La natura viene spesso chiamata in causa come fondamento delle azioni umane o, al contrario, per stigmatizzare azioni umane che vengono considerate innaturali.
La natura è effettivamente un richiamo imponente: è la nostra radice e di questi tempi solo Dio sa quanto abbiamo bisogno di radici.
Solo che le cerchiamo nel posto sbagliato, visto che la natura non è esattamente quel mondo di coerenza che una visione tradizionale le attribuisce.
Gli animali possono essere poligami come gran parte dei primati o strettamente monogami per tutta la vita (ad esempio i cigni). Vi sono centinaia di specie che praticano l'omosessualità sia maschile che femminile, anche per rinsaldare i legami sociali (lo facevano anche gli antichi greci) ed altre specie strettamente eterosessuali. Alcune specie come le termiti si fanno la guerra fra gruppi diversi ed è stato accertato che gli scimpanzé commettono scimpanzicidi di singoli individui, esattamente come noi. Vi sono specie che tengono a bada la forza dei maschi attraverso alleanze fra le femmine ed altre specie dove il maschio alfa è un vero tiranno al punto da uccidere i cuccioli per poter possedere nuovamente le femmine che hanno appena partorito. Ci sono animali che usano strumenti rudimentali come bastoni, facendo intravedere i prodromi di una cultura tecnologica. Vi sono state nel passato specie di ominini come l'uomo di Neanderthal che aveva riti e tecniche simili a quelle dell'homo sapiens e altri ominini che vivevano sulle piante e si cibavano di frutta. Vi sono animali che mostrano una aggressività intraspecifica micidiale come certi pesci tropicali.
In tutta questa congerie, quale natura è quella che dovrebbe fissare e guidare le nostre azioni?
Ma ancora più interessante è la domanda successiva. Perché ancora viene usata così tanto questo tipo di giustificazione?
Perchè la natura, pur non essendo l'unica fonte del diritto, ne è uno dei fondamenti ineludibili. Abbiamo bisogno, tanto naturalisticamente che giuridicamente, di aria salubre, cibo sano, tane confortevoli e sicure, coccole e libertà.
Si tira in ballo la natura per ricordare che ogni specie di frutto ha il suo nocciolo duro dentro una polpa molle in bella vista.
Non possiamo trarre una morale che non sia solo superficiale , ma nocciolo duro comportamentale di ogni specie , senza andare molto sul generico . Quindi diremo che è cosa buona la riproduzione sessuata, tralasciando i piccanti dettagli.
Diremo che è un bene una diversificata moltitudine , tralasciando di distinguere fra varietà buone e cattive..
Si tira in ballo la natura per ricordare che non essa, ma noi facciamo distinzioni di specie apponendo etichette.
Invochiamo la natura quando appare la lacunosità delle nostre specifiche convenzioni.
Se chiedessimo alla natura se fanno bene i mandrilli a farlo in quel modo, essa ci risponderebbe, mandrilli chi?
Direi in generale che volendo trovare fondamento e legittimazione nella natura più usciamo dallo specifico , più sono solide le basi.
Quindi sarebbe bene non specificare più dello stretto necessario evitando di perdersi in dettagli.
Se la nostra particolare natura è quella di specificare , allora il bene si fonda sulla giusta misura nel farlo, dove due è poco e tre è troppo ,se vogliamo basarci su una natura che non fa' specifiche distinzioni.
I mandrilli non fanno ne' bene e ne' male a farlo in quel modo li, perché i mandrilli sono proprio quelli che lo fanno in quel modo li.
Se non lo facessero in quel modo li non sarebbero mandrilli.
Ma infatti, Iano, è proprio la nostra "natura" autoriflessiva ad averci posto in una nicchia che è completamente diversa da ogni mandrillo. Il mandrillo medio lo fa perché lo deve fare, non si chiede "perché faccio così?", non ha alternative comportamentali se non quelle istintuali di base, attacco, fuga, ricerca della femmina, del cibo, del riposo. Noi non possiamo più invocare la natura come fondamento, perché siamo altro, pur restando esseri biologici. Con "altro" intendo proprio questa capacità di pensare altrimenti e pensare al sè e al perché del sè e degli altri e del come relazionarsi con gli altri e con il mondo, avendo presente che vi sono molteplici strade. Le stesse molteplici strade che la natura ha tracciato, fra caso e necessità a tutte le specie viventi, che non rispondono certo ad un disegno maestoso e ordinato. La natura assomiglia più ad un geniale artista che utilizza materiali da riciclo. La nostra "specifica" strada non assomiglia però a quella di nessun altra specie vivente. Solo i Neanderthal potevano competere con noi su questa strada ma si sono estinti. La consapevolezza di questa straordinarietà dell'uomo non dovrebbe però renderci i padroni del mondo, o pensare ad una mano trascendente che ci ha benedetto. Semplicemente dovremmo pensarci come i custodi del mondo, quelli che, come diceva Mario Brega , possono "esse ferro" o "esse piuma" e speriamo di essere sempre più spesso "piuma".
Non possiamo invocare la natura come fondamento esclusivo del nostro vivere, ma in quel vivere essa è fondamento del nostro esserci. Mens sana in corpore sano diceva i latini e avevano già capito tutto. La sanità del corpo ha un valore etico (ethos) tanto quanto la salute dello spirito (psiche). Siamo costretti, dal nostro destino evolutivo, a muoverci su questo binario in cui entrambe le rotaie sono necessarie per non deragliare.
La natura diventa nomos nel campo che le è proprio: se fossimo immortali non esisterebbe l'omicidio come fatto, e quindi neppure come delitto. Saggezza è non estendere questo dominio fondativo dell'etica e della giurisdizione naturali oltre i limiti che la natura ha posto. Così come è saggio non pretendere che lo spirito oltrepassi i limiti etici e normativi che la natura impone irrevocabilmente
Senza con ciò amplificare ideologicamente tali limiti, impedendoci di seguire la via dello spirito che sfrutta a nostro vantaggio le leggi di natura fino a superare le limitazioni dell'evoluzione naturale (dna). E un gioco di pesi e contrappesi in cui ciò che è ottimale oggi potrebbe essere esiziale domani, e viceversa. Un calcolo mobile di costi e benefici, che implica anche un'evoluzione etica.
La mia impressione è che non riusciamo ad uscire dal paradosso dell'essere e non essere allo steso tempo natura.
Poniamo ciò che è artificiale in contrapposizione a ciò che è naturale.
Cioè ciò che costruiamo in contrapposizione a ciò che non costruiamo.
Nella misura in cui siamo prodotto di un artificio , siamo capaci parimenti di decostruirci invertendo il processo, chiamandolo ritorno alla natura, dalla quale però non ci siamo mai allontanati.
È come se prendere coscienza delle cose equivalga a distruggerle, come ci insegnano i bambini, provando alienazione.
La distinzione fra noi e la natura nasce da una distorsione temporale.
Una singolarità temporale in cui coabitano passato e presente .
Non so' bene perché, ma mi viene in mente la barzelletta di quello che andando in cinquecento si accorge di esser seguito da una mucca.
Non potendo credere ciò possibile accelera , ma ad ogni accelerazione la mucca risponde con una pari accelerazione così che non riesce a staccarla.
Insistendo quindi ad accelerare, avendo adesso la mucca la lingua di fuori, si compiace almeno di averla sfiancata, finché questa non lo sorpassa, non avendo mancato , come previsto dal codice della strada, di aver segnalato prima la propria intenzione.
Quanta saggezza racchiudono le migliori barzellette, che vanno alla ricerca dei paradossi, senza attendere che questi ti affianchino.
