Sariputra..te la sentiresti di spiegare, se e per quanto possibile il Buddhismo?ho pensato che aprendo questo Topic specifico si potrebbe tentare cosi di fare più chiarezza e in maniera più raccolta,di quanto finora mi e' capitato di leggere dai tuoi numerosi interventi in merito.Per quanto mi riguarda non sarei per niente interessato ad una "cronistoria" del buddhismo,bensi di quella che sarebbe la sua filosofia (ma e' una filosofia il buddismo?) insomma la sua essenza in tutti i suoi aspetti.per cominciare prendo spunto da quanto avresti scritto qui sotto in un altro Topic dicendo;CitazioneCome sai un buddhista, alla tua domanda se è una metafisica ti guarderebbe strano e ...ti manderebbe a pelare le patate! Questo perché il Dharma è la pratica. Non esiste una filosofia buddhista autentica che prescinda dalla pratica. Ciò non toglie che, secoli dopo la morte del fondatore, del grande medico della sofferenza umana, si sia sentito il bisogno di dare una sistematicità filosofica all'insegnamento. A parer mio, sperando che qualche maestro non mi legga, la filosofia è una metafisica. Metafisica che si pone l'obiettivo di superare la metafisica stessa, senza sfociare nel nichilismo o nel dogmatismo. La Via di Mezzo, ossia stare lontani da ogni estremo, è consapevolezza dell'impossibilità del pensiero di trascendere i suoi limiti..
Per provare a capire meglio non ho potuto fare a meno di constatare (almeno dal mio punto di vista) delle contraddizioni che se ti fara piacere mi spiegherai meglio tu.Prima di tutto non penso che la filosofia e' una metafisica e poi come può la metafisica superare se stessa se questa nel suo implicito significato e' infinita e illimitata?"Superare" intende oltrepassare un limite,altrimenti cosa ci sarebbe da superare?un altro esempio quando in diverse occasioni mi pare che tu affermi che non ce nessun "Se" o se preferisci non esiste nessun fondamento o nessuna origine a nulla (cosi mi sembra di aver capito da quanto dici)Ma se non ce un identita fondativa,poiche ci sarebbero solo aggregati effimeri ed inesistenti chi sarebbe a proclamarlo? l'effimero e l'inesistente? Ma se e' inesistente allora non dovrebbe nemmeno esserci qualcuno o qualcosa che lo proclamaOppure nel momento che tu affermi sostanzialmente che non vi sia un identita,non sarebbe nello stesso affermare qualcosa,l'affermazione stessa dell'identita? (Spero che la parola identità non porti ad equivoci,l'identita a cui faccio riferimento non e' l'IO - soggetto "isolato")E poi..il buddismo e' una filosofia? Un metodo?...che aiuta a liberarsi dalla sofferenza,(giusto?) ...ma "chi" e' ad abbandonare la sofferenza,ossia da dove proviene questo "chi" se come sopra non dovrebbe affatto sussistere e percio fare la benché minima comparsa?
@ Acquario69
Qualcosa di meno faticoso no, Eh...? Mi chiedi di riassumere 2.500 anni di Dharma in poche parole. Un argomento su cui cui disponiamo di una letteratura immensa. Per non essere noioso e ripetitivo e continuare a ripetere le stesse cose, che troviamo poi in maniera abbondante nei vari siti web dedicati, penso che sia più interessante spiegare cos'è il buddhismo per il Sari, l'essere inadeguato che vive a Sotto il Monte. Quindi...perdonami se ti parlo di cos'è il Dharma per me, ma penso che risulti più comprensibile, più "vero" e probabilmente meno noioso. Tra l'altro il Dharma, per come lo intendo io, che non sono un achaan ( un maestro ) è quella possibilità di colui che sa più poetica e profonda in cui mi sono imbattuto e sempre fonte di ispirazione e di conforto. Se non c'è comprensione profonda, non comprensione intellettuale, ma un sentire autentico, profondo della vastità dell'esperienza della sofferenza umana è difficile rivolgersi alla ricerca di una medicina per alleviarla. Questo sentire la sofferenza come "il problema" è alla base del mettersi nel cammino insegnato dal principe Siddhartha del clan degli Shakya. Il piccolo Sari, per le vicende della vita, s'imbattè presto, prestissimo con questa realtà della sofferenza ( che non è una realtà metafisica o relativa, ma qualcosa che fa proprio male...). Lunghi periodi di cecità , a causa di problemi agli occhi che vennero risolti solo con il tempo e con gli interventi chirurgici, altri problemi di salute e quindi l'isolamento, la solitudine, il dover continuamente rincorrere gli altri a scuola, gli resero evidente che quello ero il vero problema della vita. Tutti noi siami figli della nostra storia. Io non credo affatto a tutta la leggenda del principe Siddharta che viveva solo nel piacere e nella beata ignoranza del dolore. Era innanzi tutto un uomo che percepiva , forse come nessun'altro prima, la vastità e l'urgenza di dare una risposta a questo "sentire". E cosa fa un principe indo-ariano per cercare la strada di uscire da questo dolore? Usa i metodi che sono tipici della sua millenaria cultura , ossia i metodi dello yoga, della meditazione e della concentrazione, ossia del rivolgersi all'interno della propria mente e non cercare le risposte all'esterno, come avremmo fatto noi, magari correndo in cerca di qualche farmaco in farmacia...Compresa questa necessità, comprendiamo il primo 'fondamento' del Dharma : tendere all'estinzione di dukkha ( dolore, sofferenza, carattere insoddisfacente della vita, ecc.). Visto però che l'esperienza della sofferenza è un'esperienza diretta interna che si sperimenta, anche il rimedio deve essere un'esperienza diretta interna sperimentabile. Abbiamo quindi il secondo fondamento: la pratica del Dharma deve possedere una coerenza interna sperimentabile direttamente, senza dover ricorrere alla fede in un'altra persona. Sono due requisiti imprescindibili. Il Buddha si rifiutò di occuparsi di tutto ciò che non conduce all'estinzione di dukkha, senza prenderlo nemmeno in considerazione. Domande come: il mondo è eterno o non è eterno, il paesaggio esiste o non esiste, è assoluto o relativo, ecc. rimangono semplicemente sullo sfondo. Tutte le problematiche che non conducono all'estinzione di dukkha, non hanno il minimo rapporto con l'insegnamento del Buddha ( ci lavoreranno molto sopra gli infedeli seguaci nel corso della storia...). Chi si pone queste domande non ha modo di verificarle direttamente e deve affidarsi o credere alle parole altrui. A poco a poco l'argomento si allontana dall'Insegnamento e si trasforma in qualcosa di diverso, estraneo al problema dell'estinzione di dukkha. Oggigiorno l'etichetta 'Buddhismo' viene applicata a qualcosa di molto nebuloso, talmente vasto da non essere nemmeno identificabile. Al tempo di Buddha si usava la parola Dharma ( Dhamma in lingua pali). Il Dharma del Buddha ricevette il nome di 'Dharma dell'asceta Gotama'. Chi seguiva un determinato Dharma ( Insegnamento) lo esaminava e lo metteva in pratica com'era, nudo e crudo, senza imbrogli, senza la selva di congetture che gli sono state costruite sopra in seguito. Se pensiamo anche al messaggio fondamentale del Cristo, 'Ama il prossimo tuo come te stesso', era così, semplice , nudo e crudo, lo ascoltavi e provavi a metterlo in pratica. L'uomo moderno ha perso questa semplicità, che è anche immediatezza, riconoscere l'essenziale, impegnarsi autenticamente in un cammino spirituale. L'uomo moderno fa semplicemente raccolta di nozioni spirituali, ma non le pratica. Le legge , le studia, ci si azzuffa sopra, uno contro l'altro, la mia idea contro la tua, e poi le mette là, nella libreria, a ricoprirsi di polvere...
Per adesso mi fermo, che ho le dita anchilosate dal battere, spero che qualche volenteroso prosegua (Apeiron, Bluemax?...) , ripagherò con due dita di prosecco ( in orizzontale s'intende... :)).
P.S: Adesso che lo rileggo , mi rendo conto che forse non è adatto alla sezione 'filosofia' ma a quella 'spiritualità'. Ma forse Apeiron o Bluemax sapranno rimediare...
Citazione di: Sariputra il 16 Febbraio 2017, 09:44:04 AM
Qualcosa di meno faticoso no, Eh...?
;D
Per quanto riguarda la sofferenza "presto, molto presto" ti assicuro che ne so qualcosa anch'io..e se permetti posso arrivare a capire e condivido con te che ognuno e' figlio della nostra storia e poi apprezzo la franchezza "nudo e crudo senza imbrogli" insieme all' "ama il prossimo come te stesso"quindi va bene i libri e le congetture mettiamoli pure da parte, sono d'accordo con te...allora il buddhismo che sarebbe,un metodo,una modalità "personalizzata" utile per liberarsi dalla sofferenza?per questo fai cenno allo yoga..ma lo yoga non e' da intendersi come unione cioè' come intuizione di far parte stessa del Tutto? ...o sarebbe solo una sensazione e percio chiusa al proprio interno?..chissa se a Duc leggendo il tuo intervento,non gli sia proprio venuto subito dopo di fare questo commento (?)CitazioneMa sia il relativismo che la metafisica sono nient'altro che mezzi e non il fine dell'esistenza: le scelte quotidiane.
si ma cosa distingue il fine dai mezzi?.. sono forse da ritenersi la stessa cosa? ..e sono davvero soltanto le umane scelte quotidiane a fare la distinzione?
@acquario69
Sì. il Dharma del Buddha ( Dharma è un termine più corretto rispetto a 'Buddhismo' , che vuol dire tutto e niente...) è essenzialmente un metodo pratico, una 'medicina' per superare lo stato insoddisfacente della propria esistenza ( quindi doloroso ) per 'dimorare' in uno stato privo di questa sofferenza ( quello che viene comunemente chiamato Nirvana). Questo dimorare è una qualità sempre presente nella mente , ma che viene offuscata dall'attaccamento o dall'avversione ai fenomeni sensoriali, dall'ignoranza della propria autentica realtà e da pensare di essere 'separata', quindi "Io". ' Coperta' da quello che chiamano samsara ( che lett. vuol dire 'coperto'). Tu dirai, ma se non c'è "Io" chi è che dimora nella non-sofferenza? Qui non posso darti una definizione , perché tradirei l'Indescrivible, autocontraddicendomi . Qualunque definizione e paragone non è adeguato. Si può solo indicare la via per raggiungere questa 'dimora', consapevoli che non si tratta di andare da qualche parte. Questo Indescrivibile ha preso tanti nomi nel corso dei secoli: la 'Pura Terra', la 'Mente di Buddha', la 'Dimora senza nome', la 'Casa della pace', ecc.
Personalmente , vista la mia tara mentale, mi piace chiamarlo 'Il suono del vento tra gli alberi', quello che amo ascoltare alla notte... :) ( fatto mio dalla grande scrittrice e poetessa giapponese Murasaki Shikibu e tratto dalla sua opera Genji Monogatari...)
Tieni conto però che il mio è un 'dharma mistico', se così si può dire. Io sono un buffone del Buddha... ;D
I miei "two cents":
Il "nucleo dottrinale" del buddismo è riassunto nelle Quattro Nobili Verità e nei Tre Caratteri Fondamentali dell'Esistenza. Le quattro nobili verità:
1) Esiste il "dukkha": ossia l'esistenza è sofferenza. Perchè mai ciò è vero? Ebbene perchè o vi è sofferenza oppure perchè quando arriva qualcosa che ci rende felici inesorabilmente prima o poi quel qualcosa svanisce;
2) C' una causa del "dukkha": la causa della sofferenza è l'attaccamento a questi stati piacevoli.
3)Fin qui sarebbe veramente deprimente. Ma arriva una luce di speranza che è la terza nobile verità: esiste per così dire uno "stato" privo dalla sofferenza, il Nirvana ("estinzione").
4) Esiste un modo pratico per ottenere l'Estinzione. E questa è la parte principale del buddismo, ossia la pratica!
Collegato a ciò si deve anche giustificare tutto questo e lo si fa con i tre caratteri fondamentali:
1)anicca: ossia impermanenza. Precisamente: tutto ciò che dipende da condizioni è impermanente. Quindi TUTTI gli esseri viventi, compresi quelli residenti nel più infimo degli inferni (naraka), sia i deva che si godono il paradiso sono in realtà soggetti al declino. Per questo motivo ogni attaccamento è un male. E qui d'altronde c'è la dolorosa verità, ossia la "diagnosi" che bisogna accettare pienamente: tutti gli stadi dell'esistenza sono impermanenti. E ciò che è impermanente causa dolore (dukkha)!
2)dukkha (non lo descrivo)
3)anatta. L'anatta è molto più "subdolo", nel senso che è difficile da comprendere e guarda caso è proprio la comprensione di questa dottrina che ti conduce alla liberazione. L'anatta significa "non-sé". In senso stretto è una conseguenza di anicca e dukkha: ciò che è impermanente è doloroso e quindi non può essere né (veramente) "mio", né "me". E il Nirvana? Ecco qui in realtà non c'è un "vero consenso". Il Dhammapada però è lapidario: "tutto è anatta" (versetto 279). Ora Nirvana è descritto come "amata" (senza morte), permanente ecc. La domanda sorge: come può essere dunque "un non-sé"? In nessuna sutta è davvero spiegato questo problema. Anzi sembra che Buddha ritenga questa domanda come "inutile". Perchè? L'importante è la pratica! Solamente quando arriverai alla Liberazione/Nirvana capirai cos'è! In ogni caso è descritto come uno "stato" in cui ci si è liberati da ogni attaccamento e quindi da ogni pensiero di "io" e di "mio". In sostanza è una sorta di "suicidio epistemologico" in quanto il pensiero è morto. E non a caso il Nemico Mara (parola che è legata al concetto di "morte") cerca di ingannare facendo in modo che al praticante vengano i pensieri del tipo "io e mio". Mara d'altronde, il Re del Samsara, vuole che continui il ciclo delle rinascite per continuare il ciclo di sofferenza e di morte. Come vincere Mara? Beh arrendendosi! Ci si deve arrendere da ogni pretesa di identificazione, da ogni pretesa di possesso.
Fatta questa escursione spero che sia chiaro che per il buddismo il vero problema è che "io" e "mio" conducono all'attaccamento per "cose" impermanenti. Questo è l'atto di fede che devi fare per inziare la pratica: non ci sono rinascite permanenti. Realizzato ciò "si inizia".
P.S. Per quanto mi riguarda credo che la dottrina abbia un grosso problema perchè non c'è vera distinzione tra l'Eterno Oblio e il Nirvana. Ma questa è una mia opinione...
Citazione di: Sariputra il 16 Febbraio 2017, 12:13:58 PM
...se così si può dire. Io sono un buffone del Buddha... ;D
Be' Misa che siamo piu o meno tutti un po "buffoni" in questi esistenza,ognuno con una parte gia assegnata in partenza....
Comunque secondo me la tua parte la sai fare molto bene 8)
Noto Che al momento il buddhismo non desta particolare interesse...a parti due miseri cents appena incassati ;D
Grazie per il confronto :)
** scritto da acquario69:
Citazionesi ma cosa distingue il fine dai mezzi?.. sono forse da ritenersi la stessa cosa? ..e sono davvero soltanto le umane scelte quotidiane a fare la distinzione?
La scelta rende a colori ciò che era in bianco e nero (o in sfumature di grigio, visti i tempi). Il fine è centrare il bersaglio, può essere una vita piena o una duratura, o quel che uno intende col realizzarsi esistenzialmente, tanto il desiderio che attiva i mezzi: la spiritualità, la metafisica, il relativismo o la religione, è sempre lo stesso.
acquario69, non è vero che c'è poco interesse per il buddismo. Personalmente lo ritengo una filosofia MOLTO interessante. Tuttavia in questo thread ho enunciato le mie perplessità sullo "scopo finale": https://www.riflessioni.it/logos/tematiche-spirituali/nirvana-moksha-karma-e-'eutanasia'/
Ci sono concetti davvero molto belli come ad esempio: l'impermanenza, la sofferenza che nasce dall'errata identificazione, la sofferenza che nasce dall'illusione del possesso. Inoltre è anche una filosofia che non è molto antropocentrica (anche se in verità una rinascita umana è "speciale" e l'uomo e l'animale sono sempre distinti). Non c'è nemmeno il problema secondo me del "risentimento", anzi c'è l'idea che si possa avere un progresso spirituale tra una vita ed un'altra.
Ritengo il Canone Pali (ne trovi una parte consistente qui: http://www.canonepali.net/index.html) un'opera di una genialità incredibile e ne consiglio la lettura. Magari per iniziare leggi il Dhammapada http://www.canonepali.net/dhp/dhp_index.htm.
In sostanza trovo nel buddismo molte cose buone, tuttavia non mi considero "buddista" appunto perchè non sono d'accordo con tutto.
In ogni caso il taoismo è praticamente identico anche in riferimento alla dottrina dell'anatta anche se ad un buddista non piacerebbe l'idea di "unirsi al Tao", anche se nel taoismo questo concetto mi sa tanto di puro valore "metaforico" (nel senso che l'importante anche qui è liberarsi del'io):
"«L'uomo perfetto è senza io, l'uomo ispirato è senza opera, l'uomo santo non lascia nome». [...]
La grande intelligenza abbraccia, la piccola discrimina [...].
Come ha potuto il Tao oscurarsi al punto che vi debba essere distinzione tra il vero e il falso? Come ha potuto la parola offuscarsi al punto che vi debba essere distinzione tra l'affermazione e la negazione? [...] Il Tao è offuscato dalla parzialità. La parola è offuscata dall'eloquenza. [...]
Che l'altro e se stesso cessino di opporsi, questo è il perno del Tao. [...]
È camminando che si traccia la via; è nominandole che le cose sono. [...] Ogni cosa ha la sua verità; ogni cosa ha la sua possibilità. [...]
È così che lo stelo sottile e il grosso pilastro, la brutta donna o la bellissima Xi-shi, il grande e lo straordinario, l'astuzia e la mostruosità, si riassorbono tutti nell'unità del Tao. [...]
La comprensione conduce all'unità [...].
Compiere senza sapere perché, ecco il Tao" (dal Zhuang-zi, capp. I-II).
In generale come dice Sariputra forse sarebbbe più saggio non soffermarsi sulla dottrina ma concentrarsi sulla pratica e chiamare il buddismo "Dharma".
P.S. Ho problemi a fare le citazioni degli altri post. Anche a voi succede?
Citazione di: Apeiron il 16 Febbraio 2017, 14:40:12 PM
acquario69, non è vero che c'è poco interesse per il buddismo. Personalmente lo ritengo una filosofia MOLTO interessante. Tuttavia in questo thread ho enunciato le mie perplessità sullo "scopo finale": https://www.riflessioni.it/logos/tematiche-spirituali/nirvana-moksha-karma-e-'eutanasia'/
Ci sono concetti davvero molto belli come ad esempio: l'impermanenza, la sofferenza che nasce dall'errata identificazione, la sofferenza che nasce dall'illusione del possesso. Inoltre è anche una filosofia che non è molto antropocentrica (anche se in verità una rinascita umana è "speciale" e l'uomo e l'animale sono sempre distinti). Non c'è nemmeno il problema secondo me del "risentimento", anzi c'è l'idea che si possa avere un progresso spirituale tra una vita ed un'altra.
Ritengo il Canone Pali (ne trovi una parte consistente qui: http://www.canonepali.net/index.html) un'opera di una genialità incredibile e ne consiglio la lettura. Magari per iniziare leggi il Dhammapada http://www.canonepali.net/dhp/dhp_index.htm.
In sostanza trovo nel buddismo molte cose buone, tuttavia non mi considero "buddista" appunto perchè non sono d'accordo con tutto.
In ogni caso il taoismo è praticamente identico anche in riferimento alla dottrina dell'anatta anche se ad un buddista non piacerebbe l'idea di "unirsi al Tao", anche se nel taoismo questo concetto mi sa tanto di puro valore "metaforico" (nel senso che l'importante anche qui è liberarsi del'io):
"«L'uomo perfetto è senza io, l'uomo ispirato è senza opera, l'uomo santo non lascia nome». [...]
La grande intelligenza abbraccia, la piccola discrimina [...].
Come ha potuto il Tao oscurarsi al punto che vi debba essere distinzione tra il vero e il falso? Come ha potuto la parola offuscarsi al punto che vi debba essere distinzione tra l'affermazione e la negazione? [...] Il Tao è offuscato dalla parzialità. La parola è offuscata dall'eloquenza. [...]
Che l'altro e se stesso cessino di opporsi, questo è il perno del Tao. [...]
È camminando che si traccia la via; è nominandole che le cose sono. [...] Ogni cosa ha la sua verità; ogni cosa ha la sua possibilità. [...]
È così che lo stelo sottile e il grosso pilastro, la brutta donna o la bellissima Xi-shi, il grande e lo straordinario, l'astuzia e la mostruosità, si riassorbono tutti nell'unità del Tao. [...]
La comprensione conduce all'unità [...].
Compiere senza sapere perché, ecco il Tao" (dal Zhuang-zi, capp. I-II).
In generale come dice Sariputra forse sarebbbe più saggio non soffermarsi sulla dottrina ma concentrarsi sulla pratica e chiamare il buddismo "Dharma".
certo non ho dubbi nemmeno io che il buddismo non sia una filosofia (?) molto interessante.per me tutte le dottrine hanno Valore a prescindere, diciamo la Spiritualita',che e' alla fine la stessa e identica per tutti gli esseri, non solo umani (a prescindere se questa viene o meno avvertita)Il Tao e' senz'altro quello che rientra di più nelle mie corde e citazioni come quelle sopra, spesso entrano come fulmini a ciel sereno...un lampo e in quell'istante comprendi tutto.. o ugualmente e per certi versi "opposti" una spiegazione rigorosamente logica che fa un percorso per arrivare al "cuore" Unico delle cose tutte (cuore inteso come comprensione e non come sentimento!)altra fonte inesauribile dove posso attingere e' la Natura,quando me ne capita l'occasione nonostante venga sempre di più accerchiata e ridimensionata...davvero triste.Sari per esempio cita il suono del vento tra gli alberi...una meraviglia appunto indescrivibile, proprio perché l'identita soggettiva scomparein quell'altra discussione a un certo punto scrivi:CitazioneDunque ottenuta la completa liberazione cosa succede?
Credo qualcosa di simile di quanto appena provato ad esprimere (e che non si può descrivere, quindi ci si può solo arrivare da soli) ...mentre la domanda sopra te la fai per la "ragione" della tua stessa identita soggettiva,ma estinto il soggetto si estingue la domanda stessa..non so se sono riuscito a farti intendere dove volevo arrivare :)
acquario69, sì penso di aver capito dove vuoi arrivare e capisco anche la tua obiezione alla mia obiezione ;D
In ogni caso il taoismo ha rispetto al buddismo il vantaggio di avere meno "suovrannaturalismo" (ossia non ci sono devas, rinascite, inferni ecc). Nel taoismo in particolare la morte è vista come un processo naturale di "trasformazione". Ciò penso che sia dovuto al fatto che il taoismo nasce da un contesto culturale dove si aveva una concezione positiva della vita. In India invece le religioni dharmiche sono molto più "negativiste": infatti la stessa concezione del samsara è come una sorta di una perpetua prigione dove gli esseri nascono, soffrono e muoiono. L'obbiettivo finale mi pare però lo stesso, solo espresso in modi diversi: la cancellazione totale dell'individualità, la liberazione completa da pensieri del tipo che sono legati al soggetto. Ossia il Silenzio, il "suicidio epistemologico", la rinuncia totale alla volontà, la noluntas.... Non a caso da buddismo e taoismo è nato lo Zen che a mio giudizio è ancora più aggressivo nei confronti del ragionamento analitico di buddismo e taoismo (vedi le koans).
Lo svantaggio del taoismo è in verità proprio la sua concezione "positiva" dell'esistenza: dire che ogni cosa è una "manifestazione del Tao" mi pare un'assurdo, una sottomissione rispetto al male che dilaga nel mondo. Nel taoismo (e anche nell'Advaita Vedanta) in ultima analisi si evita il problema del male non pensandoci più, ossia dissolvendo il problema stesso: tuttavia è davvero la dissoluzione, ovvero il non pensarci più, una soluzione al problema? A mio giudizio no! In occidente anche Spinoza diceva "quando capisco che la sofferenza è causata da Dio, allora non è più sofferenza ma diventa piacere". Tuttavia a questo punto diventiamo tutti catatonici e ci "scolleghiamo" dalla realtà, tanto anche in questo caso non si soffre più. A dire il vero molti "risvegli" che ho avuto sono stati dolorosi, in quanto mi hanno fatto capire proprio la realtà del male.
Così invece il buddismo riconosce il problema dell'esistenza, dukkha. Nel buddismo il Male è proprio l'Esistenza Condizionata. Il problema del male fa nascere in noi Samvega, il pungolo esistenziale, che ci porta alla rinuncia e quindi all'Estinzione. Paradossalmente però gli individui "perfetti" delle due tradizioni sono descritti allo stesso modo: hanno superato i desideri, non producono più distinzioni, cessano il karma (concetto in realtà presente anche nel taoismo), si liberano dall'io. Personalmente mi trovo più incline ad apprezzare il buddismo proprio perchè mi pare che abbia uno sguardo più disincantato rispetto alla realtà. Inoltre da un punto di vista pratico il Dharma vanta di una tradizione molto più salda del taoismo (anche perchè da quel che so io non c'è davvero un "taoismo").
Sul discorso dell'io la mia obiezione è la seguente (dovuta molto probabilmente al fatto che apprezzo anche il cristianesimo). In sostanza mi sembra che abbandonare l'io mostri una volontà di "fuga" dalla realtà anzichè una volontà di "combattere", ossia di "agire attivamente". Poi eh magari tutta questa mia "ostilità" deriva dal mio attaccamento all'io e dalla mia limitata comprensione, tuttavia tutto questo "rinunciare all'io" mi sembra una fuga (seppur molto comprensibile). Poi eh riconosco anche che il buddismo ha un fortissimo stampo etico (non so quanto ciò valga per il taoismo e lo Zen) e infatti anche il buddismo ha una forte componente di "attivismo" (penso che Sariputra sappia benissimo farti esempi in cui "metta", l'amore, viene messo in pratica in modo eccellente da azioni concrete dei buddisti).
P.S. Più che altro voglio far presente che a dire ciò sono molto ipocrita. Sono personalmente un codardo e un'ipocrita. Uno che fugge quando sa di non doverlo fare. E ho paura che il fascino che mi danno appunto le religioni orientali ("liberazione dalla sofferenza, dall'io") è dovuto al mio carattere. Forse non sono la cosa giusta per me adesso. Quindi sì sono il primo che fugge anche se sono convinto che "non si deve fuggire"...
Forse Kierkegaard aveva ragione quando diceva che bisognava soprattutto cercare una verità per se stessi?
Chiedo conferma a chi è più erudito in materia, ma credo che la peculiarità del taoismo sia quello di non avventurarsi esplicitamente in elucubrazioni sul post-mortem umano, e quindi non si propone come filosofia/religione "consolatoria".
Da quel che so, il bene e il male non vengono banalizzati o equiparati, piuttosto "dinamicizzati" (seguendo le "mescolanze" di yin e yang), per cui la sofferenza mantiene tutta la sua lancinante identità, ma viene inserita in dinamiche concrete che la contestualizzano, senza avere conseguenze ultraterrene (convocazione in tribunali divini o cicli di rinascite). Il taoismo mi pare quindi estremamente pragmatico, forse troppo per affascinare chi cerca risposte a domande mistiche o gli si accosta possedendo già i concetti di anima, divinità, etc. (non mi riferisco ad Apeiron, ma solo alla precomprensione occidentale che può viziare l'approccio al taoismo).
Se non erro, la "Via" del taoismo può essere declinata anche in ambiti che non hanno nulla di ascetico, essendo il "meccanismo" (licenza poetica ;D ) che regola gli eventi umani (e non solo); basti pensare all'arte, o meglio, "via" della guerra (in cui, Apeiron, forse già sai che la ritirata ha un ruolo importante ;) ), a tutte le altre "vie" caratterizzate dal suffisso "do" (derivato da "dao"): arti marziali (ma anche "spirituali") come judo e aikido; l'etica militare del bushido e il tiro con l'arco, kyudo; la disposizione dei fiori, kado; la celeberrima cerimonia del tè, sado; l'arte della calligrafia, shodo, etc.
Lo Zen ha ben colto questo immanentismo taoista, e l'alludere "asintotico" dei koan oltre il linguaggio, secondo me, è proprio un invito a non trascendere la vita presente nel suo fluire, perché l'agognato "satori" è per i vivi (e non ha bisogno di nozioni e classificazioni trascendenti che forse appesantivano un po' troppo di fideismo il buddhismo indiano).
Rieccomi...mi "sembra" che sia tutto a posto, ora :)
Vorrei ora parlare di una cosa strana, che forse esiste solo nel Dharma e di cui anche i buddhisti non vogliono parlare...una cosa che va veramente contro il senso comune...una cosa che nessuno vuol mai sentire: vorrei scrivere del 'dolore dato dalla felicità'. Tutti, a questo punto, alzano le sopracciglia e ti guardano strano...di solito. Eppure questo è un altro cardine del Dharma di quell'antico principe indiano.
Parlando della sua vita nei palazzi del padre, Siddhartha passa in rassegna tutti i piaceri e le felicità possibili per un essere umano, felicità di cui godeva in abbondanza. C'erano ricchezze, potere, arte, musica , filosofia, leggiadre fanciulle disposte a tutto per un giovane principe, una moglie adorabile, un tenero figlio, Rahula. Eppure...prima ancora degli incontri con il vecchio ammalato e poi del morente, Siddhartha soffre...E' quel dolore indefinibile, quel senso di mancanza, quella tristezza nascosta sotto i gioielli e le lusinghe , sotto morbidi abbracci. E' un'inquietudine inspiegabile...Val la pena essere felici? E di essere infelici? Le mani si alzano di scatto...tutti vogliono essere felici. Ma Siddharta, proprio colui che ha tutto per essere felice...è infelice! Ecco allora che comincia a balenargli in testa l'idea che, proprio la felicità per cui tutti schiamazzano, è una forma di infelicità. Siddhartha è un tipo fondamentalmente depresso? La psicanalisi moderna vorrebbe ingabbiare anche questo sentimento forse...ma non è così, per Siddhartha è un pungolo, è qualcosa di più che lo porta ad agire. E'la "tristezza esistenziale" che gli dimostra l'inconsistenza di tutte le forme possibili di felicità. Ecco allora un primo intuito dellla strada che deve seguire: non si tratta di trovare una Suprema Felicità, che non esiste essendo anche la felicità un fenomeno condizionato, si tratta di vedere se, per caso, forse, da qualche parte, in qualche foresta sperduta...ci sia un luogo dove ' dimora' uno stato che non sia toccato dalla felicità o dall'infelicità. Per lui non ci sono dubbi...le persone felici provano il dukkha della felicità, la sofferenza insita nella felicità stessa. E qui il Sari non ha molta difficoltà ad immedesimarsi in questo sentimento...forse nessuno di noi ha veramente difficoltà a farlo. La difficoltà sta nell'ammetterlo...non c'è verso che la felicità ci renda felici...tutte le barriere possibili, a questo punto, si alzano. Sei pazzo, ti dicono...se ci togli anche la speranza di essere , un giorno, in un'altra vita magari, finalmente felici , cosa ci resta? Vediamo subito qui un'inevitabile conseguenza di questa idea del Buddha: il Nirvana non è uno stato di felicità. Quando un achaan ( maestro) del Dharma dice questo, la maggior parte degli ascoltatori, soprattutto gli occidentali come sono io, si agita nervosamente, comincia a guardare di qua e di là...quasi non vuole più ascoltare. Nella felicità Siddhartha vede un subdolo nemico, qualcosa che vive insieme alla felicità: l'attaccamento. Non è possibile essere felici senza provare attaccamento alla sensazione felice e , se c'è attaccamento, ci sarà pure condizionamento.
Anche le forme più sottili di felicità che derivano dal samadhi ( meditazione di concentrazione) : purezza, chiarezza, stabilità, calma, prontezza e dominio della mente sono macchiate dalla possibilità infida dell'attaccamento. Appena si produce la sensazione 'Io sono felice'...ecco la spina nascosta nella carne della felicità; chi ambisce a queste felicità "spirituali" date dall''assorbimento' meditativo ( jhana), soffrirà di quel particolare tipo di sofferenza. Siamo senza tregua alla ricerca della felicità: quella del bambino, del giovane Apeiron, dell'adulto acquario69, dell'anziano, del potente, della persona influente...Difficilmente un giovane capisce che la felicità non si raggiunge mai, che è inafferrabile, che ha sempre una spina conficcata...ma gli anziani sì, spesso lo capiscono...quando ormai è tardi...
Come vedi acquario69, è un campo immenso in cui non posso far altro che spigolare... :)
Citazione di: Phil il 17 Febbraio 2017, 22:20:38 PMChiedo conferma a chi è più erudito in materia, ma credo che la peculiarità del taoismo sia quello di non avventurarsi esplicitamente in elucubrazioni sul post-mortem umano, e quindi non si propone come filosofia/religione "consolatoria". Da quel che so, il bene e il male non vengono banalizzati o equiparati, piuttosto "dinamicizzati" (seguendo le "mescolanze" di yin e yang), per cui la sofferenza mantiene tutta la sua lancinante identità, ma viene inserita in dinamiche concrete che la contestualizzano, senza avere conseguenze ultraterrene (convocazione in tribunali divini o cicli di rinascite). Il taoismo mi pare quindi estremamente pragmatico, forse troppo per affascinare chi cerca risposte a domande mistiche o gli si accosta possedendo già i concetti di anima, divinità, etc. (non mi riferisco ad Apeiron, ma solo alla precomprensione occidentale che può viziare l'approccio al taoismo). Se non erro, la "Via" del taoismo può essere declinata anche in ambiti che non hanno nulla di ascetico, essendo il "meccanismo" (licenza poetica ;D ) che regola gli eventi umani (e non solo); basti pensare all'arte, o meglio, "via" della guerra (in cui, Apeiron, forse già sai che la ritirata ha un ruolo importante ;) ), a tutte le altre "vie" caratterizzate dal suffisso "do" (derivato da "dao"): arti marziali (ma anche "spirituali") come judo e aikido; l'etica militare del bushido e il tiro con l'arco, kyudo; la disposizione dei fiori, kado; la celeberrima cerimonia del tè, sado; l'arte della calligrafia, shodo, etc. Lo Zen ha ben colto questo immanentismo taoista, e l'alludere "asintotico" dei koan oltre il linguaggio, secondo me, è proprio un invito a non trascendere la vita presente nel suo fluire, perché l'agognato "satori" è per i vivi (e non ha bisogno di nozioni e classificazioni trascendenti che forse appesantivano un po' troppo di fideismo il buddhismo indiano).
Phil, Phil...sai bene che del
dao non si può parlare.
"Chi conosce il dao non ne parla, chi ne parla non lo conosce"... :) Preciserei che il Buddhismo indiano era fideista nelle masse popolari, che presto trasformarono l'uomo Siddhartha in un principio eterno, una specie di dio, anzi...più grande degli dei, che venivano ad ascoltarlo per esserne educati. Non credo che gli autentici seguaci lo abbiamo ritenuto una divinità. La fede era essenzialmente fede nel Suo Insegnamento. E' sempre il Dharma il centro, come lo è il Dao per il taoista. Per me il daoismo si serviva del linguaggio , spesso in maniera poetica, altre volte contraddittoria, per provocare una sorta di cortocircuito del pensiero logico.
Il Daoismo ( anche qui termine improprio) penso abbia sofferto di una mancanza di sistematicità che lo ha infine relegato in una posizione marginale, quasi da elite . In effetti appare impossibile, e questo è anche un motivo,a mio parere, del suo fascino, avvicinarsi per "imparare" qualcosa. Il Confucianesimo si impose facilmente con le sue precise norme e i suoi precetti regolatori la società cinese e certamente non possedeva la profondità del daoismo ( anche se un'approfondimento di questo poveraccio bistrattato di Confucio sarebbe interessante. Non penso proprio fosse così scemo come lo dipingevano gli scrittori daoisti...). Come poter inquadrare nelle categorie occidentali il daoismo? Tu dici 'immanente' ,ed è vero che non si avventurava in elocubrazioni e fantasie sul post-mortem,ma il Dao appare come qualcosa di inafferrabile, indescrivible, si può solo indicare , ecc. Quindi non saprei se si tratta proprio di immanentismo come lo intendiamo solitamente. Sicuramente cercava di 'stare con le cose', di vederne l'armonia, ma forse anche qualcosa 'oltre'. Per es. in questo passo di Ciuang Tze:
Lucedistella interrogò Nonessere: "Maestro, esistete o non esistete?"Lucedistella non ebbe risposta, e guardò fissamente la sembianza di Nonessere: era un profondo vuoto. Guardò un giorno intiero; non vide nulla. Ascoltò; non udì nulla. Volle abbracciarlo; non strinse nulla. Disse Lucedistella:" Questa è perfezione! Chi può raggiungerla?"Non ti sembra , con altre parole, più poetiche, riecheggiare lo stesso suono della shunyata buddhista? Era inevitabile che il daoismo rivivesse in quella che fu la grande stagione del Buddhismo Chan e Hwa Yen. Ne smussò la rigidità indiana e ne diede un'afflato mistico e poetico , a mio parere, insuperabile...
