse in un campo più vasto di possibilità non ancora accadute.
Non è solo un'ipotesi metafisica:
è una cornice che prova a rispettare i vincoli della fisica, ma aprendo un varco su ciò che la fisica — da sola — non può ancora raccontare.
#4
Citazione di: iano il 14 Maggio 2025, 02:52:45 AMTu hai parlato di gesto, e io l'ho inteso come interazione con la realtà.
Ma per me i due interagenti restano un mistero.
Di noi e della realtà sappiamo, o supponiamo,  che esistiamo, e tutto ciò che conosciamo d'altro è il prodotto della nostra interazione con la realtà. Ciò che conosciamo non è la realtà, sia pure in modo lacunoso, potendo comunque sperare di colmare le lacune.
Ciò che conosciamo, ''la realtà come ci appare'' e/o come la teorizziamo, il mondo in cui viviamo, è il libretto di istruzioni della realtà, perchè a noi non serve altro per usarla, e siccome il libretto è rivolto a noi, è scritto nella nostra lingua fatta di cerchi e triangoli.
Posto anche che il mio gesto sia volontario, in quanto seguente ad una mia decisione, io non so mai prima cosa deciderò.
tutto quello che so è che, stante la numerosità di diverse soggettività, ogni decisione è solo probabile, di modo che si simulerà il caso quanto maggiore è il numero delle soggettività.
Il concetto di libero arbitrio nasce dalla sensazione di libertà che ho nello scegliere, ma questa libertà somiglia più alla libertà che si prende il caso.
Trarre i concetti di campo, curvatura dello spazio, sovrapposizioni di stati dalla fisica ed usarli in libertà, mi sta pure bene, ma solo finché la narrazione non acquisisce una complicazione cui nulla sembra poter porre un limite.
Io ancora devo capire cosa intendete per spazio silente ed acclamante, perchè non ho trovato nulla in rete, ed è la prima volta che li sento nominare.
Mi mancava questa complicazione. :)
Questo tuo ultimo intervento mi ha aiutato a mettere meglio a fuoco un punto che forse avevo lasciato implicito.
Capisco bene la tua osservazione: il timore che l'uso libero di concetti come campo, curvatura o sovrapposizione di stati porti a una narrazione che non ha più limiti — che si dilata senza incontrare attrito. È un rischio reale, e non mi è estraneo.
Ma ti assicuro: non cerco l'illimitato, né un pensiero che si svincoli da ogni contenimento.
Quello che sto cercando di proporre con Metafold è una grammatica relazionale, dove i concetti non sono isolati come oggetti, ma si definiscono nel modo in cui interagiscono, si deformano, si limitano a vicenda.
Non si tratta di complicare per amore della complessità, ma di riconoscere che ciò che appare "complicato" da fuori, spesso è solo un ordine diverso da quello a cui siamo abituati — un ordine che non si fonda su identità statiche, ma su tensioni, soglie, configurazioni che cambiano mentre si osservano.
Il "campo silente", ad esempio, non è un'idea che puoi trovare in rete perché non deriva da un lessico tecnico preesistente: è una proposta, un modo per indicare la coesistenza di possibilità non ancora collassate, ma che già influenzano ciò che si manifesta.
Non è una metafora: è un tentativo di dare forma a qualcosa che si comporta come una struttura, ma non si lascia misurare come un oggetto.
Non voglio convincere nessuno — ma se questa complicazione che ti è arrivata potesse essere letta anche come una grammatica diversa, non più arbitraria ma semplicemente relazionale, allora forse vale la pena proseguire la conversazione.
#5
Citazione di: Alberto Knox il 14 Maggio 2025, 01:04:37 AMl'evoluzione cosmica e il relativo dispiegamento di ordine è stato "spinto" da qualcosa di ben più forte e fisico  che una pressione latente del possibile su se stesso
Il tuo riferimento alla rottura di simmetria e al raffreddamento cosmico mi ha stimolato parecchio, anche perché mi sembra che, nel corso della tua riflessione, emerga una doppia direzione:
da un lato evochi una rottura spontanea, coerente con la fisica delle transizioni di fase,
ma subito dopo sembri ricondurla a qualcosa di "più fisico", come se la sola instabilità interna non bastasse, e servisse una forza fondativa più solida.