Iano. La distinzione fra noi e la natura non nasce da una distorsione temporale. Non è un processo di chi la sa più lunga ( o di chi corre più veloce). La distinzione in realtà è opera della natura stessa, allorquando dopo svariati esperimenti durati un milione di anni circa ci ha dotati del cervello più complesso esistente sul pianeta terra. La natura ama la vita, gli esperimenti e la diversità. Ed ecco che prova a vedere come se la cava questo essere, fisicamente poco più forte di un cane di taglia media ma con un sistema nervoso centrale eccellente. Da quel sistema nervoso centrale è scaturito l'allontanamento dalla natura. Genesi, il primo libro della Bibbia, forse inconsapevolmente ( o forse consapevolmente, gli ebrei non sono mai da prendere alla leggera), descrive quel passaggio, simbolizzandolo nell'albero della conoscenza del bene e del male. Se preferisci il cordone ombelicale che ci connetteva alla natura è stato tagliato con l'avvento della cultura. La cultura non è solo un fatto tecnico. Nel senso che intendo qui, la Cultura (Kultur) è il processo autoriflessivo che ogni umano apprende in modi più o meno sofisticati. Da quel processo autoriflessivo nascono le scelte "etiche" ed è per questo che l'albero ha a che fare con il bene e il male. Ma l'etica è strettamente connessa con la cultura come tecnica. Il mito di Prometeo, in questo senso, è il perfetto contraltare del racconto di Genesi. In tutto ciò, l'uomo non deve neppure dimenticare che il colpevole di tutto ciò, ovvero il suo cervello, è comunque a tutti gli effetti, composto di cellule e di processi biochimici del tutto assimilabili a quelli della più semplice lumaca di mare. Dei, demoni, esseri naturali. Siamo tutto ciò, allo stesso tempo, ma non siamo più natura e non possiamo cercare nella natura giustificazioni per il nostro agire. Piuttosto il discorso dovrebbe essere rovesciato. Il nostro agire deve essere giustificato dal nostro senso di responsabilità nei confronti della natura. Un senso di responsabilità reciprocamente conveniente. Ed anche questo senso di responsabilità va cercato nell'intreccio fra elementi biologici e storici dell'uomo.
Avvertimento finale: non è detto che homo sapiens sia la specie definitiva, all'apice della scala evolutiva. Con noi la natura potrebbe anche aver preso una sonora cantonata. I prossimi millenni ci sapranno svelare questo enigma.
Citazione di: Jacopus il 19 Maggio 2021, 08:01:32 AM
In tutta questa congerie, quale natura è quella che dovrebbe fissare e guidare le nostre azioni?
Non penso che si possano trarre considerazioni sensate dall'analisi o l'imitazione di fenomeni specifici etologici, che sia il comportamento dei cinghiali o degli altri hominidi, sebbene alcuni casi siano molto stimolanti e interessanti. Tuttavia "natura" indica un insieme. E' un pò come quando il mio compagno di banco alle elementari si chiedeva se imparare a risolvere le equazioni gli sarebbe servito nella vita (lui specificava: per andare a comprare il prosciutto), ovviamente no, ma l'essersi approcciato alla matematica in generale, suppongo gli sia servito.
Citazione di: Jacopus il 19 Maggio 2021, 08:01:32 AM
Ma ancora più interessante è la domanda successiva. Perché ancora viene usata così tanto questo tipo di giustificazione?
Perchè della cultura ci siamo convinti o siamo riusciti a decostruire e relativizzare, rimane un appiglio individuale o di gruppo, ma lentamente ha perso le sue pretese oggettive, per esclusione è rimasta la natura, concetto sdrucciolevole e altamente liquefatto, ma comunque composto di fenomeni oggettivi come la vita e la morte.
Riprendendo la Genesi, osserverei che, se non sbaglio, il primo gesto sia tecnico che etico dell'uomo è vestirsi; la conseguenza dell'aver mangiato il frutto (mela o altro che sia) dell'albero proibito innesca la prima operazione di strumentalizzazione della natura («intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture», cit.) e la prima forma di pudore sociale («sono nudo, e mi sono nascosto», cit.), di "accostumatezza", che distinguono subito l'uomo dagli altri animali. Il male viene forse "mondanizzato" proprio in quel momento, nel momento in cui l'uomo si differenzia dal "bene naturale" fatto dell'assenza di tecnica e "costumi morali"? L'albero del bene e del male è forse tale perché i suoi frutti instillano il male nel bene (dell'Eden), male inteso come perdita dell'armonia con la natura (che viene "intrecciata" dalla tecnica) e come pudore (quindi nascondimento, non trasparenza, dicotomia pubblico/privato, etc.) nei confronti del prossimo?
[Per inciso, ho solo giocato a dare un'interpretazione eterodossa del passo biblico, non sono un nostalgico dell'epoca nudista nelle caverne.]
Abbandonando narrazioni ed eresie bibliche, va ricordato che la cosiddetta «fallacia naturalistica» ci mette in guardia dal derivare prescrizioni da descrizioni, ovvero confondere (o addirittura fondare) il "dover-essere" etico-morale-culturale con l'essere meccanicistico, biologico, etc. ad esempio, partire da «i mammiferi si riproducono» (constatazione di ciò che è) per derivarne «un mammifero si deve riprodurre, quindi le donne devono far figli» (dover-essere etico, seppur di un'etica antica... ma non troppo) è chiaramente un non sequitur, emblematico del non sequitur generale fra il piano della biologia e quello dell'etica (come tutti i "cortocircuiti" della bioetica confermano).
Tenere distinte etica ed etologia, in questo caso, è secondo me fondamentale: le leggi dell'istinto, incise nel dna, che regolano la vita biologica non vanno confuse con le leggi delle tribù, che sono incise su supporti meno congeniti e da pensose mani umane. Che l'uomo abbia per istinto l'aggressività coma autotutela fisica, o l'istinto di maternità/paternità verso la prole, o soffra alcune situazioni di privazioni (psicologiche o fisiche), non prescrive nulla di etico, pur rappresentando una descrizione etologica. A posteriori, si potrebbe dire che non è giusto uccidere perché l'uomo per istinto rifugge la morte o non è giusto che una madre abbandoni il figlio perché allo stato brado solitamente è la madre che si cura della prole, etc. ma tali «non è giusto» non si fondano sulla natura, ma usano il comportamento etologicamente osservato come argomentazione (che non è fondamento) a favore di determinate norme sociali, indubbiamente utili, condivise, ormai "filogeneticamente" nel "dna" di tutte le culture in lungo e in largo nel globo, etc. Nondimeno l'appello argomentativo "ad naturam" non va scambiato con un possibile fondamento dell'etica, almeno tanto quanto la presenza di criminali violenti (constatazione) può essere (non «è») un argomento a favore dell'uso della violenza per autodifesa, ma non è il fondamento della doverosità (prescrizione) della violenza interpersonale (né dal punto di vista dei criminali, né dal punto di vista dei non criminali). Radicalizzando: che vivere sia bene e soffrire/morire sia male non può essere affermato basandosi sulla natura, che metabolizza la vita con cambiamenti di stato che nulla hanno a che fare con l'etica (ma può ben essere affermato basandosi sulla propria umanità, biologica, culturale, etc.), poiché l'attaccamento alla vita fa parte della nostra natura tanto quanto l'aggressività (e nessuno proporrebbe l'aggressività come fondamento dell'etica); proprio come non si può affermare che, eticamente parlando, un atomo instabile sia un male (per la sua "privazione") o la forza di gravità sia un bene (perché ci mantiene sulla Terra), almeno se si abbandona l'istintivo antropocentrismo per un'analiticità che non usa indebitamente categorie valutanti di altri contesti.
La natura, guardata dall'uomo, risulta fatta di meccanismi; il giudizio di valore morale su tali meccanismi (e scegliere quindi quali traslare nella società, in quanto ritenuti "giusti", e quali rigettare in quanto "primitivi") trova i suoi fondamenti altrove, anche se tale altrove non ha la indiscutibile perentorietà ed "oggettività" della natura (che è sempre la prima alternativa quando non si elabora a fondo il lutto del divino e si è ancora affamati di "pensiero forte", come, bene o male che sia, istinto naturale e cultura occidentale prevedono).
Salve phil. Citando ciò che hai voluto citarci : "Riprendendo la Genesi, osserverei che, se non sbaglio, il primo gesto sia tecnico che etico dell'uomo è vestirsi; la conseguenza dell'aver mangiato il frutto (mela o altro che sia) dell'albero proibito innesca la prima operazione di strumentalizzazione della natura («intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture», cit.) e la prima forma di pudore sociale («sono nudo, e mi sono nascosto», cit.)".