Boschi e prati mi fanno lieto e felice; ma prima che la felicità abbia termine, ecco il dolore. Piacere e dolore io non posso impedirli; quando se ne vanno non posso trattenerli. Quanta tristezza è pensare che l'uomo non abbia ad essere che un albergo per le cose esterne! Egli conosce ciò che incontra, non conosce ciò che non incontra; può soltanto quanto è nelle sue forze, non può quanto non è nelle sue forze. Questa ignoranza e questa incapacità è ciò che l'uomo non potrà mai evitare. E tentare sempre di evitare ciò che l'uomo non può evitare non è altra tristezza? Ciuang TzeC' è anche una sana consapevolezza della reale situazione esistenziale umana. E anche un profondo disincanto, a mio modesto parere. C'è una grandissima affinità tra il Dharma e il Daoismo, non c'è alcun dubbio. E' come salire sulla stessa montagna da due strade diverse...
Ma con le mie parole non volevo denigrare nessuna filosofia, anche perchè non me ne viene in tasca nulla ;D
Sì so che anche nel taoismo c'è una forte componente esistenziale (e ci mancherebbe, d'altronde anche qui si richiede di abbandonare il lusso, le ricchezze, gli studi (!),...) tuttavia volevo semplicemente mettere in evidenza una "proprietà" presente in molte "religioni della rinuncia": ossia quello di considerare il fattuale/reale come "giusto" e di considerare il "dover essere" una "mera invenzione". Secondo ad esempio il taoismo la sofferenza nasce dall'opposizione che noi abbiamo contro i fatti. Da questa opposizione, nasce la sofferenza e dalla sofferenza nascono le cattive intenzioni, le cattive parole e i cattivi gesti. Quello che un taoista ti direbbe è: "abbandonati alla corrente del grande Fiume del Tao". In modo simile Spinoza - non a caso definito lo stoico del '600- ti dice: "è perchè caro mio non capisci che tu in realtà non puoi davvero far niente contro il Destino, per questo soffri!". Poi eh in entrambi i casi il Realizzato diventa compassionevole, gentile, perfetto ecc. Però se devo dire onestamente la mia sul loro concetto di "rassegnazione" secondo me è errato, che vi devo dire ;D Poi eh il taoismo è una religione veramente strana in quanto è forse la più pragmatica di tutte: è tutta basata sul Quì e Ora. Ma secondo me un sistema religioso-filosofico deve anche cercare di andare oltre al Quì e Ora. In sostanza credo che siano religioni e filosofie "innocenti" (ossia che non vedono il "male" proprio perchè sono un po' infantili - ma nel senso della parole inglese "childlike" non "childish")
Nel buddismo invece trovo una consapevolezza del dolore più sviluppata. Non è perchè "tu non ti rassegni" ma perchè d'altronde è proprio a causa della natura dell'esistenza condizionata che si prova dolore. Anzi gli stessi piaceri "sensuali" (non "condannati" dal taoismo!, il taoismo semmai "condanna" il modo con cui le fai.) vengono ora visti come "tentazioni" della Morte. La prospettiva mi pare che sia completamente diversa, seppur l'obbiettivo sia identico: la Liberazione della Sofferenza tramite l'annullamento dell'io (o meglio di pensieri legati a tale "io"). Anzi sinceramente credo che qui valga davvero il concetto di "sincretismo": sono semplicemente due strade diverse per arrivare alla stessa meta. Solo che per me il buddismo mi pare più "onesto".
Il cristianesimo invece ti sfida. In sostanza qui si distingue tra buona e cattiva volontà e l'io è visto come l'agente di tale volontà. In un certo senso è come se in questo contesto si tenta di "valorizzare" l'io. In sostanza il "male" qui è condotto alla cattiva intenzionalità e alle cattive azioni e all'io è richiesta proprio la rinuncia al piacere che tali azioni possono dare. La sofferenza stessa è rivalutata: non è una cosa da cui bisogna liberarsi ma è una cosa che a volte può essere pedagogica. C'è poi l'idea di soffrire-per-l'altro che in un'ottica orientale potrebbe essere vista come un ennesimo attaccamento. Tuttavia è anche interessante notare che questo tipo di compassione in realtà è presente anche nel buddismo Mahayana (e non solo Theravada) in cui il bodhisattva ritarda volontariamente la sua Estinzione proprio per "insegnare il Dharma" agli altri. In sostanza nel buddismo mahayana e nel cristianesimo è più attivo l'aspetto "missionario", ossia la "lotta" contro il male. La grossa differenza è che nel cristianesimo l'obbiettivo di tale lotta è la salvezza del proprio e dell'altrui "io" mentre nel buddismo mahayana l'obbiettivo è la salvezza propria e altrui dall'io.
Per me, in questo momento l'idea di "abbandonare l'io" mi sembra non una ritirata per un successivo ritorno ma proprio l'idea di fuggire. Ciò non significa che però possa apprezzare la saggezza che mi sembra di trovare nelle varie tradizioni. E magari questa fuga la vedo solo io, in questo momento. Come ho già detto altrove la nostra comprensione di una determinata cosa muta nel tempo: forse non sono semplicemente pronto. Però sono abbastanza convinto che filosofie come spinozismo e stoicismo mi paiono davvero fughe in una "realtà di fantasia". Forse il taoismo e il buddismo non li conosco abbastanza, vuoi il mio background, il mio carattere ecc. D'altronde è possibile che per un buddista il concetto di "liberazione dall'io" sia ben diverso dal mio di quando leggo tale espressione. Ogni tradizione va capita nel suo contesto e da qui ci sono tutte le difficoltà...
Citazione di: Apeiron il 18 Febbraio 2017, 14:20:02 PMLa grossa differenza è che nel cristianesimo l'obbiettivo di tale lotta è la salvezza del proprio e dell'altrui "io" mentre nel buddismo mahayana l'obbiettivo è la salvezza propria e altrui dall'io.
Non è affatto così, anche se fa scena la sottile distinzione; entrambe le dottrine ambiscono al medesimo risultato, ovvero all'estinzione dell'io che si risolve nel Sé universale. Usano simboli ed espressioni differenti ma l'essenza è la medesima. Poi qui si conosce il Cristianesimo più dal punto di vista sociale che dottrinale mentre il Buddhismo è stato studiato più dal lato "filosofico" (ma più che una filosofia io direi che è una "via di liberazione") e quindi emergono più facilmente certe cose piuttosto che altre, ma questa è una mera contingenza. Se si studiassero i fondamenti del Cristianesimo con lo stesso spirito con cui si studia il Buddhismo (cioè non dando per scontato che tutti qui conosciamo il Cristianesimo perchè più o meno ci viviamo in mezzo) si potrebbe comprendere; magari non così facilmente perchè il Cristianesimo è stato massacrato negli ultimi secoli da ogni sorta di esegeta parvenu, ma comunque si può ancora fare.
Citazione di: Apeiron il 18 Febbraio 2017, 14:20:02 PMMa con le mie parole non volevo denigrare nessuna filosofia, anche perchè non me ne viene in tasca nulla ;D Sì so che anche nel taoismo c'è una forte componente esistenziale (e ci mancherebbe, d'altronde anche qui si richiede di abbandonare il lusso, le ricchezze, gli studi (!),...) tuttavia volevo semplicemente mettere in evidenza una "proprietà" presente in molte "religioni della rinuncia": ossia quello di considerare il fattuale/reale come "giusto" e di considerare il "dover essere" una "mera invenzione". Secondo ad esempio il taoismo la sofferenza nasce dall'opposizione che noi abbiamo contro i fatti. Da questa opposizione, nasce la sofferenza e dalla sofferenza nascono le cattive intenzioni, le cattive parole e i cattivi gesti. Quello che un taoista ti direbbe è: "abbandonati alla corrente del grande Fiume del Tao". In modo simile Spinoza - non a caso definito lo stoico del '600- ti dice: "è perchè caro mio non capisci che tu in realtà non puoi davvero far niente contro il Destino, per questo soffri!". Poi eh in entrambi i casi il Realizzato diventa compassionevole, gentile, perfetto ecc. Però se devo dire onestamente la mia sul loro concetto di "rassegnazione" secondo me è errato, che vi devo dire ;D Poi eh il taoismo è una religione veramente strana in quanto è forse la più pragmatica di tutte: è tutta basata sul Quì e Ora. Ma secondo me un sistema religioso-filosofico deve anche cercare di andare oltre al Quì e Ora. In sostanza credo che siano religioni e filosofie "innocenti" (ossia che non vedono il "male" proprio perchè sono un po' infantili - ma nel senso della parole inglese "childlike" non "childish") Nel buddismo invece trovo una consapevolezza del dolore più sviluppata. Non è perchè "tu non ti rassegni" ma perchè d'altronde è proprio a causa della natura dell'esistenza condizionata che si prova dolore. Anzi gli stessi piaceri "sensuali" (non "condannati" dal taoismo!, il taoismo semmai "condanna" il modo con cui le fai.) vengono ora visti come "tentazioni" della Morte. La prospettiva mi pare che sia completamente diversa, seppur l'obbiettivo sia identico: la Liberazione della Sofferenza tramite l'annullamento dell'io (o meglio di pensieri legati a tale "io"). Anzi sinceramente credo che qui valga davvero il concetto di "sincretismo": sono semplicemente due strade diverse per arrivare alla stessa meta. Solo che per me il buddismo mi pare più "onesto". Il cristianesimo invece ti sfida. In sostanza qui si distingue tra buona e cattiva volontà e l'io è visto come l'agente di tale volontà. In un certo senso è come se in questo contesto si tenta di "valorizzare" l'io. In sostanza il "male" qui è condotto alla cattiva intenzionalità e alle cattive azioni e all'io è richiesta proprio la rinuncia al piacere che tali azioni possono dare. La sofferenza stessa è rivalutata: non è una cosa da cui bisogna liberarsi ma è una cosa che a volte può essere pedagogica. C'è poi l'idea di soffrire-per-l'altro che in un'ottica orientale potrebbe essere vista come un ennesimo attaccamento. Tuttavia è anche interessante notare che questo tipo di compassione in realtà è presente anche nel buddismo Mahayana (e non solo Theravada) in cui il bodhisattva ritarda volontariamente la sua Estinzione proprio per "insegnare il Dharma" agli altri. In sostanza nel buddismo mahayana e nel cristianesimo è più attivo l'aspetto "missionario", ossia la "lotta" contro il male. La grossa differenza è che nel cristianesimo l'obbiettivo di tale lotta è la salvezza del proprio e dell'altrui "io" mentre nel buddismo mahayana l'obbiettivo è la salvezza propria e altrui dall'io. Per me, in questo momento l'idea di "abbandonare l'io" mi sembra non una ritirata per un successivo ritorno ma proprio l'idea di fuggire. Ciò non significa che però possa apprezzare la saggezza che mi sembra di trovare nelle varie tradizioni. E magari questa fuga la vedo solo io, in questo momento. Come ho già detto altrove la nostra comprensione di una determinata cosa muta nel tempo: forse non sono semplicemente pronto. Però sono abbastanza convinto che filosofie come spinozismo e stoicismo mi paiono davvero fughe in una "realtà di fantasia". Forse il taoismo e il buddismo non li conosco abbastanza, vuoi il mio background, il mio carattere ecc. D'altronde è possibile che per un buddista il concetto di "liberazione dall'io" sia ben diverso dal mio di quando leggo tale espressione. Ogni tradizione va capita nel suo contesto e da qui ci sono tutte le difficoltà...
Un errore, molto comune, che fai e fanno quasi tutti ,secondo me , Apeiron è quello di valutare l'anatta come rinuncia a qualcosa , come fuga. Ed è un errore che nasce dal fatto che conosci bene la teoria , ma poco la pratica. Intanto il Dharma parla di sbarazzarsi dell'
attaccamento al senso di avere un Io permanente, autonomo e sostanziale e non dell'impossibile 'assassinio' dell'Io. La non comprensione , o non perfetta comprensione, nasce dal non avere compreso fino in fondo, ma non in senso filosofico, bensì pratico, esistenziale l'originazione-dipendente di tutti i fenomeni. In seconda battuta bisogna considerare che la mente , sotto forma di vinnana ( coscienza) è sempre presente, ed è questa coscienza che applica la visione di anicca ( impermanenza) a tutte le cose verso cui presta la sua vigile attenzione, o consapevolezza e quindi anche verso quell'aggregato di pensieri-emozioni-sentimenti-ricordi-ecc. che erroneamente identifichiamo come Io. Questo non significa che l'Io non sia reale, significa soltanto che la sua realtà è condizionata e pertanto impermanente. Per prima cosa viene condizionato dal contatto, poi dalle sensazioni che nascono dal contatto, poi dal giudizio sulle sensazioni, e così via...Noi tutti abbiamo una concezione corretta e una erronea , secondo il buddhismo, dell'"io", come di qualcosa che esista intrinsecamente. Influenzati da questo modo di vederlo riteniamo che questo io viva di vita propria, determinato dalla sua stessa natura,capace di autofondarsi. L'impressione che questo io viva di un'esistenza intrinseca è così forte da far sentire il sé addirittura come indipendente dalla mente e dal corpo. Se esistesse veramente come "io separato", autodeterminato e di per sé esistente, ad un'analisi adeguata si dovrebbe capire, con sempre maggiore chiarezza, se esiste come mente o come corpo, come un'unione tra i due o se è diverso dalla mente edla corpo. In realtà, più lo si osserva e più sfugge, si allontana...E questo vale per tutti i fenomeni. Questo non significa che i fenomeni, o l'io , non esistono. Significa che non esistono di per sé, che non sono autodeterminati., secondo il modo d'intendere buddhista.
L'io è creato dalla facoltà di concettualizzare della mente. Se la mente, per es., vede una corda del colore di un serpente, nella penombra, sorge il pensiero: "Questo è un serpente". Ma la corda non è affatto un serpente, è una corda. Quel seprente creato dalla mente è semplicemente una valutazione errata creata dalla facoltà di concettualizzare. Allo stesso modo , nel momento che il pensiero "io" nasce in uno stato di
dipendenza dalla mente e dal corpo, non c'è nulla della mente e del corpo-né l'insieme che è un continuo di momenti anteriori e successivi, né l'insieme delle parti in un preciso momento, né le parti separate, né il 'continuo' di una qualsiasi delle parti separate- che sia pur minimamente 'io'.
Una coscienza che crede nell'esistenza intrinseca, per il Buddha, è priva di un fondamento valido. Viceversa, sempre per il Buddha, una coscienza saggia, radicata ben bene nella realtà, comprende che gli esseri viventi e tutti gli altri fenomeni non esistono intrinsecamente, sono concettualizzazioni di una delle facoltà della mente stessa.
Molti pensano che vacuità ( sunnata) significi nulla ( e quindi pensano al suicidio epistemologico, alla fuga nell'oblio, ecc.), ma non è affatto così. Se ci si limita ad un approccio teorico è difficile riconoscere ciò che i testi chiamano "vacuità dell'io" o " esistenza intrinseca". Per comprendere bene bisogna prima di tutto capire l'originazione-dipendente di tutti i fenomeni ( di quelli almeno di cui possiamo fare esperienza diretta come esseri umani) e che tutti i fenomeni esistono in relazione di cause e condizioni e di parti. Questo significa che non esistono? No, la posizione buddhista è realista, i fenomeni esistono, sono solo le nostre concettualizzazioni di essi che possono essere erronee. E' un procedere quasi scientifico, direi. La domanda da porsi è: "In che modo"? la loro esistenza non è autonoma , ma dipende da molti fattori, tra cui una coscienza che li concettualizza. Se non esistono autonomamente , la loro esistenza dipende necessariamente dal concettualizzarli. Tutti i fenomeni, e compreso quindi il senso dell'io, non ci appaiono però in questo modo...ci sembrano esistere in modo oggettivo, senza dipendere da una coscienza concettualizzante.
Però , attenzione , questi fenomeni concettualizzati, ci generano piacere e dolore e possono danneggiarci o aiutarci come esperienza diretta. Ecco quindi il sorgere della necessità di un'etica nel cammino del dharma.
Citazione di: Sariputra il 18 Febbraio 2017, 00:07:38 AM
Phil, Phil...sai bene che del dao non si può parlare.
"Chi conosce il dao non ne parla, chi ne parla non lo conosce"... :)
Già, proprio perché non lo conosco bene ne (stra)parlo ;D e
Citazione di: Phil il 17 Febbraio 2017, 22:20:38 PM
Chiedo conferma a chi è più erudito in materia
anche se "erudizione" non è affatto una parola adatta per parlare di taoismo (semmai di confucianesimo!).
Concordo ci siano rilevanti affinità con il buddhismo, almeno finché restiamo "sotto il cielo", ma il buddhismo va anche oltre: dalla quarta nobile verità "in sù", propone spunti e spiegazioni trascendenti il piano umano; il taoismo invece (come negli esagrammi dell'I Ching) conosce solo terra, uomo e cielo, e quest'ultimo soltanto come
limite non padroneggiato, apofatico, della conoscenza umana. Il taoismo mi pare meno omni-esplicativo e meno consolatorio, e, come hai notato, meno appetibile per le masse, meno "
user friendly"( ;D ), meno facile da tradurre in "istruzioni per l'uso" (come comandamenti o elenchi di "verità" e "sentieri"). Di certo è molto ostico, criptico, ma nondimeno, secondo me, fornisce una prospettiva molto schietta intellettualmente, molto umana, forse troppo per l'umano che avverte in sé la tensione verso il sovra-umano...
Citazione di: Apeiron il 18 Febbraio 2017, 14:20:02 PM
Quello che un taoista ti direbbe è: "abbandonati alla corrente del grande Fiume del Tao" [...] se devo dire onestamente la mia sul loro concetto di "rassegnazione" secondo me è errato, che vi devo dire ;D
Non sono convintissimo, seppur da profano (vedi sopra), che l'"abbandono" o la "rassegnazione" siano capisaldi del taoismo (la non-azione,
wu wei, non è passività inconsapevole a qualunque evento ci capiti ;) ).
** scritto da Apeiron:
CitazioneLa grossa differenza è che nel cristianesimo l'obbiettivo di tale lotta è la salvezza del proprio e dell'altrui "io" mentre nel buddismo mahayana l'obbiettivo è la salvezza propria e altrui dall'io.
Conosco poco il buddismo, e quel poco che conosco non mi permette di argomentare sui suoi obiettivi o lotte, ma posso affermare che il cristiano non ha nessun obiettivo di salvezza, nel senso che essa è merito di Gesù, noi non abbiamo nessun merito, se non quello di credere (con tutto) che già è così.
Per meglio intenderci l'obiettivo del cristianesimo già è stato raggiunto: il Messia già è venuto, Gesù già ci ha redenti (ha pagato, con e per amore, un riscatto ai nostri sequestratori col suo sangue) dal peccato, il Cristo già ha sconfitto la morte, che obiettivo ulteriore potrebbe annettere l'uomo?
In ogni caso credo che tutto quanto sia dovuto ad una grandissima confusione. Ad esempio Sariputra forse davvero hai ragione per quanto riguarda l'anatta, ossia che non la capisco perchè mi manca la pratica. Posso vedere la cosa come una "fuga" proprio perchè così leggo dalla "dottrina". Tuttavia a questo punto la domanda è: se veramente l'Estinzione è il "sommum bonum", la "salvezza" o come vogliamo chiamarla, perchè usare parole ed espressioni che la fanno assomigliare al Nulla? Non credo che nessuno sia davvero felice di sapere che dopo la Morte c'è il Nulla. Il mio "rifiuto" dell'ateismo materialistico è proprio per questo motivo: se davvero siamo qui per nascere, crescere e morire allora a questo punto Schopenhauer, Cioran, Leopardi e simili hanno ragione! Se davvero la vita è così senza senso allora l'unico atteggiamento sensibile e coerente con essa è quella di voler che essa finisca. Questa è una visione materialistico-atea-razionalistica: visto che "il valore della vita" è un puro concetto umano e quindi "irreale" (una semplice "antropomorfizzazione" della realtà) allora la vita in sé è senza valore e quindi anche le nostre sofferenze, le nostre gioie e le nostre opere sono senza valore (alla cieca natura d'altronde non cambia assolutamente nulla se noi esseri umani esistiamo ma non perchè è maligna ma perchè infinitamente indifferente. Una persona sensibile - "buona", "etica" - non può essere indifferente!). Buddha secondo me era davvero una persona buona, non era indiffferente, tuttavia il "sommum bonum" non mi sembra per niente diverso da una "fine-vita" senza rinascite, ossia una eutanasia. Ma d'altronde qual è la differenza effettiva tra la noluntas di Schopenhauer e il Nirvana? Dottrinariamente ci vedo poca differenza, forse perchè i miei pensieri (la mia "visione del mondo" è influenzata da una filosofia influenzata da cristianesimo e platonismo?) sono incompatibili con essa? D'altronde non mi sembra comunque una visione del mondo diversa da quella "scientifica": visto che nonostante tutti i nostri sforzi non potremo mai oltrepassare vincoli come il Secondo Principio della Termondinamica, quasi certamente (non "certamente", in scienza la "certezza" non esiste...) la nostra vita ("nostra" intendo dell'umanità o per estensione di tutti gli esseri viventi) è impermanente. Un semplice battito di ciglia in un'infinita eternità dominata dal Caso e dal Nulla. Nessuno scopo, nessun valore, niente di niente. L'uomo si inventa scopi e valori e da qui si nota quanto "contro-natura" egli sia. Dovremo quindi "estinguere" proprio la ricerca di scopi, valori, speranze, aspettative?
Sinceramente non vedo alcuna differenza (di fondo) tra la noluntas, l'eutanasia, il Nulla, l'Eterno Oblio, l'estinzione delle specie viventi, il Piacevole Stato meno disturbato del Sonno senza Sogni (unione con "Brahman") ecc. Solo che in certi casi si "muore male" e in altri si "muore meglio". Non a caso Nulla, eutanasia ecc sono tutti "senza morte, senza divenire, senza "io", senza aspettative, senza sofferenze". Quanto questo non sia nichilismo non so dire. Ma forse appunto come ho già detto ciò è dovuto al mio condizionamento culturale.
Citazione di: Duc in altum! il 18 Febbraio 2017, 20:56:41 PM** scritto da Apeiron: CitazioneLa grossa differenza è che nel cristianesimo l'obbiettivo di tale lotta è la salvezza del proprio e dell'altrui "io" mentre nel buddismo mahayana l'obbiettivo è la salvezza propria e altrui dall'io.
Conosco poco il buddismo, e quel poco che conosco non mi permette di argomentare sui suoi obiettivi o lotte, ma posso affermare che il cristiano non ha nessun obiettivo di salvezza, nel senso che essa è merito di Gesù, noi non abbiamo nessun merito, se non quello di credere (con tutto) che già è così. Per meglio intenderci l'obiettivo del cristianesimo già è stato raggiunto: il Messia già è venuto, Gesù già ci ha redenti (ha pagato, con e per amore, un riscatto ai nostri sequestratori col suo sangue) dal peccato, il Cristo già ha sconfitto la morte, che obiettivo ulteriore potrebbe annettere l'uomo?
Citazione di: donquixote il 18 Febbraio 2017, 15:11:38 PMCitazione di: Apeiron il 18 Febbraio 2017, 14:20:02 PMLa grossa differenza è che nel cristianesimo l'obbiettivo di tale lotta è la salvezza del proprio e dell'altrui "io" mentre nel buddismo mahayana l'obbiettivo è la salvezza propria e altrui dall'io.
Non è affatto così, anche se fa scena la sottile distinzione; entrambe le dottrine ambiscono al medesimo risultato, ovvero all'estinzione dell'io che si risolve nel Sé universale. Usano simboli ed espressioni differenti ma l'essenza è la medesima. Poi qui si conosce il Cristianesimo più dal punto di vista sociale che dottrinale mentre il Buddhismo è stato studiato più dal lato "filosofico" (ma più che una filosofia io direi che è una "via di liberazione") e quindi emergono più facilmente certe cose piuttosto che altre, ma questa è una mera contingenza. Se si studiassero i fondamenti del Cristianesimo con lo stesso spirito con cui si studia il Buddhismo (cioè non dando per scontato che tutti qui conosciamo il Cristianesimo perchè più o meno ci viviamo in mezzo) si potrebbe comprendere; magari non così facilmente perchè il Cristianesimo è stato massacrato negli ultimi secoli da ogni sorta di esegeta parvenu, ma comunque si può ancora fare.
Ma chiedo io: Duc ritiene cristiano donquixote e donquixote ritiene cristiano Duc? Avete due prospettive completamente diverse. Giusto l'uomo non ha nessun merito perchè l'agape è "amore gratuito"
indipendentemente dai miei meriti (non sono giustificato dalle opere, ossia non posso considerare il Paradiso come un mio merito). Eppure viene richiesta la "fede", "credere". Ma cosa vuol dire? Ho sentito tanti pareri e pochissima concordanza. Se lo chiedessi ad ogni cristiano (e non) presente qui nel forum mi darebbero una risposta diversa. D'altronde in Paradiso (forse) non ci vanno tutti, forse ci vanno solo gli "eletti", forse anche alcuni tra gli "eletti" non ci vanno. Ci sono veramente un sacco di interpretazioni. Come potrei dire di no ad uno che mi salva?? Dubitare della dottrina non significa rifiutare la salvezza. Significa dubitare della dottrina!
Esempio:
1) credere a TUTTO quello che c'è scritto nella Bibbia, ritenere che ogni reazione di "malessere" nella lettura ad esempio dei passi dell'Antico Testamento come la famosa piaga d'Egitto sia dovuta alla nostra incapacità di ubbidire, ossia dall'inevitabilità del peccato. Peccato è anche sostenere che la Terra non è piatta perchè "così c'è scritto";
2) credere
solo che Gesù ci ha salvato ed "accettare" il suo amore. Ma se la cristianità fosse così semplice perchè continuare a segnalare un pericolo eterno? Davvero devo credere che un "fedele" che uccide un sacco di "infedeli" sia "salvo" mentre un "infedele" che realmente "ama" va spedito nella Geenna?
3) credere significa non rifiutare. Ma qui d'altronde io posso non rifiutare ed avere tutti i dubbi del mondo (ma qui va contro il fatto che il dubbio viene descritto come "peccato").
4) credere=completa sottomissione.
5) credere=ricercarlo con tutto il cuore e la mente. Quindi in questo caso paradossalmente il dubbio è previsto. (D'altronde se voglio avere un rapporto con Lui è inevitabile che dubito, mi arrabbio, finisco per pensare che non esista perchè d'altronde Dio non è "presente" come la tastiera su cui scrivo...).
6)credere=amare (L'agape è la massima virtù, perfino più della fede secondo San Paolo).
7)credere=rinunciare a tutta la propria libertà perchè noi in realtà siamo solamente delle entità pseudo-diaboliche che dovrebbero auto-fustigarsi ogni volta che fanno qualcosa contrario alla legge o hanno qualche dubbio.
Ci si perde in interpretazioni. Quello che vedo io è una quantità spropositata di "cristianesimi". Vedo che nella stessa Chiesa il cristianesimo del mio amico prete e teologo è diverso da quello di un tradizionalista ed entrambi sono diversi da quello di Duc. Il mio ricercare e dubitare, quello di Sariputra, quello di Angelo Cannata sono solo "peccati mortali" o sono in verità modi con cui si cerca Dio? Probabilmente sentirò risposte diverse. Davvero devo pensare che un ateo o uno che dopo aver sentito il Vangelo non crede sia maligno?
Il nucleo sembra essere che Gesù si è sacrificato ed è risorto
per noi. Non rifiuto l'amore (o forse sì ma non me ne rendo conto, così come non mi rendo conto della distinzione tra Eutanasia e Nirvana) ma dubito della dottrina.
Se tutto passa, è inappagante, e privo di realtà propria, che senso ha l'esistenza? Si chiede Apeiron. Provo a fare un paragone ( stupido) con un uomo che osserva un fiume che scorre. Se quest'uomo non vuole che il fiume scorra e muti incessantemente, com'è nella natura del fiume, soffrirà. Un altro uomo comprende che la natura del fiume è mutare in continuazione, indipendentemente dalle sue preferenze e dalle sue avversioni, e pertanto non soffre. Osservare e conoscere l'esistenza nei termini di questo cambiare, di questo fluire, vuoto di piacere duraturo, privo di una realtà intrinseca propria, è trovare ciò che è stabile e libero dalla sofferenza, trovando quindi una pace ( della mente) duratura.
"Perché nasciamo ?" ci chiediamo o "qual'è il significato della vita?". Queste domande sfuggono all'esperienza diretta, così un buddhista non se le pone. Perchè nasciamo? Un buddhista risponderebbe : nasciamo per non dover rinascere. Perché si pratica? Se non c'è nessun perché...tutto va bene, siamo in pace...
A volte è un bene smettere di credere alla nostra mente. E' un bene non rimanere sempre attaccati al corpo. Osserviamo il fiume e impariamo a stare e fare silenzio. In questo silenzio verrà la gioia...
(Sempre se non vi addormentate... ;D )
Sari, mi sono fatto un po' sfuggire la mano oggi pomeriggio e ho attaccato tutti e tutto. Fa anche questo parte del mio carattere (spero che nessuno si sia offeso dalle mie declamazioni, che a rileggerle mi rendo conto che erano un po' "drastche").
Secondo me il problema non è tanto la non-plausibilità del buddismo. Il problema è che noi occidentali abbiamo avuto nella nostra vita un risveglio "diverso" che ha messo al primo posto la questione del "senso" e del "valore". Invece Buddha ha messo in luce il problema di dukkha, il mal-essere. A mio giudizio la domanda sul "valore" e la ricerca della fine della sofferenza sono due questioni parallele, non necessariamente contrastanti. Il punto è che secondo me dopo tutti gli anni che sono si deve un po' "uscire dagli schemi" e cercare di prendere entrambe le prospettive.
Nel caso del cristianesimo la mia declamazione (o forse provocazione?) era indirizzata a far notare in quanti modi si può interpretare il messaggio biblico. Questa "gamma" di interpretazioni dovrebbe aiutare ad essere più aperti anche ai "non-credenti" (d'altronde ricercare è anche amare, o almeno spero ::) ).
In sostanza volevo far vedere che anche la nostra filosofia (e religione) occidentale non è un errore, ma coglie aspetti della realtà che altre tradizioni non vedono. E viceversa. Così almeno mi pare...
** scritto da Apeiron:
CitazioneEppure viene richiesta la "fede", "credere". Ma cosa vuol dire? Ho sentito tanti pareri e pochissima concordanza.
Fede significa consegnare tutto se stesso a quella Verità insondabile a cui affidiamo il nostro essere, nel caso del cristianesimo è che Dio ci ama per primo e che la conferma definitiva di quell'amore è nella rivelazione del Cristo nostro redentore.
Quindi non basta col dichiararsi cristiano o essere stato battezzato dal Papa in persona, ma rispondere eccomi a quell'invito, giacché la fede non è conseguenza del big bang, e neanche un merito personale. La fede è un percorso che si conclude con la morte, ma che si sperimenta con la risurrezione "nella" carne, giacché è il perdono vissuto in questa vita che ci rende buoni, contenti e consapevoli, e non la costituzione "social democratica" o l'educazione civica.
In definitiva la fede cristiana è amare il prossimo perché si è amati da Dio, il solo già credere a questo (con la consegna totale) ti comporta il passaggio a un maggior discernimento, e così per sempre. E' come la matematica: senza scomposizione di binomi non puoi comprendere l'equazione, senza le equazioni non puoi comprendere il passaggio seguente (non so come si chiami perché ho studiato fin lì), e così via, con la differenza che il riscontro se il risultato è giusto, è al di là di un salto nel buio: nisi crediteritis non intelligetis.
CitazioneCome potrei dire di no ad uno che mi salva??
Grazie al libero arbitrio. Dicendo: non eccomi. Oppure: salvare da che?! O ancora: ho altro da fare. O peggio: credo, ma fino al salto nel buio. ;D
Citazione di: Apeiron il 20 Febbraio 2017, 15:32:18 PMMa chiedo io: Duc ritiene cristiano donquixote e donquixote ritiene cristiano Duc? Avete due prospettive completamente diverse.
Il Cristianesimo è una religione, con la sua Chiesa, le sue regole, i suoi riti, la sua morale eccetera; il cristiano è colui che aderisce a tale religione per cui ritengo che Duc sia certamente un cristiano. Ogni persona che invece si accosta ad una dottrina metafisica che sta alla base di una religione non si può dire propriamente appartenente a quella religione ma semplicemente uno studioso di metafisica o un "cercatore di verità". Se al termine della ricerca si rende conto che tutte le dottrine delle grandi tradizioni (quella cristiana, quella islamica, quella induista, quella buddhista, quella taoista eccetera) affermano essenzialmente la medesima cosa non può che prenderne atto, anche se ogni tradizione elabora ed esprime la medesima verità con dottrine diverse ponendo l'enfasi su alcuni aspetti invece che su altri. Diceva Ibn Arabi, uno dei più grandi maestri dell'Islam: "Il Mio cuore è divenuto capace di accogliere ogni forma, è pascolo per le gazzelle, un convento per i monaci cristiani, è un tempio per gli idoli, è la Ka'ba del pellegrino, é le tavole della Torah, è il libro sacro del Corano. Io seguo la religione dell'amore, quale mai sia la strada che prende la sua carovana: questo è mio credo e mia fede". Per quanto riguarda il "credere" ognuno che vuole partire alla ricerca di qualcosa deve credere: se io cerco le chiavi di casa devo prima "credere" di averle perse; gli scienziati che hanno speso anni e anni (e miliardi di euro) per cercare il "bosone di Higgs" hanno fermamente "creduto" che questo esistesse, altrimenti non avrebbero potuto nemmeno iniziare la ricerca. Gandhi disse un giorno: "Prima
credevo che Dio fosse la verità, adesso
so che la verità è Dio"; per andare alla ricerca di Dio devi crederci, altrimenti vai alla ricerca del nulla e ti fermi subito. Il dubbio è un ostacolo nel cammino della ricerca, non certo uno stimolo, perchè più il dubbio sarà intenso e più farà desistere dalla ricerca, mentre più la fede sarà salda più impegno si metterà nella ricerca. Poi molti si fermeranno alla prima affermazione di Gandhi ritenendosi soddisfatti (o non avendo la capacità, il talento e la costanza di iniziare e portare avanti una ricerca seria), ma chi invece, come Gandhi, percorre tutto il cammino allora arriva a dire "so", e quando hai la sapienza la fede non è più necessaria, come gli scienziati del CERN "sanno" che esiste il bosone di Higgs e non hanno più alcun bisogno di credere nella sua esistenza. Per quanto riguarda la questione dell'io prova ad andare a cercare in rete il sermone di Meister Eckhart intitolato "beati pauperes spiritu" e se riesci a comprenderlo vedrai che lì c'è tutta l'essenza del Cristianesimo e anche del buddhismo dato che sia pur espressa diversamente è la medesima. Se poi interessa approfondire c'è un interessante volume scritto da D.T. Suzuki (professore di filosofia buddhista a Kyoto e riconosciuto come il più autorevole rappresentante contemporaneo del buddhismo zen - morto 50 anni fa) intitolato "Misticismo cristiano e buddhista".
Ringrazio della risposta sia a Donquixote che a Duc. Mi interessava sapere il vostro parere per il fatto che secondo me se uno crede e pensa o se ricerca è difficile che il loeo "credo" sia uguale. E la diversità nelle vostre risposte lo dimostra.
In ogni caso ho come il sentore che accettare tutto passivamente a mo' di indottrinamento non faccia bene a nessuno, da qui il valore della ricerca. Perchè d'altronde anche la ricerca e i dubbi di coscienza secondo il mio eretico (?) parere sono un modo di vivere la fede.
Ma questa è la mia risposta personale, non pretendo che qualcun altro la condivida. D'altronde se uno va nel baratro è meglio che non trascini altri ;D
Citazione di: Sariputra il 18 Febbraio 2017, 15:29:54 PML'io è creato dalla facoltà di concettualizzare della mente. Se la mente, per es., vede una corda del colore di un serpente, nella penombra, sorge il pensiero: "Questo è un serpente". Ma la corda non è affatto un serpente, è una corda. Quel seprente creato dalla mente è semplicemente una valutazione errata creata dalla facoltà di concettualizzare. Allo stesso modo , nel momento che il pensiero "io" nasce in uno stato di dipendenza dalla mente e dal corpo, non c'è nulla della mente e del corpo-né l'insieme che è un continuo di momenti anteriori e successivi, né l'insieme delle parti in un preciso momento, né le parti separate, né il 'continuo' di una qualsiasi delle parti separate- che sia pur minimamente 'io'.