È un passaggio che ho trovato interessante perché, paradossalmente, la fisica stessa ci offre un ponte tra queste due visioni:
le rotture di simmetria non avvengono necessariamente per effetto di una forza esterna, ma possono emergere da condizioni metastabili, in cui l'equilibrio si rompe per pressione interna, per entropia latente, o per tensione informazionale.
Quindi, quella che tu chiami "rottura" e che io descrivo come "pressione latente del possibile", sono forse due modi complementari di indicare un punto di collasso inevitabile, dove l'ordine si genera come esito di una coerenza diventata insostenibile.
A questo si lega anche la questione dell'accelerazione.
Nel modello inflazionario, sappiamo che l'universo, appena "nato", si è espanso a velocità esponenziale.
Ma se prendiamo sul serio il fatto che il tempo stesso nasce con l'evento, allora quella che appare come una spinta violenta, potrebbe — da un altro punto di vista — essere una crescita lentissima, persino vegetativa.
Perché non esiste un tempo "prima" dell'origine con cui misurarne la rapidità.
In altre parole, ciò che percepiamo come "esplosione" potrebbe essere, da fuori, una curva di accelerazione che coincide con la nascita del tempo stesso.
E quindi la prima accelerazione non è una variazione su una linea temporale preesistente, ma la forma stessa del tempo che comincia già in tensione.
Forse allora il Big Bang non fu un evento brutale, ma un processo coerente di rilascio, come una forma che si distacca dal campo in cui era solo latenza.
Un'espansione che non ha nemmeno scelto di accelerare, ma ha iniziato ad esistere già in moto.
In questo senso, pressione latente e rottura di simmetria potrebbero non essere opposte, ma due lenti sulla stessa curvatura originaria.
Che ne pensi?
Mi interessa capire se questa lettura può trovare un punto d'incontro con la tua, anche solo per differenza di scala o di sguardo.
#6
@iano
Quel passaggio sul gesto mi ha fatto riflettere.
Non credo che gesto e scelta siano in contraddizione. Direi che a volte cerchiamo attivamente una direzione, valutiamo, decidiamo con consapevolezza — e questo cambia il campo.
Altre volte, invece, dici "sì" a qualcosa senza sapere bene perché — un incontro, un viaggio, un progetto.
Solo dopo riconosci che quel gesto aveva già messo in moto qualcosa.
Direi che sono semplicemente due modalità che coesistono, e che si alternano senza bisogno di escludersi.
Mi chiedo se ho colto bene quello che intendi: che il gesto, prima ancora di essere compreso o raccontato, abbia già una forza formativa, una spinta che orienta — anche senza passare per la scelta.
Se è così, mi interessa molto approfondirlo.
Mi interessa perché credo che il gesto, proprio in quanto non ancora spiegato o scelto, porti dentro qualcosa che sfugge alla volontà ma incide comunque sul reale.
In un certo senso, completa la dinamica della scelta: non tutte le trasformazioni avvengono perché abbiamo deciso — a volte accadono prima, e la coscienza arriva dopo, a rincorrerne il senso.
Capire meglio quel momento può aiutarmi a non ridurre tutto alla struttura o alla narrazione, ma a restare aperto anche a ciò che agisce senza preavviso, senza spiegazione, ma lascia tracce profonde.
(Mi sembra che questo nodo — il gesto che lascia tracce senza passare per la scelta — tocchi da vicino anche ciò che è emerso con @Jacopus sullo spazio acclamante, e con @Alberto Knox sull'osservazione che curva ma non origina.
Proprio per questo mi interessa: perché è un punto di incrocio, non di separazione.)
Secondo te, c'è un modo per restare in contatto con quel gesto, per ascoltarlo mentre accade, senza trasformarlo subito in qualcosa da capire?
Potrebbe lasciare tracce diverse — e forse aprire uno spazio che ancora non abbiamo nominato.
#7
Citazione di: Alberto Knox il 13 Maggio 2025, 11:25:15 AMAlla nascita di questo contesto, chi era l'osservatore?