Non so fino a quale punto tu sia convinto della "verità" di questa ed al parti delle Sacra Scritture. Penso, credo, che tu possa convenire sulla remotissima metaforicità di tali narrazioni.
Il problema quindi credo non riguardi noi due, ma la meravigliosità del fatto che certe spiegazioni abbiano serenamente soddisfatto le curiosità di miliardi di persone poco smaliziate......per alcune migliaia di anni.
Ed uguale meravigliosità - secondo me - riguarda il fatto che - secondo tali moltitudini - il far notare che l'introduzione degli indumenti potesse risultare necessaria per proteggersi dall'ambiente esterno - per un uomo ormai quasi privo di pelame naturale....................sarebbe stato considerato una bestemmia !. Saluti.
Citazione di: Jacopus il 20 Maggio 2021, 16:15:28 PM
Iano. La distinzione fra noi e la natura non nasce da una distorsione temporale. Non è un processo di chi la sa più lunga ( o di chi corre più veloce). La distinzione in realtà è opera della natura stessa, allorquando dopo svariati esperimenti durati un milione di anni circa ci ha dotati del cervello più complesso esistente sul pianeta terra. La natura ama la vita, gli esperimenti e la diversità. Ed ecco che prova a vedere come se la cava questo essere, fisicamente poco più forte di un cane di taglia media ma con un sistema nervoso centrale eccellente. Da quel sistema nervoso centrale è scaturito l'allontanamento dalla natura. Genesi, il primo libro della Bibbia, forse inconsapevolmente ( o forse consapevolmente, gli ebrei non sono mai da prendere alla leggera), descrive quel passaggio, simbolizzandolo nell'albero della conoscenza del bene e del male. Se preferisci il cordone ombelicale che ci connetteva alla natura è stato tagliato con l'avvento della cultura. La cultura non è solo un fatto tecnico. Nel senso che intendo qui, la Cultura (Kultur) è il processo autoriflessivo che ogni umano apprende in modi più o meno sofisticati. Da quel processo autoriflessivo nascono le scelte "etiche" ed è per questo che l'albero ha a che fare con il bene e il male. Ma l'etica è strettamente connessa con la cultura come tecnica. Il mito di Prometeo, in questo senso, è il perfetto contraltare del racconto di Genesi. In tutto ciò, l'uomo non deve neppure dimenticare che il colpevole di tutto ciò, ovvero il suo cervello, è comunque a tutti gli effetti, composto di cellule e di processi biochimici del tutto assimilabili a quelli della più semplice lumaca di mare. Dei, demoni, esseri naturali. Siamo tutto ciò, allo stesso tempo, ma non siamo più natura e non possiamo cercare nella natura giustificazioni per il nostro agire. Piuttosto il discorso dovrebbe essere rovesciato. Il nostro agire deve essere giustificato dal nostro senso di responsabilità nei confronti della natura. Un senso di responsabilità reciprocamente conveniente. Ed anche questo senso di responsabilità va cercato nell'intreccio fra elementi biologici e storici dell'uomo.
Avvertimento finale: non è detto che homo sapiens sia la specie definitiva, all'apice della scala evolutiva. Con noi la natura potrebbe anche aver preso una sonora cantonata. I prossimi millenni ci sapranno svelare questo enigma.
Ciao Jacopus.
Non è che voglio essere critico per partito preso, ma credo che si possano dare letture alternative del salto umano che ci farebbe guardare la base naturale dal quale è stato spiccato dall'alto in basso, essendocene staccati.
Che si domini il pianeta intanto è opinabile, e non perché affermandolo siamo di parte, ma perché la scelta dei parametri valutativi è libera.
Cambiando quella scelta i microbi , base di lancio di ogni altra specie, non hanno mai smesso di dominare.
Tutte queste nuove specie sembrano aver mantenuto degli antichi, quanto attuali progenitori, una membrana che li racchiude e li definisce dentro una superficie chiusa, ma se si guarda meglio in effetti l'uomo in ciò fa' eccezione.
Basta ammettere che la tecnica, seppur posta fuori di esso, ne sia pienamente parte, o se si preferisce, come acutamente nota Phil ci ridefinisce come un vestito su misura,che parte dalle bibliche foglie di fico intrecciate per arrivare ai tessuti non tessuti e va' ancora oltre, se vogliamo mantenere la metafora della superficie che ci racchiude definendoci.
In tal senso siamo speciali, in quanto animali diffusi che hanno delegato fuori dell'originario confine le proprie funzioni vitali, di modo che, ciò che dentro è rimasto in disuso lo si è potuto destinare a nuovi usi, specie il cervello, non importa quanto grande, perché il nostro non è neanche il più grande nel pianeta. Gli stessi dinosauri in passato ci superavano, ma non per questo dominavano il pianeta.
La cultura quindi possiamo vederla come naturale effetto di tutto ciò, volta a mantenere, ridefinendola, l'unità non più fisica, ma ancora funzionale, perché ciò conta, del nuovo animale diffuso, e quindi in definitiva non come causa del fenomeno detto uomo.
Come sempre ben dice Phil, il cosiddetto peccato che ci ha originati, traduce biblicamente la coscienza d'un salto definitorio, non potendoci più riguardare come gli altri animali, provandone estraniazione.
A prima vista infatti siamo ben diversi, ma se riaggiustiamo la definizione di animale, torniamo ad essere ben naturali, non avendo mai smesso di esserlo. E come potremmo?
Certamente abbiamo responsabilità, ma chi non ne ha? Chi si limita a prendersi cura solo di se' ignorando tutti gli altri?
Forse che la cultura occidentale non deve qualcosa a una lupa che ha allattato due gemelli invece di divorarli?
Ora è arrivato il momento di prenderci cura della natura entro il cui confine certamente stiamo, comunque vogliamo definirci, con atto magari parimenti "contro natura" , così come i voraci lupi a volte fanno.
Magari è solo che i lupi se ne infischiano delle definizioni, e In parte non sarebbe male seguire questo buon esempio.
Ma siccome uomini siamo ,e non lupi, e perciò amiamo le,definizioni, trovare almeno il coraggio di ridefinirsi diversamente ancora naturali.
Mi pare che per voler volare alto nei cieli comportamentali dell'etica si finisca col cadere nella fallacia antinaturalistica che nega il rapporto stretto tra physis, ethos, ed etica nei bisogni "biologici" della condizione umana. Ovvero la base della piramide di Maslow. Fortuna che a differenza dei filosofi d'alta quota, il diritto positivo in tutte le salse ne tiene conto.
Salve iano. Citandoti : "Ora è arrivato il momento di prenderci cura della natura".
Finalmente la natura, la quale sinora se ne stava in apprensiva quanto muta attesa di qualcuno che la salvasse, potrà tirare un sospiro di sollievo.
Battutaccia a parte, hai ovviamente ragione per quanto riguarda la pretesa (e ridicolmente discutibile) supremazia specistica umana. Mi pensare a coloro i quali, incontrando in natura individui di specie diversa dalla propria, si mettono a gambe larghe e con i pugni sui fianchi esclamando : "Lei non sa chi sono io !". Saluti.
Risposta a Iano. Ho ripensato al tuo racconto della mucca che sorpassa ed in effetti, la questione può essere vista anche da quel punto di vista. L'epigenetica in fondo insegna proprio a considerare la possibilità che la mucca sorpassi l'automobile. Biologia e cultura nell'uomo sono così interconnesse da rendere possibile quel sorpasso a prima vista paradossale.
Però, la differenza sostanziale rispetto a tutte le altre specie biologiche è proprio la suddetta interconnessione. E' questo che ci rende differenti, senza per questo voler veleggiare ad alta quota. Nessun altra specie interconnette cultura e biologia, semplicemente perchè non possiede cultura, come la possiede homo sapiens. La stessa trasmissione dei saperi nel corso degli ultimi due milioni di anni, ovvero da quando homo abilis ha iniziato ad usare degli utensili, ci differenzia in modo straordinario da tutti gli altri animali. Anche gli altri animali apprendono, ovviamente, ma si limitano ad apprendere come usare il loro corpo. Noi invece il corpo lo abbiamo esteso attraverso strumenti che ci fanno vedere più lontano, ci fanno andare più lontano, ci fanno conservare la memoria collettiva e ci insegnano infine a meta-pensare, a pensare il pensiero, con tutte le conseguenze di ciò in termini di capacità di "pensare il mondo".