La mente che ti fa vedere un serpente in una corda è la stessa mente che ti fa riconoscere l'errore.
Citazione di: Sariputra il 20 Febbraio 2017, 21:47:48 PMProvo a fare un paragone ( stupido) con un uomo che osserva un fiume che scorre. Se quest'uomo non vuole che il fiume scorra e muti incessantemente, com'è nella natura del fiume, soffrirà. Un altro uomo comprende che la natura del fiume è mutare in continuazione, indipendentemente dalle sue preferenze e dalle sue avversioni, e pertanto non soffre.
Se quest'uomo è un contadino, e il fiume gli allaga i campi, pur comprendendo la natura del fiume cercherà di fare degli argini.
Se non soffre per gli allagamenti allora è un (monaco) buddista ;).
Citazione di: lorenzo il 28 Marzo 2017, 20:26:12 PM
Citazione di: Sariputra il 20 Febbraio 2017, 21:47:48 PMProvo a fare un paragone ( stupido) con un uomo che osserva un fiume che scorre. Se quest'uomo non vuole che il fiume scorra e muti incessantemente, com'è nella natura del fiume, soffrirà. Un altro uomo comprende che la natura del fiume è mutare in continuazione, indipendentemente dalle sue preferenze e dalle sue avversioni, e pertanto non soffre.
Se quest'uomo è un contadino, e il fiume gli allaga i campi, pur comprendendo la natura del fiume cercherà di fare degli argini. Se non soffre per gli allagamenti allora è un (monaco) buddista ;).
Se non soffre per gli allagamenti ma decide comunque di preparare argini, è un contadino-buddhista...Se non soffre per gli allagamenti ma decide comunque di preparare argini, e bonifica la parte allagata per impostare una risaia, è un contadino-buddista-agronomo...
Se non soffre per gli allagamenti ma decide comunque di preparare argini, e bonifica la parte allagata per impostare una risaia che "affitta" agli altri contadini del villaggio in cambio di donazioni, è un contadino-buddista-agronomo-imprenditore...
Se non soffre per gli allagamenti ma decide comunque di preparare argini, e bonifica la parte allagata per impostare una risaia che "affitta" agli altri contadini del villaggio in cambio di donazioni e riassume questa storia in un haiku, è un contadino-buddista-agronomo-imprenditore-poeta...
Se non soffre per gli allagamenti ma decide comunque di preparare argini, e bonifica la parte allagata per impostare una risaia che "affitta" agli altri contadini del villaggio in cambio di donazioni, e riassume questa storia in un haiku, per poi lasciare il villaggio mettendosi in cammino per cercare un'altra dimora, è un contadino-buddista-agronomo-imprenditore-poeta-errante...
Se non soffre per gli allagamenti ma decide comunque di preparare argini, e bonifica la parte allagata per impostare una risaia che "affitta" agli altri contadini del villaggio in cambio di donazioni, e riassume questa storia in un haiku, per poi lasciare il villaggio mettendosi in cammino per cercare un'altra dimora solitaria nella foresta, è un contadino-buddista-agronomo-imprenditore-poeta-errante-eremita...
Se non soffre per gli allagamenti ma decide comunque di preparare argini, e bonifica la parte allagata per impostare una risaia che "affitta" agli altri contadini del villaggio in cambio di donazioni, e riassume questa storia in un haiku, per poi lasciare il villaggio mettendosi in cammino per cercare un'altra dimora solitaria nella foresta scordandosi di ciò che è successo, è un contadino-buddista-agronomo-imprenditore-poeta-errante-eremita-smemorato...
o forse è semplicemente un'illuminato?
Chi legge queste argute osservazioni è un praticante del dharma.
Chi legge questo scandiscano è un severo professore di liceo.
Chi legge questo compitino è una sorella delle Povere Ancelle di NSGC, docente di ecumenismo nella parrocchia di Gesù Buon Pastore.
Chi legge queste annotazioni è un colonnello in pensione, pro-presidente del circolo letteraio di Infravalle Sup.
Chi legge questo commento è il Vs. aff.mo
Lorenzo
Citazione di: donquixote il 21 Febbraio 2017, 19:09:52 PM
Citazione di: Apeiron il 20 Febbraio 2017, 15:32:18 PMMa chiedo io: Duc ritiene cristiano donquixote e donquixote ritiene cristiano Duc? Avete due prospettive completamente diverse.
Il Cristianesimo è una religione, con la sua Chiesa, le sue regole, i suoi riti, la sua morale eccetera; il cristiano è colui che aderisce a tale religione per cui ritengo che Duc sia certamente un cristiano. Ogni persona che invece si accosta ad una dottrina metafisica che sta alla base di una religione non si può dire propriamente appartenente a quella religione ma semplicemente uno studioso di metafisica o un "cercatore di verità". Se al termine della ricerca si rende conto che tutte le dottrine delle grandi tradizioni (quella cristiana, quella islamica, quella induista, quella buddhista, quella taoista eccetera) affermano essenzialmente la medesima cosa non può che prenderne atto, anche se ogni tradizione elabora ed esprime la medesima verità con dottrine diverse ponendo l'enfasi su alcuni aspetti invece che su altri. Diceva Ibn Arabi, uno dei più grandi maestri dell'Islam: "Il Mio cuore è divenuto capace di accogliere ogni forma, è pascolo per le gazzelle, un convento per i monaci cristiani, è un tempio per gli idoli, è la Ka'ba del pellegrino, é le tavole della Torah, è il libro sacro del Corano. Io seguo la religione dell'amore, quale mai sia la strada che prende la sua carovana: questo è mio credo e mia fede". Per quanto riguarda il "credere" ognuno che vuole partire alla ricerca di qualcosa deve credere: se io cerco le chiavi di casa devo prima "credere" di averle perse; gli scienziati che hanno speso anni e anni (e miliardi di euro) per cercare il "bosone di Higgs" hanno fermamente "creduto" che questo esistesse, altrimenti non avrebbero potuto nemmeno iniziare la ricerca. Gandhi disse un giorno: "Prima credevo che Dio fosse la verità, adesso so che la verità è Dio"; per andare alla ricerca di Dio devi crederci, altrimenti vai alla ricerca del nulla e ti fermi subito. Il dubbio è un ostacolo nel cammino della ricerca, non certo uno stimolo, perchè più il dubbio sarà intenso e più farà desistere dalla ricerca, mentre più la fede sarà salda più impegno si metterà nella ricerca. Poi molti si fermeranno alla prima affermazione di Gandhi ritenendosi soddisfatti (o non avendo la capacità, il talento e la costanza di iniziare e portare avanti una ricerca seria), ma chi invece, come Gandhi, percorre tutto il cammino allora arriva a dire "so", e quando hai la sapienza la fede non è più necessaria, come gli scienziati del CERN "sanno" che esiste il bosone di Higgs e non hanno più alcun bisogno di credere nella sua esistenza. Per quanto riguarda la questione dell'io prova ad andare a cercare in rete il sermone di Meister Eckhart intitolato "beati pauperes spiritu" e se riesci a comprenderlo vedrai che lì c'è tutta l'essenza del Cristianesimo e anche del buddhismo dato che sia pur espressa diversamente è la medesima. Se poi interessa approfondire c'è un interessante volume scritto da D.T. Suzuki (professore di filosofia buddhista a Kyoto e riconosciuto come il più autorevole rappresentante contemporaneo del buddhismo zen - morto 50 anni fa) intitolato "Misticismo cristiano e buddhista".
Ma non è questo il genere di sincretismo tanto odiato dai tradizionalisti e foraggiato dagli "esegeti parvenu" ?
Questa storia del "credere nelle chiavi di casa" che condividi con Duc è totalmente assurda, ed è il genere di mossa che si ci aspetta da un pensiero debole, che invece che eleggere le doti della propria dottrina le annacqua nel "normale comportamento umano" come se il principale bisogno sia quello di chiarire la non nocività dei propri comportamenti.E' come quello che si affretta per primo a dichiarare di non aver scoreggiato. Credere è necessario, ma la fede va ben oltre, essa è cieca. Se questo non basta a qualificarla e la si può ricondurre quindi alla fede nelle chiavi di casa, allora si è perso il senso delle parole a tal punto che discutere diventa inutile.
Citazione di: Phil il 28 Marzo 2017, 21:25:21 PM
Se non soffre per gli allagamenti ma decide comunque di preparare argini, e bonifica la parte allagata per impostare una risaia che "affitta" agli altri contadini del villaggio in cambio di donazioni, e riassume questa storia in un haiku, per poi lasciare il villaggio mettendosi in cammino per cercare un'altra dimora solitaria nella foresta scordandosi di ciò che è successo, è un contadino-buddista-agronomo-imprenditore-poeta-errante-eremita-smemorato...
o forse è semplicemente un'illuminato?
Sono donazioni o decime? Gli argini li ha preparati e bonificati il buddista o altri?
I monasteri chi li ha costruiti?
La prassi è forse più rilevante della teoria.
Riguardo a molti aspetti della sua dottrina, o, almeno, di molte sue correnti, il buddismo è molto meno lontano dalle concezioni delle UPANISAD (e del VEDANTA) di quanto comunemente si pensi; specie per quanto concerne il SE'.
In merito, nella sua MONUMENTALE opera "LA FILOSOFIA INDIANA" (che invito tutti i leggere, benchè sia alquanto voluminosa) S. Radhakrishnan affronta tale tematica in un intero capitolo, di cui qui vi riporto solo un passo saliente (se si riesce a leggerlo).
(http://funkyimg.com/i/2qXXh.jpg)
Citazione di: baylham il 29 Marzo 2017, 11:46:11 AM
La prassi è forse più rilevante della teoria.
Concordo: la prassi senza teoria è cecità, la teoria senza prassi è un fantasma... i ciechi combinano pur sempre qualcosa di più dei fantasmi! ;D
Citazione di: InVerno il 29 Marzo 2017, 11:16:19 AM
Citazione di: donquixote il 21 Febbraio 2017, 19:09:52 PMIl Cristianesimo è una religione, con la sua Chiesa, le sue regole, i suoi riti, la sua morale eccetera; il cristiano è colui che aderisce a tale religione per cui ritengo che Duc sia certamente un cristiano. Ogni persona che invece si accosta ad una dottrina metafisica che sta alla base di una religione non si può dire propriamente appartenente a quella religione ma semplicemente uno studioso di metafisica o un "cercatore di verità". Se al termine della ricerca si rende conto che tutte le dottrine delle grandi tradizioni (quella cristiana, quella islamica, quella induista, quella buddhista, quella taoista eccetera) affermano essenzialmente la medesima cosa non può che prenderne atto, anche se ogni tradizione elabora ed esprime la medesima verità con dottrine diverse ponendo l'enfasi su alcuni aspetti invece che su altri. Diceva Ibn Arabi, uno dei più grandi maestri dell'Islam: "Il Mio cuore è divenuto capace di accogliere ogni forma, è pascolo per le gazzelle, un convento per i monaci cristiani, è un tempio per gli idoli, è la Ka'ba del pellegrino, é le tavole della Torah, è il libro sacro del Corano. Io seguo la religione dell'amore, quale mai sia la strada che prende la sua carovana: questo è mio credo e mia fede". Per quanto riguarda il "credere" ognuno che vuole partire alla ricerca di qualcosa deve credere: se io cerco le chiavi di casa devo prima "credere" di averle perse; gli scienziati che hanno speso anni e anni (e miliardi di euro) per cercare il "bosone di Higgs" hanno fermamente "creduto" che questo esistesse, altrimenti non avrebbero potuto nemmeno iniziare la ricerca. Gandhi disse un giorno: "Prima credevo che Dio fosse la verità, adesso so che la verità è Dio"; per andare alla ricerca di Dio devi crederci, altrimenti vai alla ricerca del nulla e ti fermi subito. Il dubbio è un ostacolo nel cammino della ricerca, non certo uno stimolo, perchè più il dubbio sarà intenso e più farà desistere dalla ricerca, mentre più la fede sarà salda più impegno si metterà nella ricerca. Poi molti si fermeranno alla prima affermazione di Gandhi ritenendosi soddisfatti (o non avendo la capacità, il talento e la costanza di iniziare e portare avanti una ricerca seria), ma chi invece, come Gandhi, percorre tutto il cammino allora arriva a dire "so", e quando hai la sapienza la fede non è più necessaria, come gli scienziati del CERN "sanno" che esiste il bosone di Higgs e non hanno più alcun bisogno di credere nella sua esistenza. Per quanto riguarda la questione dell'io prova ad andare a cercare in rete il sermone di Meister Eckhart intitolato "beati pauperes spiritu" e se riesci a comprenderlo vedrai che lì c'è tutta l'essenza del Cristianesimo e anche del buddhismo dato che sia pur espressa diversamente è la medesima. Se poi interessa approfondire c'è un interessante volume scritto da D.T. Suzuki (professore di filosofia buddhista a Kyoto e riconosciuto come il più autorevole rappresentante contemporaneo del buddhismo zen - morto 50 anni fa) intitolato "Misticismo cristiano e buddhista".
Ma non è questo il genere di sincretismo tanto odiato dai tradizionalisti e foraggiato dagli "esegeti parvenu" ? Questa storia del "credere nelle chiavi di casa" che condividi con Duc è totalmente assurda, ed è il genere di mossa che si ci aspetta da un pensiero debole, che invece che eleggere le doti della propria dottrina le annacqua nel "normale comportamento umano" come se il principale bisogno sia quello di chiarire la non nocività dei propri comportamenti.E' come quello che si affretta per primo a dichiarare di non aver scoreggiato. Credere è necessario, ma la fede va ben oltre, essa è cieca. Se questo non basta a qualificarla e la si può ricondurre quindi alla fede nelle chiavi di casa, allora si è perso il senso delle parole a tal punto che discutere diventa inutile.
Il sincretismo è esattamente l'opposto di quel che ho scritto perchè questo riguarda e concerne la forma, il mettere insieme affermazioni tratte da dottrine diverse perlopiù travisandone il senso, mentre quel che descrivo io è semmai essenzialismo, il trascendere ogni possibile forma per cogliere l'essenza. E per quanto riguarda l'assurdità di cui parli è perlomeno curioso che chi non ha fede pretenda di sapere cosa sia la fede, tant'è vero che mostra poi di non saperne un tubo. Altrove ho scritto che solitamente i critici delle dottrine religiose e della "fede" in generale si inventano dei concetti inesistenti per poi poterli confutare con facilità, e queste tue affermazioni confermano in pieno l'assunto. La "fede cieca" è un concetto applicabile a qualunque disciplina, e si può avere fede cieca nella religione così come nella scienza o negli oroscopi o in una persona o in qualsiasi altra cosa, e come ho scritto la fede in sé non limita affatto la ricerca ma ne è il necessario ed indispensabile presupposto. Ci sono certamente più persone, in occidente, che hanno "fede cieca" nella scienza che non nella religione, e molti di coloro che hanno "fede cieca" nella religione ce l'hanno allo stesso modo anche nella scienza e magari anche in qualcosa d'altro. Se poi tu vuoi rimanere alla tua personale versione della "fede cieca" nelle religioni e considerarla come l'unica possibile (e magari "nobilitarla" generosamente in qualche modo come fanno alcuni ignorantissimi "non credenti" che chiamano "fortunati" coloro che ce l'hanno) sono affari tuoi, ma allora sicuramente è del tutto inutile discutere, perlomeno con chi non ha ancora superato l'infanzia intellettuale nella comprensione di determinati concetti.
In questa notte di plenilunio di maggio, per la tradizione theravada, si celebra la festività del Vesak, detta anche del Visakha puja; ossia si ricorda la nascita, il Risveglio ( bodhi) e il Parinirvana ( estinzione) di Siddhartha Gotama, il Buddha storico. E' certamente la festività più importante per questa religione e si celebra ininterrottamente da 25 secoli. Nei templi sparsi per il mondo si segue un rito semplice ma molto evocativo. Si offrono fiori, incenso e candele alle statue del Buddha, girando in processione attorno ad esse, in segno di gratitudine per l'Insegnamento che la mente compassionale del Buddha ha dato a chi voglia cercare la Via per la Liberazione dal Dolore, a beneficio di se stessi e di innumerevoli esseri. Noi occidentali , di solito, storciamo il naso, quando si parla di riti e di tradizioni celebrative. C'interessa magari il buddhismo, ma solo come tecnica , come pratica meditativa di vipassana, di mindfulness ( quindi una cosa più facilmente vendibile per noi ...) e troviamo ridicoli e inutili i riti. Proprio ascoltando, questa sera, un discorso di Ajahn Chandapalo del monastero Santacittarama, mi sono ricordato che i riti sono importanti, quasi essenziali, per un motivo: per la loro capacità di parlare al cuore, di nutrire il cuore e non solo la mente. Infatti, le sole tecniche meditative, o le letture dei vari testi, non nutrite da un cuore compassionevole e che si alimenta della comunione con gli altri nel rito celebrato assieme, di solito non hanno forza, non dispongono del necessario alimento per durare, perseverare nella pratica. Ci si accosta alla meditazione, si ottengono magari dei benefici, un pò di serenità, un'aumentata capacità di concentrazione, ma poi...ci si stanca, diventa difficile perseverare, ci si annoia, si finisce per scappare in cerca di qualcos'altro ( il supermercato della spiritualità...). Questo succede perché si ritiene che sia necessario semplicemente istruire ed addestrare la mente in qualche esercizio e si trascura completamente tutta l'altra dimensione del nostro essere: una dimensione di stasi calorosa, un semplice sentirsi parte di qualcosa di grande, uno stare e celebrare assieme, senza distinzioni mondane fondate sul potere, la ricchezza , l'erudizione, ecc. , un sentiero di risveglio alla compassione che ci apre all'altro e al nostro cuore , passeggero ma pulsante d'amore. In sè questi riti possono sembrare non essenziali, un fenomeno semplicemente culturale ( e in un certo senso lo sono...)ma non bisogna sottovalutare la loro capacità di creare 'comunità' , di lavorare anch'essi per diminuire quella presunzione dell'Io di essere 'staccato', autonomo e diverso. Come un buon pranzo o una cena consumati assieme, rafforza , rinsalda e fa nascere nuova amicizia, così un rito ( non importa se miseramente celebrato...) ha lo stesso potere di rafforzare, rinsaldare e far nascere fiducia nella Via indicata dal Maestro.
Così i doni portati in processione alla statua del Risvegliato sono tre come simboli dei tre gioielli : il Buddha, il Dhamma e il Sangha. E tre sono pure Prajna, Sila e Samadhi: la Saggezza, la moralità etica e il retto raccoglimento. Tre caratteristiche che in realtà sono una cosa sola. Sempre tre sono Anicca, Dukkha e Anatta, osia i Tre Sigilli : Impermanenza, carattere doloroso e assenza di sé autonomo, presenti in ogni cosa ( Tre sono il cibo, l'aria e il calore...necessari ad ogni vita). Ecco quindi i fiori, le candele e l'incenso. Ognuno come simbolo di una caratteristica del Sentiero...
Citazione di: Sariputra il 16 Maggio 2017, 00:43:38 AM
In questa notte di plenilunio di maggio, per la tradizione theravada, si celebra la festività del Vesak, detta anche del Visakha puja; ossia si ricorda la nascita, il Risveglio ( bodhi) e il Parinirvana ( estinzione) di Siddhartha Gotama, il Buddha storico. E' certamente la festività più importante per questa religione e si celebra ininterrottamente da 25 secoli. Nei templi sparsi per il mondo si segue un rito semplice ma molto evocativo. Si offrono fiori, incenso e candele alle statue del Buddha, girando in processione attorno ad esse, in segno di gratitudine per l'Insegnamento che la mente compassionale del Buddha ha dato a chi voglia cercare la Via per la Liberazione dal Dolore, a beneficio di se stessi e di innumerevoli esseri. Noi occidentali , di solito, storciamo il naso, quando si parla di riti e di tradizioni celebrative. C'interessa magari il buddhismo, ma solo come tecnica , come pratica meditativa di vipassana, di mindfulness ( quindi una cosa più facilmente vendibile per noi ...) e troviamo ridicoli e inutili i riti. Proprio ascoltando, questa sera, un discorso di Ajahn Chandapalo del monastero Santacittarama, mi sono ricordato che i riti sono importanti, quasi essenziali, per un motivo: per la loro capacità di parlare al cuore, di nutrire il cuore e non solo la mente. Infatti, le sole tecniche meditative, o le letture dei vari testi, non nutrite da un cuore compassionevole e che si alimenta della comunione con gli altri nel rito celebrato assieme, di solito non hanno forza, non dispongono del necessario alimento per durare, perseverare nella pratica. Ci si accosta alla meditazione, si ottengono magari dei benefici, un pò di serenità, un'aumentata capacità di concentrazione, ma poi...ci si stanca, diventa difficile perseverare, ci si annoia, si finisce per scappare in cerca di qualcos'altro ( il supermercato della spiritualità...). Questo succede perché si ritiene che sia necessario semplicemente istruire ed addestrare la mente in qualche esercizio e si trascura completamente tutta l'altra dimensione del nostro essere: una dimensione di stasi calorosa, un semplice sentirsi parte di qualcosa di grande, uno stare e celebrare assieme, senza distinzioni mondane fondate sul potere, la ricchezza , l'erudizione, ecc. , un sentiero di risveglio alla compassione che ci apre all'altro e al nostro cuore , passeggero ma pulsante d'amore. In sè questi riti possono sembrare non essenziali, un fenomeno semplicemente culturale ( e in un certo senso lo sono...)ma non bisogna sottovalutare la loro capacità di creare 'comunità' , di lavorare anch'essi per diminuire quella presunzione dell'Io di essere 'staccato', autonomo e diverso. Come un buon pranzo o una cena consumati assieme, rafforza , rinsalda e fa nascere nuova amicizia, così un rito ( non importa se miseramente celebrato...) ha lo stesso potere di rafforzare, rinsaldare e far nascere fiducia nella Via indicata dal Maestro.
Così i doni portati in processione alla statua del Risvegliato sono tre come simboli dei tre gioielli : il Buddha, il Dhamma e il Sangha. E tre sono pure Prajna, Sila e Samadhi: la Saggezza, la moralità etica e il retto raccoglimento. Tre caratteristiche che in realtà sono una cosa sola. Sempre tre sono Anicca, Dukkha e Anatta, osia i Tre Sigilli : Impermanenza, carattere doloroso e assenza di sé autonomo, presenti in ogni cosa ( Tre sono il cibo, l'aria e il calore...necessari ad ogni vita). Ecco quindi i fiori, le candele e l'incenso. Ognuno come simbolo di una caratteristica del Sentiero...
Si e' proprio cosi.In particolare riprendo su un punto (che ho rimarcato sopra) quel trascurare l'altra dimensione del nostro essere che poi riguarda proprio l'essenziale e quindi tutto cio che viene di seguito.e' l'unione..si arriva a com-prendere (col "cuore" e non con la mente) che non vi e' alcuna separazioneLa Spiritualita' e' appunto aprirsi ed accedere a tale dimensione..e' arrivare al "cuore" ma che di solito viene frainteso pressapoco e a torto ad un banale sentimentalismo perché in quel caso e' sempre e solo la mente a porre il limite. Come dici tu i riti hanno tale funzione e non e' un fenomeno culturale (motivo per cui chi si limita a pensarla in questo modo lo scambia anche questo ad ingenua superstizione...e questa si che e' la vera ingenuità) ma per l'appunto spirituale..essenziale come detto sopra.
Buddha diceva che non bisogna attaccarsi ai riti. Eppure il Nobile Ottuplice Sentiero è una sorta di "rito" nel senso che è un comportamento ordinato, regolare che deve stare all'interno di alcune norme ecc. Il vero problema è la concezione del rito: per le religioni "occidentali" l'uomo è al serivizio del rito mentre il rito per il buddismo (ma anche per frange induiste e per i taoisti) è un mezzo per la Liberazione, la classica "zattera". Nel senso che se l'Ottuplice Sentiero ti crea solo problemi uno è libero di "personalizzarlo" oppure di seguire un'altra via. Nelle nostre religioni non c'è spazio per mutare la fede o il rito, pena "essere anatemi" (e pensare che nel Vangelo c'è anche "il Sabbath è stato creato per l'uomo e non l'uomo per il Sabbath"). Il problema che da noi ogni volta che c'è un'innovazione il rito nuovo diventa "il fine" e non il mezzo. Questo è il motivo che mi fa preferire le religioni orientali (o almeno quelle "non-duali"): là l'idea della fede è una fede come aiuto e non come un "devi credere". In sostanza mentre da noi la fede è imposta pena "essere anatemi", da loro il religioso è una sorta di medico.
In un certo senso in occidente "si deve" seguire un rito come si segue un legge civile, in oriente "si deve" seguire un rito come si segue il consiglio del medico.
P.S. Recentemente ho (ri)riscoperto il taoismo. A mio giudizio le differenze dottrinali tra taoismo, buddismo e alcune filosofie indù sono veramente poco importanti. In comune c'è sempre: l'ineffabilità della realtà (nel senso che la realtà è sempre vista come inconoscibile e ciò crea libertà nella dottrina) e appunto la visione del rito come mezzo e non come fine.
Un certo livello di ritualità è inevitabile in qualunque forma religiosa organizzata, soprattutto quando si allarga a strati sempre più ampi di popolazione e quindi ad esigenze profondamente diverse nei soggetti in cui si manifesta l'interesse e la fede verso quella particolare forma di spiritualità. Alcuni temperamenti sono portati alla devozione e quindi si sentono attratti dalle forme rituali di offerta simbolica e di donazione, come segni di gratitudine. Il problema sorge quando si scambia il rito con il fine, e diventa esso stesso la finalità dell'atteggiamento religioso. Se vado in processione attorno alla statua del Buddha pensando così di 'ingraziarmi' la benevolenza dello stesso nei miei riguardi, e che questo comporterà una mia 'elevazione' spirituale, sono completamente fuori strada. Se invece 'costringo' il mio ego ad inginocchiarsi davanti alla statua, non significa affatto che considero la statua dotata di qualche particolare 'energia' spirituale o trascendente, ma eseguo una pratica di liberazione dall'attaccamento alla servitù dell'ego: ossia lavoro per indebolire questo attaccamento. La statua diventa un aiuto, uno strumento, un'immagine che mi costringe ad assumere un atteggiamento del corpo che influenza la mente stessa. La quale , di solito, si ribella e comincia a formulare una marea di obiezioni. Diventa quindi molto interessante osservare con consapevolezza questo obiettare della mente, questo suo voler "andarsene" da qualche altra parte, in territori a lei più soddisfacenti. Costringerla a restare là, ferma e insoddisfatta, agitata e recalcitrante, con l'attenzione della stessa che vaga verso la percezione del dolore alle ginocchia, del freddo del pavimento, del bisogno di muoversi, dell'osservazione di chi "molla per primo", così da potersi rialzare senza sembrare negligenti, è pratica , esattamente come stare seduti nella posizione del loto consapevoli del respiro. Non c'è alcuna differenza. Si sta semplicemente lavorando ad osservare la mente con la mente...si sposta l'attenzione cosciente dall'esterno all'interno. Come quando si osserva, per esempio, un magnifico cavallo libero al galoppo e si colgono tutti i particolari, come la criniera al vento, il colore del manto, il paesaggio, ecc. Così si osserva il rimuginare e il protestare della mente in certe situazioni rituali in cui non prova alcuna soddisfazione. Si comprende pian piano come noi non la controlliamo, ma viviamo di reazione al bisogno di soddisfarsi della mente.
Il rito, così correttamente inteso e praticato, e naturalmente perseguito con questa finalità di mezzo, piano piano comincia ad operare sullo stato mentale di agitazione continua. Si entra in empatia con coloro che ci circondano e che partecipano al rito stesso. Lentamente, man mano che la mente, domata come si doma un cavallo selvaggio, si placa, sorge in essa quello stato naturale di 'benevolenza' privo di confini definiti, uno spazio mentale privo di netta separazione che, per l'appunto, riscalda e rinsalda il cuore e la fiducia.
Il Dhamma originario era molto probabilmente privo di queste forme rituali. Consideriamo però che era un insegnamento rivolto principalmente a chi aveva scelto l'ordinazione monastica nel Sangha e che quindi disponeva già di una comunità di altri monaci, che condividevano il sentiero, attorno a sè, e che questa comunità era già una forza interiore e una possibilità di praticare la benevolenza ( aiutandosi reciprocamente nella malattia, mettendo insieme il cibo elemosinato così che tutti potessero sfamarsi con la stessa quantità, ecc.). Diversa era la situazione dei, sempre più numerosi, devoti laici che , probabilmente in modo autonomo e spontaneo, iniziarono a dare corpo a tutta una serie di festività e rituali per ricordare il Maestro, che poi i monaci stessi inglobarono nella loro pratica e insegnamento.
L'utilità del rito è sicuramente più rivolta al praticante laico che non al bikkhu, al monaco che magari già pratica tutto il giorno con diligenza ( si spera...) il Dhamma...
@Sariputra concordo con quanto hai scritto. Il mio punto però è un altro: anche l'Ottuplice Sentiero puoi considerarlo un "rito", visto che devi seguire delle "regole". Non per forza un rito deve essere "devozionale" e non per forza viceversa un rito devozionale deve essere il fine dell'uomo. Anche un rito devozionale può essere un aiuto. Il problema è quando le pratiche religiose diventano il fine.
Quello che manca in occidente, e in generale nelle tre religioni abramitiche è proprio questo, ossia la presa di coscienza seria che il rito è un mezzo e non un fine. Nel buddismo, nel gianismo, nel taoismo e tradizioni simili il rito è visto come un mezzo e l'attaccamento allo stesso è visto come una vera e propria degenerazione.
La cosa interessante semmai è vedere se si può considerare "religione" una tradizione in cui il rito non è al primo posto. O addirittura: se si può considerare "religione" una tradizione in cui non c'è l'aspetto devozionale. Ad esempio se faccio come mia (anche nella pratica) la filosofia di Schopenhauer e considero il filosofo di Danzica come mio "guru" non credo che ciò si possa considerare "religione" :)
Citazione di: Apeiron il 18 Maggio 2017, 09:38:12 AM@Sariputra concordo con quanto hai scritto. Il mio punto però è un altro: anche l'Ottuplice Sentiero puoi considerarlo un "rito", visto che devi seguire delle "regole". Non per forza un rito deve essere "devozionale" e non per forza viceversa un rito devozionale deve essere il fine dell'uomo. Anche un rito devozionale può essere un aiuto. Il problema è quando le pratiche religiose diventano il fine. Quello che manca in occidente, e in generale nelle tre religioni abramitiche è proprio questo, ossia la presa di coscienza seria che il rito è un mezzo e non un fine. Nel buddismo, nel gianismo, nel taoismo e tradizioni simili il rito è visto come un mezzo e l'attaccamento allo stesso è visto come una vera e propria degenerazione. La cosa interessante semmai è vedere se si può considerare "religione" una tradizione in cui il rito non è al primo posto. O addirittura: se si può considerare "religione" una tradizione in cui non c'è l'aspetto devozionale. Ad esempio se faccio come mia (anche nella pratica) la filosofia di Schopenhauer e considero il filosofo di Danzica come mio "guru" non credo che ciò si possa considerare "religione" :)
L'aspetto rituale e devozionale è parte integrante dell'esperienza religiosa, perché la sottrae alla dimensione 'privata' e ne fa un'esperienza collettiva. Seguire , in modo personale, questo o quel filosofo, e condividerne la visione, ovviamente non si può considerare 'religione' ( anche se, per alcuni, l'ammirazione per un pensatore può sfociare in una specie di "culto" personale, che a volte impedisce di coglierne le contraddizioni, come spesso non scorgiamo i difetti della persona molto amata che ci sta di fianco...finché non notiamo che esce con il nostro miglior amico ;D ).
I riti sono strettamente connessi con la sfera del "sacro", servono a rendere tangibile l'esperienza religiosa ( e questa tangibilità può essere utile come
mezzo) e la liberano da un eccesso di individualismo privato ( che spesso è territorio della mistica...). Il Nobile Sentiero è un insieme di norme etiche e pratiche da seguire per ottenere la Liberazione e si rivolge all'individuo, che lo attua. Ma non ha il carattere rituale di momento collettivo. Altra cosa è la celebrazione di festività varie, come il Vesak, o la recitazione comunitaria di brani dei sutra, che diventano, questi sì, momenti rituali specifici.
La visione buddhista del significato del rito, come giustamente scrivi, è quella di
mezzo, quasi un momento di meditazione collettiva che ha lo scopo di rinsaldare il sentimento di benevolenza verso chi ci sta attorno. Ovviamente il significato è molto diverso, per esempio, dalla
messa cristiana in cui la comunità dei fedeli partecipa di un momento di comunione con Dio, attraverso la celebrazione dell'Eucarestia, in cui il Cristo, secondo questa fede, si fa
veramente presente, sotto le specie del pane e del vino. Il rito buddhista è
simbolico e non è il centro della pratica religiosa. Quello cristiano è realmente il centro, attorno a cui ruota l'intera comunità ed è il compimento, a mio parere, dell'intera esperienza cristiana che, privata di questo, sfuma in una specie di filantropia.
Citazione di: Sariputra il 18 Maggio 2017, 10:49:06 AMCitazione di: Apeiron il 18 Maggio 2017, 09:38:12 AM@Sariputra concordo con quanto hai scritto. Il mio punto però è un altro: anche l'Ottuplice Sentiero puoi considerarlo un "rito", visto che devi seguire delle "regole". Non per forza un rito deve essere "devozionale" e non per forza viceversa un rito devozionale deve essere il fine dell'uomo. Anche un rito devozionale può essere un aiuto. Il problema è quando le pratiche religiose diventano il fine. Quello che manca in occidente, e in generale nelle tre religioni abramitiche è proprio questo, ossia la presa di coscienza seria che il rito è un mezzo e non un fine. Nel buddismo, nel gianismo, nel taoismo e tradizioni simili il rito è visto come un mezzo e l'attaccamento allo stesso è visto come una vera e propria degenerazione. La cosa interessante semmai è vedere se si può considerare "religione" una tradizione in cui il rito non è al primo posto. O addirittura: se si può considerare "religione" una tradizione in cui non c'è l'aspetto devozionale. Ad esempio se faccio come mia (anche nella pratica) la filosofia di Schopenhauer e considero il filosofo di Danzica come mio "guru" non credo che ciò si possa considerare "religione" :)
L'aspetto rituale e devozionale è parte integrante dell'esperienza religiosa, perché la sottrae alla dimensione 'privata' e ne fa un'esperienza collettiva. Seguire , in modo personale, questo o quel filosofo, e condividerne la visione, ovviamente non si può considerare 'religione' ( anche se, per alcuni, l'ammirazione per un pensatore può sfociare in una specie di "culto" personale, che a volte impedisce di coglierne le contraddizioni, come spesso non scorgiamo i difetti della persona molto amata che ci sta di fianco...finché non notiamo che esce con il nostro miglior amico ;D ). I riti sono strettamente connessi con la sfera del "sacro", servono a rendere tangibile l'esperienza religiosa ( e questa tangibilità può essere utile come mezzo) e la liberano da un eccesso di individualismo privato ( che spesso è territorio della mistica...). Il Nobile Sentiero è un insieme di norme etiche e pratiche da seguire per ottenere la Liberazione e si rivolge all'individuo, che lo attua. Ma non ha il carattere rituale di momento collettivo. Altra cosa è la celebrazione di festività varie, come il Vesak, o la recitazione comunitaria di brani dei sutra, che diventano, questi sì, momenti rituali specifici. La visione buddhista del significato del rito, come giustamente scrivi, è quella di mezzo, quasi un momento di meditazione collettiva che ha lo scopo di rinsaldare il sentimento di benevolenza verso chi ci sta attorno. Ovviamente il significato è molto diverso, per esempio, dalla messa cristiana in cui la comunità dei fedeli partecipa di un momento di comunione con Dio, attraverso la celebrazione dell'Eucarestia, in cui il Cristo, secondo questa fede, si fa veramente presente, sotto le specie del pane e del vino. Il rito buddhista è simbolico e non è il centro della pratica religiosa. Quello cristiano è realmente il centro, attorno a cui ruota l'intera comunità ed è il compimento, a mio parere, dell'intera esperienza cristiana che, privata di questo, sfuma in una specie di filantropia.
Ho capito ciò che intendi e sono d'accordo. In questo senso si potrebbe vedere la differenza sostanziale tra cristianesimo e buddismo. In occidente si
deve credere
a scapito dell'evidenza (a parte certi visionari) mentre nel buddismo il fatto che "il rito è un mezzo" ci fa capire che si "dovrebbe" credere. Questa differenza ahimé è enorme.
@Apeiron scrive:
Ho capito ciò che intendi e sono d'accordo. In questo senso si potrebbe vedere la differenza sostanziale tra cristianesimo e buddismo. In occidente si deve credere a scapito dell'evidenza (a parte certi visionari) mentre nel buddismo il fatto che "il rito è un mezzo" ci fa capire che si "dovrebbe" credere. Questa differenza ahimé è enorme.