Quella domanda — "alla nascita del contesto, chi era l'osservatore?" — è di quelle che fanno tremare i polsi.
Rispondere significa inevitabilmente avventurarsi oltre i confini del verificabile, e lo dico come premessa onesta: ci muoviamo in un territorio di pura speculazione, forse più filosofica che fisica, ma non per questo meno interessante.
In questo senso, vorrei portare l'ipotesi — forse solo immaginabile — di un Campo Silente allo stato pre-originario:
una condizione in cui non esisteva alcuna coscienza, né struttura coerente, né relazione tra parti, semplicemente perché non esistevano ancora né parti, né forma.
Solo una densità potenziale indistinta, non soggetta a tempo né a osservazione, ma in qualche modo "tesa" verso la possibilità di diventare qualcosa.
Potremmo pensarlo come una pressione latente del possibile su se stesso.
Un momento zero in cui nessuno osservava, nulla accadeva, ma tutto era lì — in attesa — come pura instabilità pronta a cedere.
Forse la condensazione che ha innescato il Big Bang non è stata un atto, ma una frattura spontanea, un collasso cieco da cui si è originata la dinamica.
Da lì in poi, il campo comincia a strutturarsi, a differenziarsi, e subentra ciò che nel mio modello chiamo "campo senza coscienza" (Modello 2).
Un campo in auto-organizzazione, dove forme, strutture, simmetrie e dinamiche emergono anche senza osservatore consapevole, per via di attrattori, retroazioni, biforcazioni.
Poi, molto più avanti, arriva la coscienza situata (Modello 1).
Non come creatrice del reale, ma come funzione deformante, modulatrice.
Non collassa tutto, ma collassa localmente, curva, seleziona.
Diventa nodo tra ciò che è e ciò che può essere.
Alla tua domanda risponderei così, per strati:
  • All'origine, nessun osservatore — solo potenziale.
  • Poi, un campo che si struttura da sé, senza bisogno di testimoni.
  • Infine, nodi coscienti, che non inventano il mondo, ma lo piegano secondo la propria traiettoria.
E oggi, forse, ogni osservatore è figlio di quel primo collasso cieco, ma anche nuovo punto di innesco.
#8
Citazione di: Jacopus il 13 Maggio 2025, 04:26:25 AM"Lo spazio acclamante lo ho impiegato come opponibile allo spazio silente ed è in qualche modo il suo alter ego.
 Nello spazio acclamante dobbiamo fare i conti con ciò che è stato e che trascina nel corso dei millenni la sua eredità, nonostante l'illusione dell'essere umano di essere sempre in grado di 'ricominciare da zero'.
La realtà, nel mio pensiero, non è mai disgiunta dallo sguardo etico, almeno quando si parla di realtà come praxis e non di realtà come episteme."
Ciao Jacopus!
Quello che hai scritto sullo spazio acclamante continua a lavorarmi dentro.
La distinzione con lo spazio silente apre uno strato ulteriore che finora avevo solo sfiorato — e, se devo essere onesto, forse avevo lasciato da parte proprio per mantenere il discorso su un piano più strutturale, quasi sistemico.
Ma non sono riluttante a spostarmi anche su una riflessione più filosofica, soprattutto quando tocca in modo così diretto il nodo tra responsabilità, forma e campo.
La tua idea di uno spazio che raccoglie ciò che è stato — e che ancora esercita pressione — mi ha fatto pensare a una sorta di memoria attiva del reale.
Non come archivio neutro, ma come residuo strutturale che condiziona ciò che può avvenire dopo.
In un certo senso — dimmi se ti sembra una forzatura — ricorda una forma di energia karmica (intesa in senso laico):
non una punizione né un destino, ma una forza generata dalle forme già accadute, che continua a curvare il campo anche se il gesto che l'ha prodotta non è più attivo.
Nel mio modello (Metafold), questo trova una risonanza diretta con l'idea di campo in collasso potenziale:
da un lato le possibilità ancora latenti (spazio silente),
dall'altro le realtà già manifestate, che non solo persistono, ma influiscono attivamente sulla configurazione del campo presente (spazio acclamante).