Da parte mia nessuna fallacia antinaturalistica. Ci mancherebbe altro. I batteri ci sopravviveranno di molti milioni di anni nel futuro, di questo sono assolutamente certo, ma penso anche che il nostro "essere nel mondo" ha caratteristiche molto diverse da qualunque altro "essere nel mondo". L'unica altra specie che poteva competere si è estinta 40.000 anni fa. Pensare alla Natura in termini fondativi nasconde, a mio parere, molte insidie. Noi, volenti o nolenti siamo diventati qualcosa di diverso dalla natura, senza per questo voler indicare in questa diversità un qualsivoglia chiamata spirituale. La nostra diversità ce la siamo conquistata attraverso la nostra storia, il sudore, il sangue, le scoperte, la violenza, il sapere. In questa diversità, del resto, permane l'ambiguità di continuare ad essere una specie tassonomicamente linneana. Se volessimo scomodare la mitologia, homo sapiens, assomiglia, ad un centauro e se proprio dovessi sceglierne uno fra i tanti, sceglierei Chirone.
CitazioneLa natura, guardata dall'uomo, risulta fatta di meccanismi; il giudizio divalore moralesu tali meccanismi (e scegliere quindi quali traslare nella società, in quanto ritenuti "giusti", e quali rigettare in quanto "primitivi") trova i suoi fondamenti altrove, anche se tale altrove non ha la indiscutibile perentorietà ed "oggettività" della natura (che è sempre la prima alternativa quando non si elabora a fondo il lutto del divino e si è ancora affamati di "pensiero forte", come, bene o male che sia, istinto naturale e cultura occidentale prevedono).
Questa frase di Phil sintetizza molto bene quello che intendevo trasmettere.
Ciao Jacopus.
Non si può dire che sia tu che Phil facciate sfoggio di cultura, ma la incastrate quanto basta in un discorso che nella sua coerenza appare ancora come autonomo, ed è quindi un piacere leggervi.
Io costruisco il mio pensiero post dopo post facendo sponda al vostro, e così quella che ho provato ad esporre è una idea di cultura come collante funzionale di un uomo definito come animale diffuso, così come è maturato nella mia testa qualche post prima.
Se questo animale è diffuso, cioè fatto di parti fisicamente separate, allora il collante che le unisce funzionalmente rimane in bella vista, fuori dal più solito contenitore animale, ed è ciò che chiamiamo cultura .
Ciò che conta credo sia la funzione e non il modo in cui si realizza , e in quest'ultimo sembra esserci un salto nell'uomo, o forse è solo appunto che è posta in nella vista, da farci apparire un salto, quando di solito è celata dentro una superficie chiusa che basta diversamente a definirne genericamente a catalogo il contenuto.
La cultura rimane in via prioritaria quella relazione che unisce funzionalmente i diversi individui animati di una specie , escludendo le parti inanimate.
Ma le specie in se' hanno vera origine in una definizione libera e non univoca, seppur non perciò arbitraria.
Ne possiamo allargare ,individuandoli , i confini definitori fino a ridurci alle sole specie animata e inanimata che sembrano separate da un confine ancor meno arbitrario, se possibile.
Ma dobbiamo ammettere che non sappiamo bene cosa sia anima e cosa materia e che specie nell'uomo il cercare di definire tale confine sembra risultare alienante.
E tuttavia, come quando alcuni paradossalmente affermano che siamo diventati schiavi di una tecnica che domina il pianeta, di fatto ammettiamo come di poter mettere a catalogo di Linneo, aggiornandolo, una nuova specie inanimata.
Le definizioni sono per gli uomini un po' come le favole peri bambini. Possono terrorizzarli popolandole di mostri cattivi, e questa è un po' la sorte toccata la tecnica in certe favole di oggi, quando invece appena ieri arriva come il principe azzurro sul cavallo bianco.
Per quanto beneficio porti a me la nuova tecnica, individuo adulto. restio ad adattarvisi, io volentieri l'abolirei, ma sarebbe l'acida vendetta di un vecchio giunto alla fine, abbastanza saggio però da sapere che ciò che lui è ed è stato, consapevole o meno di esserlo, risiede fisicamente, culturalmente ed eticamente in vecchie tecniche ormai inglobate e che non spaventano più nessuno.
Se guardò gli effetti che le nuove tecniche promettono di avere sull'umanità ne restò in effetti terrorizzato, perché ciò che vedo proiettarsi è un alieno.
Ma è l'evoluzione stessa ad essere una storia di alienazioni, e certamente noi siamo quei mostri di oggi che gli antichi paventavano, al pari di quel che noi oggi facciamo.
Peccato non siano ancora qui con noi, per poterci dire se è davvero così brutto quel che vedono, e se ciò che temevano si è davvero realizzato.
Certo è inevitabile preoccuparsi della nostra sorte e non sembra facile rassegnarsi ad essere parte di una storia più grande di noi, ma in fondo, se le definizioni di specie e di individui hanno un senso, è proprio quello di esser unici e di voler restare tali, diversamente dai progetti che la natura ha su di noi e sulle altre specie, alla quale evidentemente non piace vincere facile, guadagnandosi con fatica e con ingegno ogni sua nuova specie.
Le specie competono fra loro nello spazio naturale, ma prima ancora con se stesse nel tempo.
Nessuno contesta la specificità dell'evoluzione etica e il suo svincolarsi dall'evoluzione naturale tal quale. Solo che non si può prescindere da: dar da mangiare agli affamati, curare gli infermi, vestire gli ignudi (perchè hanno freddo prima che per pruderie post-etologiche). La base dell'etica è ben radicata in physis. Negarlo è fallacia antinaturalistica.
Citazione di: Ipazia il 22 Maggio 2021, 11:47:11 AM
La base dell'etica è ben radicata in physis. Negarlo è fallacia antinaturalistica.
Non sono sicuro di cosa tu intenda con «
fallacia antinaturalistica», ma credo nessuno neghi che ci sia un rapporto/relazione fra etica e
physis, in quanto l'etica si rivolge anche ai bisogni fisiologici primari. La questione è se si tratti o meno di
fondamento/legittimazione (come da titolo del topic) o di appello
argomentativo (v. esempio precedente sulla violenza) o campo d'
applicazione (che è solitamente al capo opposto del fondamento, logicamente parlando).
La convinzione etica che «non si può prescindere da: dar da mangiare agli affamati, curare gli infermi, vestire gli ignudi»(cit.) non ha fondamento né nella natura né nella
physis, ma in una morale che inevitabilmente si
applica (non fonda) anche ad aspetti naturali e fisiologici. Concretizzando: se guardando la natura (umana o altro) riusciamo a dire «questo è bene» e «questo è male», è perché tali giudizi si fondano sulla natura che osserviamo o vi si applicano
a posteriori? In sintesi: il bene/male etico è
già negli occhi di chi guarda o si "scopre" guardando e studiando l'"oggetto naturale"?
Detto altrimenti (riformulo alla ricerca della domanda meno ambigua): casa nella natura o nella
physis (di)mostra che sia bene «dar da mangiare agli affamati»? Il fatto che altrimenti muoiano è un male solo per un paradigma che
già presuppone l'assioma «la vita è un bene», ma tale paradigma non si fonda sulla (ma di certo è in relazione con la) natura, essendo essa un contesto in cui vita/morte sono solo cambiamenti di stato, di attività organico/energetica, di interazione fra cellule, batteri, etc. senza che sia in gioco «bene» o «male» (categorie
degli uomini
per gli uomini), almeno prima che l'uomo rivolga verso tali fenomeni naturali e fisiologici il suo sguardo
già etico, di un'etica fondata altrove (e che, inevitabilmente, assegna alla vita
umana un valore che, per natura, non ha; come ben ci spiegano i virus e le pandemie... per quanto riguarda l'
istinto di sopravvivenza vale quanto già detto in precedenza sul non confondere etica ed istintività).