Questa differenza appare nella sua evidenza se prendiamo in esame due affermazioni importanti fatte dal Buddha e da Cristo:
Come l'oro viene fuso, tagliato e lucidato,
Così i monaci e i discepoli devono accettare la mia parola
Dopo averla attentamente analizzata
E non solo in segno di rispetto nei miei confronti.
Di diverso segno il brano di Giovanni:
"Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto" (Gv 20,29)
La fede nel Buddha nasce dopo aver "attentamente analizzato" l'Insegnamento, messo in pratica, ed eventualmente goduto dei frutti della pratica stessa. La fede nell'Insegnamento cresce man mano che si sviluppa la comprensione dello stesso. Come un malato aumenta la sua fiducia nel medico man mano che vede migliorare la sua malattia ( o malattia interiore...).
IL Cristianesimo, mettendo al centro la fede ( anche senza "aver visto"...) presuppone un'apertura ad un trascendente che ci visita per sua Natura ( Grazia) e ci trasforma, vivificando la nostra esistenza.
Uno appare come un atteggiamento 'attivo' ( l'Insegnamento non può curare nessuno se questi non si applica , non prende la 'buona medicina'...). L'altro invece come atteggiamento 'passivo'; un lasciarsi 'visitare', un mettersi da parte per far posto alla Presenza. In tutti e due i casi però ci vuole uno sforzo della volontà, la volontà di liberarsi dal "servo diventato padrone" ( l'Ego). E' quando il servo prende il comando del nostro agire, della nostra vita, che sorgono i problemi. Quando l'ego si afferma a scapito del padrone ( la pura consapevolezza) riversa sopra questo limpido specchio una polvere fittissima, fatta di attaccamenti, desideri, paure, volontà di sopraffazione, di potere, ecc. Quando invece il padrone 'controlla' il servo, cioè quando la consapevolezza guida e osserva le manifestazioni, le proprietà, la razionalità dell'agire...il servo è il servo e il padrone è il padrone.
Oggi ho avuto occasione di parlare con un mio amico teologo e mi ha nuovamente "sconvolto". In sostanza mi ha detto che per lui la "fede" in sostanza è accogliere il messaggio di "vedere la propria vita come un dono e donare la propria vita agli altri" più che una "presa di posizione dogmatica" e che il "vero peccato" è proprio quello di "rifiutarsi ad amare". In questo senso è un messaggio per tutti, sia per chi crede che per chi non crede e anzi l'attaccamento "eccessivo" (per intenderci l'essere eccessivamente pii) al rito è segno di "scrupolosità" più che di "fede". Quindi, almeno in questi tempi l'idea del rito come mezzo a quanto sembra circola anche tra i cattolici ::)
Mi chiedo a questo punto se non si potesse creare una sorta di religione "universale" con il solo e unico principio di "amare".
Lavorare con la benevolenza (metta) è veramente utile.Però non è la soluzione magica per risolvere il probelma del dolore. Se pensiamo di praticare la benevolenza come una formula magica per migliorarci e giungere a chissà quali 'mete'...ecco di nuovo l'io che parla. L'io sta nuovamente affermando se stesso per impadronirsi dei nostri tentativi di apertura e di amicizia. Se c'è questo intervento, coinvolgimento dell'ego, le cose non possono funzionare veramente bene. Perché per essere pienamente aperti bisogna arrendersi completamente. La vera benevolenza esiste solo quando ci poniamo al di fuori dei confini del nostro io, abbandoniamo le identità del nostro io, le definizioni del nostro io.Nella pratica questo succede poco a poco. Più sviluppiamo la benevolenza e più allentiamo il controllo del nostro io, passo dopo passo.
C'è una storiella interessante , in uno dei libri post-canonici, che ci illustra con un esempio :
quattro persone se ne stanno sedute su una panchina. Noi, il nostro miglior amico, una persona che ci è indifferente e il nostro peggior nemico. Arrivano degli assassini e dicono che devono sacrificare uno di noi. E, proprio noi, dobbiamo scegliere una di queste quattro persone perché venga uccisa. Bene, chi sceglieremmo? Questo è un grande dilemma morale, giusto? Posso scegliere me stesso e dire, "Be', io sono così altruista e santo. Prendete me!" O potrei dire, "Bene, prendete il mio peggiore nemico. Non vale niente comunque. Ripulite la terra da quest'individuo" E la persona indifferente? Non è nessuno di speciale. O potrei essere veramente generoso, "Be', io non posso proprio andare, sto prendendo una decisione importante, quindi prendete il mio migliore amico, è come se prendeste me."
Qui, con le risposte che danno le persone, si potrebbe fare un test di personalità. Chi sceglieremmo?
La risposta deve arrivare dal cuore, è impensabile infatti.In questa storiella, la risposta impensabile, se veramente si pratica la benevolenza amorevole ad un livello molto alto, è che non puoi scegliere nessuno dei quattro. L'amorevolezza è sviluppata così ampiamente che non si fa più alcuna discriminazione tra le quattro persone, si è completamente aperti e amichevoli verso tutti loro, in egual misura – e persino anche verso gli assassini!
Citazione di: Sariputra il 21 Maggio 2017, 00:00:04 AMLavorare con la benevolenza (metta) è veramente utile.Però non è la soluzione magica per risolvere il probelma del dolore. Se pensiamo di praticare la benevolenza come una formula magica per migliorarci e giungere a chissà quali 'mete'...ecco di nuovo l'io che parla. L'io sta nuovamente affermando se stesso per impadronirsi dei nostri tentativi di apertura e di amicizia. Se c'è questo intervento, coinvolgimento dell'ego, le cose non possono funzionare veramente bene. Perché per essere pienamente aperti bisogna arrendersi completamente. La vera benevolenza esiste solo quando ci poniamo al di fuori dei confini del nostro io, abbandoniamo le identità del nostro io, le definizioni del nostro io.Nella pratica questo succede poco a poco. Più sviluppiamo la benevolenza e più allentiamo il controllo del nostro io, passo dopo passo. C'è una storiella interessante , in uno dei libri post-canonici, che ci illustra con un esempio : quattro persone se ne stanno sedute su una panchina. Noi, il nostro miglior amico, una persona che ci è indifferente e il nostro peggior nemico. Arrivano degli assassini e dicono che devono sacrificare uno di noi. E, proprio noi, dobbiamo scegliere una di queste quattro persone perché venga uccisa. Bene, chi sceglieremmo? Questo è un grande dilemma morale, giusto? Posso scegliere me stesso e dire, "Be', io sono così altruista e santo. Prendete me!" O potrei dire, "Bene, prendete il mio peggiore nemico. Non vale niente comunque. Ripulite la terra da quest'individuo" E la persona indifferente? Non è nessuno di speciale. O potrei essere veramente generoso, "Be', io non posso proprio andare, sto prendendo una decisione importante, quindi prendete il mio migliore amico, è come se prendeste me." Qui, con le risposte che danno le persone, si potrebbe fare un test di personalità. Chi sceglieremmo? La risposta deve arrivare dal cuore, è impensabile infatti.In questa storiella, la risposta impensabile, se veramente si pratica la benevolenza amorevole ad un livello molto alto, è che non puoi scegliere nessuno dei quattro. L'amorevolezza è sviluppata così ampiamente che non si fa più alcuna discriminazione tra le quattro persone, si è completamente aperti e amichevoli verso tutti loro, in egual misura – e persino anche verso gli assassini!
Il problema della sofferenza a mio giudizio c'è per la presenza per i pensieri che includono "me, io e mio". Il completo "amore" (che per me è una disposizione che precede l'atto) fa trascendere la prospettiva che fa sorgere questi pensieri e quindi "libera" dall'egoismo. Sinceramente
questa prospettiva mi sembra già "anatta". La difficoltà è proprio mettere in pratica...
Comunque su quanto dici sono d'accordo.
In ogni caso se fossi un individuo illuminato, libero dalla paura della morte, libero da attaccamenti ecc probabilmente direi "prendete me". Ma ovviamente non lo sono ergo non ho idea di come mi comporterei in una situazione...
Quando ho detto che versavo l'8 per mille all'UBI ( Unione Buddhista Italiana), nella dichiarazione dei (pochi) redditi, il sopracciglio sinistro dell'impiegato si è arcuato e poi, con curiosità, dopo avermi scrutato e notato che non portavo un saio color zafferano, e che la calvizie aveva operato più in profondità della tonsura, piegandosi verso di me, mi ha quasi sussurrato: " Allora lei crede nel karma?"
Per quasi tutti gli occidentali parlare di qualcosa che viene da Oriente significa una parola sola: Karma. Dalla pagina astrologica sui giornali , alle canzonette demenziali sanremesi, al salone del barbiere ( da me, come si può ben capire, assai poco frequentato...) il karma è la filosofia dell'orientale. E fa molto figo parlarne...
Ma cos'è 'sto karma (kamma in pali) ? Karma significa fare , ed è possibile osservarlo mantenendo la consapevolezza di ciò che è presente alla coscienza attimo dopo attimo. Qualunque cosa, qualunque percezione o sensazione, pensiero o ricordo, piacevole o spiacevole, è karma. E' osservabile direttamente ma, ovviamente, ci vien sempre una gran voglia di costruirci sopra altre speculazioni. E allora: perché abbiamo il karma che abbiamo? Rinasceremo in uno stato più alto di esistenza o il karma accumulato nelle vite precedenti sarà come piombo che ci trascinerà nella pignatta di messer satanasso?
Ci sono poi le speculazioni sulla rinascita: che cosa passa da un'esistenza all'altra se non c'è un'anima? Se tutto è anatta (non-sé) come posso esser stato qualcosa in una vita precedente o avere una sostanza che rinasce?
Osservando come le cose agiscono indipendentemente ( purtroppo) da noi, si inizia a capire che la rinascita non è altro che il desiderio che cerca un oggetto a cui afferrarsi per esere nuovamente suscitato. E' l'abitudine della mente disattenta. Abbiamo fame e il condizionamento acquisito ci spinge a cercare il cibo. Questa è una ri-nascita: andare alla ricerca di qualcosa a cui afferrarci. Ri-nascere è continuarsi , giorno e notte, notte e giorno; quando poi siamo stufi di ri-nascere, ci annulliamo nel sonno. Tutto qui, sotto i nostri occhi. Non si tratta di una teoria, il karma non è una teoria, ma dell'osservazione e dell'esame delle azioni. Si dice: "Fai il bene, e riceverai bene; fai il male, e riceverai male". Cosa significa, visto che spesso il giusto riceve ingiustizia dal mondo? Quello che facciamo lo ricordiamo: è semplicissimo. Le azioni passate, buone o malvagie, non esistono più, ma esiste il loro ricordo che è il nostro karma. Il ricordo di un'azione gentile, piena di compassione e d'amicizia o di generosità, ci fa star bene; ma se commettiamo un'azione gretta, sporca ed egoista, ce la ricorderemo! Poi, ovviamente, cercheremo in tutti i modi di cancellare il ricordo, di sfuggirgli, di trovare frenetiche scappatoie, qualcosa alla notte risalirà dal pozzo nero dentro di noi: ecco il risultato karmico. Il karma ha fine quando viene riconosciuto dalla consapevolezza. E' proprio la consapevolezza che lascia finire le formazioni karmiche invece di ricrearle. La morte non è altro che il risultato karmico della nascita, e tutto quel che necessita sapere su ciò che nasce e muore è che è condizionato, è il non-sé...Qualunque ricordo è il non-sè. Seguire un sentiero come quello tracciato da Siddhartha non è alla fine troppo complicato: è la pratica di fare il bene e , se non ci riusciamo, almeno astenersi dal fare il male con il corpo e la parola ( che spesso è più ferente del corpo), ed essere consapevoli. Non ci creiamo complicazioni, non cerchiamo la perfezione nel regno dei sensi. Impariamo ad aiutarci a vicenda ( soprattutto quando si sta veramente male si comprende l'importanza dell'altro, dell'aiuto che ci dà, della presenza...). Molte volte cadiamo, ma non sarà intenzionalmente. E poi...permettiamo sempre anche agli altri di cadere. Lasciamo spazio agli altri e gli permettiamo di essere imperfetti, invece che pretendere che siano perfetti perché non ci infastidiscano. Per avere pace mentale, quando siamo di fronte all'azione sbagliata di qualcuno, la riconosciamo semplicemente come una formazione karmica. "Che bastardo! Si è comportato così o cosà, mi ha fatto questo o quello..." Sto 'costruendo' una persona con il materiale di determinate formazioni karmiche, e il ricordo sgradevole che conservo dell'altro mi farà soffrire ogni volta che lo vedo. Se poi, nella reciproca ignoranza, io lo faccio all'altro e lui lo fa a me in risposta, ecco che ci leghiamo a vicenda con le catene delle cattive abitudini karmiche.
Riconosciamo questo solito, noioso 'modello' di ri-creazione come insoddisfacente; il processo continuo e ossessivo della paura, del dubbio, della preoccupazione: brama, odio e illusione in tutte le sue forme. Se siamo consapevoli, non c'è attaccamento a idee o ricordi di sé e la creatività sorge spontanea. Non c'è nessuno che ama o che è amato, non c'è creazione di nessun essere personale. Così , quando questa nevrotica creatura karmica se ne sta un pò quieta, scopriamo una dimensione di gentilezza, di compassione e di equanimità sempre fresca e paziente e che sa perdonare a noi stessi e agli altri.
C'è un'intuizione fondamentale alla base di Shakyamuni Buddha: l'impermanenza nella sua completa originarietà. Il mondo come impermanenza. E tutto ciò che esiste solo come forma dell'impermanenza. Un'originario che dice: non-sei, ma divieni. Tutto il resto viene dopo, ne consegue: il dolore come insoddisfazione, la formulazione della dottrina dell'anatta ( non-sè indipendente), il Nirvana stesso come stato di libera osservazione e distacco dal divenire. Senza questo profondo esperire l'impermanenza non c'è buddhismo. Sono visioni che si presentano: il malato, il vecchio, il morente; non rappresentano che questo intuire. Dopo l'intuizione si genera l'angoscia, ci si arrovella: "Anch'io son così?" e, come nella Baghavad-Gita, c'è sempre questo carro che fugge o che porta verso...
Ma impermanenza è anche non-contraddizione...Mi siedo, chiudo gli occhi e vedo tutto il mio passare dentro; li apro e vedo tutto il mio passare fuori.
Tutte le cose sono impermanenti. Passano le stagioni, le età sfioriscono, la vita compie il suo ciclo. Attaccarsi alle cose, trasformarle in oggetti di desiderio, conoscenza intellettuale o possessi personali, significa voler andare contro corrente, voler fissare ciò che per sua natura è in continuo movimento, racchiudere in concetti particelle di vita vissuta, far bruciare del proprio ardore cenere di cenere. E' questa dolorosa 'follia' a condurre la nostra vita, la vita dei più...
Se la vita sentiamo che passa, dobbiamo far di tutto per allungarla, dobbiamo cercare qualcosa che ci permetta di allungarla e di goderla sempre più. Abbiamo bisogno di una scienza e di una tecnica...
Sorge la filosofia positiva corrente che recita così: l'uomo è parte del mondo, il raggiungimento della felicità è legato indissolubilmente a questa vita, ai piaceri e alle soddisfazioni che essa offre, a cui ognuno di noi attinge a seconda delle sue predisposizioni, dei suoi interessi e delle sue possibilità. La vita non è facile per nessuno, ma una buona 'qualità della vita' dipende da noi, dalla nostra volontà e dalla forza che imponiamo alla natura e agli eventi sociali, attraverso la scienza, la tecnologia, il diritto, l'economia. Non vi è niente al di là di questo, comunque niente che possa essere conosciuto, esperito, manipolato, desiderato...Ecco il messaggio positivo ufficiale che viene dalla società in cui viviamo, un messaggio costantemente amplificato dai media, ripetuto ossessivamente perfino ai parenti poveri dell'umanità, alle masse di diseredati che son disposti a vestire di stracci pur di potersi comprare un'antenna parabolica per puntarla verso le frequenze del ricco Occidente...
In fin dei conti non sono anche le contrapposizioni stridenti, violente della nostra epoca, che ci forniscono quel senso ddi sicurezza, di 'potenza' e di 'positività', senza il quale è difficile tirare avanti?...
Eppure, mistero!...è la stessa filosofia occidentale nel XIX e nel XX sec. ad esprimere una critica radicale, 'pessimista', alla cultura dominante del piacere e del benessere a tutti i costi. Abbiamo voci importanti : Leopardi, Schopenhauer, Nietzsche e poi Heiddeger, Jaspers, per arrivare a Sartre. Tutti mettono il dito nella piaga che , seppur purulenta, si cerca di coprire con la benda miracolosa della tecnologia e del godimento, la piaga ineliminabile dell'angoscia, di quel diamante d'angoscia che sembra non aver nessun legame con tutto quello che stiamo facendo, con i nostri piaceri, le nostre soddisfazioni, le nostre esperienze affettive, lavorative o sociali...
L'angoscia come mal-essere assoluto ( e qui il dizionario recita: latino ab-soluto participio passato da absolvo, slego, rendo indipendente, incondizionato), un'esperienza del limite, 'metafisica'...
Non è paura, non è ansia o preoccupazione...è qualcos'altro che non ha oggetto, o per meglio dire, che non ha un oggetto particolare. E' il nudo e crudo fatto di esistere divenendo senza posa. Provenienti da non si sa che cosa e destinati al nulla della morte...si precipita, come nei sogni, senza alcun appiglio...
Qui parte il sentiero di Siddhartha, dopo esser caduti senza fine...l'angoscia è lì, sotto gli occhi. La causa del 'mal di vivere' va cercata nella falsa credenza di un sé stabile, autonomo, separato; nell'attaccamento a questo o quel desiderio, nella 'voracità' con la quale si tenta di divorare il "proprio" tempo. La soluzione è difficile, ma per Siddhartha esiste... pensa di averla trovata...Occorre volontà e retta condotta, spirito di abnegazione nella pratica: quasi sempre non basta un'intera vita...
Ma è sempre l'esperienza a farla da padrone. La conoscenza intellettuale non ha mai salvato nessuno: la partita cruciale si gioca nella vita concreta, nei gesti quotidiani, anche i più inutili e insignificanti. La conoscenza deve farsi corpo, pelle, muscoli, ossa...
Faccio risorgere il dibattito sul rapporto Schopenhauer-buddismo...
"il concetto del nulla è essenzialmente relativo, e si
riferisce sempre ad alcunché di determinato, ch'esso
nega. Codesta relatività fu attribuita (specie da Kant)
soltanto al nihil privativum, indicato col segno – in opposizione
al segno +; il qual segno –, capovolgendo il
punto di vista, poteva diventare +; e in contrasto con
quel nihil privativum, si stabilì un nihil negativum, che
fosse il nulla sotto tutti i rapporti, per esempio, del quale
si cita la contraddizione logica, distruggente se stessa.
Ma, guardando più da vicino, un nulla assoluto, un vero
e proprio nihil negativum non si può neppure immaginare:
ogni nihil negativum, guardato più dall'alto o sussunto
ad un più ampio concetto, rimane pur sempre un nihil
privativum....Noi vogliamo piuttosto liberamente
dichiarare: quel che rimane dopo la soppressione
completa della volontà è invero, per tutti coloro che della
volontà ancora son pieni, il nulla. Ma viceversa per
gli altri, in cui la volontà si è rivolta da se stessa e rinnegata,
questo nostro universo tanto reale, con tutti i suoi
soli e le sue vie lattee, è – il nulla." (Arthur Schopenhauer)
"E qual è la proprietà del Nibbana senza nutrimento residuo ? In questo caso un monaco è un arahant i cui influssi impuri sono distrutti, che ha raggiunto il compimento, raggiunto lo scopo, deposto il fardello, raggiunto la meta suprema, distrutto il vincolo del divenire, ed è libero attraverso la perfetta conoscenza. Per lui, tutto ciò che è sperimentato, essendo senza piacere, si estinguerà durante la sua esistenza. Questa è chiamata la proprietà del Nibbana senza nutrimento residuo." (Canone Pali http://www.canonepali.net/itivuttaka-la-sezione-delle-coppie/)
"Questo è stato detto dal Beato, è stato detto dall'Arahant, e così ho sentito: "Vi è, monaci, un non-nato — non-divenuto — non-creato — non-formato. Se non ci fosse il non-nato — non-divenuto — non-creato — non-formato, non ci sarebbe alcuna conoscenza della liberazione da ciò che è nato— divenuto — creato — formato. Ma poiché vi è un non-nato — non-divenuto — non-creato — non-formato, vi è la conoscenza della liberazione da ciò che è nato— divenuto — creato — formato." (idem come sopra)
"Vi è quella dimensione dove non c'è terra, né acqua, né fuoco, né vento; non vi è la dimensione dell'infinità dello spazio, né la dimensione dell'infinità della coscienza, né la dimensione del nulla, né la dimensione di 'né-percezione-né-non-percezione'; non vi è questo mondo, né un altro mondo, né sole, né luna. E lì, io dico, non vi è giungere, né andare, né rimanere; né scomparire né sorgere: non è fisso, né si evolve, senza sostegno (oggetti mentali). Questa, solo questa, è la fine della sofferenza." (Udana 8.1 http://www.canonepali.net/udana-8-1-nibbana-sutta-la-completa-liberazione-1/)
Solo io vedo somiglianze? In entrambi i casi non si parla di "annientamento" ma di "nulla relativo" (qualcosa di completamente diverso dal Samsara). E se quella vecchia volpe di Arthur ci avesse visto giusto? ;D Io sinceramente ci vedo una fortissima somiglianza: la noluntas di Schop non è il "nulla" (la completa "cessazione" dell'esistenza). Tuttavia se vogliamo essere intellettualmente onesti non possiamo dire nient'altro che termini negativi. Il Nirvana non ha termini di paragone con l'esistenza comune, ergo è "oltre il linguaggio". In ambo i casi la descrizione negativa è chiarissima ma è unilaterale. Per non sciviolare nel Nulla, bisogna dunque anche fare una descrizione positiva. Ma vista la completa "diversità" del Nirvana, la descrizione positiva è poetica e quindi in fin dei conti "insensata"...
La Cessazione non è annullamento. E' molto importante comprendere questa differenza. La cessazione è la fine naturale di tutto ciò che sorge. Non è perciò un desiderio o qualcosa di nuovo che si crea nella mente, ma è semplicemente la fine di ciò che è cominciato, la sua morte, la morte di ciò che è nato. La Cessazione non ha un sé, non viene dalla volontà di "sbarazzarsi di qualcosa", ma è il permettere che ciò che è sorto, cessi. Per far questo bisogna risolversi ad abbandonare la brama d'esistere, lasciarla andare! Abbandonare significa lasciar andar via, nel buddhismo, non cacciare o rifiutare.
Con la Cessazione si sperimenta Nibbana. Quando abbiamo permesso di andare ad una cosa , di lasciarci, di cessare, allora si sperimenta la pace.
Questa è una pace che si può sperimentare nella meditazione quando, nella consapevolezza, lasciamo sorgere e cessare le cose, rendiamo palesi alla coscienza tutte le sofferenze che vivono nel nostro inconscio e che determinano gran parte del nostro agire e rapportarci all'esistenza. Quando ce ne siamo resi consapevoli, permettiamo loro di lasciarci, di andar via, di cessare; non le alimentiamo più con la nostra paura o con la nostra brama egoistica. Questo è realizzare la Terza Nobile Verità, la Verità della Cessazione.
Se non lasciamo andare, permettendo che si attui questo cessare, rischiamo di partire da degli assunti che noi stessi ci costruiamo, senza nemmeno renderci conto di quello che stiamo facendo.
Per esempio, solo con la meditazione mi sono reso consapevole che molte paure e sfiducie nascono nell'infanzia ( e nella mia in relazione anche a certe tribolazioni...). Le ho "viste" e ho permesso loro di lasciarmi, di cessare . La mente razionale si rende conto che è assurdo e ridicolo farsi influenzare dagli eventi spiacevoli occorsi, magari nell'infanzia, ma se non permetti loro di lasciarti, e lo puoi fare nella consapevolezza del loro sorgere e svanire, continueranno a salire dall'inconscio e a condizionare il rapporto che abbiamo con la realtà.
Ovviamente continuamente se ne ricreano nella mente ( il "lavoro" non si ferma mai... :) ) in relazione a quanto forti sono in noi le radici dell'attaccamento all'esistenza ( tanha).
E' corretto riferirsi al Nibbana (Nirodha) definendo ciò che non è (non nato- non divenuto-non composto-ecc.) e anche la sua funzione : dare pace. Una Presenza, una possibilità di pace.
..se posso Sariputra,
sperando di non "inquinare" i tuoi bei post come l'ultimo.
E'difficile, per noi occidentali, entrare nell'aspetto mentale buddista.
Noi abbiamo evoluto, giusto o sbagliato che sia, una tecnica che cambia il mondo fuori di noi a nostra immagine e somiglianza.
Il buddista lavora su se stesso .
I nostri concetti non sposano perfettamente i concetti buddisti; la vacuità, il vuoto in termini buddisti non corrispondono alle nostre definizioni perchè noi mentalmente li colleghiamo ad oggetti matematici o fisico fenomenici, il buddista ad aspetti mentali, intimi.
L'accettare ad esempio per l'occidentale e il conseguente cessare, è una forzatura della sfera della volontà, noi combattiamo sempre perfino nelle discussioni fra noi ,perchè la discussione diventa metafora della guerra.
il buddista invece "danza" nelle discussioni, i concetti rimangono a metà strada perchè ogni persona decide il proprio modo di declinarlo.
Persino i grandi filosofi buddisti (perchè il buddismo è, o anche è ,una filosofia) alternano momenti di studio e momenti di meditazione.
Questa metodologia ha creato in noi confusione, perchè la meditazione da noi è simile alla mistica religiosa e il pensare ad una filosofia. Noi "settiamo",dividiamo, ciò che per loro è naturale unire.
la forza del buddismo è che ciò che si impara concettualmente va rimeditato dentro di sè affinchè ogni gradino acquisito dalla conoscenza corrisponda ad un nuovo stato di sapere e di saggezza intima.
Il conoscere le cose del mondo serve a poco se non aiuta a riformulare dentro di me una corrispondente crescita.
Noi abbiamo eruditi che umanamente valgono poco; il buddista metabolizza il sapere dentro di sè rimodulando nel suo essere e modo di fare ora una nuova maturità, un nuovo gradino.
Per me questa è una delle grandezze del buddismo, anche da noi la si fa ,ma come sporadica scelta individuale, non come cultura.
Citazione di: Sariputra il 03 Luglio 2017, 01:17:01 AMLa Cessazione non è annullamento. E' molto importante comprendere questa differenza. La cessazione è la fine naturale di tutto ciò che sorge. Non è perciò un desiderio o qualcosa di nuovo che si crea nella mente, ma è semplicemente la fine di ciò che è cominciato, la sua morte, la morte di ciò che è nato. La Cessazione non ha un sé, non viene dalla volontà di "sbarazzarsi di qualcosa", ma è il permettere che ciò che è sorto, cessi. Per far questo bisogna risolversi ad abbandonare la brama d'esistere, lasciarla andare! Abbandonare significa lasciar andar via, nel buddhismo, non cacciare o rifiutare. Con la Cessazione si sperimenta Nibbana. Quando abbiamo permesso di andare ad una cosa , di lasciarci, di cessare, allora si sperimenta la pace. Questa è una pace che si può sperimentare nella meditazione quando, nella consapevolezza, lasciamo sorgere e cessare le cose, rendiamo palesi alla coscienza tutte le sofferenze che vivono nel nostro inconscio e che determinano gran parte del nostro agire e rapportarci all'esistenza. Quando ce ne siamo resi consapevoli, permettiamo loro di lasciarci, di andar via, di cessare; non le alimentiamo più con la nostra paura o con la nostra brama egoistica. Questo è realizzare la Terza Nobile Verità, la Verità della Cessazione. Se non lasciamo andare, permettendo che si attui questo cessare, rischiamo di partire da degli assunti che noi stessi ci costruiamo, senza nemmeno renderci conto di quello che stiamo facendo. Per esempio, solo con la meditazione mi sono reso consapevole che molte paure e sfiducie nascono nell'infanzia ( e nella mia in relazione anche a certe tribolazioni...). Le ho "viste" e ho permesso loro di lasciarmi, di cessare . La mente razionale si rende conto che è assurdo e ridicolo farsi influenzare dagli eventi spiacevoli occorsi, magari nell'infanzia, ma se non permetti loro di lasciarti, e lo puoi fare nella consapevolezza del loro sorgere e svanire, continueranno a salire dall'inconscio e a condizionare il rapporto che abbiamo con la realtà. Ovviamente continuamente se ne ricreano nella mente ( il "lavoro" non si ferma mai... :) ) in relazione a quanto forti sono in noi le radici dell'attaccamento all'esistenza ( tanha). E' corretto riferirsi al Nibbana (Nirodha) definendo ciò che non è (non nato- non divenuto-non composto-ecc.) e anche la sua funzione : dare pace. Una Presenza, una possibilità di pace.
Sono molto d'accordo con te e credo che anche Arthur lo era (non a caso parla di un nulla "relativo"... secondo me è stato male interpretato, di certo il suo disprezzo per la vita che aveva non ha aiutato nessuno... te possino Arthur). L'unica cosa su cui potrei non essere d'accordo è la completa ostinazione dei buddisti a "non ammettere" che Nirvana/Nirodha potrebbe essere "qualcosa di reale". Chiaramente sarebbe uno "stato" senza referimenti all'io e al non-io, senza desideri ecc (d'altronde la Pace (con la "P" maiuscola) richiede completezza) ma
questo non significa che il Nirvana sia il nulla. Visto che "è la cessazione della nascita" me lo immagino come un oceano in calma piatta, senza onde (l'esistenza condizionata). Questo non è panteismo perchè il panteismo ha ancora un'attaccamento all'io. Però non è il Nulla perchè l'assoluta calma, il "raffreddamento" di tutti i processi non è necessariamente il nulla:) Anzi ritengo che la positività del Nirvana sia molto importante (non a caso il Buddha era compassionevole e felice, non era "distaccato" ma "non-attaccato" ecc).
Citazione di: Apeiron il 06 Luglio 2017, 19:53:36 PM
Citazione di: Sariputra il 03 Luglio 2017, 01:17:01 AMLa Cessazione non è annullamento. E' molto importante comprendere questa differenza. La cessazione è la fine naturale di tutto ciò che sorge. Non è perciò un desiderio o qualcosa di nuovo che si crea nella mente, ma è semplicemente la fine di ciò che è cominciato, la sua morte, la morte di ciò che è nato. La Cessazione non ha un sé, non viene dalla volontà di "sbarazzarsi di qualcosa", ma è il permettere che ciò che è sorto, cessi. Per far questo bisogna risolversi ad abbandonare la brama d'esistere, lasciarla andare! Abbandonare significa lasciar andar via, nel buddhismo, non cacciare o rifiutare. Con la Cessazione si sperimenta Nibbana. Quando abbiamo permesso di andare ad una cosa , di lasciarci, di cessare, allora si sperimenta la pace. Questa è una pace che si può sperimentare nella meditazione quando, nella consapevolezza, lasciamo sorgere e cessare le cose, rendiamo palesi alla coscienza tutte le sofferenze che vivono nel nostro inconscio e che determinano gran parte del nostro agire e rapportarci all'esistenza. Quando ce ne siamo resi consapevoli, permettiamo loro di lasciarci, di andar via, di cessare; non le alimentiamo più con la nostra paura o con la nostra brama egoistica. Questo è realizzare la Terza Nobile Verità, la Verità della Cessazione. Se non lasciamo andare, permettendo che si attui questo cessare, rischiamo di partire da degli assunti che noi stessi ci costruiamo, senza nemmeno renderci conto di quello che stiamo facendo. Per esempio, solo con la meditazione mi sono reso consapevole che molte paure e sfiducie nascono nell'infanzia ( e nella mia in relazione anche a certe tribolazioni...). Le ho "viste" e ho permesso loro di lasciarmi, di cessare . La mente razionale si rende conto che è assurdo e ridicolo farsi influenzare dagli eventi spiacevoli occorsi, magari nell'infanzia, ma se non permetti loro di lasciarti, e lo puoi fare nella consapevolezza del loro sorgere e svanire, continueranno a salire dall'inconscio e a condizionare il rapporto che abbiamo con la realtà. Ovviamente continuamente se ne ricreano nella mente ( il "lavoro" non si ferma mai... :) ) in relazione a quanto forti sono in noi le radici dell'attaccamento all'esistenza ( tanha). E' corretto riferirsi al Nibbana (Nirodha) definendo ciò che non è (non nato- non divenuto-non composto-ecc.) e anche la sua funzione : dare pace. Una Presenza, una possibilità di pace.
Sono molto d'accordo con te e credo che anche Arthur lo era (non a caso parla di un nulla "relativo"... secondo me è stato male interpretato, di certo il suo disprezzo per la vita che aveva non ha aiutato nessuno... te possino Arthur). L'unica cosa su cui potrei non essere d'accordo è la completa ostinazione dei buddisti a "non ammettere" che Nirvana/Nirodha potrebbe essere "qualcosa di reale". Chiaramente sarebbe uno "stato" senza referimenti all'io e al non-io, senza desideri ecc (d'altronde la Pace (con la "P" maiuscola) richiede completezza) ma questo non significa che il Nirvana sia il nulla. Visto che "è la cessazione della nascita" me lo immagino come un oceano in calma piatta, senza onde (l'esistenza condizionata). Questo non è panteismo perchè il panteismo ha ancora un'attaccamento all'io. Però non è il Nulla perchè l'assoluta calma, il "raffreddamento" di tutti i processi non è necessariamente il nulla:) Anzi ritengo che la positività del Nirvana sia molto importante (non a caso il Buddha era compassionevole e felice, non era "distaccato" ma "non-attaccato" ecc).
"Qualcosa di reale" e "Qualcosa di irreale" formano una dualità e l'elemento Nibbana è al di là di ogni dualità del pensiero. In più se si definisce il Nibbana come "reale" si rischia che sia inteso come qualcosa di esistente in sé, dotato di esistenza intrinseca, o come un Dio, cadendo nell'estremo positivo metafisico dell'eternalismo. Viceversa se si definisce come "irreale" si rischia di cadere nell'estremo opposto del nichilismo e perciò, per evitare questo, viene correttamente stabilito come "non-nato-non-divenuto-non composto- ecc." ( ovviamente uso i termini eternalismo e nichilismo nell'accezione filosofica buddhista ). Il Nibbana non è il nulla, ma non è nemmeno "qualcosa"...
Nel
Visuddhimagga viene data questa definizione del NIbbana, che si serve di tre categorie, che trovo interessante:
Il Nibbana ha come sua
caratteristica la pace. la sua
funzione è il non morire; oppure la sua funzione è il confortare. Viene
manifestato come privo di segni ( senza i segni, o tracce, del desiderio, dell'odio e dell'illusione); oppure è manifestato come non diversificazione.
Nell'argomentare su questo passo Buddhagosa dapprima rigetta il punto di vista di vista secondo il quale il Nibbana è non esistente, affermando che deve esistere in quanto può essere realizzato praticando il sentiero . Non è nemmeno possibile intenderlo semplicemente come l'assenza di tutti i fattori dell'esistenza, cioè i famosi "cinque aggregati", perchè può essere realizzato nel corso della vita, mentre gli aggregati sono ancora presenti. Non è possibile intenderlo neanche come semplice estinzione dell'odio, dell'illusione e della brama di esistere, perché questo lo ridurrebbe ad un evento temporale ( la distruzione delle "contaminazioni" infatti succede nel tempo...) e , oltre a ciò, sarebbe "condizionato", in quanto la distruzione avviene tramite determinate condizioni.
Viene definito come la distruzione della brama, dell'odio e dell'illusione perché, essendo non-condizionato, è la base ( o il sostegno) per operare la completa liberazione da queste ostruzioni.
IL Nibbana viene
raggiunto tramite il sentiero, ma non è prodotto da esso ( altrimenti cadrebbe all'interno di paticcasammupada, la catena di produzione condizionata...), pertanto è increato, senza un inizio, e quindi ovviamente, libero da invecchiamento e morte.
Ancora Buddhagosa:
"Poiché può essere raggiunto tramite la discriminazione della conoscenza che ha successo grazie ad una assidua perseveranza, il Nibbana non è inesistente per quanto riguarda la sua natura in senso ultimo; infatti è detto: "Vi è, o bhikkhu, il non-nato, il non-divenuto, il non-fatto, il non-composto" (Udana 8:3; itivuttaka 45)
Se l'elemento Nibbana fosse non esistente, come potrebbe essere descritto con espressioni come "profondo" ( nascosto, difficile a comprendersi, sereno , elevato, inaccessibile al ragionamento, sottile ) o come "l'incorruttible", il vero, l'altra sponda, oppure come "karmicamente neutro, non condizionato" ? :)
Non è l'"Annullamento" la meta suprema del buddhismo, nemmeno di quello originario , del Theravada, o persino del Canone Pali. Ma se il Nibbana non è sicuramente da intendersi come non-esistente , non si deve nemmeno intendersi come esistente nella concezione che il pensiero dà di questo termine. Infatti dobbiamo considerare che la teoria dell'anatta ( non-sé) non va riferita solamente al mondo dei fenomeni condizionati, ma va estesa correttamente anche al Nibbana. Questo per evitare di far cadere il Nibbana all'interno dell'estremo positivo della metafisica e della tentazione della mente di definirne una "identità" ( mentre qualunque tipo di identità concepibile non potrebbe che rientrare nei fenomeni condizionati ). Nella
Parabola del serpente si afferma che io e mio, chi possiede e la proprietà, sostanza e attributo, soggetto e predicato sono termini inseparabili e correlativi, che mancano di realtà in senso ultimo.