Non sono opposti: sono due pressioni convergenti che definiscono i margini entro cui la coscienza può orientarsi.
Mi colpisce anche la tua distinzione tra episteme e praxis.
Se il reale prende forma nell'interazione, allora ogni osservazione non è solo conoscitiva, ma anche implicazione etica.
Non si tratta solo di sapere "cosa vedo", ma che effetto produce il mio sguardo, e cosa ereditano gli altri dalla traiettoria che ho tracciato.
Ti va di dire qualcosa in più su come immagini questa eredità che non si può eludere?
Ha una struttura? Un comportamento? È una massa inerziale o qualcosa che può trasformarsi?
#9
@Alberto Knox, la questione che sollevi sull'organizzazione spontanea della materia è centrale, soprattutto se la si guarda dal punto di vista dei sistemi viventi complessi. L'emergere di coerenza, adattamento, strutture autoregolanti — tutto questo mostra che l'ordine può generarsi "dal basso", senza bisogno di un osservatore esterno.
Ma è proprio lì che, per me, si apre lo spazio per una domanda ulteriore: quando l'organizzazione smette di essere solo struttura e diventa anche gesto?
Se ogni interferenza modifica il campo, allora c'è qualcosa che succede nel momento in cui una coscienza situata si concentra al punto da innescare una curvatura reale del possibile.
Non parlo di volontà cosciente nel senso tradizionale, ma di un punto in cui la presenza osservante coagula una forza, e in quel nodo si produce una deformazione: una transizione di fase esistenziale, non solo fisica.
Il libero arbitrio, da questa prospettiva, non sarebbe una licenza metafisica, ma un principio energetico relazionale: non garantisce il controllo, ma introduce discontinuità. Una piccola frattura nell'andamento prevedibile del campo, che da lì in poi costringe la realtà a riorganizzarsi. Non impone, ma piega.
@iano, capisco il rischio che questo linguaggio resti a metà tra intuizione e astrazione, senza portare ancora un'applicazione effettiva. Non lo nego. Ma proprio per questo tengo a precisare che quello che sto cercando di costruire non è un sistema chiuso di concetti autosufficienti. È una mappa in costruzione, fatta di tessere che trovano significato solo nella loro relazione reciproca. Campo, coscienza, collasso, possibilità, organizzazione, scelta: non valgono uno per uno. Valgono se si tengono insieme.
A volte una tessera suona stonata, ma solo perché manca quella giusta accanto a farla vibrare nel modo corretto. È questo il senso del mio tentativo: esplorare le risonanze tra cose che ancora non hanno un linguaggio condiviso.
In questi giorni sto anche cercando di tradurre queste dinamiche in modo più operativo, attraverso una sorta di geometria esperienziale del sé in movimento, dove la coscienza è rappresentata come un punto che si muove all'interno di un campo composto da variabili come emozione, tempo, narrazione, tensione, desiderio.
Alcune delle idee che qui abbiamo toccato — la scelta come curvatura, la traiettoria disturbata dalla presenza dell'altro, il salto non lineare dell'evento Δ — si ritrovano sorprendentemente ben definite in quella mappa, descritta in questo articolo:
👉 https://illuminismobastardo.it/geometria-del-se-in-movimento/
Non è un modello che pretende di spiegare il reale, ma forse può servire come ponte tra teoria e vissuto. E magari anche come base comune per continuare questo dialogo su più livelli.
#10
@Jacopus , il tuo intervento mi ha colpito molto, soprattutto per quella distinzione tra spazio silente e spazio acclamante, che trovo estremamente suggestiva e fertile, anche solo a livello intuitivo.
Provo a dirti come l'ho recepita, per capire se siamo sulla stessa lunghezza d'onda (o se magari sto proiettando altro):
mi sembra che, nel tuo schema, lo spazio silente sia il luogo in cui le possibilità ancora non accadute premono per venire al mondo — una sorta di "camera di attesa del reale", se posso usare una metafora un po' grossolana.
Lo spazio acclamante, invece, lo leggo come il dominio in cui il reale, una volta compiutosi, viene riconosciuto e inizia a esercitare una pressione inversa: cioè non solo accade, ma rimodella ciò che potrà accadere dopo. Come se l'evento, una volta manifestato, diventasse a sua volta un centro di risonanza o una struttura vincolante.