Per chiarire ho già usato altrove il parallelismo con il linguaggio (parallelismo in senso euclideo, ovvero che non con
fonde i due ambiti): il fondamento della lingua italiana è tutto ciò che può esser detto in italiano (nomi, concetti, frasi, etc.) o l'insieme delle sue regole sintattiche, grammaticali, etc.? Se è l'insieme di tali regole (e non i referenti a cui l'italiano si applica), esse sono fondate sulla
physis della nostra
natura cerebrale (area del linguaggio, etc.) o su altro? Quale "spicchio" di
physis o natura
fonda il congiuntivo in italiano e lo rende assente in altre lingue? Da notare che non sto parlando del linguaggio in generale, ma nello specifico della lingua italiana che ci fa scrivere queste stesse frasi (proprio come la nostra etica, volgendosi agli altri uomini, ci fa dire «non si può prescindere da: dar da mangiare agli affamati, curare gli infermi, vestire gli ignudi»).
Secondo me, non c'è niente di male (appunto) nel riconoscere che abbiamo bisogno di etica e morale per dare coesione alla nostra vita sociale e culturale, un bisogno tale che non importa (fondativamente parlando, non contenutisticamente parlando) se siano dettate dal cielo divino o radicate nell'"oggettività" della natura o approntate storicamente dagli uomini, resta il fatto che non possiamo farne a meno (la stessa immoralità non è altro che una morale differente).
Salve phil. Sono completamente d'accordo con la chiarezza delle tue argomentazioni. Quando ci vuole, ci vuole. Saluti ed omaggi.
Citazione di: Phil il 22 Maggio 2021, 16:38:51 PM
Citazione di: Ipazia il 22 Maggio 2021, 11:47:11 AM
La base dell'etica è ben radicata in physis. Negarlo è fallacia antinaturalistica.
Non sono sicuro di cosa tu intenda con «fallacia antinaturalistica», ma credo nessuno neghi che ci sia un rapporto/relazione fra etica e physis, in quanto l'etica si rivolge anche ai bisogni fisiologici primari. La questione è se si tratti o meno di fondamento/legittimazione (come da titolo del topic) o di appello argomentativo (v. esempio precedente sulla violenza) o campo d'applicazione (che è solitamente al capo opposto del fondamento, logicamente parlando).
La convinzione etica che «non si può prescindere da: dar da mangiare agli affamati, curare gli infermi, vestire gli ignudi»(cit.) non ha fondamento né nella natura né nella physis, ma in una morale che inevitabilmente si applica (non fonda) anche ad aspetti naturali e fisiologici.
Il fondamento è fondamento. La legittimazione deriva da una presa d'atto razionale del fondamento. Il campo di applicazione è la comunità di umani che condividono fame, freddo, malattie e morte.
CitazioneConcretizzando: se guardando la natura (umana o altro) riusciamo a dire «questo è bene» e «questo è male», è perché tali giudizi si fondano sulla natura che osserviamo o vi si applicano a posteriori? In sintesi: il bene/male etico è già negli occhi di chi guarda o si "scopre" guardando e studiando l'"oggetto naturale"?
Studiando l'oggetto naturale umano se ne individuano i bisogni totalmente condivisi sui quali si può costituire, a posteriori, un'etica fortemente condivisa. I comuni denominatori delle diverse dottrine giuridiche ce ne danno esempi consistenti.
CitazioneDetto altrimenti (riformulo alla ricerca della domanda meno ambigua): casa nella natura o nella physis (di)mostra che sia bene «dar da mangiare agli affamati»? Il fatto che altrimenti muoiano è un male solo per un paradigma che già presuppone l'assioma «la vita è un bene», ma tale paradigma non si fonda sulla (ma di certo è in relazione con la) natura, essendo essa un contesto in cui vita/morte sono solo cambiamenti di stato, di attività organico/energetica, di interazione fra cellule, batteri, etc. senza che sia in gioco «bene» o «male» (categorie degli uomini per gli uomini), almeno prima che l'uomo rivolga verso tali fenomeni naturali e fisiologici il suo sguardo già etico, di un'etica fondata altrove (e che, inevitabilmente, assegna alla vita umana un valore che, per natura, non ha; come ben ci spiegano i virus e le pandemie... per quanto riguarda l'istinto di sopravvivenza vale quanto già detto in precedenza sul non confondere etica ed istintività).
Infatti l'etica razionale non si costituisce su un fallace giusnaturalismo che trae belli e pronti i suoi precetti da quello
che fa la natura, ma da
come è la natura (umana) coi suoi bisogni naturali,
a priori di ogni elaborazione e postulazione etica.
CitazionePer chiarire ho già usato altrove il parallelismo con il linguaggio (parallelismo in senso euclideo, ovvero che non confonde i due ambiti): il fondamento della lingua italiana è tutto ciò che può esser detto in italiano (nomi, concetti, frasi, etc.) o l'insieme delle sue regole sintattiche, grammaticali, etc.? Se è l'insieme di tali regole (e non i referenti a cui l'italiano si applica), esse sono fondate sulla physis della nostra natura cerebrale (area del linguaggio, etc.) o su altro? Quale "spicchio" di physis o natura fonda il congiuntivo in italiano e lo rende assente in altre lingue? Da notare che non sto parlando del linguaggio in generale, ma nello specifico della lingua italiana che ci fa scrivere queste stesse frasi (proprio come la nostra etica, volgendosi agli altri uomini, ci fa dire «non si può prescindere da: dar da mangiare agli affamati, curare gli infermi, vestire gli ignudi»).
Secondo me, non c'è niente di male (appunto) nel riconoscere che abbiamo bisogno di etica e morale per dare coesione alla nostra vita sociale e culturale, un bisogno tale che non importa (fondativamente parlando, non contenutisticamente parlando) se siano dettate dal cielo divino o radicate nell'"oggettività" della natura o approntate storicamente dagli uomini, resta il fatto che non possiamo farne a meno (la stessa immoralità non è altro che una morale differente).
Qui il discorso è già molto a posteriori e poco physis trattandosi di sviluppo del linguaggio grammaticale.
Piuttosto sarebbe da approfondire se l'immoralità/no-etica è davvero una moralità/etica alternativamente opzionale o se non sia il caso di approfondire il
campo di applicazione etico, prima di posizionare ogni oggetto sullo stesso piano.
@Ipazia
Non vorrei che l'"accanimento maieutico" diventasse sconveniente, quindi proverò ad essere sintetico (per i miei canoni): affermare che «il fondamento è fondamento»(cit.) è un po' come rispondere alla domanda «perché?» con «perché sì»: un dogmatismo che è la tomba di ogni analisi ed indagine (filosofica o meno). Riguardo i "comuni denominatori" delle dottrine giuridiche: essi hanno da sempre lo scopo di tenere coesa e funzionale le società; se si consente di uccidere a piacimento, la società si sfalda, quindi si vieta l'omicidio con una legge che si basa sull'instaurazione del contratto sociale (altrimenti non ha senso parlare di legge), non sulla natura o sul valore della vita (valore che è infatti stabilito, utilmente ed arbitrariamente, a posteriori dal diritto). La natura non ha valori, né esistenziali né etici, ma, come detto, solo meccanismi, cambiamenti di stato, istinti, etc. sui quali fondare un'etica è frutto di interpretazione a posteriori; tutti i dibattiti etici sul fine vita assistito, sulla pena di morte, sul come dare la vita, etc. lo dimostrano, senza che il chiamare in causa il "fondamento della natura" risolva inappellabilmente le questioni etiche connesse.
Il «come è la natura (umana) coi suoi bisogni naturali»(cit.) non è l'«a priori di ogni elaborazione e postulazione etica»(cit.) ma è il campo d'applicazione dell'etica: ad esempio, di fronte all'immigrato affamato (che per "come è la sua natura" ha urgente bisogno di cibo) si può decidere se respingerlo in mare, o accoglierlo, o riportarlo dove morirà di fame, etc. senza che (v. sopra) si possa fare appello al "fondamento naturale" per falsificare eventuali posizioni etiche "malfondate" (il che dimostra che il fondamento è altrove e i bisogni naturali sono ciò su cui l'etica "legifera", o almeno giudica, ma non si fonda).