Sariputra, sono d'accordissimo con te. D'altrondei il Nibbana deve essere il "Completamente Altro" rispetto al samsara. Nel samsara ci sono distinzioni tra io e mio, ragionamenti per merito/demerito... Il Nirvana è tutt'altro. Non è nemmeno né esistenza né non-esistenza perchè esistenza e non-esistenza sono sempre legati al nostro modo di vivere "samsarico". In un certo senso si può dire che è una "non-esistenza" perchè è la Cessazione del samasara (e dei concetti relativi al samsara). Ed è una "esistenza" perchè non è il nulla che capiamo noi "esseri colti dal delirio dell'io". La cosa che mi preoccupa è che il "buddismo secolare" e certe sotto-sette Theravada (e forse anche sotto-sette Zen) arrivano con "prove" logiche ad affermare che Nirvana=Nulla. Quindi qui abbiamo monaci che dicono che Nirvana=Nulla e questo lo ritengono giusto perchè in un certo senso è meglio la Morte rispetto alla vita samsarica.
A mio giudizio invece, leggendo anche i tuoi commenti e quelli di altra gente mi sembra di vedere che Nibbana=Vita. Come dici tu ci si libera dalla morte: non si muore perchè dopotutto nel senso ultimo morte, vita ecc sono tutte illusioni. Dopo questa perla però rimango nel mio samsara. Ultimamente mi stanno affascinando le filosofie dello Dzogchen e della scuola Yogacara.
In ogni caso secondo me il buddismo è anch'esso incompleto, seppur a mio giudizio la più sviluppata e "demitologizzata" delle religioni. In ogni caso il Nibbana mi sembra "simile" al Tao, perchè d'altronde il Tao "non crea, non possiede...". Probabilmente la "verità" è proprio in mezzo a queste posizioni.
Edit: avevo messo questo link https://sujato.wordpress.com/2011/05/13/vinna%E1%B9%87a-is-not-nibbana-really-it-just-isn%E2%80%99t/ come esempio di "Nirvana=Nulla". Ricordavo male. L'autore non fa questa conclusione...
***Precisazione***
Per essere davvero completo: segnalo https://dhammawiki.com/index.php?title=Nibbana . Ad un certo punto c'è scritto: "
A number of teachers have argued that the person does not exist, the being, no matter how great, including the Buddha, cannot be contacted. They argue that there is no soul, no permanent self and that Nibbana is the extinguishment of all defilements, all craving, all suffering, all becoming. They argue that it is not annihilation since there was no being, no soul to begin with." In sostanza visto che non c'era un "io" in partenza alla morte del Realizzato finisce un processo e quindi non rimane niente. Secondo me questa visione delle cose è una visione di un nichilista sconfitto, di un disperato che ha preso in odio la vita. E non credo che Buddha era così. Dire che non è "annientamento" perchè non c'era niente in partenza non si salva dal nichilismo. Chi la pensa così a mio giudizio è incapace di cogliere il "Valore" della vita.
Per caso è l'anatta (la dottrina del "non-io") la compassione completa? Il completo dono di se stessi come direbbero i cristiani? Non è che per caso non sia importante ritenerla una dottrina, quanto invece uno stato, un'esperienza?
Mi è venuto in mente considerando che nel taoismo (ad esempio il capitolo 37 del Tao Te Ching) l'"immobilità" è lo stato raggiunto quando si è liberi dai desideri.... e l'immobilità è anche detta la "semplicità senza nome" (!) e l'ideogramma che è usato per questa situazione è quello di un blocco di legno non modellato ("pu"), ossia senza nome! Quando leggo questi scritti mi sembra di vedere che il sincretismo forse contiene qualcosa di vero: in questo caso la semplicità senza nome, il non-sé, il dono di sé stessi ecc sono descritti come la massima "gioia", il nirvana.
In questo senso si potrebbe quasi pensare che questo tipo di "concetti" e "teorie" possono essere pensati come "strumenti" da usare nella meditazione (e non come teorie metafisiche sulla realtà). Ossia non è come dice ben Sariputra l'annullamento dell'esistenza ma paradossalmente la "pace", la "calma", il "rifugio"... ossia l'esistenza portata al massimo valore!
Kierkegaard: "se mi etichetti mi annulli"...nirvana: liberazione dalle etichette?
Per comprendere meglio il Dharma buddhista dobbiamo, prima di tutto, capire che il sentiero tracciato dal Shakyamuni ruota attorno allo sforzo di liberarsi dalle tre radici nocive. Vorrei porre l'accento in questo breve scritto ( per quei due, tre a cui può interessare... ;D )sull'influsso profondo che queste hanno sull'esercizio, da parte dei potenti, DELLA VIOLENZA E DELL'OPPRESSIONE:
Ci sono, o monaci, tre radici di ciò che è nocivo: la brama, l'odio e l'illusione.
La brama, l'odio e l'illusione di qualsiasi tipo, sono nocivi.
Qualunque kamma accumulato, tramite azioni, parole o pensieri, da una persona avida, in preda all'odio o all'illusione, è anche esso nocivo. Ogni sofferenza che una tale persona, sopraffatta dalla brama, dall'odio e dall'illusione, i cui pensieri sono controllati da essi, infligge con falsi pretesti agli altri (uccidendo, imprigionando, confiscando i beni, con false accuse o con l'espulsione, a causa del pensiero: " Io ho potere e io voglio il potere") tutto ciò è pure nocivo. In una tale persona si manifestano così molti stati mentali negativi e nocivi, che nascono e sono originati dalla brama, dall'odio e dall'illusione, che sono causati dalla brama, dall'odio e dall'illusione. Anguttara Nikaya, 3:69
Questo testo dimostra chiaramente che, per il Buddha, le tre radici nocive producono terribili ripercussioni sulla società, in quanto causa di dolore, crudeltà e sopraffazioni. Il Buddha le descrive come le reali motivazioni che sono alla base dell'uso indiscriminato del potere e gli esempi ci fanno capire che si riferiva specificamente all'uso politico di questo potere. Abuso che un governante esercita verso il suo stesso popolo o verso altri popoli di un paese considerato "nemico" in tempo di guerra. Sicuramente Siddhartha era uno spettatore attento alle vicissitudini del suo tempo e avrà assistito a molti casi di violenza e di oppressione. La falsa propaganda o la calunnia verso delle vittime prescelte tra gli abitanti dello stesso paese governato esistevano di sicuro anche 2.500 anni fa. Infatti, tutti gli esempi di violenza e di sopraffazione citati in questo testo antichissimo ci sono familiari. Naturalmente, oggi come un tempo, le forze che li stimolano son sempre le stesse: la brama smodata di potere, l'odio verso tutto ciò che limita o si oppone a questa brama e l'illusione ideologica. Nella storia moderna , la radice che ha preso il sopravvento, che ha occupato il ruolo centrale, a mio parere, è l'illusione, che è all'origine di svariate ideologie di tipo religioso, politico o etnico.. Penso che Siddhartha ripensasse alla sua vita di nobile principe del clan Shakya, alla corte del padre quando pronunciò i famosi ( e commoventi, per me) versi che aprono l' Atta-danda Sutta ( il sutra chiamato "L'Uso del Bastone"):
Dal bastone brandito nasce la paura, guarda la gente che fa vittime:
Io voglio narrare la commozione, come è stata da me sperimentata.
Vedendo la gente brulicare, come pesci in poca acqua,
Vedendo l'uno ostacolare l'altro, un terrore mi è sorto.
(Sutta Nipata, vv 935-936)
Di solito, negli atti di violenza e di oppressione, sono presenti tutte e tre le radici nocive. Nei vari casi specifici però una delle tre può essere predominante sulle altre. Però sarà sempre presente un elemento di illusione, o ignoranza ( avidya). L'illusione, per esempio, era l'elemento predominante nelle guerre di religione del passato, mentre nel presente l'elemento brama ( di ricchezza, di dominio economico, di supremazia politica, ecc.) pare prevalere, servendosi naturalmente sempre della radice nociva dell'odio per stimolare il desiderio di combattere del popolo ( usando la subdola arma della propaganda...).
L'illusione, in questi casi, genera l'odio , mentre la brama sta sempre in agguato sullo sfondo. L'interazione delle tre radici è spesso assai complessa per via del fatto che si alimentano a vicenda, aumentando così la loro forza violenta. La psicologia del potente, al tempo del Buddha come ai giorni nostri, è fondamentalmente sempre la stessa. Tutti questi atti contro i più deboli vengono compiuti per brama di potere: per godere del potere, per il desiderio di ottenerlo e per lo stimolo continuo ad allargarlo sempre di più. La smania di potere è un 'illusione ossessiva, intimamente legata all'autorità.
Questa smania minaccia sempre di prendere il sopravvento in tutti coloro che esercitano una qualche forma di autorità sugli altri, dal dittatore al capo di un governo "democraticamente" eletto. Non sfuggono ad essa neppure i più meschini burocrati; anch'essi provano piacere nell'esercitare la loro piccola fetta di potere e , a volte, ad ostentare i segni della propria autorità.
Vorrei ora mettere in evidenza uno dei più grandi problemi che si affrontano nella cosiddetta "vita spirituale"( e non solo): la presunzione. Nei suoi discorsi Buddha Shakyamuni parla di tre tipi di presunzione che hanno tutti la loro radice nel concetto base "Io sono". Da questa radice nascono: "Io sono più grande", "Io sono uguale" e "Io sono meno". Si possono definire come presunzione di superiorità, d'uguaglianza e d'inferiorità. L'ultima può impedire che una persona compia qualunque sforzo: "Per lui va bene, ma io come diavolo potrei riuscirci?". Quella di mezzo impedeisce di apprendere da coloro che sanno di più e hanno praticato di più:" Chi si crede di essere costui? Io sono esattamente come lui". La prima però è la più pericolosa per chi medita ( tralascio qui il fatto che probabilmente è anche la più fastidiosa in generale , in tutti i campi della vita ordinaria...). Una persona inizia a credere di sapere più degli altri, fatto questo che, come ben sappiamo, viene spesso tradito dal tono stesso della voce e dai gesti fatti. Si può giungere persino a credere di aver fatto esperienza del Nibbana, di essere un saggio e quindi di non aver più contaminazioni, mentre purtroppo le contaminazioni sono evidenti a tutti fuorché all'interessato ;D . Ricordo, per esempio, un incontro di meditazione al quale partecipai permeato dalla soffocante presunzione di superiorità di un gruppetto di meditatori laici. Una cosa veramente penosa. Di solito, quando una persona manifesta la propria presunzione, si crea un certo imbarazzo, cala uno strano silenzio. E' difficile affrontare una presunzione troppo evidente e smaccata. In termini buddhisti questo crea un aumento di dukkha ( sofferenza). Dalla presunzione nascono le opinioni che sono fondamentalmente concetti. La presunzione-radice "Io sono" si dirama, proprio come le radici di un grande albero, in miriadi di opinioni, quello che il Buddha ha descritto come:"Il roveto delle opinioni, il deserto delle opinioni, la distorsione delle opinioni, il vacillare delle opinioni, il legame delle opinioni".
Le opinioni sostengono il concetto dell'io e, proprio per questo, molte persone sono sensibili e suscettibili quando le loro opinioni vengono messe in discussione. Il concetto dell'io comporta attaccamento alle opinioni...un bel problema nella pratica. Persone tenacemente attaccate alle proprie opinioni vengono chiamate, dai maestri di meditazione, mana-ditthi, una persona di presunzione-e-opinioni, difficilmente addestrabile. Diciamocelo chiaramente: se una persona non ne vuol sapere di deporre il suo fardello di opinioni...non può vedere il Dhamma. Se la sua testa è piena di concetti su Dio, io, anima, ecc. di concetti esclusivisti come "Solo questo è giusto", oppure concetti di superiorità come "La nosta via è quella giusta, la nostra filosofia è corretta , la nostra scienza è superiore", il Dhamma non trova spazio. Possiamo vedere, anche all'interno della storia del buddhismo, come questi concetti si siano fatti strada. Nella distinzione tra Grande Veicolo (Mahayana) e Basso Veicolo ( Hinayana), sono presenti due concetti che il Buddha non avrebbe mai potuto pronunciare, essendo del tutto privo di presunzione. Una persona intelligente può indovinare chi ha inventato questi termini (Hina è un termine spregiativo e non significa piccolo o minore).
La presunzione è una vera sfortuna per i praticanti buddhisti. Nelle altre religioni almeno si coltiva l'umiltà di mettersi in adorazione di un Dio, fatto questo che permette di non aumentare a dismisura la propria presunzione ( anche se non sempre...come ben vediamo e...leggiamo ;D). Ma i praticanti buddhisti non hanno queste opinioni e queste pratiche di adorazione, non credendo in un Dio creatore onnipotente, e quindi l'intero loro "cammino" dipende dal loro sforzo; sforzi fatti da se stessi, mediante la virtù, la meditazione e la visione profonda-saggezza.
Senza la guida di qualcuno, questi sforzi spesso portano, purtroppo, ad una crescita della presunzione. Il buddhismo non è certo la religione del "fatelo da soli"...
Collegata a questa presunzione legata alle opinioni-concetti vi è la presunzione che complessità è uguale a profondità. Molte persone studiano il Dhamma buddhista per anni e anni. Arrivano ad avere una profondissima conoscenza dell'Abhidhamma o di tutti i sistemi scolastici della filosofia buddhista, al di fuori dei Discorsi in pali e del Vinaya ( ossia della Disciplina...). Studiano il Sentiero di Mezzo di Nagarjuna, la Mente-sola di Asanga o la filosofia dell'interrelazione di tutte le cose dello Hwa-Yen. Questo però può diventare ( e spesso lo è...) un vero pericolo nei confronti della pratica concreta che non richiede tutte queste complessità. Nel cristianesimo potremmo dire che "Non è necessario conoscere l'intera teologia cattolica per amare Dio", essendo la pratica dell'amore-agape il cuore di questa religione e non certo la sua comprensione esclusivamente intellettuale :).
La mente guidata dal desiderio, dalla presunzione e dalle opinioni è abilissima nel produrre filosofia, che però, in Oriente come in Occidente, non vanno nella direzione della calma e della visione profonda. Il Buddha definì il filosofeggiare come una varietà della proliferazione concettuale (papanca) e dichiarò che è la via giusta per i legami (ovviamente molti filosofi che scrivono sul forum non saranno d'accordo... ;D).
In quella dottrina o regola in cui, o Subhadda, non viene praticato il nobile ottuplice sentiero,là non vi può essere un asceta (sotapanna), là non vi può essere un secondo asceta (che ritorna una volta), là non vi può essere un terzo asceta (colui che non ritorna), là non vi può essere un quarto asceta (arhat, "santo" liberato). (MahaParnibbana Sutta)
Secondo i buddisti il Buddha poteva essere in errore o era una mente infallibile? Ossia è possibile trovare un "santo" che non sia buddista? Se il Buddha ha proferito quelle parole ed era infallibile sicuramente NO. Se il Buddha era infallibile ma non ha proferito quelle parole (o se si riferiva ad un gruppo ristretto di insegnamenti oppure se era infallibile ma il suo insegnamento era incompleto) invece è possibile. Se il Buddha era sì liberato ma non inerrante allora ovviamente è possibile.
Per me un buddista per essere tale deve credere che il Buddha era infallibile e quello che ha proferito è la verità. Ma potrei sbagliarmi. Infatti il fondamento su cui basarsi per sapere se una cosa è vera o no, morale o no ecc sono le parole del Buddha (e gli insegnamenti "pratici" da lui insegnati).
Quindi chiedo a chi ne sa più di me (il Sari di sicuro ;D ): il Buddha era infallibile per i buddisti? il suo insegnamento era una zattera?
Mi pare che i cinesi hanno tentato di asserire che buddismo, taoismo e confucianesimo
Citazione di: Apeiron il 13 Settembre 2017, 16:11:29 PMIn quella dottrina o regola in cui, o Subhadda, non viene praticato il nobile ottuplice sentiero,là non vi può essere un asceta (sotapanna), là non vi può essere un secondo asceta (che ritorna una volta), là non vi può essere un terzo asceta (colui che non ritorna), là non vi può essere un quarto asceta (arhat, "santo" liberato). (MahaParnibbana Sutta) Secondo i buddisti il Buddha poteva essere in errore o era una mente infallibile? Ossia è possibile trovare un "santo" che non sia buddista? Se il Buddha ha proferito quelle parole ed era infallibile sicuramente NO. Se il Buddha era infallibile ma non ha proferito quelle parole (o se si riferiva ad un gruppo ristretto di insegnamenti oppure se era infallibile ma il suo insegnamento era incompleto) invece è possibile. Se il Buddha era sì liberato ma non inerrante allora ovviamente è possibile. Per me un buddista per essere tale deve credere che il Buddha era infallibile e quello che ha proferito è la verità. Ma potrei sbagliarmi. Infatti il fondamento su cui basarsi per sapere se una cosa è vera o no, morale o no ecc sono le parole del Buddha (e gli insegnamenti "pratici" da lui insegnati). Quindi chiedo a chi ne sa più di me (il Sari di sicuro ;D ): il Buddha era infallibile per i buddisti? il suo insegnamento era una zattera? Mi pare che i cinesi hanno tentato di asserire che buddismo, taoismo e confucianesimo
Già nella citazione del Mahaparinibbanasutta si può notare come Siddhartha mette in evidenza che dove è possibile trovare il N.Ott.Sentiero là si trova il vero ascetismo ( Vuoto di dispute, che invita a venire a vedere, ecc.): Pertanto , a mio parere, questa frase fa intendere che , nello spirito originario dell'Insegnamento non è la figura umana, storica del Buddha il centro, ma è il Dhamma , l'Insegnamento. Questo mi sembra molto importante anche per rispondere alle tue domande."Il Buddha aveva una mente infallibile?". Era infallibile nella comprensione del Dhamma e sulla natura ultima di nama-rupa ( nome e forma), vinnana, samadhi, kamma, ecc.. Era infallibile nell'uso di abili mezzi d'insegnamento per ottenere prajna ( saggezza, visione intuitiva) a riguardo di questa natura. Certamente non possiamo pensare che il Buddha conoscesse la composizione molecolare dell'albero della Bodhi. La sua non era una conoscenza scientifica, empirica. Era un'infallibile saggezza/conoscenza esistenziale. Nei testi posteriori del Mahayana si comincia a profilare un'immagine di Gotama come quella di un Dio, di una divinità onnisciente e onnipotente. Questo penso non sarebbe stato gradito al Buddha stesso. Certamente la pressione fideistica delle masse ( e di molti bikkhu suppongo) era notevole...tutto ciò è cominciato a penetrare anche nei testi, rendendoli a volte veramente "variopinti"..."E' possibile trovare un santo che non sia buddhista?". Secondo l'Insegnamento è possibile trovarlo, sempreché (e ci colleghiamo con sopra...) abbia praticato il "vero ascetismo" ( il Nob.Ott:Sent.). Buddha non era "un buddhista". Spesso nei testi si parla di quanto siamo fortunati di vivere in un'epoca in cui è possibile apprendere il Dhamma. Non è sicuro, anzi! ,viene spesso ricordato, che ciò sarà sempre possibile o che sia stato possibile in epoche precedenti al Buddha.Per me un buddista per essere tale deve credere che il Buddha era infallibile e quello che ha proferito è la verità.Un vero buddhista deve sicuramente avere fede che l'Insegnamento dato dal Buddha lo porterà alla liberazione dal dolore ( Nibbana). E' implicito, a parer mio, che questo comporti la fede nell'infallibilità del Buddha a riguardo di questo insegnamento e nell'infallibilità dell'insegnamento stesso. Più fallibile è la capacità dell'uomo comune ( Siddhartha era sicuramente un uomo dalle qualità fuori dal comune. Tutte le qualità...) di giungere alla meta additata da Gotama. La fede è sicuramente molto importante ( lo è in ogni pratica spirituale)e questa aumenta con l'aumentare della Pratica. Le due cose vanno insieme: fede e pratica, pratica e fede."Il suo insegnamento era una zattera?"Sì, Buddha lo dice chiaramente: l'Insegnamento è una zattera. Giunti all'altra riva si deve deporre la zattera. Quando si è guariti non ha più senso continuare a prendere la medicina per guarire. Deporre non significa abbandonare. La compassione generata da vipassana porta spontaneamente a tentar di guarire altri. Deporre significa deporre l'attaccamento "anche" nei riguardi dell'insegnamento stesso..."Ci sono santi buddhisti oggigiorno?"...Questa domanda la pongo io. La risposta: spero tanto che ci siano, ma ho seri dubbi al riguardo... :( "Orsù dunque, o monaci, io vi esorto: periscono tutte le cose; lottate senza tregua." La tradizione tramanda queste come le ultime parole di Gotama prima del Parinibbana. Ma l'uomo moderno, i monaci moderni stessi, sono in grado di "lottare senza tregua " ?...
Grazie Sari! ;)
Più o meno erano le risposte che mi aspettavo. In sostanza anche nel buddismo c'è il concetto di "infallibilità", non a caso il Tatthagatha viene detto "colui che vede e conosce la Realtà così come è". Ossia si parla di un "assolutismo", seppur molto particolare, unico rispetto a tutti gli altri visto che nega sia "Atman" che "Brahman"... sono incerto se nega ogni tipo di "Assoluto metafisico". Sinceramente non credo, specie leggendo gli Udana, il Dhammapada, il fatto che il Tathagatha è "incommensurabile"... qui si parla di qualcosa di Trascendente. Sinceramente sono convinto che sia la filosofia più "precisa" nella caratterizzazione dell'Assoluto proprio perchè nega che ogni nostra concettualizzazione possa "comprenderlo". Da questo punto di vista mi sembra simile al "Dao" e al "Pu" (il legno non scolpito) del daoismo (non a caso il Chan...), ma nuovamente "meno metafisico e più "silenzioso"". Ecco a mio giudizio dare dell'assolutismo al buddismo non lo vedo come un "insulto" ;D anzi lo rende più plausibile vista l'infallibilità implicita del Buddha. Da questo punto di vista il buddismo Mahayana paradossalmente mi sembra più coerente del Canone Pali, specialmente la filosofia implicita nel "Buddha Vairocana" e dell'Avatamsaka Sutra (filosofia implicita a mio giudizio anche nel Canone Pali). Il Dhamma d'altronde è la Verità secondo il buddismo (e dire che "ogni cosa è vacua" d'altronde è un'affermazione molto forte). Appunto il Dhamma è il centro, vero sempre e in ogni luogo (come dimostrato dalla figura dei "Buddha privati" e dal fatto che a me di "quasi santi" mi pare di vederli un po' in tutte le tradizioni).
Sulla questione dei santi. Ecco vedi io invece ho un'opinione molto diversa. A mio giudizio non ce ne sono e probabilmente non ce ne sono mai stati. Così come non credo ai "santi" dello giainismo, indù, daoisti ecc. In sostanza li ritengo tutti ideali, quasi "archetipi" se vogliamo usare un termine caro a Carlo Pierini che ci costringono ad inginocchiarci e a "trasformare l'io" (nel caso del buddismo addirittura a trascendere ogni "io"). Sono tutti personificazioni seppur estremamente sviluppate. Tutte queste tradizioni puntano verso... "quella dimensione monaci...". Probabilmente una volta c'erano più "quasi santi" ma non sono molto incline a dire che erano davvero esistenti.
La mia "fede" al momento è che ci sia un Assoluto (che trascende ogni "dottrina" visto che queste ne descrivono per così dire un "aspetto") e che sia possibile una mente infallibile (o più menti infallibili che "vedono e conoscono diversi aspetti dell'Assoluto/Realtà così come sono") ma ritengo ahimé che non mi sia più possibile abbracciare una tradizione (con "senso di smarrimento" associato :( ). Per esempio la stessa storia del Buddha, del principe che fu promesso dalla profezia che rinuncia ai "regni della terra" per scoprire ciò che ha un valore "imparagonabile alle cose mondane" e che quindi diventa il "vero re" mi pare un archetipo. Qualcuno ci ha visto anche "l'archetipo dell'eroe" nella storia di Siddharta. Credo che anche questo vada ben notato quando si parla di buddismo o altre tradizioni. Anche l'idea per la quale il Dhamma col tempo viene "dimenticato" e poi restaurato lo vedo molto simile a cose che si riscontrano in molti miti e molte religioni. Il che mi fa pensare che nemmeno il buddismo "scappi" da concetti per certi versi analoghi alla "provvidenza", la "storia del mondo" ecc
P.S. Grazie anche degli altri post che non ho (per ora) tempo di commentare, sui quali sono quasi d'accordo ;)
P.S.P.S. Per esempio anche nei vedanta è entrata l'idea del "risveglio istantaneo con pratica graduale" (ma secondo me anche in occidente e in altre tradizioni orientali - si pensi alle "epifanie" associate alla pratica cristiana per esempio). Anche nello studio, specialmente nel caso della matematica, per quanto mi riguarda ho "illuminazioni" inserite in una pratica graduale. Idem per l'arte ecc ecc
Citazione di: Apeiron il 14 Settembre 2017, 17:23:04 PMGrazie Sari! ;) Più o meno erano le risposte che mi aspettavo. In sostanza anche nel buddismo c'è il concetto di "infallibilità", non a caso il Tatthagatha viene detto "colui che vede e conosce la Realtà così come è". Ossia si parla di un "assolutismo", seppur molto particolare, unico rispetto a tutti gli altri visto che nega sia "Atman" che "Brahman"... sono incerto se nega ogni tipo di "Assoluto metafisico". Sinceramente non credo, specie leggendo gli Udana, il Dhammapada, il fatto che il Tathagatha è "incommensurabile"... qui si parla di qualcosa di Trascendente. Sinceramente sono convinto che sia la filosofia più "precisa" nella caratterizzazione dell'Assoluto proprio perchè nega che ogni nostra concettualizzazione possa "comprenderlo". Da questo punto di vista mi sembra simile al "Dao" e al "Pu" (il legno non scolpito) del daoismo (non a caso il Chan...), ma nuovamente "meno metafisico e più "silenzioso"". Ecco a mio giudizio dare dell'assolutismo al buddismo non lo vedo come un "insulto" ;D anzi lo rende più plausibile vista l'infallibilità implicita del Buddha. Da questo punto di vista il buddismo Mahayana paradossalmente mi sembra più coerente del Canone Pali, specialmente la filosofia implicita nel "Buddha Vairocana" e dell'Avatamsaka Sutra (filosofia implicita a mio giudizio anche nel Canone Pali). Il Dhamma d'altronde è la Verità secondo il buddismo (e dire che "ogni cosa è vacua" d'altronde è un'affermazione molto forte). Appunto il Dhamma è il centro, vero sempre e in ogni luogo (come dimostrato dalla figura dei "Buddha privati" e dal fatto che a me di "quasi santi" mi pare di vederli un po' in tutte le tradizioni). Sulla questione dei santi. Ecco vedi io invece ho un'opinione molto diversa. A mio giudizio non ce ne sono e probabilmente non ce ne sono mai stati. Così come non credo ai "santi" dello giainismo, indù, daoisti ecc. In sostanza li ritengo tutti ideali, quasi "archetipi" se vogliamo usare un termine caro a Carlo Pierini che ci costringono ad inginocchiarci e a "trasformare l'io" (nel caso del buddismo addirittura a trascendere ogni "io"). Sono tutti personificazioni seppur estremamente sviluppate. Tutte queste tradizioni puntano verso... "quella dimensione monaci...". Probabilmente una volta c'erano più "quasi santi" ma non sono molto incline a dire che erano davvero esistenti. La mia "fede" al momento è che ci sia un Assoluto (che trascende ogni "dottrina" visto che queste ne descrivono per così dire un "aspetto") e che sia possibile una mente infallibile (o più menti infallibili che "vedono e conoscono diversi aspetti dell'Assoluto/Realtà così come sono") ma ritengo ahimé che non mi sia più possibile abbracciare una tradizione (con "senso di smarrimento" associato :( ). Per esempio la stessa storia del Buddha, del principe che fu promesso dalla profezia che rinuncia ai "regni della terra" per scoprire ciò che ha un valore "imparagonabile alle cose mondane" e che quindi diventa il "vero re" mi pare un archetipo. Qualcuno ci ha visto anche "l'archetipo dell'eroe" nella storia di Siddharta. Credo che anche questo vada ben notato quando si parla di buddismo o altre tradizioni. Anche l'idea per la quale il Dhamma col tempo viene "dimenticato" e poi restaurato lo vedo molto simile a cose che si riscontrano in molti miti e molte religioni. Il che mi fa pensare che nemmeno il buddismo "scappi" da concetti per certi versi analoghi alla "provvidenza", la "storia del mondo" ecc P.S. Grazie anche degli altri post che non ho (per ora) tempo di commentare, sui quali sono quasi d'accordo ;) P.S.P.S. Per esempio anche nei vedanta è entrata l'idea del "risveglio istantaneo con pratica graduale" (ma secondo me anche in occidente e in altre tradizioni orientali - si pensi alle "epifanie" associate alla pratica cristiana per esempio). Anche nello studio, specialmente nel caso della matematica, per quanto mi riguarda ho "illuminazioni" inserite in una pratica graduale. Idem per l'arte ecc ecc
No, non è un insulto ritenere il buddhismo un assolutismo ( tra l'altro sei in buona compagnia, nel ritenerlo...) ma con la consapevolezza che è, come dici tu "molto particolare, unico rispetto agli altri". Tra l'altro è assai complesso parlare di "buddhismo" tout-court perchè , con i secoli, è diventato una specie di contenitore dove troviamo di tutto e di più, anche cose che forse non ci azzeccano molto ( penso in particolare al lamaismo, con la sua forte componente di tantrismo e l'esperienza di una forte secolarizzazione dell'ordine monastico...).Meglio concentrarci sul Dhamma e la sua pratica... :) Trovo che, per un praticante odierno, non sia utile inoltrarsi in quel folto bosco di miti, archetipi, leggende, note di colore, paragoni,ecc. che caratterizzano l'aspetto esteriore della dottrina. Nel 90% dei casi sono incrostazioni posteriori, I sutra non sono testi ispirati da Dio, ma l'opera di bikkhu che hanno cercato di mettere per iscritto tradizioni orali che si sono perpetuate per almeno un paio di secoli, prima di trovare collocazione in un testo. La nostra speranza è riposta nella stupefacente capacità mnemonica di quei primi monaci, che utilizzavano i discorsi del Buddha come base di meditazione.Non trovo importante credere o no in queste cose. L'importante per un praticante penso sia aver ben chiaro la motivazione da cui si muove Siddhartha, il suo obiettivo e il risultato conseguito. Quindi le quattro Nob.Verità e i tre sigilli. Ajahn Sumedho diceva che , solamente la prima delle quattro , può riempire una vita di ricerca...A proposito di Sumedho , che insegnava un buddhismo pratico, molto concreto riporto un passo, da "So che non so"Abbiamo tutti diverse tendenze di carattere, la mia personale tendenza è di opporre resistenza alla vita: il modo in cui tendevo a relazionarmi all'esperienza, quando ero laico, si manifestava, in generale, attraverso il tentativo di oppormi e di controllare le cose. Quindi, notavo che le mie aspirazioni religiose andavano più verso un desiderio di annichilimento che di felicità. Mia madre, da buona cristiana, era l'opposto, mirava alla felicità eterna. Aveva un'enorme fede nell'insegnamento cristiano, una fede tale che pensava che, una volta morta, avrebbe vissuto con Dio in uno stato di permanente felicità. Non era una cosa che io desiderassi particolarmente, non mi attraeva, quello che volevo io era una sorta di sparizione nel vuoto.Notando questa tendenza nella mia vita monastica, che si manifestava come desiderio di liberarmi delle cose, desiderio di non esistere, desiderio di non essere niente, scoprii che questa tendenza verso ciò che chiamiamo annichilimento, o nichilismo, era un desiderio molto forte. E divenni consapevole, attraverso la consapevolezza intuitiva, attraverso la pratica della presenza mentale, di una sorta di resistenza automatica alle cose. Potevo avvertire interiormente me stesso che cercavo di spingere la vita lontano da me. Attraverso la consapevolezza, cominciai ad accorgermi che questa attitudine si manifestava a livello sottile, non era un rifiuto intenzionale di qualcosa, era più che altro una reazione inconscia.Cominciando a riconoscere e ad accorgermi della sofferenza che questa resistenza alla vita produceva, fui in grado di lasciarla andare, mi fu possibile smettere di farlo; quando riuscii a vedere me stesso mettere in atto questa resistenza e potei accoglierla come un'esperienza pienamente cosciente, solo allora mi fu possibile lasciarla andare....Talvolta, basta uscire di notte e guardare l'immensità del cielo, il fatto che sia così vasto, che l'universo in cui viviamo sia così sconfinato, e noi non possiamo in realtà capirlo, non possiamo realmente conoscerlo. Talvolta ci sentiamo rapiti o presi dalla meraviglia davanti al mistero e alla maestosità dell'universo, che possiamo percepire, ma non conoscere.Nella pratica di presenza mentale, di consapevolezza intuitiva, non abbiamo bisogno di conoscere niente riguardo a nient'altro, abbiamo solo bisogno di conoscere le cose come sono in questo preciso momento, entro la limitazione del corpo umano, della coscienza sensoriale, sentendo ciò che è presente, ciò che possiamo osservare ora. Il Buddha paragonava il suo insegnamento delle Quattro Nobili Verità a una manciata di foglie: non sono tutte le foglie della foresta, è solo una manciata. Entro la limitatezza della nostra coscienza umana, non possiamo relazionarci con tutte le foglie della foresta, o contare tutti i granelli di sabbia del fiume Gange.Quello che stiamo facendo è imparare da questa manciata di foglie, che in realtà è come il corpo, la coscienza, le esperienze sensoriali, il modo in cui sono le cose, per come le possiamo sperimentare direttamente nel momento presente. È un'esperienza che rende molto umili, perché il percorso spirituale non fa inorgoglire, non fa diventare un essere spirituale altamente evoluto che fluttua per aria, qualcuno al di sopra di tutti gli altri. Non diventiamo esseri fantastici spiritualmente evoluti, giacché la nostra meta, la vera misura della visione spirituale, inclina a una profonda umiltà. Ci si sente paghi, grati di piccole cose; anziché cercare di sapere tutto su qualsiasi cosa, anziché essere un'autorità, un esperto, si è più consapevoli di non sapere, e che non è necessario sapere tutto, basta conoscere la differenza tra il condizionato di cui facciamo ora esperienza e l'incondizionato.Ora sono monaco da trentatre anni e il risultato di trentatre anni di pratica come monaco buddhista è che so di non sapere. So che c'è la sofferenza, quando è presente, e conosco le cause della sofferenza, e so quando la sofferenza non c'è. E so quando la mia personalità è attiva e quando non c'è persona. È la diretta conoscenza di ciò che chiamiamo ñana dassana, la conoscenza e la saggezza che provengono dalla comprensione intuitiva diretta, dall'osservazione, anziché dal collezionare conoscenze sulle cose. Il mio insegnante in Thailandia, Ajahn Chah, una volta mi raccontò che quando iniziò a praticare la meditazione disse al suo maestro: "Stai cercando di farmi diventare stupido"... ;D
Ok sì concordo che anche un solo aspetto del Dhamma può dare "significato" alla vita. Per quanto riguarda il discorso di Ajahn Sumedho... qui la cosa si fa interessante. Il motivo per cui non è rimasto cristiano è stato che "voleva sparire", "voler esser niente", "liberarsi delle cose" ecc ecco qua si può vedere come questa filosofia sia vicina al "vibhava tanha", il desiderio di "non divenire". Ma a mio giudizio questa è una "razionalizzazione" di un "bhava tanha" (desiderio di venire), nel senso che si vuole divenire niente per il fatto che "tutto fa schifo". E questo in realtà è una cosa che accomuna buddismo, giainismo e induismo (e in realtà certe correnti cristiane)... non a caso se "tutto al mondo fa schifo" si vuole "altro" ed esso può essere Dio, il Nulla, il Nirvana, Brahman, il Dao ecc
Quello che però volevo mettere in luce io è che seppur è vero che i sutras non sono la Parola di Dio (e nemmeno lo sono gli scritti daoisti...) è però vero che in essi molte cose hanno senso solo se si accetta qualcosa di "analogo alla provvidenza, al Fato ecc". Per esempio la vita del Buddha ai "regni del mondo", i Buddha precedenti e futuri, il declino e restaurazione del Dhamma, la "caduta" nel samsara (non a caso l'ultima rinuncia è proprio al "delirio", quella cosa in "più" che causa la trasmigrazione - per questo il Nibbana è la purezza come l'oro è "puro" quando si tolgono le impurità), il tentatore Mara (che tra l'altro come parola richiama la Morte). A mio giudizio il "western buddhism" o lo "skeptical/secular buddhism" falliscono proprio perchè ignorano questa parte di buddismo, ossia la Storia della Liberazione, del Dhamma... ignorare questo aspetto a mio giudizio è come cercare di capire la civiltà greca senza considerare la mitologia del Fato perchè "superstizione". Fallisce, ne da un'immagine distorta proprio perchè non ti fa sentire "all'interno" di una Storia e quindi non da quel "significato in più" soteriologico alla pratica. Per come la vedo io il problema della scienza e della filosofia è anche questo: non fanno "vivere nella Storia". Ho quasi l'impressione che il tempo dell'oblio del Dhamma sia già arrivato (così come la Kali Yuga), non a caso in ogni tradizione il declino della spiritualità si manifesta con un "accorciamento" dell'orizzonte. Analogamente coloro che dicono che il Nibbana=Non-Esistenza non afferrano proprio questa storicità del buddismo. E già il theravada che sembra ignorare l'aspetto "cosmico/storico" al giorno d'oggi lo vedo meno coerente (mentre nei tempi che furono era più coerente proprio perchè le persone erano già "inserite" nella Storia - quindi di fatto non c'era) del mahayana in quanto quest'ultimo mette in luce l'aspetto "Storico" in modo maggiore.