È una lettura arbitraria? Ti ritrovi in questa distinzione?
Mi interessa molto capire meglio cosa intendi per "acclamante": è una proclamazione? Un atto di stabilizzazione? Un'eredità operativa? Oppure qualcosa di diverso?
Hai messo in campo un'immagine potente — e vorrei afferrarla meglio, se hai voglia di espanderla.
#11
Grazie @Jacopus, @anthonyi, @iano
I vostri interventi mi hanno dato parecchio su cui riflettere — e soprattutto mi aiutano a capire dove le cose che sto cercando di esprimere rischiano di rimanere ambigue o poco definite. Provo a rientrare nel discorso cercando di chiarire, senza troppe pretese di sistematizzare.
Quando parlo di coscienza, non mi riferisco a un'entità razionale o "superiore" che governa la realtà con un pensiero magico. Né intendo la coscienza come qualcosa di necessariamente umano o complesso. Sto cercando di esplorare l'idea che ogni forma di presenza osservante, anche minima, anche priva di linguaggio o intenzione, modifichi in qualche modo lo stato delle cose attorno a sé. Non in senso causale diretto, ma come se la sua semplice esistenza in un punto dello spazio-tempo curvasse — leggermente — il campo delle possibilità.
Faccio un esempio forse banale: un sensore rileva la temperatura. Registra, ma non vive ciò che registra. Un animale che sente freddo, invece, è lì, in quel momento, immerso in quell'esperienza, e reagisce. Anche senza sapere cosa sta facendo, la sua coscienza situata (non il suo pensiero) contribuisce a orientare ciò che accade.
Non si tratta di pensare, né di scegliere consapevolmente. Ma del fatto che l'essere presenti in modo soggettivo e irripetibile fa differenza. Come se ogni coscienza fosse una piccola deviazione nella trama, una perturbazione locale che, insieme alle altre, partecipa a formare la realtà che poi appare.
Quanto allo "spazio silente" — tema che @anthonyi e @Jacopus hanno rilanciato in modo molto stimolante — non lo intendo come un luogo fisico né come un'astrazione matematica. È più una metafora per quel livello in cui le cose potrebbero accadere ma non sono ancora accadute. Una zona di sospensione, di potenziale. Come se ogni possibilità stesse lì, in attesa di una pressione — un'azione, una scelta, un'osservazione — per potersi esprimere.
Immaginiamo una persona di fronte a due strade: finché non sceglie, entrambe esistono come possibilità. Una volta imboccata una, l'altra non "sparisce", ma resta in qualche modo come traccia non vissuta, come eco. Questo è lo spazio silente: il luogo dove la realtà trattiene tutte le sue ipotesi non realizzate.
@iano, rispetto molto la tua osservazione sul rischio di confondere realtà e apparenza. Non sto dicendo che la realtà sia illusione, o che sia solo frutto della nostra immaginazione. Sto cercando di dire che ciò che chiamiamo realtà è sempre, inevitabilmente, un punto di vista, una forma che prende corpo quando una possibilità si concretizza. Non è menzogna, è semplicemente la realtà filtrata da una coscienza, come una fotografia scattata da un certo angolo. La sedia su cui mi siedo è reale — ma lo è diversamente per un bambino che la trasforma in nave, per un vecchio che ci riposa, per un artista che la espone. La sedia è reale, certo. Ma come è reale dipende da chi la osserva.
In fondo, il tentativo che sto facendo non è stabilire nuove verità ontologiche, ma proporre un modo per pensare la realtà non come qualcosa di fisso e oggettivo, ma come qualcosa che si forma nel dialogo tra ciò che può accadere e ciò che osserva. La coscienza, in questo, non ha un potere assoluto — ma ha un peso. Non guida tutto, ma contribuisce.
È un modello, non una fede. E per me ha valore finché genera domande, aperture, chiarimenti. Come quelli che sono emersi qui, e di cui vi ringrazio sinceramente.
#12
Grazie Alberto,
ti ringrazio per la risposta lucida e centrata su una questione che reputo davvero fondamentale.