Direi che l'«a priori di ogni elaborazione e postulazione etica»(cit.) è, fino a prova contraria, la dicotomia bene/male, e andarli a rintracciare a posteriori nella natura comporta darne una lettura umanizzata: come già spiegato in precedenza, il bene è negli occhi di chi guarda, non nella natura, negli istinti, nei bisogni, etc. D'altronde se bastasse appellarsi ai bisogni primari per individuare o "dedurne" il Bene, allora l'etica sarebbe solo la versione poetica o la formalizzazione pre-giuridica della biologia; tuttavia, da quando sono nate le prime società sino alla complessità e la plurivocità delle questioni etiche contemporanee, si può anche sospettare che non sia troppo credibile rovesciare campo d'applicazione e fondamento, neppur per amore di "solidità".
Citazione di: Phil il 23 Maggio 2021, 00:01:14 AM
@Ipazia
Non vorrei che l'"accanimento maieutico" diventasse sconveniente, quindi proverò ad essere sintetico (per i miei canoni): affermare che «il fondamento è fondamento»(cit.) è un po' come rispondere alla domanda «perché?» con «perché sì»: un dogmatismo che è la tomba di ogni analisi ed indagine (filosofica o meno). Riguardo i "comuni denominatori" delle dottrine giuridiche: essi hanno da sempre lo scopo di tenere coesa e funzionale le società; se si consente di uccidere a piacimento, la società si sfalda, quindi si vieta l'omicidio con una legge che si basa sull'instaurazione del contratto sociale (altrimenti non ha senso parlare di legge), non sulla natura o sul valore della vita (valore che è infatti stabilito, utilmente ed arbitrariamente, a posteriori dal diritto). La natura non ha valori, né esistenziali né etici, ma, come detto, solo meccanismi, cambiamenti di stato, istinti, etc. sui quali fondare un'etica è frutto di interpretazione a posteriori; tutti i dibattiti etici sul fine vita assistito, sulla pena di morte, sul come dare la vita, etc. lo dimostrano, senza che il chiamare in causa il "fondamento della natura" risolva inappellabilmente le questioni etiche connesse.
Il "perchè sì" oppure "perchè è così" non è dogmatico quando si riveli l'unica risposta sensata alla fine, ovvero all'inizio, di un lungo percorso causale. E' vero che la natura non ha valori, ma i valori che noi decidiamo a posteriori sono, per i bisogni fondamentali, dipendenti dalla evoluzione naturale che ci ha resi così come siamo. La nostra etica riguardo i bisogni fondamentali è il campo di applicazione di condizioni biologiche che sono così perchè sono così. Fossimo immortali, erbivori, ermafroditi, tutta la nostra impalcatura etica e giuridica sarebbe diversa. Non ci sarebbe l'omicidio, gli animalisti e il patriarcato. Il campo correttamente giusnaturalista è quello in cui l'
a posteriori non è opzionale, ma è indotto con zero gradi di libertà dall'animale umano così come si è formato in natura.
Ci sarebbe tra l'altro da capire come mai anche in una dottrina giuridica così intrisa di proprietà privata come quella borghese-capitalistica il furto sia ritenuto meno "sfaldante della coesione sociale" dell'omicidio.
CitazioneIl «come è la natura (umana) coi suoi bisogni naturali»(cit.) non è l'«a priori di ogni elaborazione e postulazione etica»(cit.) ma è il campo d'applicazione dell'etica: ad esempio, di fronte all'immigrato affamato (che per "come è la sua natura" ha urgente bisogno di cibo) si può decidere se respingerlo in mare, o accoglierlo, o riportarlo dove morirà di fame, etc. senza che (v. sopra) si possa fare appello al "fondamento naturale" per falsificare eventuali posizioni etiche "malfondate" (il che dimostra che il fondamento è altrove e i bisogni naturali sono ciò su cui l'etica "legifera", o almeno giudica, ma non si fonda).
Sulla necessità di garantire la sopravvivenza a popolazioni inconsultamente prolificanti non ci piove, nella pia speranza che alfine si diano una regolata giusnaturalisticamente compatibile con il loro impatto prolificante. Ma il come farlo lo decide chi le soccorre, non chi ha bisogno di essere soccorso. Se la fame è di welfare e non di cibo non siamo più in ambito giusnaturalistico "fame". E ancor meno lo siamo se la fame di welfare si trasforma in invasione. La quale sposta il campo di applicazione del naturalismo etico al piano decisamente meno solidaristico della difesa delle risorse sociali del branco che si sente minacciato.
CitazioneDirei che l'«a priori di ogni elaborazione e postulazione etica»(cit.) è, fino a prova contraria, la dicotomia bene/male, e andarli a rintracciare a posteriori nella natura comporta darne una lettura umanizzata: come già spiegato in precedenza, il bene è negli occhi di chi guarda, non nella natura, negli istinti, nei bisogni, etc. D'altronde se bastasse appellarsi ai bisogni primari per individuare o "dedurne" il Bene, allora l'etica sarebbe solo la versione poetica o la formalizzazione pre-giuridica della biologia; tuttavia, da quando sono nate le prime società sino alla complessità e la plurivocità delle questioni etiche contemporanee, si può anche sospettare che non sia troppo credibile rovesciare campo d'applicazione e fondamento, neppur per amore di "solidità".
La dicotomia bene/male non trae ispirazione dall'iperuranio, ma sempre dalla natura: vita=bene, morte=male. Tutto il resto dell'impalcatura etica si regge su questo paradigma naturalistico, nel quale anche le eccezioni confermano la regola. Del tipo che la morte diventa accettabile se in cambio ottieni la vita eterna. Che il sacrificio della vita è giustificato se permette la sopravvivenza di altre vite, ecc. Per quanto la scansi, la natura irrompe da ogni buca scavata nelle sovrastrutture etiche più apparentemente arbitrarie, appena ci si accinga ad una indagine ermeneutica accurata. Non certo facile, vista la complessità dell'etologia umana e i numerosi piani di bisogni e desideri in cui essa si articola. Tale complessità si ripercuote anche sulla "deducibilità" dei principi etici: la stessa acqua che nel deserto è un/il bene preziosissimo, poco di fianco può significare malaria, alluvione, quindi un/il male. Non solo il fondamento, ma anche il campo di applicazione esige un'ermeneutica accurata.
Sulla non arbitrarietà dei fondamenti etici la verifica è facile e, analogamente alle dimostrazioni matematiche per assurdo, investe il campo della non-etica. Salvo patologie psichiatriche, nessun assassino, ladro, truffatore, mentitore, violento, ama essere ucciso, derubato, truffato, ingannato, violentato. L'etica non solo ha fondamenti solidi nella natura ma, falsificando le metaetiche arbitrarie, ha pure un senso di marcia non reversibile. Il che dà indubbiamente "solidità" al discorso etico.
Premettendo che l'«è cosi» applicato alla
ricerca/legittimazione di
fondamento non è comparabile con l'«è così» applicato alla
constatazione della
realtà (che potrebbe anche essere spiegata valicando il fatalismo di quell'«è così», ma non divaghiamo), pongo solo alcune domande per assicurarmi di aver ben capito la tua posizione:
Citazione di: Ipazia il 24 Maggio 2021, 00:06:46 AM
La dicotomia bene/male non trae ispirazione dall'iperuranio, ma sempre dalla natura: vita=bene, morte=male. Tutto il resto dell'impalcatura etica si regge su questo paradigma naturalistico, nel quale anche le eccezioni confermano la regola.
quindi la natura (im)pone bene/male nella dicotomia vita/morte, ovvero la morte per la natura è male, non è solo un processo di trasformazione? Non ricadiamo in una anacronistica
teodicea applicata alla natura ("come può la natura alimentare il proprio male")?
Non è che si sta leggendo con categorie
culturali umane quello che in natura è solo un istinto di sopravvivenza (tanto quanto l'aggressività, solo che questa viene
interpretata e
giudicata moralmente, non a caso, diversamente
dall'uomo)? Verrebbe quasi da chiedere dove tale "natura moraleggiante" (e antropomorfizzata in quanto persino filosofeggiante) fondi il suo bene/male... ma è di certo un'altra storia o un altro troncante «è così».