Per esempio nel Mahaparinibbana sutta si dice che il Buddha poteva rimanere un eone in vita ad aiutare se Ananda lo avesse chiesto "con cuore puro", ma Mara lo ha distratto. Ora a noi ci sembra un assurdo che il maestro della compassione abbia fatto una cosa simile solo perchè il suo discepolo prediletto era distratto dal Nemico, ma per chi è inserito nella Storia questo è solo un evento di "Mistero" e non assurdo, un evento che si accetta. La demitologizzazione delle religioni, buddismo compreso, rischia proprio di far perdere questi significati, di far uscire le persone dalle "storie cosmiche" e così via. Il risultato forse è anche quello che tu trovi nel lamaismo (anche se devo dire che certe cose del buddismo tibetano, specie Dzogchen, Jonang e "vacuità come trasparenza/apertura" le ammiro molto). Il rischio di "praticare e basta" è proprio, secondo me, quello di non progredire nell'apertura degli orizzonti perchè non "viviamo la storia della liberazione", il "mito" ecc
P.S. Una cosa simile oggi la si vede nel cristianesimo. Per esempio il motivo dell'agnello (legato al fatto che nelle tradizioni pastorali si sacrificava un agnello per proteggere il gregge dai lupi...).
Citazione di: Apeiron il 15 Settembre 2017, 09:25:12 AMOk sì concordo che anche un solo aspetto del Dhamma può dare "significato" alla vita. Per quanto riguarda il discorso di Ajahn Sumedho... qui la cosa si fa interessante. Il motivo per cui non è rimasto cristiano è stato che "voleva sparire", "voler esser niente", "liberarsi delle cose" ecc ecco qua si può vedere come questa filosofia sia vicina al "vibhava tanha", il desiderio di "non divenire". Ma a mio giudizio questa è una "razionalizzazione" di un "bhava tanha" (desiderio di venire), nel senso che si vuole divenire niente per il fatto che "tutto fa schifo". E questo in realtà è una cosa che accomuna buddismo, giainismo e induismo (e in realtà certe correnti cristiane)... non a caso se "tutto al mondo fa schifo" si vuole "altro" ed esso può essere Dio, il Nulla, il Nirvana, Brahman, il Dao ecc Quello che però volevo mettere in luce io è che seppur è vero che i sutras non sono la Parola di Dio (e nemmeno lo sono gli scritti daoisti...) è però vero che in essi molte cose hanno senso solo se si accetta qualcosa di "analogo alla provvidenza, al Fato ecc". Per esempio la vita del Buddha ai "regni del mondo", i Buddha precedenti e futuri, il declino e restaurazione del Dhamma, la "caduta" nel samsara (non a caso l'ultima rinuncia è proprio al "delirio", quella cosa in "più" che causa la trasmigrazione - per questo il Nibbana è la purezza come l'oro è "puro" quando si tolgono le impurità), il tentatore Mara (che tra l'altro come parola richiama la Morte). A mio giudizio il "western buddhism" o lo "skeptical/secular buddhism" falliscono proprio perchè ignorano questa parte di buddismo, ossia la Storia della Liberazione, del Dhamma... ignorare questo aspetto a mio giudizio è come cercare di capire la civiltà greca senza considerare la mitologia del Fato perchè "superstizione". Fallisce, ne da un'immagine distorta proprio perchè non ti fa sentire "all'interno" di una Storia e quindi non da quel "significato in più" soteriologico alla pratica. Per come la vedo io il problema della scienza e della filosofia è anche questo: non fanno "vivere nella Storia". Ho quasi l'impressione che il tempo dell'oblio del Dhamma sia già arrivato (così come la Kali Yuga), non a caso in ogni tradizione il declino della spiritualità si manifesta con un "accorciamento" dell'orizzonte. Analogamente coloro che dicono che il Nibbana=Non-Esistenza non afferrano proprio questa storicità del buddismo. E già il theravada che sembra ignorare l'aspetto "cosmico/storico" al giorno d'oggi lo vedo meno coerente (mentre nei tempi che furono era più coerente proprio perchè le persone erano già "inserite" nella Storia - quindi di fatto non c'era) del mahayana in quanto quest'ultimo mette in luce l'aspetto "Storico" in modo maggiore. Per esempio nel Mahaparinibbana sutta si dice che il Buddha poteva rimanere un eone in vita ad aiutare se Ananda lo avesse chiesto "con cuore puro", ma Mara lo ha distratto. Ora a noi ci sembra un assurdo che il maestro della compassione abbia fatto una cosa simile solo perchè il suo discepolo prediletto era distratto dal Nemico, ma per chi è inserito nella Storia questo è solo un evento di "Mistero" e non assurdo, un evento che si accetta. La demitologizzazione delle religioni, buddismo compreso, rischia proprio di far perdere questi significati, di far uscire le persone dalle "storie cosmiche" e così via. Il risultato forse è anche quello che tu trovi nel lamaismo (anche se devo dire che certe cose del buddismo tibetano, specie Dzogchen, Jonang e "vacuità come trasparenza/apertura" le ammiro molto). Il rischio di "praticare e basta" è proprio, secondo me, quello di non progredire nell'apertura degli orizzonti perchè non "viviamo la storia della liberazione", il "mito" ecc P.S. Una cosa simile oggi la si vede nel cristianesimo. Per esempio il motivo dell'agnello (legato al fatto che nelle tradizioni pastorali si sacrificava un agnello per proteggere il gregge dai lupi...).
Credo di capire cosa vuoi dire. Personalmente non sento il bisogno di sentirmi all'interno di una storia, che in questo caso è millenaria, con tutte le sue contraddizioni. Il western buddhism, se fallisce, non è per questo aspetto, a mio parere, ma perché tende ad ottenere un riconoscimento "scientifico" e facendo così rischia di cadere nello psicologismo e di snaturare l'aspetto fondamentale, la pietra angolare su cui è basato l'intero edificio: la liberazione dalla sofferenza tramite la realizzazione del Nirvana. I testi mahayanici e vajrayanici sono ricolmi di elementi agiografici ( diz.:Biografia di un personaggio arricchita di elementi favolosi o leggendari a scopo celebrativo) che non devono mettere in secondo piano l'Insegnamento o che lo riducano ad una serie infinita di eventi "miracolosi" tesi ad andare incontro alle istanze fideistiche delle masse .La tradizione theravada detta "della foresta" ha tentato e tenta di riportare il buddhismo alla sua antica essenzialità, quasi austerità filosofica e pratica. L'"essenzialità", da individure e introiettare in noi, mi sembra che vada cercata con un'opera quasi di scavo, che si faccia strada tra un'immensità di cose posteriori, appiccicate al Dhamma dai secoli e dalle culture diverse con cui è venuto a contatto.Io lo vedo come un tornare all'interno di una storia, dalla quale , per il bisogno di credere in qualcosa di "divino" nel Dhamma di Siddhartha, ci si è allontanati.Se leggo, per esempio, un romanzo di Dostoevskij, trovo senz'altro interessante la descrizione della vita moscovita o della campagna russa dell'ottocento, ma quel che rimane e che va ponderato è la sua visione del significato essenziale del cristianesimo che troviamo in forma palese od occulta nel testo. Dopo molti anni che leggo dei testi sul buddhismo ( da giovane molto di più confesso...) ho sviluppato quasi una "sensibilità" immediata nel riconoscere ciò che è Dhamma e ciò che è agiografia, proprio perché confronto l'insegnamento con il mio vissuto, con la pratica stessa.C'è sempre il rischio che una cosa diventi "la mia cosa". E' un pericolo reale...il mio buddhismo, il mio cristianesimo, il mio ateismo, ecc. Il confronto con i testi è quindi importante, ma non possiamo sfuggire alla responsabilità di "battere l'oro" e farne una corazza "per noi" . E' sicuramente una sfida, che a volte si preferisce evitare e allora...si pensa che "l'incommensurabile compassione del Buddha ci porterà automaticamente alla Liberazione, noi e l'intero chiliocosmo, deva ed asura e naga compresi". Non funziona purtroppo così, altrimenti Gotama non avrebbe mai pronunciato quelle parole. "Siate luce a voi stessi, non abbiate altra luce" e "Lottate senza tregua"....Non so che traduzione del Mahaparinibbanasutta stai leggendo , probabilmente un versione mahayana. Nella mia del De Lorenzo, sul testo di K.E.Neumann, non è riportato quell'aneddoto che citi. E' riportato invece che Siddhartha, durante la questua , fece ammirare ad Ananda la bellezza di Vesali e dei suoi incantevoli giardini ( Liberazione non significa quindi non percepire o apprezzare più la bellezza...) e, contemplando simile bellezza, sorse in lui il pensiero che forse valeva la pena di continuare ancora per un pò la sua opera, per la salute di molti, per utile e compassione del mondo ( la Liberazione quindi non dà insensibilità o freddezza verso l'altrui dolore...). Ma questo gli apparve subito come un'attrazione dello "spirito del mondo" (spirito che prende il nome nella tradizione di Mara), come una seduzione della natura, ed egli respinse quel pensiero della durata, decidendo che, non più tardi di tre mesi si sarebbe estinto.Sul fatto che ci si avvicina al Dhamma perché "schifati" dal mondo, che si ha questo desiderio inconscio di non esistere, di sparire, di sfuggire al divenire di tutte le cose e di noi stessi trova il suo significato nel desiderio. In questo caso è un desiderio che prende la forma di un'urgenza, di un confronto con la sofferenza e con la visione della stessa ( i famosi incontri , fuori dal palazzo paterno, dello stesso Siddhartha...). Il giudizio sul "mondo" (inteso come creatura dell'incontro tra noi, pensiero e coscienza, e gli oggetti sensibili) a mio parere resta negativo. Questo "mondo" è però qualcosa che, per il buddhista, è nato, divenuto, composto, soggetto al crescere e diminuire, ecc.ma , proprio per questo, può permetterci di attingere al non-nato, non-divenuto, non composto, ecc.. Il mondo non è "male", nel senso abramitico, per un buddhista, ma, per la stessa ragione, non è nemmeno "un bene". Si tenta quindi, a mio avviso, di "trascendere il "mondo" usando il "mondo"... :)
P.S. Però! Hai visto?...1849 visite...niente male ;D ;D P.S. Mi piace tantissimo leggere testi mahayanici, non fraintendermi! Anche solo per l'aspetto letterario, per la musicalità e per le profonde riflessioni ( Vimalakirtinirdesasutra su tutti...) :)
E pensa che qualcuno se la prende con la filosofia dei theravada thailandesi della tradizione della foresta perchè ci vedono dell'eternalismo (la "citta eterna") ;D ovviamente non sono d'accordo.
Concordo su quanto hai scritto. Sì il Dhamma chiaramente trascende il mito e le agiografie e anche della vita personale del Buddha (un po' come Brahman esiste per gli induisti anche quando nessuno ne parla ecc). Però c'è anche scritto nello stesso Canone Pali che l'effetto dei discorsi del Buddha era alquanto miracoloso, alcuni ascoltavano e divenivano subito almeno "sotapanna". Idem per le vite precedenti di Sariputta (che era Krishna secondo le suttas), il Buddha principe ecc. A mio giudizio allora "prendevano" molta più presa proprio perchè la gente era meno scollegata dal mythos. Oggi noi deridiamo il mythos e vogliamo cancellarlo ma non siamo davvero pronti a farlo secondo me (credo che gente come Shinran e chi segue la scuola del Buddha Amitaba qualche cosa l'ha capita da questo punto di vista). ;)
P.S. http://www.accesstoinsight.org/lib/authors/hecker/wheel273.html qui puoi leggere la frase "If Mara had not intervened, Ananda would have asked the Buddha to accept the burden of a prolonged life, out of compassion for the world. But Mara prevented it, because innumerable beings would have escaped his clutches in such an event." L'ho letta su questo sito che è della tradizione della foresta e mi pare anche su una delle loro traduzioni in inglese del Mahaparinibbana - se la trovo te la faccio leggere.
P.S. Sono molto contento delle visualizzazioni
Citazione di: Apeiron il 15 Settembre 2017, 12:56:29 PME pensa che qualcuno se la prende con la filosofia dei theravada thailandesi della tradizione della foresta perchè ci vedono dell'eternalismo (la "citta eterna") ;D ovviamente non sono d'accordo. Concordo su quanto hai scritto. Sì il Dhamma chiaramente trascende il mito e le agiografie e anche della vita personale del Buddha (un po' come Brahman esiste per gli induisti anche quando nessuno ne parla ecc). Però c'è anche scritto nello stesso Canone Pali che l'effetto dei discorsi del Buddha era alquanto miracoloso, alcuni ascoltavano e divenivano subito almeno "sotapanna". Idem per le vite precedenti di Sariputta (che era Krishna secondo le suttas), il Buddha principe ecc. A mio giudizio allora "prendevano" molta più presa proprio perchè la gente era meno scollegata dal mythos. Oggi noi deridiamo il mythos e vogliamo cancellarlo ma non siamo davvero pronti a farlo secondo me (credo che gente come Shinran e chi segue la scuola del Buddha Amitaba qualche cosa l'ha capita da questo punto di vista). ;) P.S. http://www.accesstoinsight.org/lib/authors/hecker/wheel273.html qui puoi leggere la frase "If Mara had not intervened, Ananda would have asked the Buddha to accept the burden of a prolonged life, out of compassion for the world. But Mara prevented it, because innumerable beings would have escaped his clutches in such an event." L'ho letta su questo sito che è della tradizione della foresta e mi pare anche su una delle loro traduzioni in inglese del Mahaparinibbana - se la trovo te la faccio leggere. P.S. Sono molto contento delle visualizzazioni
Non nasce una religione universale che dura da 25 secoli se non c'è davanti l'esperienza di un uomo eccezionale. Siddhartha lo era. E' giusto provare un senso di profonda ammirazione per il Buddha, al di là delle divisioni settaristiche sorte nel tempo all'interno del buddhismo. Mi ricordo che, da giovanissimo, ero attratto proprio dalla figura, dalla "forza" che esprimevano quei racconti e spesso galoppavo con l'immaginazione dentro "boschetti di bambù notturni, illuminati da torce, in cui si ascoltava il Buddha e si discuteva il Dhamma"... :) :) Ah! Bei tempi... :'( Questo ha a che fare con il mito ? Anche, sicuramente e la nostra eventuale venerazione lo alimenta. E' una cosa che, in fondo, scalda il cuore...almeno a me sembra che possa essere così.I discorsi spesso provocavano "miracoli" interiori, nei presenti, perché qualcosa di profondo rispondeva, in un certo senso, soprattutto in personaggi che arrivavano,già carichi di un percorso spirituale alle spalle, davanti a Gotama. Penso che qualcosa di simile succedeva nelle moltitudini che ascoltavano Yeoshwa. Un carisma, un'intrinseca "autorità" spirituale che emanava da questi uomini, la percezione del "vero" (inteso in senso non filosofico ma umano, con il proprio essere...) che colpiva nell'intimo...va beh! Riflessioni personale...Sono d'accordo con te che è importante "anche" questa dimensione del mito, soprattutto all'inizio , quando ci si ...avvicina ad una figura come quella del Buddha. Il mito come attrazione verso...P.S: Ti assicuro che, in una mia vita precedente, non ero Krshna... :D ( Beh! Almeno non credo di esserlo stato...mumble...mumble...però, ora che mi ci fai pensare, perché ho scritto di Krshna e delle sue gopi? Coincidenza? ...Bisogna chiederlo a Jean, forse... :-\ )
Ma guarda sul discorso dei "miti" (si potrebbe aprire un interessantissimo argomento a riguardo ;D ) mi ci ritrovo in quello che dici. Quando guardavo all'inizio dell'adolescenza il Signore degli Anelli rimanevo estasiato dalla "spiritualità" (anche se allora non avrei usato questo termine) e dalla vita molto "piena di significato" dei personaggi, specie quelli buoni. Non mi era venuto in mente che da piccolo anche io ero più inserito nel mito come i personaggi. Ora mi rendo conto della vera funzione dei miti: quella di essere la "base" su cui fondare una spiritualità.
Sono molto attratto e affascinato dalla figura del Buddha ma non riesco ad essere inserito nel mito, non riesco a viverlo. Allora forse era più facile progredire nella spiritualità proprio perchè si partiva da un senso di identità ben formato. Il grande peccato del buddismo "importato" è dimenticarsi proprio l'aspetto mitologico-sociale-collettivo e di mostrarci solo la versione "personale", "individuale". Lo stesso Buddha ha imparato molto dai suoi insegnanti. Credo che allora questi discorsi facessero più effetto perchè avevano un significato molto profondo per chi ascolta, sia a livello individuale sia a livello comunitario - e quindi facevano molta "presa". Quando li leggo io, dico "interessante" ma non vengo di certo "mosso" nemmeno lontanamente come i discepoli "laici" di Siddharta.
La filosofia occidentale non è in genere "spiritualità" anche perchè manca l'aspetto comunitario (per esempio il platonismo non è mai diventato un movimento "organizzato") e lo stesso succede per il "buddismo visto dall'occidente". Si comprende poi la Trascendenza del Dhamma quando si capisce che è un "qualcosa" che esiste anche quando non ci sono buddisti al mondo. Ma il mito come dici tu è la base della venerazione e questo scalda il cuore e aiuta nel progresso del Dhamma. Purtroppo quello che a noi manca è la capacità di "rientrare" (religione viene da "religo", "rilegare") nel mito e dare significato "superiore" alle nostre vite, a vedere noi come parte di qualcosa più grande e vivere secondo tale realizzazione.
P.S. Chi può dire che tu magari nella vita futura non sarai il braccio destro di Maitreya o il nuovo Krishna? :P O addirittura magari eri il Sariputta storico che "per compassione" è rimasto come Bodhisattva e oggi enunci il Dhamma a noi occidentali ;D
Citazione di: Sariputra il 15 Settembre 2017, 17:36:36 PM
Citazione di: Apeiron il 15 Settembre 2017, 12:56:29 PME pensa che qualcuno se la prende con la filosofia dei theravada thailandesi della tradizione della foresta perchè ci vedono dell'eternalismo (la "citta eterna") ;D ovviamente non sono d'accordo. Concordo su quanto hai scritto. Sì il Dhamma chiaramente trascende il mito e le agiografie e anche della vita personale del Buddha (un po' come Brahman esiste per gli induisti anche quando nessuno ne parla ecc). Però c'è anche scritto nello stesso Canone Pali che l'effetto dei discorsi del Buddha era alquanto miracoloso, alcuni ascoltavano e divenivano subito almeno "sotapanna". Idem per le vite precedenti di Sariputta (che era Krishna secondo le suttas), il Buddha principe ecc. A mio giudizio allora "prendevano" molta più presa proprio perchè la gente era meno scollegata dal mythos. Oggi noi deridiamo il mythos e vogliamo cancellarlo ma non siamo davvero pronti a farlo secondo me (credo che gente come Shinran e chi segue la scuola del Buddha Amitaba qualche cosa l'ha capita da questo punto di vista). ;) P.S. http://www.accesstoinsight.org/lib/authors/hecker/wheel273.html qui puoi leggere la frase "If Mara had not intervened, Ananda would have asked the Buddha to accept the burden of a prolonged life, out of compassion for the world. But Mara prevented it, because innumerable beings would have escaped his clutches in such an event." L'ho letta su questo sito che è della tradizione della foresta e mi pare anche su una delle loro traduzioni in inglese del Mahaparinibbana - se la trovo te la faccio leggere. P.S. Sono molto contento delle visualizzazioni
Non nasce una religione universale che dura da 25 secoli se non c'è davanti l'esperienza di un uomo eccezionale. Siddhartha lo era. E' giusto provare un senso di profonda ammirazione per il Buddha, al di là delle divisioni settaristiche sorte nel tempo all'interno del buddhismo. Mi ricordo che, da giovanissimo, ero attratto proprio dalla figura, dalla "forza" che esprimevano quei racconti e spesso galoppavo con l'immaginazione dentro "boschetti di bambù notturni, illuminati da torce, in cui si ascoltava il Buddha e si discuteva il Dhamma"... :) :) Ah! Bei tempi... :'(
Questo ha a che fare con il mito ? Anche, sicuramente e la nostra eventuale venerazione lo alimenta. E' una cosa che, in fondo, scalda il cuore...almeno a me sembra che possa essere così.
I discorsi spesso provocavano "miracoli" interiori, nei presenti, perché qualcosa di profondo rispondeva, in un certo senso, soprattutto in personaggi che arrivavano,già carichi di un percorso spirituale alle spalle, davanti a Gotama. Penso che qualcosa di simile succedeva nelle moltitudini che ascoltavano Yeoshwa. Un carisma, un'intrinseca "autorità" spirituale che emanava da questi uomini, la percezione del "vero" (inteso in senso non filosofico ma umano, con il proprio essere...) che colpiva nell'intimo...va beh! Riflessioni personale...
Sono d'accordo con te che è importante "anche" questa dimensione del mito, soprattutto all'inizio , quando ci si ...avvicina ad una figura come quella del Buddha. Il mito come attrazione verso...
P.S: Ti assicuro che, in una mia vita precedente, non ero Krshna... :D ( Beh! Almeno non credo di esserlo stato...mumble...mumble...però, ora che mi ci fai pensare, perché ho scritto di Krshna e delle sue gopi? Coincidenza? ...Bisogna chiederlo a Jean, forse... :-\ )
Anch'io sono contento del percorso di questa discussione, delle visualizzazioni che testimoniano l'interesse per l'argomento e ricompensano i relatori (Sari e Apeiron in primis e certamente Acquario che l'ha iniziato) per il loro impegno. Dal mio punto di vista mi par bello che nel nostro Hotel Logos (1° piano con terrazza... filosofia...) vi sia codesta stanza che periodicamente ospita i vostri e altri interventi... dove si respira un'atmosfera non competitiva, se si può dir così... Quando vengo qui a leggiucchiar qualcosa non mi preoccupo di capircene ben poco... e a dir il vero mi par secondario (per me) rispetto alla piacevole sensazione di tranquillità che ha permeato la stanza... un valore aggiunto, dipendente dall'intrinseca qualità delle persone, che alcuna preparazione, studio, esperienza, ecc. può garantire.Ho sempre provato una forte attrazione per le raffigurazioni del Buddha (dipinti e soprattutto sculture) e mi ha sempre sorpreso la capacità di così tanti artisti di trasporre l'ineffabile Sorriso nelle loro opere... quel sorriso che noi europei abbiamo potuto vedere nel materiale riportato dal nostro grande veneziano, Marco Polo (1254-1324) che ...... fu probabilmente il primo europeo (di cui si abbia notizia) a parlare per esperienza diretta del buddhismo, anche se con i limiti che vedremo.Forse il primo contatto con la cultura buddhista Marco lo ebbe nel Chescimur, l'attuale Kashmir. Gli abitanti di questo territorio, dal quale si accede al cuore dell'India, vengono da lui definiti "idolatri", e questo è il termine che Polo usò per definire coloro che non erano né cristiani, né ebrei né islamici. Le religioni a lui note erano infatti le religioni abramitiche, anche nelle loro varianti, per esempio i cristiani nestoriani[4], presenti in molti dei territori dominati dai Mongoli, Cina compresa; gli "altri" erano da lui chiamati "idolatri", anche se non dimostrava nei loro confronti disprezzo, anzi era sicuramente incuriosito ed interessato alle differenze tra le diverse tradizioni.Nel capitolo del Milione sul Chescimur[5] distingue "certi loro romiti che abitano in eremitaggi e digiunano severamente; fanno vita castissima e si guardano con ogni diligenza dal peccare contro la loro religione" (forse adepti dello Yoga?) da altri "monaci" che vivono "in abbazie e monasteri" dove "seguono regole rigidissime e portano tonsura come i nostri domenicani e i nostri frati minori". Che sia questo il racconto del primo incontro (documentato) della storia tra un occidentale e dei monaci buddhisti? All'epoca del Milione il buddhismo era ormai scomparso dall'India, a causa delle invasioni islamiche, della rinascita dell'induismo e delle crisi interne del buddhismo stesso. Ma si era già diffuso in gran parte dell'Asia, in particolare nei territori toccati da Polo: la Mongolia, il Tibet, la Cina e, durante il ritorno, Sri Lanka. Il buddhismo da lui descritto, come si capirà secoli dopo, è quindi quello Mahayana (tranne a Sri Lanka), soprattutto nelle varianti del Vajrayana (un tempo chiamato Lamaismo).http://zenvadoligure.blogspot.it/2015/01/il-buddhismo-nel-milione-di-marco-polo.html ... quel sorriso a cui son certo si rifece anche il nostro grande Leonardo (1452-1519) per la sua più celebre opera (opinione personale)...... quel sorriso che a volte scorgo tra le righe degli interventi del Sari, il precettore del Piccolo Principe... (Apeiron)... ... e nelle raffigurazioni di Krishna... ... e quindi, alla domanda se Il Sari in una vita precedente fosse stato L'essere Supremo stesso ovviamente non so rispondere... ma almeno, scusate se è poco, rilevo delle analogie, delle affinità (elettive... vedi pastorelle...) e rimando a voi la palla per le conclusioni... Un caro salutoJean
Il Mahaparinibbana sutta (da questa fonte http://www.accesstoinsight.org/tipitaka/dn/dn.16.1-6.vaji.html) recita così: "[il Buddha disse:]" The Tathagata could, if he so desired, remain throughout a world-period or until the end of it.( mia traduzione: il Tathagata, se così desiderasse, potrebbe rimanere per un "eone" fino alla fine dello stesso)... But the Venerable Ananda was unable to grasp the plain suggestion, the significant prompting, given by the Blessed One. As though his mind was influenced by Mara, he did not beseech the Blessed One: "May the Blessed One remain, O Lord!. May the Happy One remain, O Lord, throughout the world-period, for the welfare and happiness of the multitude, out of compassion for the world, for the benefit, well being, and happiness of gods and men!" (Ma il Venerabile Ananda non fu in grado di comprendere il chiaro consiglio, il suggerimento significativo dato dal Beato. Siccome la sua mente era influenzata da Mara non supplicò il Beato [in questo modo]: "Possa il Beato rimanere, O signore! Possa il Felice rimanere, o signore, per tutto l'eone, per il benessere e la felicità della moltitudine, per la compassione per il mondo, per il beneficio, il benessere e la felicità dei deva e degli uomini")
And when for a second and a third time the Blessed One repeated his words, the Venerable Ananda remained silent. (E quando per una seconda e una terza volta il Beato ripetà le sue parole, il Venerabile Ananda rimase silenzioso.)
[Il Buddha disse: ]But you, Ananda, were unable to grasp the plain suggestion, the significant prompting given you by the Tathagata, and you did not entreat the Tathagata to remain. For if you had done so, Ananda, twice the Tathagata might have declined, but the third time he would have consented. Therefore, Ananda, the fault is yours; herein you have failed (Ma tu Ananda non sei stato capace di comprendere il chiaro consiglio, il suggerimento significativo dato a te dal Tathagatha e tu non hai supplicato il Tathagatha di rimanere. Perchè se tu avessi fatto così, Ananda, due volte il Tathagatha potrebbe aver rifiutato, ma la terza volta avrebbe acconsentito. Perciò, Ananda, l'errore è tuo; qui tu hai fallito.)
Chiaramente mi pare un bellissimo passo mitico vista anche l'importanza data dall'archetipo del numero "tre". Ananda rimase silenzioso per tre volte (un po' come Pietro rinnegò Gesù tre volte). Poi il Mahaparinibbana sutta riporta un altro passo mitologico abbastanza frequente ossia quello dei terremoti:
"[Il Budddha disse:] "[The earthquakes also happen] Ananda, when the Bodhisatta departs from the Tusita realm and descends into his mother's womb, mindfully and clearly comprehending; and when the Bodhisatta comes out from his mother's womb, mindfully and clearly comprehending; and when the Tathagata becomes fully enlightened in unsurpassed, supreme Enlightenment; when the Tathagata sets rolling the excellent Wheel of the Dhamma; when the Tathagata renounces his will to live on; and when the Tathagata comes to pass away into the state of Nibbana in which no element of clinging remains." (Ananda quando il Bodhisatta - colui che cerca il Risveglio - diparte dal reame di Tusita e discende nel grembo di sua madre, concentrato e con chiara comprensione; e quando il Bodhisatta esce dal grembo di sua madre, concentrato e con chiara comprensione; quando il Tathagatha diviene completamente risvegliato nell'insuperabile, supremo Risveglio; quando il Tathagatha mette in rotazione l'eccellente Ruota del Dhamma; quando il Tathagatha rinuncia alla volontà di continuare a vivere; e quando il Tathagatha muore nello stato del Nibbana senza nessun elemento di attaccamento)"
Inoltre - ancora molto "mitologico" - trovo l'espressione secondo cui "il Tathagatha è designato il "corpo del Dhamma" (Dhammakaya)... "divenuto Dhamma""(Digha Nikaya, https://en.wikipedia.org/wiki/Dharmak%C4%81ya) e quando nella Garava sutta (http://www.accesstoinsight.org/tipitaka/sn/sn06/sn06.002.than.html) un deva esclama (dopo che al Buddha viene in mente di esprimere riverenza al Dhamma):
"Past Buddhas, future Buddhas, & he who is the Buddha now, removing the sorrow of many — all have dwelt, will dwell, he dwells, revering the true Dhamma." (trad: Buddha passati, futuri e quello presente ora che rimuove la sofferenza di molti - tutti loro hanno dimorato, dimoreranno e dimora riverendo il vero Dhamma). Ossia qui vediamo nel primo caso che il Buddha è visto quasi come una sorta di "incarnazione" (scusate il termine "cristiano" ma non sapevo quale usare anche perchè non c'entra nulla con la "incarnazione di una divinità") dei suoi insegnamenti e nel secondo caso si esprime la "superiorità" e la "trascendenza" del Dhamma (eterno) rispetto ai Risvegliati (temporanei...). Volevo solo far notare come gli elementi mitologici sono presenti già nel Canone Pali e, a mio giudizio, non si possono separare dalla spiritualità buddista - così come il mito indù, il mito daoista, il mito cristiano ecc non possono essere separati dalle rispettive spiritualità. Inoltre tra questi miti, pur essendoci differenze enormi, vedo tantissime affinità con temi presenti in moltissimi di essi. Questo mostra - a mio giudizio - che il mito è direi quasi fondamentale (o forse anche senza il "quasi") per la spiritualità. La tendenza alla "de-mitologizzazione" moderna a mio giudizio anche se ovviamente deve essere scientifica e chiarire cosa è superstizione e cosa non lo è non deve secondo me trascurare l'importanza del mito (proponendone una interpretazione coerente).
P.S. Quando dicevo che "il buddismo ha una componente mitologica" ovviamente non usavo il termine "mito" in senso dispregiativo (come si fa spesso oggi), anzi... ;)
Sfrondare il Canone Pali da tutte le mitologiche e agiografiche aggiunte non solo è inutile ma va anche contro la dimensione culturale e poetica dei testi stessi. Ultimamente si è acceso un dibattito su cos'è il "vero Dharma". Ossia in che cosa consista effettivamente l'originario pensiero di Siddhartha. Sappiamo che il Canone Pali , questa sterminata raccolta di testi e discorsi, data tra il primo sec. a.C. e il secondo d.C. Abbiamo quindi quattrocento anni di trasmissione orale e tre o quattro concili prima della stesura dei testi. Questo è un bel problema . Quei testi hanno il loro più genuino significato all'interno della cultura che li ha partoriti. Per questo il buddhismo, giunto in Occidente, rischia di diventare veramente qualcos'altro. Scrive Marta Sernesi:
Il Western Buddhism si propone pertanto come un nuovo buddhismo che pretende di sintetizzare il meglio dell'insegnamento religioso tradizionale, di porsi cioè al di sopra delle tradizioni regionali buddhiste, includendole, valorizzandole e superandole in efficacia in relazione agli adepti contemporanei. Ricompare qui la retorica dell'ekay≈na: il nuovo veicolo è la summa dei precedenti, i quali sono disposti in una scala gerarchica di progressiva approssimazione all'ideale. Seppur riconosciuti quali abili strumenti d'insegnamento nell'ambito delle varie culture del mondo, sono considerati inadatti alla nuova tipologia (o famiglia: gotra) di buddhisti, quella degli occidentali. Ancora più in generale si nota un afflato universalistico: il nuovo buddhismo è la religione più adatta all'uomo moderno, quella che meglio risponde alle necessità del mondo contemporaneo: ecco dunque che la retorica del modernist Buddhism mostra ancora tutta la sua vitalità.
Il buddhismo e i vari testi tramandati dalla tradizione, tradotti dal pali in una molteplicità di lingue dell'intero continente asiatico e poi ritradotti in inglese ,e da qui ritradotti in italiano rischia e rischiano di perdere il loro autentico significato, ed io sono convinto di questo. Non c'è una chiesa che impone quali siano i testi ufficiali e quali quelli da scartare. Insomma, diventa una specie di babele per noi , estranei a quelle culture, in cui è facilissimo perdersi o travisarne il senso.
Il buddhismo non è soltanto una religione, ma è anche una civiltà, una cultura che ha influenzato e permeato di sé la vita sociale, politica, la storia, il pensiero e l'arte di quasi tutti i popoli dell'estremo Oriente. Come ogni religione, anche il Buddhismo si rivolge ad una collettività fatti di individui e culture con sensibilità, psicologie e rituali diversi. Questo adattamento comporta che ogni cultura , dall'albero della bodhi, tragga differenti frutti e differenti interpretazioni. Sempre Sernesi:
Bisogna sottolineare come sia stato necessario ogni volta un lungo processo di dialogo, integrazione, traduzione ed esegesi dei testi, ri-negoziazione rituale e attuazione di strategie politiche per arrivare alla creazione di quelli attualmente noti come 'buddhismi regionali' . Gli studi degli specialisti nelle diverse aree geografiche evidenziano problematiche e dinamiche ricorrenti, anche se le necessità e le risposte locali variano sensibilmente; per questa ragione questi studi potrebbero illuminare, in comparazione diacronica, anche i processi di cambiamento in atto nel buddhismo durante la sua diffusione in Occidente. Una delle tematiche più interessanti in questa prospettiva –ma certamente non l'unica degna d'attenzione – è quella della legittimazione dei testi, delle dottrine e delle pratiche buddhiste, dell'individuazione e della definizione di criteri per individuare la religione buddhista 'corretta' o 'accettabile' e per orientarsi all'interno della moltitudine di insegnamenti differenti.
Come fa il Sari ad orientarsi all'interno di questo sterminato universo di testi, correnti, veicoli, culture? Prende pochi testi di autori veramente importanti, li confronta con la propria pratica e la propria intuizione al riguardo... ;D ;D Cerca di discernere ciò che gli sembra coerente con le semplice , essenziali verità formulata da Gotama e poi giudica i testi e gli elementi mitici o agiografici sulla base di quelle. Garanzie di accuratezza e di precisione ? Nessuna!... :( Rischio di fallire ? Altissimo!Però spesso si notano facilmente "incoerenze" nei vari testi. E qui il Sari fa uso dell'unica arma a disposizione...il sano "buon senso"! Per es. proprio usando la citazione dal M.Par:Nib.Sutra che riporti subito il Sari si chiede. "Ma se l'insegnamento ha come sua base l'impermanenza di ogni cosa, come fa il corpo di un uomo ( Siddhartha) a posticipare la morte per un'intero eone, o addirittura non morire mai, a piacimento? Non stanno qui deificando la figura del Buddha? Se prima viene affermato che il kamma invariabilmente giunge a manifestarsi, anche nel corpo di un risvegliato per effetto delle azioni passate., com'è che adesso si sfugge a ciò?E' contraddittorio, pertanto questo non è Dharma autentico, ma abbellimento agiografico a scopo di impressionare le masse con racconti di carattere soprannaturale, miracolosi, ecc."