Quando parlo di osservatore cosciente che modifica il campo, non intendo attribuire alla coscienza un potere volontaristico o mistico nel senso più comune. Non perché escluda in assoluto la possibilità di livelli magici o sottili della realtà – anzi, porto rispetto per ciò che non so spiegare – ma in questo contesto preferisco lasciare da parte quel tipo di lettura, per rimanere su un piano teorico che sia il più chiaro e condivisibile possibile.
Il modello che sto cercando di esplorare si fonda sull'idea che la coscienza non sia una semplice spettatrice, ma un nodo attivo nella rete di possibilità che tendono a collassare in un dato assetto. Non è la volontà a modificare il campo, quanto piuttosto la presenza osservante, singolare e situata, che contribuisce alla configurazione finale. Un po' come in un sistema a molti corpi: nessuno dirige il tutto, ma ogni corpo partecipa a una dinamica che modifica l'insieme.
Quando uso il termine "campo", non lo intendo in senso strettamente fisico, ma come una rete di possibilità ancora non collassate, che esiste in forma latente fino all'interazione. È più vicino a uno spazio di coerenza in attesa che a un'entità materiale. In questa prospettiva, la coscienza interagisce come un punto di perturbazione situata, che non impone una forma ma contribuisce a selezionare l'esito tra i possibili.
In termini più dinamici, si potrebbe dire che l'osservatore, nel momento stesso in cui prende posizione rispetto a ciò che osserva, introduce una curvatura nel campo di possibilità – una specie di asimmetria locale – e che questa curvatura, per quanto minima e non ripetibile, contribuisce al modo in cui la realtà si manifesta.
Non è un'azione cosciente o volontaria, ma un effetto sistemico di presenza, simile a ciò che accade quando si entra in una stanza e si modifica la distribuzione dell'aria: nessuna intenzione, ma un impatto reale.
Questo tipo di presenza osservante che propongo non è senza precedenti: anche nella meccanica quantistica, a partire dai lavori di Bohr, fino alle riflessioni più radicali di von Neumann e Wigner, si è discusso del ruolo dell'osservatore come parte integrante del sistema. L'idea che l'atto di osservazione possa modificare l'evoluzione del sistema quantistico – non per volontà, ma per il fatto stesso che avviene un'interazione – è centrale in molte interpretazioni. In un certo senso, cerco di espandere quella logica — che già destabilizza la nostra idea di realtà oggettiva — in una direzione che tenga conto della coscienza come nodo attivo, ma non dominante. Non una causa lineare, ma una condizione relazionale.
È chiaro che si tratta di un modello ancora in fase di esplorazione e che, allo stato attuale, non ha pretese di verificabilità formale. Ma credo abbia valore come schema fenomenologico, utile per leggere certe dinamiche che la fisica fatica ancora a integrare, e che restano altrimenti escluse da un approccio meramente oggettivante.
Il cuore della questione, per me, sta nel pensare che realtà e osservazione siano co-originanti, senza cadere né nell'idealismo, né nel materialismo. In questa prospettiva, la coscienza non "influenza" nel senso stretto, ma interferisce, genera risonanze, deviazioni, collassi possibili che, in sua assenza, avrebbero forse preso un'altra strada.
Ti ringrazio per aver posto la questione in questi termini. È esattamente questo tipo di scambio che mi aiuta a raffinare l'impostazione e a riconoscere dove serve maggiore chiarezza.
#13
Mi unisco con gratitudine al tema aperto da iano, perché è proprio dalla frizione tra ciò che appare e ciò che resta che ho cominciato a interrogarmi in modo più radicale. Anch'io, da non addetto ai lavori, ho cercato di afferrare i margini della realtà lasciata fuori campo dalle nostre categorie abituali – tempo, spazio, causalità lineare – e mi rendo conto di quanto sia difficile anche solo pensare senza appoggiarsi a quelle griglie.
Ciò che trovo più affascinante, in linea con quanto emerge dai lavori di Rovelli, è l'idea che la realtà non sia unicaoggettiva in senso tradizionale, ma che esista solo come relazione o interazione, e che l'osservatore – lungi dall'essere un accessorio – modifichi profondamente il campo che tenta di comprendere.