Citazione di: Ipazia il 24 Maggio 2021, 00:06:46 AM
Sulla non arbitrarietà dei fondamenti etici la verifica è facile e, analogamente alle dimostrazioni matematiche per assurdo, investe il campo della non-etica. Salvo patologie psichiatriche, nessun assassino, ladro, truffatore, mentitore, violento, ama essere ucciso, derubato, truffato, ingannato, violentato.
Dunque, stando a tale "dimostrazione" basata su ciò che l'uomo "naturalmente" non ama (senza voler sviluppare il pericoloso piano inclinato che lega ciò che il singolo vuole/ama e il bene della società, questione per nulla "naturale"), la natura fonda anche la proprietà privata come bene (il cui furto è male), la correttezza
morale del non truffare, etc.?
Non è che rovesciando fondamento e campo di applicazione possiamo farle fondare,
ad libitum, anche tutto ciò che invece
è sembrerebbe fondato piuttosto sulla cultura (v. diritti individuali, umani e altre convenzioni contrattualmente stabilite, senza voler entrare nel merito, che presuppone appunto la comprensione dei fondamenti da cui si parte)?
Citazione di: Phil il 24 Maggio 2021, 11:24:08 AM
Premettendo che l'«è cosi» applicato alla ricerca/legittimazione di fondamento non è comparabile con l'«è così» applicato alla constatazione della realtà (che potrebbe anche essere spiegata valicando il fatalismo di quell'«è così», ma non divaghiamo),
Vi è un processo ermeneutico a legittimazione di quel "è così" che sto cercando di esplicitare.
Citazione...pongo solo alcune domande per assicurarmi di aver ben capito la tua posizione:
Citazione di: Ipazia il 24 Maggio 2021, 00:06:46 AM
La dicotomia bene/male non trae ispirazione dall'iperuranio, ma sempre dalla natura: vita=bene, morte=male. Tutto il resto dell'impalcatura etica si regge su questo paradigma naturalistico, nel quale anche le eccezioni confermano la regola.
quindi la natura (im)pone bene/male nella dicotomia vita/morte, ovvero la morte per la natura è male, non è solo un processo di trasformazione? Non ricadiamo in una anacronistica teodicea applicata alla natura ("come può la natura alimentare il proprio male")?
Non è che si sta leggendo con categorie culturali umane quello che in natura è solo un istinto di sopravvivenza (tanto quanto l'aggressività, solo che questa viene interpretata e giudicata moralmente, non a caso, diversamente dall'uomo)? Verrebbe quasi da chiedere dove tale "natura moraleggiante" (e antropomorfizzata in quanto persino filosofeggiante) fondi il suo bene/male... ma è di certo un'altra storia o un altro troncante «è così».
Si sta leggendo l'istinto di sopravvivenza come fondamento di un elaborato culturale di tipo etico. Non arbitrariamente, ma in quanto elemento ontologico sine qua non. Il bigbang della condizione biologica. Bigbang che funziona come Dio nell'immaginario moderno. Se non radichiamo lì l'etica, dove altro potremmo farlo. Neppure la cultura nasce nell'iperuranio. Dalla mia parte vi è pure la causalità aristotelica: no marmo, no statua. La causa materiale funziona anche nell'artefatto etico, nell'etica/morale che è arte della convivenza umana. Con le sue propaggini sociali e individuali. Se parliamo di causalità non è più "perchè è così", ma si spiega pure "perchè è così".
CitazioneCitazione di: Ipazia il 24 Maggio 2021, 00:06:46 AM
Sulla non arbitrarietà dei fondamenti etici la verifica è facile e, analogamente alle dimostrazioni matematiche per assurdo, investe il campo della non-etica. Salvo patologie psichiatriche, nessun assassino, ladro, truffatore, mentitore, violento, ama essere ucciso, derubato, truffato, ingannato, violentato.
Dunque, stando a tale "dimostrazione" basata su ciò che l'uomo "naturalmente" non ama (senza voler sviluppare il pericoloso piano inclinato che lega ciò che il singolo vuole/ama e il bene della società, questione per nulla "naturale"), la natura fonda anche la proprietà privata come bene (il cui furto è male), la correttezza morale del non truffare, etc.?
Non è che rovesciando fondamento e campo di applicazione possiamo farle fondare, ad libitum, anche tutto ciò che invece è sembrerebbe fondato piuttosto sulla cultura (v. diritti individuali, umani e altre convenzioni contrattualmente stabilite, senza voler entrare nel merito, che presuppone appunto la comprensione dei fondamenti da cui si parte)?
Anche la proprietà privata ha una legittimità naturalistica prima che l'organizzazione statale classista la faccia divenire strumento "culturale" di espropriazione e oppressione umana. Il furto di cibo tra animali non mi pare cosa gradita, pur in assenza di codici positivi umani. L'inganno non è coesivo del branco nemmeno dove regna la legge naturale. L'etologia animale mostra i presupposti naturalistici della stessa etologia umana su cui si evolve la sovrastruttura etica in concordanza con gli aspetti che promuovono la socialità e in superamento di quelli che la minano, altrettanto presenti in natura. Il piano inclinato si supera da solo nella coincidenza tra individuale e sociale, negli esempi da me riportati. Fatte salve patologie gravi sempre possibili. Da indagarsi medicalmente nella loro causalità, in quanto atipiche e autolesive.
Altre note sintetiche: la "causalità" dell'istinto di sopravvivenza, proprio in quanto istinto, spiega l'etologia, non l'etica: l'istinto non ci dice di dover sopravvivere perché è bene (come viene letto a posteriori dai paradigmi etici), ma solo che siamo "programmati" per sopravvivere (e non solo per quello). Dove altro potremmo fondare l'etica? In qualcosa che consenta di fondare la dicotomia a priori dell'etica, bene/male, che risulta assente nella natura in sé: non c'è causa materiale che preveda bene/male (ammesso e non concesso che l'etica, immateriale, abbia una causa materiale). La causalità spiega genealogicamente il «perché è così» dei valori (storia della morale), senza tuttavia arrivare fino alla natura, che ai valori non garantisce appoggio: il cane non ama che gli si rubi l'osso, non perché è un gesto immorale o perché abbia il concetto di proprietà privata, ma perché istintivamente vuole avere cibo, sapendo che ne ha/avrà bisogno. La "sovrastruttura etica" si basa, storicamente parlando, su un grado minimo di autonomia comportamentale dell'uomo rispetto alla natura e agli istinti, si rivolge alla gestione dei bisogni primari in una società, non vi si fonda: il fatto che si ritenga giusto (e bene) che il cibo non sia gratis per tutti, è un "bene" eloquente riguardo il fondamento dell'etica sui bisogni primari. Ricorrendo alla cultura (da declinare al plurale, chiaramente), invece, la spiegazione mi sembra piuttosto scorrevole. Sul rapporto fra singolo e comunità: gli esempi da te fatti dimostrano quanto la vicinanza alla natura degli istinti (e, talvolta, ai bisogni primari) comporti divergenza dal bene etico (comunemente inteso): il violento usa violenza senza amare riceverla, l'affamatore non ama morire di fame, il ladro ruba ma non ama essere derubato, etc, proprio perché il rapporto fra l'individuo e la società fa nascere problemi di convivenza, pragmatica e morale, che non "si superano da soli", né appellandosi al fondamento etico della natura ("spoilerando": messi in secondo piano ma non eliminati, la natura, gli istinti e l'universalità dei bisogni primari, è qui, di fronte alla suddetta dialettica singolo/società, che nasce l'etica).