Certo che rischio anch'io di inserirmi in un approccio Western Buddhist ma me ne tengo alla larga comprendendo che la sottomissione del messaggio religioso all'esame di una supposta superiorità razionale dell'Occidente ripropone solamente datati schemi ideologici di opposizione tra Oriente e Occidente, subordinando il Buddhismo a modelli euristici scientifico-razionali.
Ben vengano quindi i miti , testimonianze di popoli e culture, purché non mi tengano avvolto in una specie di "nube" che mi impedisce di fatto di scorgere la sorgente...
SARIPUTRA
Come fa il Sari ad orientarsi all'interno di questo sterminato universo di testi, correnti, veicoli, culture? Prende pochi testi di autori veramente importanti, li confronta con la propria pratica e la propria intuizione al riguardo... (https://www.riflessioni.it/logos/Smileys/default/grin.gif) (https://www.riflessioni.it/logos/Smileys/default/grin.gif) Cerca di discernere ciò che gli sembra coerente con le semplice , essenziali verità formulata da Gotama e poi giudica i testi e gli elementi mitici o agiografici sulla base di quelle. Garanzie di accuratezza e di precisione ? Nessuna!... (https://www.riflessioni.it/logos/Smileys/default/sad.gif) Rischio di fallire ? Altissimo!Però spesso si notano facilmente "incoerenze" nei vari testi. E qui il Sari fa uso dell'unica arma a disposizione...il sano "buon senso"! Per es. proprio usando la citazione dal M.Par:Nib.Sutra che riporti subito il Sari si chiede. "Ma se l'insegnamento ha come sua base l'impermanenza di ogni cosa, come fa il corpo di un uomo ( Siddhartha) a posticipare la morte per un'intero eone, o addirittura non morire mai, a piacimento? Non stanno qui deificando la figura del Buddha? Se prima viene affermato che il kamma invariabilmente giunge a manifestarsi, anche nel corpo di un risvegliato per effetto delle azioni passate., com'è che adesso si sfugge a ciò?E' contraddittorio, pertanto questo non è Dharma autentico, ma abbellimento agiografico a scopo di impressionare le masse con racconti di carattere soprannaturale, miracolosi, ecc."
APEIRON
Ecco: anche secondo me l'agiografia e il mito contendono certe esagerazioni ma se esse sono presenti per lo meno hanno un certo significato. In modo simile si può leggendo la Bibbia ignorare la Genesi perchè è "falsificata" dalla scienza. Il problema è che si confonde il mito con la narrazione storica. Allo stesso modo ritengo che quando leggo un testo dei sutta e trovo assurdità come il prolungamento della vita di un eone e il "silenzio" di Ananda che ha fatto in modo che Buddha non usasse questo "potere" credo che sia necessario usare tre metodi interpretativi: uno è semplicemente quello che usiamo noi occidentali in genere ossia quello di "ignorarlo" perchè va contro il buon senso (e su questo fai conto che io lo uso proprio come te ;) ),il secondo è quello del "credulone" o in altri casi del "fedele" (che non sono la stessa cosa), ossia accettare prima di vedere con i propri occhi, il terzo è quello di vedere se tali "miti"/agiografie hanno un significato simbolico o non letterale. Il secondo metodo ovviamente non lo uso nemmeno io perchè non credo che nella vita di Buddha ci sono stati così tanti terremoti, non credo che Gotama avesse i super-poteri ecc, ma questo è dovuto (anche) al fatto che sono di formazione scientifica e anche sono stato educato ad essere critico e non "credere a tutto". Rimane però la terza via interpretativa, ossia di "interpretare il testo". Non credo che quegli "spezzoni" siano stati aggiunti in mala fede. Ad esempio il fatto che Ananda non abbia chiesto al Buddha di rimanere lo vedo come una riflessione al fatto che "siamo talmente avvolti da Mara che anche se il Buddha fosse tra noi, saremmo come Ananda. E ciò ahimé è normale, siamo "umani", sbagliamo e anche se abbiamo il "salvatore" a due metri finiamo di non riconoscerlo". Il fatto che poi il Buddha non abbia prolungato artificialmente la vita lo vedo come "anche se avesse avuto il potere di vivere di più ha scelto la rinuncia". Il fatto dei terremoti mi da l'idea della connessione tra noi e la natura ecc. Il "mito" delle rinascite idem, l'unione tra gli esseri viventi (più o meno questa è l'interpretazione di Schopenhauer). Ovviamente mi rendo conto che quanto dico non è buddismo. Sulla questione del Buddha storico ad esempio nutro forti dubbi che siano esistiti veramente "uomini moralmente perfetti, privi da ogni "illusione" ecc" ma non posso di certo negare quanto sia importante tendere alla "perfezione morale" ecc. Ritengo Gotama una delle menti più brillanti e originali mai esistiti ma mi sembra l'incarnazione di moltissimi ideali umani, ossia dell'uomo "perfetto": senza attaccamenti, avversioni e illusioni. Ovviamente può essere tutto vero, può essere vero che il Buddha era veramente una mente infallibile. Già nel Mahayana però ci si è accorti di quanto sia impossibile (o quasi) essere un'"isola per se stessi" e si è tirata in ballo la figura del Bodhisattva che aiuta e ama il "fedele". E ciò ha senso perchè non credo che sia vero che si è davvero in senso ultimo un'"isola per se stessi" proprio per l'anatta, ossia l'assenza di un io separato.
Inoltre se usiamo il nostro "buon senso" nel leggere la descrizione dell'obbiettivo finale del Buddha ci sembra quanto più avverso all'esistenza ci sia. Ossia "Nibbana=Nulla=Oblio" proprio perchè nella nostra lettura razionalistica il Buddha che parlava solo dell'immediata esperienza non poteva dire realmente che il Nibbana è "quella dimensione/sfera (ayatana) che non è né..." (Udana) e infatti deve averlo detto solo perchè voleva invogliare i monaci a praticare (ho letto QUESTO qui https://www.dhammawheel.com/viewtopic.php?t=22409). Non posso essere buddista proprio perchè non mi riconosco pienamente nel "mito", vedo che il mio io (per quanto sia un delirio), la mia formazione e il mio "karma" mi rendono più simile ad un misto tra Platone e Pirrone. Non rinuncio però a prendere ispirazione dai testi che leggo, buddisti compresi. Nello Zhuangzi c'è scritto che "Liezi cavalcava il vento", io credo che sia una metafora. Ma può essere che veramente Zhuangzi (o chi per lui) credesse in quello che ha scritto. Idem per Buddha. L'importante è ammettere che è una nostra interpretazione. Per esempio per me Nibbana=Nulla è falso perchè trovo molte somiglianze tra il buddismo e le varie filosofie e religioni del mondo, trovo che "Nibbana=ayatana che non è" è una frase di natura "apofatica". Ma questo perchè io accetto la trascendenza mentre mi pare di vedere (anche nel forum che ho citato) molti "buddisti" vedono ogni trascendenza come eternalismo (ammetto che da un punto di vista testuale ciò potrebbe essere legittimo). Poi il Buddha ci parla di rinascite, deva, inferni ecc e viste tutte queste cose sinceramente mi sembra "plausibile" che credesse veramente nella possibilità di camminare sulle acque ecc. Ammettere che il Buddha fosse in errore per me, che non sono buddista, è possibile. Se però lo si vede come "infallibile" e si vuole "forzare" una intepretazione "compatibile con la scienza" sulle suttas di certo si finisce nel "Nibbana=Nulla=Eutanasia", le rinascite sono false, non esistono deva ecc. Tu sinceramente Sari sei un "libero pensatore" e non un "buddista" ;)
Credo che la contestualizzazione storico-antropologica ricordata da Sariputra sia fondamentale per l'esegesi dei testi e anche per cogliere il nocciolo del pensiero buddhista (ancora non ho capito se si scrive con l'h o no ;D ): se la funzione sociale di una religione (e di una filosofia che viene "adattata" per essere anche una religione) è quella di fornire risposte alle genti (plurale ecumenico!), spiegazioni e verità, allora ogni religione non può esimersi, per essere "credibile", dall'avere una cosmogonia, un'escatologia (anche se ciclica), una spiegazione del post-mortem, etc. per saper cosa rispondere ai "domandoni" che gli adepti porranno per saggiare la portata soteriologica e sapienziale del culto proposto... Tuttavia, proprio come entrambi osservate (se non vi ho frainteso), si tratta di un guscio che va infranto e superato per raggiungere ciò di cui ci si può davvero nutrire, ciò che può orientare, o almeno consigliare, la nostra vita immanente e contingente, qui ed ora...
I miti, le agiografie, i discorsi cosmologici, non sono forse ciò che ci attira sulla zattera, ma anche le prime corde da cui staccarci quando pensiamo di voler scendere? Augurandoci di essere davvero arrivati... altrimenti il pedalò di Patrick, in versione ONG, dovrà venire a raccoglierci in mare ;D
Citazione di: Phil il 17 Settembre 2017, 11:45:37 AMCredo che la contestualizzazione storico-antropologica ricordata da Sariputra sia fondamentale per l'esegesi dei testi e anche per cogliere il nocciolo del pensiero buddhista (ancora non ho capito se si scrive con l'h o no ;D ): se la funzione sociale di una religione (e di una filosofia che viene "adattata" per essere anche una religione) è quella di fornire risposte alle genti (plurale ecumenico!), spiegazioni e verità, allora ogni religione non può esimersi, per essere "credibile", dall'avere una cosmogonia, un'escatologia (anche se ciclica), una spiegazione del post-mortem, etc. per saper cosa rispondere ai "domandoni" che gli adepti porranno per saggiare la portata soteriologica e sapienziale del culto proposto... Tuttavia, proprio come entrambi osservate (se non vi ho frainteso), si tratta di un guscio che va infranto e superato per raggiungere ciò di cui ci si può davvero nutrire, ciò che può orientare, o almeno consigliare, la nostra vita immanente e contingente, qui ed ora... I miti, le agiografie, i discorsi cosmologici, non sono forse ciò che ci attira sulla zattera, ma anche le prime corde da cui staccarci quando pensiamo di voler scendere? Augurandoci di essere davvero arrivati... altrimenti il pedalò di Patrick, in versione ONG, dovrà venire a raccoglierci in mare ;D
D'accordissimo con Phil! Potremmo, con un esempio, paragonare i miti, le agiografie, la cosmogonia buddhista, ecc. con l'"abbelliomento " esteriore della zattera che ci dovrebbe portare all'altra riva. Sono i colori e le decorazioni esterne ai robusti tronchi che formano l'ossatura della zattera. Non sono inutili, se possiamo intenderli anche come un aiuto, intanto per avvicinarsi ( questo più per l'orientale che non per noi occidentali, penso...) ad un primo contatto con questa forma di filosofia/religione particolare che, non bisogna dimenticarlo, è ed è stata motivo di conforto e speranza per milioni di persone "semplici" ( quindi in difficoltà ad affrontare la speculazione filosofica insita nel buddhismo). "Semplici" detto senza presunzione ,in quanto vi è anche una profondità della "semplicità" stessa. I testi parlano anche a questi. Soprattutto considerando che questi testi vengono redatti quando già la diffusione del buddhismo è enorme nell'intero sub-continente indiano. Quindi presumo che le leggende popolari, i racconti e la filosofia si intrecciassero nel quotidiano di quei popoli. I testi ne diventarono probabilmente una trasposizione. Questo, a mio parere, ne aumenta il fascino e non lo diminuisce anche se, a noi occidentali, possono a volte sembrare ingenui, fantasmagorici quasi...noi vogliamo sempre qualcosa di razionale, di dimostrabile. Non pensiamo che i testi sono cose da "usare" in definitiva...Son d'accordo anche con Apeiron che, coloro che supevisionarono quelle raccolte così "cariche" di Dharma e di credenze popolari nello stesso tempo, essendo all'interno di quella cultura specifica, non agirono in mala fede. Se leggiamo i grandi commentatori buddhisti ( da Nagarjuna a Buddhagosa, Chandrakirti, ecc.) non ritroviamo però tutti quegli elementi mitologici. Questo perché i commentari erano rivolti allo studio da parte dei monaci stessi e non erano testi di divulgazione alle masse. Poi, mettiamoci pure che il sangha dipendeva dall'offerta di cibo dei laici...non so se mi spiego...un pò presumo "bisognava" concedere ... ;) Il buddhismo, per secoli, è stato per l'orientale medio, semplicemente accumulazione di meriti in vista di un karma "felice" ( rinascita favorevole). Credo che teorie come l'anatta o la paticcasammupada fossero indigeste anche a loro... :) E' un problema comune a tutti i testi sacri di ogni religione, quello dell'interpretazione. Basti pensare al significato da dare al termine jihad nell'Islam...
Pratītyasamutpāda e anatta sono due "concetti" che il nostro intelletto comprende solo in parte, altrimenti se davvero fosse così probabilmente qui dentro, stando alle suttas e alle sutras saremmo tutti per lo meno "sotapanna" (ossia "salvati", destinati al NIrvana). Lo stesso "nirvana" proprio perchè "anatta" e "pratityasamutpada" non sono comprensibili completamente trascende la nostra comprensione. Sul fatto che essi siano il fulcro della "filosofia" budd(h)ista (Phil in italiano sia Buddha che Budda vanno bene ;D ) sono d'accordo e infatti ritengo Buddha, Sariputta/Sariputra "storico", Nagarjuna, Buddhaghosa, i fratelli Ansanga & Vasubandhu (e il nostro Sariputra ;D ) tutti filosofi. Ma "filosofo" è una caratterizzazione incompleta. E spiego subito il motivo: il filosofo è colui che usa il logos per tentare di "farsi strada" ("mappare il territorio" ;D ) nella realtà. Ma ogni filosofo nella filosofia deve essere discusso, criticato ecc si deve cercare anche di confutarlo. E così Buddha rifiutò le filosofie a lui precedenti, arrivando addirittura a definirle "perniciose", "folli", "errate", "stupide" (Aristotele di certo non usa tali termini per descrivere il suo maestro Platone anche se non è d'accordo). Il "puro" filosofo è - secondo me - rappresentato da Socrate, ossia colui che mette tutto in discussione... ovviamente anche Socrate però ha il suo numero di "oracoli" e "daimon" che dubito possano essere pensati come genuina espressione del logos. Spero però di essermi fatto capire: nella filosofia si deve essere pronti a mettere in discussione TUTTO. Poi ovviamente anche i filosofi finiscono per fare le loro teorie, ma i successivi filosofi sono pronti a smontarle, correggerle ecc (se ci trovano errori, cose non chiare...).
Il Buddhismo è una filosofia? Leggo: "il tathagatha... non è destinato a future "nascite". Il tathagatha è profondo, senza confini, difficile da comprendere, come il mare.", "questo Dhamma che ho scoperto è difficile da vedere, difficile da comprendere, profondo, pacifico, eccellente, oltre ogni ragionamento, sottile e comprensibile dal saggio." ecc. Il Dhamma è l'Assoluto del Buddha (quello che d'altronde ha cercato fino alla notte (o alba?) del Risveglio) e la distinzione tra "ciò che è conforme al Dhamma" e "ciò che non è conforme al Dhamma" in ultima analisi lo si può solo vedere dalle parole del Buddha come ci sono tramandate dai suttas e dai sutras. Che non ci siano reami di rinascita permanenti è un atto di fede così come è un atto di fede che nessun "ente" sia eterno. Ma su cosa si basa la nostra fede, visto che almeno io non ho raggiunto il Nirvana? Sull'infallibilità del Buddha (e siamo a due assoluti). Nessuno lo ha mai dimostrato, nessuno. Quindi il buddismo è una religione sia per i "laici" sia per i "monaci". Il buddismo è una religione e una filosofia così come però il daoismo (per esempio) è una religione e una filosofia, così come è l'induismo ecc. Perchè io quando leggo "vi è monaci quella dimensione che non è... (riferito al Nirvana)" tendo a dire che il (Pari)Nirvana non è il Nulla/Oblio (ossia una semplice "privazione" della "zavorra") come sostengono alcuni? è la mia filosofia, il mio approccio alla realtà che mi suggeriscono che il Bene più Alto, il Massimo Valore ecc sia qualcosa di ineffabile e trascendente (cosa su cui penso che lui sarebbe d'accordo)e ciò condiziona la mia lettura (perchè allo stesso modo ritengo che l'oro puro è quello a cui si sono tolte le impurità, ma tolte le impurità rimango col mio oro in mano, non con niente...). La mia formazione, i miei ragionamenti e l'idea che mi sono fatto della vita e del mondo non mi permettono di accettare una simile interpretazione del Nirvana. Ma visto che il Buddha non è qua a parlare, temo che non ne potremo mai essere sicuri. Perchè non credo che sia possibile dall'analisi testuale e dal confronto tra le attuali scuole stabilire cosa ha insegnato l'uomo Siddharta Gotama.
Ma sinceramente io dubito che ci sia stato un uomo davvero libero da ogni "impurità": che differenza ci sarebbe tra questo uomo e un dio (ok non ditemi che il dio è "eterno")? Pitagora diceva che lui non era "sofista" (ossia un saggio perchè solo gli dei sono saggi/perfetti ecc) ma un "filosofo", amante della saggezza. Il Buddha invece è il saggio - questa è la differenza tra religione e filosofia. Ciò non toglie che il buddismo sia una miniera di saggezza, che il Buddha sia un grande filosofo e che il buddismo potrebbe essere vero.
E qui torniamo alla questione mitica. Togliamo il buddismo di ogni cosa che "non ci quadra" con la nostra mentalità "scientifica"/critica: non ci sono rinascite, non ci sono cicli cosmici, non ci sono devas, non ci sono inferni, il Buddha non aveva una mente qualitativamente diversa dalla nostra e chi ha scritto di queste cose magari era in preda al delirio o voleva "ammaestrare" le genti. Bene rimane un "sano" simil-epicureismo in cui alla morte si muore ecc. Questo non è buddismo. Ora rimettiamoci le rinascite ma togliamo tutto il trascendente: PariNirvana=Nulla, ossia il buddhismo diventa un invito all'eutanasia, il Buddha era un saggio che si è liberato. Ora facciamo come i buddisti e... magia: il Buddha è "il Perfetto" e il Dhamma è vero in ultima analisi per fede nel Buddha (per averne una conferma devi arrivare almeno al Sotapanna, prima è fede così come nella Caverna di Platone per tutti coloro che non sono andati fuori, il fatto che il Sole ci sia o meno è questione di fede...).Ok oggi però siamo scientifici e non crediamo che un tempo l'uomo viveva molto più di oggi, non crediamo che al concepimento del Buddha ci sia stato un terremoto ecc. Che farsene di questi testi? 1) crederci per "sola scriptura" 2) crederci o meno dopo aver fatto uno studio "delle scritture" con le nostre menti "fallibili" che ci ha permesso di trovare il "vero insegnamento del Buddha", 3) avere "fede" nel Buddha e trattare questi "spezzoni" in modo analogo a quanto si fa col metodo storico-critico della Bibbia ossia si studia il testo, 4) cercare di interpretare il testo non avendo più la "schivitù" della intepretazione letterale ma essere ancora "fedeli", 5) intepretare il testo e trattarlo "da filosofi", 6) chiudere le suttas perchè sono contrarie alla scienza. Ci sono vari metodi ma quello che preferisco è pensare che anche questi spezzoni abbiano un significato ben maggiore dell'"adattamento" al popolino o di un mero invogliamento a praticare. Voglio pensare che dietro a queste che sono assurdità se interpretate letteralmente, in realtà ci sia un significato superiore, nascosto. Ebbene questo "significato" è proprio quello che (con altissima probabilità) ci sfugge se non viviamo nello stesso "mito di base" dell'indiano di 2500 anni fa. E il Buddha a quanto sembra non ha abbandonato la "zattera" del mito delle rinascite visto che in ogni discorso suo appare. E nemmeno il mito delle rinascite viene abbandonato per primo, visto che solo l'Arhat è libero da esse.
Perchè ho "tirato in ballo" Amitaba e i buddha cosmici? Semplice: ritengo più plausibile un Buddha "cosmico" di un Buddha in carne ed ossa perchè una mente perfetta non mi sembra possibile nell'umanità. E perchè questo probaiblmente risultò più plausibile anche ai pensatori di alcune scuole Mahayana che hanno "introdotto" quelle figure.
Citazione di: Apeiron il 18 Settembre 2017, 22:31:37 PM
Lo stesso "nirvana" proprio perchè "anatta" e "pratityasamutpada" non sono comprensibili completamente trascende la nostra comprensione.
"Nirvandva" significa "libero dagli opposti", cioè indica quello stato "tertium-Uno" nel quale gli opposti sono trascesi in quanto unificati.
http://3.bp.blogspot.com/-M-_lJ_424dg/TfR9NN8IxAI/AAAAAAAAACE/ZF5q_l3lzBs/s1600/Bosohli%2C+sec.+XVIII.jpg.
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@ Apeiron
Hai toccato tanti punti che però mi portano a considerare il tuo come un tentativo di dare un'impronta "eternalistica" alla figura del Buddha. Siddhartha Gautama, il Buddha storico, è realmente esistito, i vari stupas con reliquie fatti edificare dall'imperatore Asoka ce ne danno testimonianza. Ed è un uomo che è morto . Morto pare a causa di un'intossicazione alimentare. Niente di particolare. Una fine che poteva capitare a chiunque in quell'epoca. Quest'uomo, dopo aver praticato una terribile ascesi e seguito per anni vari asceti famosi del tempo, raggiunge un'"illuminazione", un'intuizione profonda delle cause che portano sofferenza e che costringono a far rinascere continuamente questa sofferenza, in questa e in successive forme d'esistenza, che si generano dall'attaccamento illusorio ai fenomeni condizionati e alla sconsiderata assunzione dell'io personale come entità reale, duratura e permanente. La ri-nascita nel buddhismo non può essere intesa come un mito. essa è considerata terribilmente reale, ancorchè priva di esistenza intrinseca, ma che viene continuamente in essere per il nostro continuo ri-afferrarsi alle cause che la generano.
Se pensiamo al Buddha, raffigurato seduto sotto un albero, che più tardi sarà chiamato albero della Bodhi (illuminazione), non possiamo non vederlo come un essere umano storico. Nei commentari si sottolinea questa umanità proprio per esaltare la figura dell'uomo Siddhartha. Infatti non ci sarebbe nulla di prodigioso nell'Illuminazione se fosse stato un dio. Dio o gli dèi, nelle religioni teiste, possono fare qualunque cosa con facilità . In effetti , a parer mio, una delle cose più belle riguardo al Buddha è proprio il fatto che egli sia nato, sia cresciuto e abbia raggiunto la conoscenza/saggezza attraverso i suoi sforzi come uomo , mostrandoci qual' è questa possibilità per tutti noi. Quindi diventa per noi una fonte di ispirazione che egli abbia indicato la via per giungere a questa comprensione/liberazione, se siamo disposti a compiere lo sforzo necessario ( il che non è facile ovviamente...). Gli insegnamenti buddhisti posteriori hanno perso , secondo me, questo sapore senza uguali dando rilievo all'aspetto meraviglioso,e costruendo su di esso una specie di teologia in cui il Buddha viene "divinizzato". Penso che lo stesso Siddhartha avrebbe condannato queste speculazioni.
Le opinioni e le speculazioni fanno parte delle orde di Mara ( lett. "Il distruttore") che indicano le contaminazioni. Nei templi vengono raffigurate tutte intorno al Buddha , mentre siede ai piedi dell'albero della Bodhi. Questa è una esteriorizzazione dell'ultima battaglia interiore che poi sfociò nell'Illuminazione. Questa "illuminazione" non viene concessa a Siddhartha da qualche entità superiore, ma fu il risultato dei suoi stessi sforzi. Infatti viene chiamata sambodhi, che vuol dire "illuminazione da se stessi". Però questo non sminuisce la figura del Buddha, che anzi dai buddhisti è molto più meritevole di riverenza rispetto a qualsiasi Dio, proprio perchè il suo è un conseguimento da essere umano che indica agli altri la via per fare altrettanto.
L'Illuminazione è stata descritta dal Buddha in molti modi diversi, come quando negò di possedere l'onniscienza, ossia di conoscere tutto in una sola volta, ma affermò che qualunque cosa verso cui si volga la mente illuminata può essere conosciuta. La "saggezza infinita" può essere intesa in questo modo: che tutto poteva essere conosciuto da Siddhartha, ma una parte di quella conoscenza era inutile ai fini pratici che il Dhamma si proponeva. L'Illuminazione veniva spesso descritta nei termini delle Tre Conoscenze:
-delle vite passate
-del kamma e dei suoi risultati
-dell'estinzione delle contaminazioni (asava) che sono il livello più profondo di "distorsione" nella mente.
Per un buddhista il termine "Supremo nell'universo" significa, per es., che non si può trovare in qualsiasi altro mondo un Maestro più grande del Buddha. Possono esserci altri risvegliati, altri Buddha pari a...ma non superiori. Perché il "livello" più alto di maestria è quello di aver sottomesso la brama, l'avversione e l'illusione come li aveva sottomessi Siddhartha.
La domanda che viene rivolta ad un buddhista: "Quindi tu prendi rifugio in un maestro morto più di 2.500 anni fa?" trova la sua risposta nella pratica. Più si pratica il Dhamma, l'insegnamento di Siddhartha, più il Buddha viene trovato nel proprio cuore. Se nel cuore vengono sviluppati virtù, meditazione e saggezza (sila,samadhi, prajna), in quel preciso punto vi è il Buddha. Infatti la ha ben detto:
"Chi vede il Dhamma, vede me; chi vede me vede il Dhamma. Quindi è sempre nell'esperienza diretta che si consolida, prende forma questo "rifugio". :)
Citazione di: Sariputra il 19 Settembre 2017, 00:06:50 AM
"Chi vede il Dhamma, vede me; chi vede me vede il Dhamma. Quindi è sempre nell'esperienza diretta che si consolida, prende forma questo "rifugio". :)
"Chi vede me, vede il Padre che mi ha mandato. Chi crede in me crede nel Padre". (Giovanni 12:47)
@Carlo. Riguardo al primo messaggio ti consiglio di leggere qualcosa sull'advaya, la non-dualità del buddhismo mahayana - in ogni caso anche qui c'è una "trascendenza" degli opposti ma più che unificati qui sono proprio oltrepassati in uno stato in cui essi non riescono a descrivere più nulla. Il fatto della non-separabilità "cancella" le distinzioni e quindi gli opposti vengono trascesi. Un po' come lo Zhuangzi diceva: "i saggi dei tempi antichi dicevano che non esistevano le cose. Dopo di loro altri non mettevano distinzioni fra esse" (traduzione un po' libera del capitolo 2). La "novità" rispetto al daoismo è che questo "stato" non si riferisce né ad un monismo né ad un Principio "creatore" nato prima degli opposti. Nel buddismo gli opposti vengono trattati come "concetti" (ossia mappe) non come "realtà". Il Pierinismo ( ;D ) assomiglia a queste idee ma non posso non fare il puntiglioso e fare una sana distinzione.
Riguardo al Buddha-Dhamma se mastichi un po' l'inglese: http://www.accesstoinsight.org/tipitaka/sn/sn22/sn22.087x.wlsh.html. Non sei il primo che nota la somiglianza ;D in realtà a mio giudizio mentre Buddha voleva enfatizzare che il Dhamma trascende il Buddha, Gesù al contrario voleva enfatizzare che "il Logos si è fatto carne", ossia mentre Buddha voleva fare in modo che il discepolo osservasse l'aspetto "trascendente" nel concreto Gesù voleva al contrario enfatizzare che il trascendente si è concretizzato e si è fatto "carne" (non a caso nel cristianesimo si da molta importanza all'aspetto "concreto" della vita di Gesù - specie la sua sofferenza nella Crocifissione - mentre nel buddismo si fa per così dire il movimento opposto).
@Sariputra. Sì sono consapevole di aver fatto un "pasticcio" mescolando le mie convinzioni con la filosofia buddista e ci ho fatto una figura magra ;D . Hai ragione nella tua obiezione. Tralasciando per un momento l'aspetto "mitico" a mio giudizio l'eternalismo non è compatibile col BuddhaDhamma quando si parla dell'atman. Affinché il Dhamma abbia senso è necessario che esso sia "trascendente", non a caso nella Vakkali Sutta Buddha dice: "Cosa c'è da vedere in questo vile corpo? Chi vede il Dhamma vede me; chi vede me vede il Dhamma.". Ossia la Buddhità essendo un "qualcosa" (lo so non è l'atman ma...) che è presente anche quando il Dhamma non è insegnato (vedi i "buddha privati") trascende il Buddha storico stesso, ergo la frase "cosa c'è da vedere in questo corpo?". Ebbene a mio giudizio il buddismo è sia assolutistico (il Dhamma è la Verità) e anche in un senso diverso da ogni altra tradizione (daoismo e induismo compresi) "eternalistico" in quanto siamo invitati a non "attaccarci" nemmeno al Buddha storico (come dicevo a Carlo, il Buddha con questo tipo di frasi che descrivono il Buddha e il Tathagatha vuole attirarci a vedere il "trascendente" nel concreto) ma all'aspetto "trascendente" - e inoltre dopo il Parinibbana non rinasciamo mai più - La Liberazione è eterna. Il grande vantaggio del buddismo è anche la pratica molto chiara e questo ci fa apprezzare l'insegnamento sempre di più il Dhamma stesso. Inoltre anche se non vi è un atman, mi pare molto chiaro che l'universo descritto dal materialista e dal buddista non abbiano molto in comune. E questo è il mio pensiero sul buddhismo. Non è eternalistico nel senso che non c'è nessuna "speranza" di avere un sè eterno. E su questo siamo d'accordo. Ma il come mi viene presentato di solito mi dà un'idea di una sorta di "epicureismo" più ricco, con qualche fenomeno paranormale in più. E invece nel caso buddhista c'è anche qualcosa che ha un valore intrinseco e non solo relativo: il (Pari)Nibbana. Che però è descritto dagli Udana così: "Vi è quella dimensione dove non c'è terra, né acqua, né fuoco, né vento; non vi è la dimensione dell'infinità dello spazio, né la dimensione dell'infinità della coscienza, né la dimensione del nulla, né la dimensione di 'né-percezione-né-non-percezione'; non vi è questo mondo, né un altro mondo, né sole, né luna. E lì, io dico, non vi è giungere, né andare, né rimanere; né scomparire né sorgere: non è fisso, né si evolve, senza sostegno. Questa, solo questa, è la fine della sofferenza." Sembra il Nulla/Oblio proprio perchè non c'è nulla in questo mondo a cui può essere paragonato. E questo a mio giudizio è quanto io ho capito del buddismo. Sul fatto dell'onniscienza...sì hai ragione non è possibile neanche per il Bhavagan conoscere tutto in una volta, errore mio. Ma siamo invitati a credere nella sua infallibilità. Questo è il mio pensiero sul buddhismo del Canone Pali. Se togli la trascendenza del Dhamma e della Buddhità, se togli tutte le descrizione positive del Nirvana... ottieni un nichilismo con la differenza che in questo siamo destinati a "fare più vite". E sinceramente - forse è un limite mio - ma non riesco a cogliere la differenza tra filosofie come quella di Nagarjuna e il nichilismo.
Nel messaggio di prima ho fatto un casino descrivendo anche quello che penso io. Non credo che ci siano stati davvero "uomini perfetti". Ritengo il Buddha un saggio - forse il più grande della storia - ma mi riesce molto difficile credere davvero che fosse "perfetto" sia nella moralità che nella comprensione delle cose. Su questo credo che l'aspetto mitico di cui parlavo sia molto importante. Per la Godhika Sutta:
"16. Il Beato con i monaci raggiunse la Roccia Nera su un lato dell'Isigili. Il Beato vide da lontano il corpo inerme disteso sul giaciglio del venerabile Godhika.
17. In quella circostanza un densa nebbia si muoveva verso est, poi verso ovest, poi di nuovo a sud e a nord, sopra e sotto e in tutte le direzioni.
18. Allora il Beato si rivolse ai monaci: "Monaci, vedete quella densa nebbia che si muove verso est, poi verso ovest, poi di nuovo a sud e a nord, sopra e sotto e in tutte le direzioni?" "Sì, venerabile signore."
19. "Monaci, quello è Mara il Maligno alla ricerca della coscienza di Godhika. Ma la coscienza di Godhika non è da nessuna parte, egli si è estinto." https://suttacentral.net/it/sn4.23
Sinceramente non riesco a convincermi che questo sia possibile. In matematica si ha il concetto di asintoto e di limite che può essere utile a capire queste perplessità. Posso capire che un uomo con meno attaccamenti è "più forte" ma l'uomo senza attaccamenti è qualcosa di qualitativamente diverso dall'uomo. Così come l'infinito è qualcosa di qualitativamente diverso dal finito. Così come credo che nel mondo nulla sia veramente infinito, allo stesso modo nutro forti sospetti sulla possibilità di un uomo di fare veramente un salto qualitativo del genere. Questo è il mio scetticismo, la mia visione delle cose. Così come tra una mente meno fallibile e una infallibile c'è il salto qualitativo. Questo salto qualitativo è quello che mi fa dire che il nirvana è impossibile. E non lo dico con la disperazione, lo dico semplicemente con lo scetticismo maturato negli anni.
Inoltre il buddismo in nessun testo mi ha veramente convinto che "tutte le cose sono prive di un sé (anatta)" (Dhammapada 279) anche perchè è una cosa mai dimostrata nemmeno nelle suttas. Quello che vedo è che "tutte le cose condizionate sono impermanenti "anicca", quindi "dukkha" e quindi "anatta"", ossia che l'"anatta" delle cose condizionate è conseguenza del dukkha dei condizionamenti che a sua volta è conseguenza dell'anicca. Ma "le cose incondizionate sono "anatta"" è una proposizione mai dimostrata, un dogma a mio giudizio necessario solo per dire di non essere "eternalisti" e per definire le eresie. Inoltre non vedo cosa possa c'entrare il BuddhaDhamma col fatto che il monismo sia falso che non ci sia un Principio Generatore ecc (tutte "eresie" rifiutate senza un minimo di argomentazione. Solo perchè sono tacciate con la sigla "papanca", proliferazione concettuale. O forse solo perchè il buddhismo nel tempo "voleva distinguersi"? Perchè ad esempio uno non può credere al Buddha e al Dao... ah giusto il Dao è eterno ma siccome non ci sono cose eterne perchè così è stato stabilito il Dao non esiste ::) questo non è spirito filosofico).
A differenza poi della maggioranza dei commentatori moderni ritengo che per essere "buddista" uno debba credere fino ad un certo punto (fino a che punto? non lo so) al mito.
Infine nelle sutras che ho letto non ho mai visto citato l'armonia nei fenomeni naturali che è centrale nella scienza. Quel "mistero" per cui il mondo è "comprensibile" che permette in ultima analisi la scienza. Ma anche questo a quanto pare è solo papanca.
Sul discorso dell'Amitaba credo che è nato proprio per la consapevolezza che la "perfezione" è un'ideale a cui tendere. Motivo per cui sono sorte le "dottrine" del "buddha cosmico". Nell'antichità era molto più comune di quello che pensiamo "agrapparsi" all'idea della possibilità di non solo tendere ad essere perfetti ma anche alla possibilità di diventarlo. Sinceramente ritengo che tendere alla perfezione sia giusto ma non credo che per l'uomo sia veramente possibile divenire perfetto.
Come vedi ci sono troppe cose che non mi permettono di essere buddista ma solo un ammiratore di esso. Purtroppo questo mio aspetto "ribelle" in cui "metto tutto in discussione" potrebbe costarmi parecchio... ;D
Citazione di: Apeiron il 19 Settembre 2017, 18:24:21 PM
La "novità" rispetto al daoismo è che questo "stato" non si riferisce né ad un monismo né ad un Principio "creatore" nato prima degli opposti. Nel buddismo gli opposti vengono trattati come "concetti" (ossia mappe) non come "realtà".
Infatti, il limite del buddhismo è proprio questo: l'aver trascurato il fatto che le opposizioni nel mondo reale sono anch'esse reali e che se non si è in grado di armonizzarle-complementarle in una unità superiore, esse degenerano in dualismi cruenti e distruttivi.Una trascuratezza, questa, che in un certo senso rende il buddhismo complice dei dualismi maligni di cui sopra, più che la loro cura.ACQUARIUSIl Pierinismo ( ;D ) assomiglia a queste idee ma non posso non fare il puntiglioso e fare una sana distinzione.