Da qui nasce per me la necessità (più che il desiderio) di costruire mappe più mobili, in cui la coscienza non sia ridotta a epifenomeno, ma assunta come uno dei possibili "nodi" di collasso del reale. Non parlo in termini religiosi o mistici, ma come tentativo di modellizzare – anche solo intuitivamente – le dinamiche con cui il potenziale si rende atto, e come questo dipenda da variabili anche soggettive.
Mi domando spesso se la scienza, pur nel rigore necessario, possa concedersi uno spazio per accogliere ciò che ancora non sa misurare. Più che una tesi, è una domanda che porto avanti e che mi piacerebbe esplorare anche grazie al confronto con chi ha maturato visioni affini o alternative.
Un saluto a tutti e grazie per questo spazio di riflessione.
#14
Ciao a tutti,
mi affaccio con curiosità in questo spazio per proporre un confronto su un'ipotesi che mi accompagna da tempo:
e se la realtà non si lasciasse definire da un'unica grammatica, ma ne adottasse più d'una, a seconda del piano in cui la si osserva?
Su questa intuizione ho costruito Metafold, un modello speculativo — o forse solo un esercizio di orientamento mentale — che prova a rappresentare il reale attraverso quattro modalità di esistenza:
  • una realtà materiale che procede senza bisogno di coscienza (campo deterministico);
  • una in cui l'osservatore cosciente modifica il campo stesso;
  • una in cui la coscienza è uno spettro, non un interruttore;
  • e infine uno "spazio silente", dove le possibilità non realizzate non spariscono, ma restano come pressione sul possibile.
Il testo non è scientifico in senso stretto, né filosofico in senso accademico: è una mappa teorica che usa strumenti presi in prestito — e con rispetto — dalla fisica, dall'epistemologia e dalla fenomenologia per provare a pensare il reale in modo non riduzionista.
👉 Lo trovate qui, se vi va di darci un'occhiata (anche solo per criticarlo):
https://illuminismobastardo.it/metafold/
Mi piacerebbe sapere se queste idee risuonano con qualcuno, se trovano limiti evidenti, se esistono già formulazioni simili o molto più efficaci.
Non cerco risposte definitive, ma domande buone da far crescere insieme.
Grazie per lo spazio,
Nemo+
#15
Grazie a iano e Alberto Knox per le letture attente e i rilievi iniziali, che apprezzo molto.

@iano
Hai colto un nodo cruciale: la definizione di "moto" nel trattato non è riferita a un centro né a un sistema di coordinate assoluto, bensì a un campo di forze interdipendenti e dinamiche. Il "moto" nel modello 1 si manifesta come risultante provvisoria di pressioni multiple, più simile a una turbolenza che a un movimento lineare.
L'intenzione è proprio quella di scardinare l'idea newtoniana di traiettoria rispetto a un centro fisso, sostituendola con una visione relazionale e sistemica, che richiama le dinamiche non lineari (penso, ad esempio, ai sistemi a più corpi o ai campi complessi). Ma hai ragione: il termine "moto" andrà esplicitato meglio, perché rischia di generare ambiguità. Grazie!

@Alberto Knox
Mi colpisce il riferimento a Faggin, che apprezzo, seppure il nostro intento sia diverso: non fondiamo il modello su un primato della coscienza ma su una pluralità di modelli co-esistenti, inclusi quelli che la escludono (come il Modello 2).
Hai centrato bene l'uso trasversale di termini come entropia, collasso, attrattori: l'intento non è appropriarsene in modo improprio, ma impiegarli metaforicamente ma rigorosamente per costruire un linguaggio ponte tra fisica, epistemologia e fenomenologia.
Sarei felice di approfondire — anche criticamente — quali punti ti paiono più forzati o dove vedi rischio di ambiguità: l'apertura del campo, per me, include anche il dubbio metodico.

Se ritenete utile, potrei raccogliere i rilievi principali in un thread di approfondimento mirato (come suggerito da iano), così da non ingolfare la discussione principale.
Un grazie sincero,
Nemo+