Phil, mi pare che ci sia nella tua visione del mondo un elemento aureolare, idealistico, delle culture, che porta ad una cesura netta tra la "materia" umana e il suo pensiero. Posizione legittima, per carità, ma altrettanto infondata del giusnaturalismo più integrale. Cesura che si manifesta nella negazione della relazione esistente tra etologia ed etica. Più pragmaticamente, io prendo atto che senza la pietra non vi sarebbe la scultura e che allo spirito umano rimane lo spazio autonomo della differente genialità tra Prassitele e l'anonimo scultore di Veneri neolitiche. Spazio che tornerebbe a svuotarsi per entrambi se quella pietra non fosse esistita. Col che se ne certifica anche la sua condizione antropologica di valore, di bene (la duplicità semantica di "bene" inteso in senso materiale ed etico/spirituale non è casuale). La mia visione è più olistica e non scinde le pulsioni originarie, istintive, animali, dalle invenzioni ed elucubrazioni dello spirito. Garantendo con ciò a ciascuna parte dell'ontologia umana la sua relativa autonomia dal tutto e il suo relativo campo di applicazione. Senza isolare tale campo di applicazione da quello più comprensivo dell'evoluzione umana. Tale approccio ha anche un carattere di prassi filosofica ed etica più proficuo in termini persuasivi (Parmenide) rispetto all'isolare nell'individuo l'universo etico. Operazione peraltro epistemicamente dubbia nel voler prescindere dai denominatori comuni sociali dell'evoluzione etica. La quale non è fissa su principi immutabili, ma quando muta non lo fa a caso.
P.S. Quando mai i fondamenti hanno determinato il comportamento delle loro creature ? Solo nella fantasia sillogistica degli idealisti. Basti pensare agli esiti delle avventure genitoriali. Ma hanno comunque un'autorevolezza epistemica ed etica per poterci impostare sopra dei progetti umanistici razionali.
Giurerei (seppur da ateo) di aver una visione del mondo all'opposto dell'idealismo, almeno quando si parla di culture: finora le ho focalizzate, correggimi se sbaglio, come un gruppo di persone che si organizza in itinere per il quieto vivere, senza ideali assoluti o fondamenti forti inoppugnabili, proprio perché l'uomo è "materia" (biologia, istinto, etc.) che avendo la capacità di astrarre concetti può inventarsi un'etica, chiamando «bene» (questa sì operazione idealistica e fondativa) ciò che sembra funzionare per tenere assieme il branco (ciò che è utile al branco). Tuttavia quando gli si chiede di presentarne il fondamento, allora non resta che appellarsi agli dei (infalsificabili), alla natura (interpretata a posteriori secondo l'etica che già si preferisce, v. discorsi gender che si litigano la natura selettivamente) o, proprio fuori da ogni idealismo, constatare il ruolo dinamico, documentato e tracciabile, della storia delle differenti culture (anche se ciò rende un po' debole ogni affermazione del tipo «questo è bene, quello è male»).
Riconoscere ad esempio che non è un bene né un male restare vivi o nutrirsi, ma solo una pulsione istintiva a cui si è aggiunto nei secoli un plusvalore sociale, quello appunto etico (canonizzato in leggi e convenzioni sul "valore" della vita), non credo comporti una cesura fra l'essere umano e il suo pensiero, anzi direi che riconduce il pensiero dell'uomo, proprio quando si fa troppo "idealistico", alla sua umanità corporea e disincantata (essendo una constatazione basata su ciò che è stato e tuttora è storia, non su giudizi di valore).
La cesura fra etologia ed etica è dunque la "doverosa" (metodologicamente parlando) cesura fra constatazione e valutazione, fra analisi e giudizio di valore, fra, come detto, «quegli animali si riproducono» e «quegli animali devono riprodursi perché ciò è bene», oppure «quell'animale è stato ucciso» ed «è un bene che quell'animale sia stato ucciso o scacciato dal branco poiché ne aveva trasgredito le regole», etc. Ciò non significa idealizzare l'uomo, anzi, è l'antidoto ad ogni idealizzazione che l'uomo fa di sé in quanto "animale speciale"; l'etica si rivela allora nient'altro che un modo, sociale e culturale, di adattamento all'ambiente, fondato (stavolta direi di sì) sulla capacità di concettualizzazione tipica dell'uomo, che egli ha immesso nella sua storia, dai miti per spiegare i fulmini, ai testi sacri, al valore morale della tradizione (di cui uno del lasciti è il concetto di Bene ereditato dalle religioni), tutto ciò senza avvedersi che la sua etica, con cui vuole e può giudicare l'umanità, non ha fondamento più saldo della grammatica della lingua che parla: entrambe culturalmente denotanti il suo esser-uomo, sebbene, mi pare, nulla di eccessivamente univoco o incontrovertibilmente fondato su una qualche "oggettività a priori".
P.s.
Se il fondamento è davvero tale, non può non determinare, nel senso di influenzare, il comportamento di ciò che viene fondato: la dicotomia bene/male determina il "comportamento" di ogni etica (nel suo strutturarsi), la grammatica determina il "comportamento" di ogni discorso, etc. e anche qui non riscontro idealismi, quanto piuttosto constatazioni. Riguardo i genitori: essi non fondano(?) la morale dei figli, sono solo uno dei fattori culturali dell'imprinting che caratterizzerà gli attributi della morale dei figli, assieme agli amici, ai social, alle letture, ai vissuti, etc. per questo spesso «la mela è caduta lontano dall'albero»(cit.) senza che si tratti di un miracolo. La morale dei figli sarà fondata sulla dicotomia bene/male, come ogni morale prevede, mentre il contenuto esatto di tali due categorie non sarà necessariamente il risultato di un prevedibile e calcolabile "copia e incolla" della cultura in cui crescono (potrebbero esserci buddisti anche in Congo).
Non mi convince la cesura tra etologia ed etica. Come ho già detto: se fossimo immortali, erbivori e ermafroditi anche le etiche sarebbero completamente diverse. Se noi dissociamo etologia da etica possiamo inventarci tutte le etiche che vogliamo, ma poi il fondamento materiale reclama i suoi diritti e si ritorna sempre al centro di gravità permanente dei bisogni saldamente radicati nell'ethos ed in physis.
Esistono anche piani morali più lontani dal fondamento naturale, dotati di un maggiore grado di libertà nei comportamenti (più o meno altruistici, socializzanti, laboriosi, artistici, edonistici, mistici,...), ma quelli contigui ai bisogni naturali continuano a pesare finché dovremo sottostare alla biologia di cui siamo fatti. Quei piani in cui il bene e il male fisici e morali si toccano da vicino.
Buongiorno a tutti
Il male fa male (fa soffrire) e il bene fa bene (fa gioire). Naturalmente si preferisce gioire che soffrire. Sembra un'ovvietà ma è la base dell'etica. Gli antichi si accorsero presto che il male , anche se può far godere momentaneamente, alla fine porta sofferenza e viceversa il bene, anche se non sembra far gioire subito, fa gioire sé e gli altri nel tempo. Se ne accorsero "naturalmente": se si comportavano bene con un figlio , per esempio, quasi sempre il figlio ricambiava nel tempo. Se trattavano bene il compagno/a (senza far soffrire) quasi sempre venivano trattati bene. Insomma la regola aurea. Non vedo molto di culturale in questo, ma un atteggiamento intelligente e naturalmente empatico applicato alla prassi esistenziale. Trasversale ad ogni cultura, salvo aberrazioni che sorgono come cancri devastanti, se non rimossi in tempo. Essendo infatti la natura una forza cieca ci sono sempre individui che, spinti dal desiderio immediato o dall'ignoranza (che il male fa male) non applicano questa regola e seguono un'altra strada. Sorge così la storia del mondo, con tutti i drammi e le tragedie che conosciamo, ma anche con l'affermarsi nella consapevolezza , sempre provvisoria e in bilico, che il bene fa bene ( a sé e agli altri). In questo processo di consapevolezza le grandi religioni hanno avuto storicamente un ruolo fondamentale. La riflessione spirituale però sviluppa l'etica naturale già presente : non serviva certo che Mosè mettesse su pietra che non si doveva uccidere. era un codice già presente nel popolo ebraico, visto che quasi ognuno aveva caro il "prossimo", spesso anche colui che pensava che il bene non fa bene. La religione lo fa diventare legge, a volte sacrificando l'autenticità e la spontaneità di questa intuizione, ma portando (nello sviluppo) all'estensione del principio oltre il piccolo gruppo d'appartenenza, il clan, la tribù e cercando quindi di superare la dicotomia amico-nemico (universalismo religioso). La natura è l'imprescindibile punto di partenza e anche la riflessione spirituale, intellettuale e quindi morale non può che svolgersi nel suo alveo, dando coscienza e consapevolezza a questa forza cieca, "nobilitandola" si potrebbe dire.