Riguardo al Buddha-Dhamma se mastichi un po' l'inglese: http://www.accesstoinsight.org/tipitaka/sn/sn22/sn22.087x.wlsh.html. Non sei il primo che nota la somiglianza ;D in realtà a mio giudizio mentre Buddha voleva enfatizzare che il Dhamma trascende il Buddha, Gesù al contrario voleva enfatizzare che "il Logos si è fatto carne", ossia mentre Buddha voleva fare in modo che il discepolo osservasse l'aspetto "trascendente" nel concreto Gesù voleva al contrario enfatizzare che il trascendente si è concretizzato e si è fatto "carne" (non a caso nel cristianesimo si da molta importanza all'aspetto "concreto" della vita di Gesù - specie la sua sofferenza nella Crocifissione - mentre nel buddismo si fa per così dire il movimento opposto).
CARLOIntanto, non mi sembra così netta la trascendenza del Dhamma laddove si dice "Chi vede me, vede il Dhamma", o, almeno, non più netta di quanto il Verbo Divino trascenda il Verbo incarnato Cristo.In secondo luogo, l'interpretazione letterale dell'"Incarnazione", cioè, l'identificazione di Gesù con un uomo storico (invece che con un simbolo mandato da Dio) è solo un estremismo dell'esegesi cristiana che sconfina nell'idolatria, mentre in realtà il mito cristiano (il Vangelo) allude chiaramente ad una incarnazione del Verbo divino nel verbo umano. Quindi non si tratta solo di una vaga rassomiglianza tra Gesù e Buddha, ma di un medesimo significato superiore che si esprime in due figure simboliche storicamente e geograficamente distinte, come accade per moltissimi altri archetipi. A questo proposito è molto interessante quanto osserva Guénon sulle analogie tra i simboli di Mercurio (anch'egli "messaggero del verbo divino"), di Cristo e del Buddha:"In India, il pianeta Mercurio (o Ermete) è denominato Budha, parola la cui radice significa propriamente la Saggezza; anche in questo caso, è sufficiente determinare l'ordine in cui questa Saggezza, che nella sua essenza è il principio ispiratore di ogni conoscenza, deve trovare la sua applicazione più particolare, quando essa è rapportata a questa funzione specializzata (*non bisogna confondere il nome Budha con quello di Buddha [...], benché entrambi abbiano evidentemente il medesimo significato radicale e benché poi taluni attributi del Budha planetario siano stati trasferiti successivamente al Buddha storico, raffigurandosi quest'ultimo come «illuminato» dalla irradiazione di questo astro, di cui avrebbe, in qualche modo, assorbito l'essenza in sé. A tale proposito, notiamo che la madre di Buddha è denominata Mâyâ-Dêvî e che, presso i Greci e i Latini, Maia era anche la madre di Ermete o di Mercurio [e Maria la madre di Cristo: vedere la prossima *nota, pg.113]). A proposito del nome Budha, c'è poi un fatto curioso da segnalare: esso in realtà è identico a quello dello scandinavo Odino, Woden o Wotan (*si sa che Ia trasformazione della b in v o in w è un fenomeno Iinguistico frequentissimo.); i Romani dunque non assimilarono arbitrariamente quest'ultimo al loro Mercurio, e d'altronde, nelle lingue germaniche, il mercoledi, o giorno di Mercurio, è ancora oggi designato come il giorno di Odino. Forse ancor più degno di nota è il fatto che questo stesso nome si ritrova esattamente nel Votan delle antiche tradizioni dell'America centrale; questo del resto ha i medesimi attributi di Ermete: infatti è Quetzalcohuatl, l'«uccello-serpente», e l'unione di questi due animali simbolici viene rappresentata anche dalle ali e dalle serpi del caduceo. Bisognerebbe essere ciechi per non vedere in fatti del genere un segno dell'unità di fondo di tutte le dottrine tradizionali" [R. GUÉNON: Forme tradizionali e cicli cosmici - pp.110-11]"Nell'angeologia ebraica, Mikael è l'angelo del Sole e Raphael l'angelo di Mercurio, ma accade talvolta che i ruoli si invertano. D'altronde, se Mikael, in quanto rappresentante del Metatron solare, è assimilato esotericamente al Cristo, Raphael, conformemente al significato del suo nome, è il «divino guaritore», e il Cristo viene visto anche come «guaritore spirituale» e come «riparatore»; del resto, si potrebbero trovare ancora altre correlazioni fra il Cristo e il principio rappresentato da Mercurio fra le sfere planetarie (*Ricorderemo, a titolo di curiosità, che il mese di maggio deriva il suo nome da Maia, madre di Mercurio (che è detta essere una delle Pleiadi), alla quale era anticamente consacrato; ora, nel Cristianesimo, è divenuto il mese di Maria», con un'assimilazione certo non solo fonetica fra Maria e Maia). Per la verità, presso i Greci la medicina era attribuita ad Apollo, cioè al principio solare, e a suo figlio Asklepios (trasformato in Esculapio dai Latini); ma, nei «libri ermetici», Asklepios diventa figlio di Ermete; si noti poi che il bastone che costituisce il suo attributo ha stretti rapporti simbolici con il caduceo. L'esempio della medicina permette allora di comprendere come una medesima scienza possa avere degli aspetti che si riferiscono in realtà a differenti ordini, dal che derivano corrispondenze ugualmente differenti, anche se gli effetti che si producono all'esterno sono apparentemente simili, poiché vi è la medicina puramente spirituale o «teurgica», e vi è la medicina ermetica o «spagirica». Tutto questo, è in rapporto diretto con la questione che stiamo considerando; e forse un giorno spiegheremo perché la medicina, dal punto di vista tradizionale, era ritenuta essenzialmente una scienza sacerdotale". [R. GUÉNON: Forme tradizionali e cicli cosmici - pp.112-13] L'angolo musicale:
MOZART: Conc. piano 17 K453 III
https://youtu.be/0xzvFxW5kR0?t=1381
@Apeiron
Bisognerebbe intendere il buddhismo come una specie di coniglio. Come fai a tenere fermo un coniglio? Lo afferri per le orecchie...Ecco, le orecchie del coniglio rappresentano il Dhamma. Se afferri il Dhamma tieni ferma l'intera speculazione costruita su questi. Quindi, avendo ben chiaro che si tratta di "una manciata di foglie" l'Insegnamento e che dopottutto si tratta solo del dolore, della sua causa e dalla sua cessazione, domande metafisiche classiche come "Esiste un Principio originario?", "Il mondo è eterno oppure no?" non sono rilevanti per la pratica tesa al fine della liberazione dal dolore. Quindi cosa risponde Siddhartha a tutti quelli che gli oppongono le loro opinioni, i loro dubbi, le loro domande metafisiche? Se ne sta in silenzio!...Ma è un silenzio "assordante", perché invita a rientrare in sé, a spostare il fuoco dell'attenzione. "Sauron" non spazia più con l'occhio per la Terra di mezzo, ma si osserva... ;D
Nella pratica il Dhamma buddhista potrebbe risolversi in questo: osservare la propria mente con attenzione e consapevolezza. Ma ovviamente non è tutto qui perché, per arrivare a questa osservazione in modo proficuo, ci si deve agganciare ad una condotta di vita morale ( e qui inizia il discorso religioso...), e la consapevolezza non può che sostenersi con la saggezza ( satipanna), tanto che le due cose non possono che andare avanti insieme. Scrivi:
Posso capire che un uomo con meno attaccamenti è "più forte" ma l'uomo senza attaccamenti è qualcosa di qualitativamente diverso dall'uomo. Così come l'infinito è qualcosa di qualitativamente diverso dal finito.
L'uomo con meno attaccamenti non è più "forte", semmai è più libero di un uomo pieno d'attaccamenti ai fenomeni condizionati. La natura di ambedue è uguale. In ognuno risiede la possibilità di liberarsi dall'attaccamento. La natura priva d'attaccamento ( di contaminazioni) viene vista nel buddhismo come la condizione naturale della mente, mentre l'attaccamento è una forma di distorsione di questa qualità naturale, limpida della mente. Perché allora ci attacchiamo? La risposta che dà Siddhartha, che crede di aver trovato, è che ci attacchiamo a causa del desiderio ( di possesso, di esistere, di ri-esistere, di non-esistere, di piacere, ecc.). Anche il dubbio stesso viene visto come una forma di attaccamento, perché si dubita di tutto perché non si vuol arrivare a mettere in discussione il proprio desiderio, al quale si è tenacemente aggrappati per timore di "sprofondare" nella noia, per non osservare la propria fragilità e impermanenza. Naturalmente , se non si lascia andare l'attaccamento al dubbio ( che non significa diventare delle persone acritiche...) , se non si "apre la mano", si finisce per soffrire di tutto questo dubitare; non troviamo alcuna pace nel dubitare continuo...( problema che riguarda tutti noi, perché il dubbio in un certo senso è anch'esso una componente naturale della mente, che fa della sua stessa distorsione un elemento sul quale fare "sostegno", in mancanza di una chiara comprensione...il dubbio te lo ritrovi sempre durante il cammino , per chi segue questo sentiero, è l'ultimo baluardo di Mara :P ).
Inoltre non vedo cosa possa c'entrare il BuddhaDhamma col fatto che il monismo sia falso che non ci sia un Principio Generatore ecc (tutte "eresie" rifiutate senza un minimo di argomentazione. Solo perchè sono tacciate con la sigla "papanca", proliferazione concettuale. O forse solo perchè il buddhismo nel tempo "voleva distinguersi"? Perchè ad esempio uno non può credere al Buddha e al Dao... ah giusto il Dao è eterno ma siccome non ci sono cose eterne perchè così è stato stabilito il Dao non esiste (https://www.riflessioni.it/logos/Smileys/default/rolleyes.gif) questo non è spirito filosofico).
Il buddhismo rifiuta ogni forma di eternalismo che consista nel credere in una sostanza o entità permanente, sia essa concepita come una moltitudine di anime o di identità personali, create o meno, o come una monistica "anima del mondo", o come una divinità di qualsiasi tipo, o una combinazione di tutte queste. Nel Samyutta Nikaya troviamo questo discorso :
"Questo mondo solitamente dipende da un dualismo: dal credere nell'esistenza o non-esistenza...Evitando questi due estremi, il Perfetto espone la dottrina di mezzo: le formazioni kammiche dipendono dall'ignoranza...Al cessare dell'ignoranza , le formazioni kammiche cessano..."
I due termini esistenza (atthita) e non-esistenza (natthita) indicano la dualità imprigionante il pensiero nella visione buddhista. Questi due termini alludono alle teorie dell'eternalismo e del nichilismo, le fondamentali concezioni errrate della realtà secondo Siddhartha. Questi due punti divista concordano nel presumere qualcosa di statico, che può essere di natura permanente o impermanente. Il Buddha invece ritiene che la realtà, nella su vera natura, sia un flusso continuo di processi materiali e mentali che si manifestano a causa di condizioni appropriate. questo processo cesserà solo quando queste condizioni verranno a cessare.
Insondabile è l'inizio di questo flusso, ma non si può ritenere eterno perchè, in mancanza di condizioni (materiali e mentali) appropriate , verrà a cessare. La cessazione di questo flusso nell'individuo è il Nibbana, l'estinzione delle formazioni karmiche che lo alimentano. L'elemento del Nibbana "trascende" questo flusso ma, per non farlo ricadere all'interno delle due concezioni ritenute errate, lo si definisce solo in negativo: non-nato, non-divenuto, non-composto, ecc.
La produzione condizionata (paticcasamuppada), essendo un processo ininterrotto, esclude la credenza in una inesistenza assoluta, o nulla, al termine dell'esistenza individuale, mentre la cessazione condizionata esclude la credenza in un'esistenza assoluta e permanente. Agganciandosi alla pratica questi due stati indicano il sorgere e il cessare di ogni fenomeno ( materiale e mentale) di cui si può far esperienza.
Il buddhismo vede anche delle radici emotive profonde che alimentano l'idea dell'eternalismo e del nichilismo, degli atteggiamenti fondamentali nei confronti della vita. Propendere per l'una o per l'altra può riflettere gli stati d'animo dell'ottimismo o del pessimismo, della speranza o della disperazione, del desiderio di sentirsi "sicuri" trovando un sostegno metafisico, oppure dal desiderio di vivere senza restrizioni in un universo concepito materialisticamente.
Pertanto l'individuo, nel corso della vita, può cambiare spesso i punti di vista teorici dell'eternalismo e del nichilismo, in relazione ai corrispondenti stati d'animo o bisogni emotivi.
Il Nibbana non può essere oggetto di speculazione teorica. Queste speculazioni sulla sua natura sono viste come "futili" o persino di ostacolo allo sforzo rivolto alla realizzazione di questo stato. La Terza Verità del buddhismo deve essere realizzata: non deve essere capita ( come la Prima), né sviluppata ( come la Quarta).
Il Nibbana è così elusivo al ragionamento che gli stessi autori buddhisti, molto spesso, non seppero evitare una visione parziale e limitata. I Sautantrika, per es., avevano una concezione negativa, mentre le visioni mahayana delle "Terre di Buddha", del Buddha Primordiale, del Tathagatagarbha, ecc. favorivano un'interpretazione positiva e metafisica.
Non dovremmo però intenderle come dogmi, come affermazioni arbitrarie e non argomentate, ma come degli "indicatori", delle frecce che indicano una via da realizzare... :)
Penso che sia un pò limitante valutare una religione solo approfondendo la sua componente filosofica, soprattutto se non si compie un eguale sforzo verso la sua componente pratica. Sarebbe come studiare la teologia cristiana e non perdere un attimo di tempo per aiutare un sofferente. La possiamo veramente capire?... :(
P.S. Apeiron, conosci indubbiamente in profondità la filosofia buddhista ma non ti senti di definirti un buddhista. Io penso che, per noi occidentali, sia veramente difficile definirsi, se non un pò folkloristicamente come dei "buddhisti", in quanto, come giustamente osservi, bisogna in un certo senso abbarcciare anche il retroterra culturale che lo differenzia in tante scuole anche così diverse fra loro. Quindi anche l'importanza, all'interno delle varie tradizioni, del mito popolare sviluppatosi sopra. Per me, per esempio, ho trovato che una parziale definizione ( al netto che io odio le definizioni...) potrebbe essere "ispirato dal Dhamma"... ;D
P.S.II Le affinità tra buddhismo ed epicureismo ci sono, e sono pure notevoli. Ma ci sono pure molte cose che li differenziano. Sarebbe interessante aprire una discussione sul confronto tra i due sistemi...
@Carlo: sì in questi ultimi post mi sono messo a sottolineare la componente mitica. Certamente tu da questo punto di vista ne sai più di me e mi sono piaciuti i tuoi contributi (Anche su Maia e Maria - a volte comincio a pensare che l'assonanza linguistica sia per così dire indice di una connessione profonda... il problema è che anche l'apofenia a volte fa brutti scherzi :P ovviamente sono d'accordo con te che i miti di base si somigliano e anche parecchio. Pensa che in Cina sono riusciti a ritenere che Laozi era una sorta di incarnazione del Dao stesso, anche se una cosa del genere non è nemmeno accennata nei primi scritti "daoisti", motivi per cui sono scettico dell'esistenza di una religione daoista... ma questo fa notare come una "sorta di incarnazione dell'Assoluto" in realtà è un "archetipo", per usare parole jughiane, molto diffuso). In ogni caso sulla questione del Logos incarnato... sì puoi dire che l'insegnamento "a parole" del Buddha è il "Dhamma nel Logos umano" ma mentre l'idea buddista è quella di "oltre-passare" la condizione umana nel caso del cristianesimo l'idea a mio giudizio è quasi opposta, ossia che la vita "carnale" è molto importante tant'è che Dio stesso si è incarnato. Ovviamente sul fatto che ci sia una somiglianza tra "chi vede il Dhamma vede me (e viceversa)" e "chi vede me vede il Padre" ed espressioni simili trovate nelle scritture su Krsna è innegabile: l'idea è che in qualche modo l'Assoluto sia per così dire "a contatto" col relativo, il Perfetto è a contatto con l'imperfetto ecc. Su queste idee la mia personale filosofia si trova d'accordo proprio perchè ritengo, come scritto più o meno qui https://www.riflessioni.it/logos/tematiche-filosofiche-5/ateismo-e-proiezione-umana-di-dio/, che l'Assoluto è qualcosa per cui possiamo avere un qualche tipo di relazione almeno dal punto di vista contemplativo (come oggetto di meditazione o come oggetto di contemplazione "apofatica"). Ti consiglio di leggerti qualcosa sulla scuola Huayen del buddismo cinese (il concetto di "interpenetrazione tra Assoluto e Relativo").
@Sariputra, ti ringrazio della pazienza e del chiaro contributo ma come puoi immaginare la "mia mente di scimmia" (come direbbe un maestro Zen mentre mi bacchetta ;D ), quella mia tendenza a "mettere in discussione tutto" ovviamente ha qualcosa da dire. Il problema è che il concetto di "eternalismo" secondo me è riferito al sé, ossia è un concetto non-metafisico. Quando il buddhismo nega l'eternalismo non mi sembra intenzionato a negare una Sostanza "metafisica", ossia il Dhamma mi pare essere uno studio incredibilmente accurato della mente. Ergo: l'anatta non mi pare una negazione dell'esistenza di un Essere quanto invece uno stato della mente, ossia quando smette di "avere un senso del sé" (cosa che fin qui accomuna il buddhismo con altre tradizioni). Leggo "ogni cosa condizionata è anicca, quindi è dukkha, quindi è anatta" e leggo che "le cose condizionate sono formate dagli aggregati" e leggo "chiunque abbia formulato una teoria concernente l'esistenza di un atta ha identificato il sé con uno dei cinque aggregati, ossia con qualcosa di condizionato". Viceversa Buddha cercò e trovò stando alle suttas, sutras e alle scuole l'elemento "incondizionato". Sankhara nella sua Advaita riconobbe che il mondo "relativo" è anicca, dukkha e anatta ma disse che l'incondizionato è "Sé" polemizzando con i buddhisti perchè l'induismo aveva come primo assioma l'esistenza del sé. Ora quando io confronto i due sistemi mi sembra di trovare un equivoco abbastanza assurdo: il Nibbana è incondizionato e "senza sé" mentre Nirguna Brahman è incondizionato ma è "un sé". Gli Advaitin poi affermano che il "saggio" è "senza senso del sé". Zhuangzi ci dice che "l'uomo perfetto (quando si accorda al Dao) è senza sé". Sarà la mia apofenia (la tendenza a riconoscere schemi nelle cose - che può essere anche erronea ovviamente) ma a mio giudizio tutte queste tradizioni puntano ad una analoga (non "uguale" ma "analoga") "verità ultima", seppur per vie differenti.* Ora il rigetto di ogni forma di eternalismo "metafisico" a me sembra fuori tema, anche perchè quando gli fu chiesto a Buddha "il cosmo è perpetuo (più che "eterno", preferirsco "perpetuo")?", lui non rispose. Mentre infatti la dottrina delle rinascite volendo può essere riferita solo ad una verità della mente ben diverso è fare affermazioni su "qualcosa di esterno" e coerentemente non ne ha fatte. Quello che non mi convince in sostanza è che proprio l'uso indiscriminato della "teoria dell'anatta". Stando ad essa gli Sautatrinka hanno ragione (e la cosa per me è inacettabile, come posso ritenere che il Nulla sia qualcosa a cui portare riverenza e dare importanza?): "tutto il contenuto dell'esperienza, una volta abbandonato, diverrà freddo: rimangono solo i resti corporali" - i Sautantrika erano per così dire epicurei proprio perchè negavano l'esistenza di qualcosa di trascendente, oltre i cinque aggregati. Ma la Sautratrinka mi sembra qualcosa di molto banale (e chi attira se non i devoti del Nulla? Schopenhauer a confronto era un ottimista ;D ), non posso inginocchiarmi, non posso ritenere l'obbiettivo dei Sautrantrika una "resa che è una vittoria" bensì solo una "resa". E ahimé dal punto di vista logico i Sautratrinka sono impeccabili perchè d'altronde "tutto si raffredda, rimangono solo i resti corporali", loro d'altronde erano ben chiari sul fatto che un Assolutismo fondato solo su una Verità Assoluta (il Dhamma) senza un Assoluto "reale-sostanziale" non può essere nient'altro che un nichilsimo metafisico - ossia se la Realtà Ultima non è "qualcosa" allora è "niente" e dire che è "oltre ogni descrizione" è dire che è "qualcosa" e non una "via di mezzo". I Sautrantrika hanno una filosofia dal punto di vista logico compatibile con la filosofia esposta nelle suttas fintantoché ritieni come "espressioni per rendere il Dhamma invitante" la descrizione positiva del (Pari-)Nibbana. Questo a mio giudizio fu l'errore di tale scuola ma non posso "provare" di aver ragione, purtroppo è solo una questione quasi di "fede" dovuta alla mia personale esperienza di vita. Per il resto sono d'accordo con te e infatti mi rendo conto di non capirci nulla di buddhismo, nonostante i miei studi. L'elemento del Nibbana lo ritengo l'assoluto "reale" più "rigoroso" di ogni altra tradizione proprio perchè Buddha non lo descrive mai, è puro "apofatismo" (su quanta differenza ci sia tra questo apofatismo completo e la posizione Sautratrinka non ne ho idea. Ma piuttosto della filosofia Sautratrinaka preferisco la filosofia dell'"eterna Citta", della "Mente" del Lankavatara e dello Zen ecc o addirittura del "vero Sé" di qualche scuola, ossia piuttosto una descrizione "positiva" del Nibbana non deducibile espressamente dalle parole scritte nel Canone Pali). E inoltre non riesco a dire se il buddhismo è "superiore" alle scuole "simili" indù e a certi "aspetti" del daoismo. Non lo so.
Riguardo al dubbio ritengo che qui come giustamente tu dici della teologia cristiana si rischia di dimenticarsi che si vive :-[ . Ma proprio per questo quel salto qualitativo mi sembra ahimé impossibile (sarà un problema mio?). Posso essere meno attaccato (ho scritto "più forte" tra virgolette proprio perchè non intendevo "forte". Non mi veniva la parola giusta, ritengo che "più libero" dia ugualmente l'idea) ma essere senza attaccamenti? :-[ non mi sembra "qualcosa di umano", mi sembra un ideale a cui tendere: la suprema purezza, la suprema perfezione ecc. Mi chiedo: alcuni sono impossibilitati (almeno in questa vita)secondo il buddhismo a raggiungere l'Illuminazione, a realizzare la Terza (Nobile) Verità? Lo chiedo perchè almeno per quanto mi riguarda, mi sembra davvero impossibile (per ragioni che spiego subito) come obbiettivo (ok mi rendo conto che il "pensiero dell'io" ;D ). Mi sembra come essere convinti che si possa pensare l'infinito. Mi sembra qualcosa di "oltre" (Oracolo di Delfi: "conosci te stesso", "pensa come un mortale" ecc l'essere "senza attaccamenti" mi sembra un salto qualitativo irrealizzabile - o forse lo è solo per i nostri tempi di degradazione del Dhamma ;D ? come la consapevolezza delle proprie debolezze e limitazioni è compatibile con una tale eventualità?)
*[FUORI TEMA: Ben diversi sono gli approcci bhakti (devozionali) - presenti tra l'altro in certe forme di buddhismo - che si fondano sull'esistenza dell'Assoluto Personale con cui puoi avere una relazione "di amore e devozione" (e ci metto anche le tradizioni abramtiche), nelle quali il "senso del sé" non viene "eliminato" bensì "trasformato" (e quindi in un certo senso "eliminato"). D'altronde l'immortalità dell'atman (jiva-atman) individuale sembra "garantita" solo in presenza di un Dio Personale...]
P.S. Per definirmi ho fatto un tentativo: ho scritto di essere un misto (ossia né carne né pesce :( ) tra Pirrone (il "fallibilismo") e Platone (l'esistenza di qualcosa che è il Massimo Valore, simile alla Forma del Bene) - ma so che entrambi si rivoltano nella tomba dopo aver letto questo ;D . Ma anche "ispirato dal Dhamma" (ma non solo) va bene
@Apeiron
Nessuna pazienza da parte mia,, anzi...è molto utile scambiare le nostre opinioni sul Buddhismo anche per il sottoscritto. Lo costringe a ritrovare , nella memoria, un filo di ricordi che rischia sempre di logorarsi, o di spezzarsi addirittura. Ci fu un tempo in cui Sari...beh!Lasciamo perdere... :D
Le difficoltà d'interpretazione del Nibbana non ci devono demoralizzare. Essendo una cosa che va realizzata e non "capita" intellettualmente, concettualmente, è inevitabile che, al momento di tentare di descriverla per concetti, si vada incontri a interpretazioni non omogenee. Ma sembra più un problema della concettualizzazione, dell'idea che ci siamo fatti del Nibbana che non del Nibbana in sé.
Se poi pensi che, dopo 2.500 anni, ci sono ancora differenze di visione tra gli stessi buddhisti, è assolutamente normale che ve ne siano anche tra noi, che magari non abbiamo nemmeno praticato tanto come loro il Dhamma. Quello che so è che, a tutt'oggi, non ci sono scuole e tradizioni buddhiste che abbiano un'interpretazione negativa del Nibbana. L'annientamento totale, il nichilismo, non è accettato da nessuna di queste ( anche se , a volte, alcune traduzioni che arrivano in Occidente sembrerebbero "tirare" da quella parte...ma io mi fido del parere del grande Nyanaponika Mahathera al riguardo... ;) ).
Il Nibbana non è "niente" , ma non è nemmeno "qualcosa". Quando si afferma questo è come un tentativo di trascendere il dualismo tipico della mente umana: qualcosa-niente, soggetto-oggetto, ecc.
Come si fa a definire correttamente come "qualcosa" uno stato da realizzare che trascende il linguaggio? Allo stesso tempo come si fa a definirlo "niente", visto che c'è, che si realizza? Se lo si definiva come "qualcosa" si rischiava di "entificarlo", come "niente" si cadeva nell'estremo del nichilismo. Purtroppo il Nibbana sfugge ad ogni definizione che possiamo dargli usando i mezzi limitati del linguaggio umano. Il Nibbana si realizza, ne possiamo fare esperienza. Quando brama, odio e illusione sono sradicate...eccolo realizzarsi, è lì, c'è sempre stato. Se lo vediamo "fuori" non lo troviamo. E' in questo corpo ( alto cinque piedi, ecc.) che c'è il sorgere del dolore e il suo svanire , la Cessazione ( Cessazione è un termine bellissimo se ci pensi, nel Buddhismo non viene mai inteso, come da noi, in senso negativo ma è...la cessazione del dolore e il risveglio alla nostra vera natura, al Nibbana...).
Quando Siddhartha si è trovato sull'orlo della morte, per la durissima, inumana ascesi. Spossato nel corpo e nella mente, disperato per constatare che gli enormi sforzi fatti lungo sette anni non l'avevano portato a superare il dolore...è una bella immagine che ho trovato in un testo di Thich Nhat Hanh...si trova sul punto di gettare la spugna. L'impresa sembra impossibile. Quando...osservando un giovane pastore di bufali che stava facendo abbeverare gli animali al fiume, ha un'intuizione che è un ricordo. Si ricorda che, una volta, mentre stava osservando i contadini al lavoro nei campi, sotto l'ombra di un albero, aveva provato una pace senza parole, una calma consapevolezza della mente, un riposo fuori dal tempo si potrebbe dire...allora pensa:"Quello stato che provavo era privo di dolore, c'era serenità e gioia in me, non vi era traccia di brama, odio e illusione"...ecco l'intuizione fondamentale che lo porterà alla Bodhi. Il Nibbana è sempre con me, devo solo "togliere", non "aggiungere". Ecco il Dhamma del non-attaccamento, del non-aggiungere ( altra brama, altro odio, altra illusione...). Se pensiamo che il Nibbana è qualcosa di mostruosamente "trascendente" saremo solo impauriti, presumiamo di non essere all'altezza, di essere troppo limitati, imperfetti, condizionati dalle cose. Ma se invece lo sentiamo in noi le cose cambiano, forse si comincia a "vedere"... ( e poi si fa sera, e la pioggia cade, e riposiamo nel suo lento tintinnare ...). :)
Grazie ancora Sariputra ;)
Il problema in genere degli Assoluti è che essi sono al tempo stesso "conoscibili" e "non conoscibili". Questo è un problema perchè ci costringe al tempo stesso di parlarne ma evidenziare che le nostre parole non sono altro che un "andare a tentoni". Eppure è l'unico modo per "far capire" questi "(psuedo)-concetti" a noi poveri esseri ingabbiati da Mara :( . Un punto a favore del buddismo potrebbe essere, per assurdo, il fatto che non è per niente comprensibile dall'uomo mentre in genere nelle altre tradizioni l'Assoluto ha sempre una qualche "narrativa" associate: la Sorgente delle Cose, "Dio creò" ecc. Tutto questo nel buddismo non c'è eppure nel buddismo le descrizioni positive del Nibbana sono: "il Rifugio", "l'Oltre", "la Pace" ecc ossia tutti termini presenti anche altrove [E la Pace come tu mi fai notare è la Cessazione, così come quando bevo smetto di avere sete]. Sulla parte destruens il buddismo è qualcosa di estremamente rigoroso e severo: ogni metafisica viene analizzata e rifiutata con una "violenza" (lasciami usare questo termine) unica. L'apofatismo d'altronde è proprio questo: mostrare che i concetti che noi utilizziamo sono dopotutto insufficienti. Tuttavia il problema dell'apofatismo è che rischia di esagerare: non "capirò" mai l'infinito matematico eppure lo uso tutti i giorni nei miei conti - devo per così dire considerarlo come un "numero" anche se come numero è diverso da tutti gli altri. Allo stesso modo il sospetto che mi viene è che utilizzare una "visione" così "rigorista" del Nibbana, ossia rifiutare ogni "concettualizzazione" (ossia ogni "narrativa" - il "Dao" per esempio pur essendo "ineffabile" ci viene detto qualcosa, anche se ovviamente nemmeno quello che ci viene detto esaurisce il Dao...) perchè è una "realtà troppo trascendente" finisce per perdere la concretezza che lo stesso buddismo sostiene di utilizzare. Così ad esempio se uno mi chiede "cos'è il Nibbana?" probabilmente gli risponderò è "la Natura di Buddha, un "qualcosa" che è diverso da ogni "qualcosa"". Se gli rispondo quello che dici tu, credo, l'effetto non sarebbe troppo diverso. Il problema di togliere la "metafisica", la "realtà" dietro ai concetti è che anche il Dhamma, per assurdo, rischia di divenire qualcosa di astratto. Togliere "ogni narrativa" finisce per allontanarci da queste "realtà" trascendenti ancora di più. Motivo per cui sono personalmente convinto che l'anatta sia una "guida per la pratica" più che un'affermazione sulla realtà - ossia un "upaya", un mezzo per progredire nella meditazione, come potrebbero affermare i Mahayana. Perchè dire che "anatta= negazione dell'esistenza del sé" è a mio giudizio non molto diverso che parlare del'atta. Se io chiamo la "Mente del Buddha" "atta/atman/"vero io"" in fin dei conti finisco per usare una parola "atta" diversa da "Mente del Buddha". Il risultato è però lo stesso - o almeno a me pare così. La veemenza con cui storicamente sono stati malvisti coloro che parlavano di "vero io" secondo me è infondata - così come la veemenza di chi critica il buddismo per l'anatta è infondata. Personalmente ritengo Buddha "più vicino" alla filosofia Vedanta rispetto per esempio all'epicureismo. Mentre per esempio la filosofia Vedanta riesce a darmi l'idea di una filosofia contemplativa (la bellezza, l'ordine, l'armonia delle cose per esempio...) l'epicureismo mi sembra una "filosofia pratica" per chi non è ancora disposto a "contemplare".
Sul discorso che dici tu sul fatto che il Nibbana è "troppo trascendente": sì il rischio è un allontanamento ancora maggiore, il rischio è quello di non essere più smossi. Ma per esperienza personale mi sembra di vedere che chi più fa introspezione più è consapevole dei propri limiti e quindi è consapevole di quanto sia distante dalla "perfezione". Ora non so dire se è perchè manca l'allenamento, perchè ormai la capacità di recepire il Dhamma è diminuita, se è perchè non siamo inseriti nel mito o se è perchè il Buddha - inteso come essere infallibile e non come "persona storica" - è una leggenda e Siddharta Gotama, l'uomo in carne ed ossa, in realtà è stato preso come "modello". Non lo so.
Sul rapporto buddismo-scienza qui sinceramente vedo una sorta di "incompatibilità" che mi suggerisce che forse il Buddha storico quando parlava di anatta ecc probabilmente parlava di tecniche meditative più che di vere e proprie "affermazioni sulla realtà". Infatti secondo (per esempio) Einstein:
La cosa più lontana dalla nostra esperienza è ciò che è misterioso. È l'emozione fondamentale accanto alla culla della vera arte e della vera scienza. Chi non lo conosce e non è più in grado di meravigliarsi, e non prova più stupore, è come morto, una candela spenta da un soffio. Fu l'esperienza del mistero – seppure mista alla paura – che generò la religione. Sapere dell'esistenza di qualcosa che non possiamo penetrare, sapere della manifestazione della ragione più profonda e della più radiosa bellezza, accessibili alla nostra ragione solo nelle forme più elementari
A me basta il mistero dell'eternità della vita e la vaga idea della meravigliosa struttura della realtà, insieme allo sforzo individuale per comprendere un frammento, anche il più piccino, della ragione che si manifesta nella natura.
Potremmo dire che «l'eterno mistero del mondo è la sua comprensibilità»
Ora mentre posso aspettarmi che per esempio un vedantino o un platonista possano essere d'accordo con queste frasi. Non riesco però a immaginarmi come questo tipo di riflessioni possano essere apprezzate in un contesto buddista. A me le suttas sembrano proprio ignorare la questione del fatto che il mondo appare come ordinato, regolare ecc. E almeno io non riesco a notare quel "senso di mistero" che "ci scalda i cuori" di cui anche Einstein parlava. Anche riflessioni come queste personalmente mi rendono difficile l'allontanamento da un qualche tipo di "eternalismo". Maledetto dubbio ;D Sari, ti chiedo, conosci se qualche scritto buddista parla della "comprensibilità del mondo"?
@Apeiron
Uno dei motivi, a mio parere, della differenza che si pone tra la realizzazione del Nibbana e la moksa nel Brahman è nel punto iniziale ( l'atman individuale come entità sostanziale/reale è negato nel buddhismo dalla concezione onnipervadente dell'impermanenza-anicca). Il buddhismo nega l'esistenza intrinseca di ogni cosa, pertanto la critica dei sistemi atta è radicale. La natura di buddha è la vacuità e il Nibbana è il supremo vuoto (Nibbanam paramam sunnam-Il Nibbana è il supremo vuoto/ Nibbanam paramam sukham-Il Nibbana è la suprema gioia). Nei testi il Buddha insegna a vedere il mondo come vuoto: "Vedete il mondo come vuoto. Se sarete consapevoli della natura vuota del mondo, la morte non vi troverà". Questa frase si potrebbe anche intendere come:"Chi vede il mondo come vuoto si pone al di là del potere di dukkha, della sofferenza, che ha il suo prnicipale rappresentante nella morte". Questo lascia intendere, secondo me, che il vedere il mondo come vuoto fa sì che questo stesso vuoto si riveli la cosa più "alta". Se il Nibbana, l'estinzione totale di dukkha, è identico al supremo vuoto, ne consegue che c'è un vuoto non supremo, un vuoto imperfetto per così dire, incompleto, non totale. In questa incompletezza si insinua l'idea del "Vero sé" advaita, che "profuma" ancora , non so se il termine va bene, di senso ancorchè sublimato, raffinato, dell'Io/Mio, ossia del costruttore della casa del dolore, l'architetto del dukkha. Se non viene reciso l'Io/mio alla radice, attraverso la pratica del Nobile sentiero, ma anzi lo si ritiene il nucleo più essenziale, ciò che è vero, all'interno di noi, è evidente che questa "fusione" dell'atman nel Brahman è una finzione dell'Io/mio, un modo raffinatissimo di sublimarla. L'Io/mio, a mio vedere, è disposto a salvarsi mettendo in campo un'astuto artifizio concettuale: ossia si sdoppia. Da una parte si toglie realtà all'aspetto più esteriore, l'ego, ma dall'altra questo serve a rafforzare il senso interno di essere-qualcosa di duraturo, non soggetto all'impermanenza. Nel supremo vuoto buddhista, nel Nibbana, non c'è traccia di alcun sé; di nessuno "vero sé" e di nessun "falso sé" o di qualcosa appartenente al sé.
Quando però si dice che il Nibbana è la suprema felicità sorge ovviamente la domanda : ma chi la percepisce se nel nibbana non c'è alcun senso dell'Io/mio , del sè? Bisogna andarci cauti quando si usa il termine felicità o gioia perché si salta subito alle conclusione: Wow! il Nirvana è qualcosa di meraviglioso!...
Non si tratta della felicità che sperimentiamo normalmente o quella che sogniamo. E' di tutt'altro significato E' uno stato vuoto di qualunque "cosa" che vortichi, cambi , costruisca, proliferi, scorra. E' appunta la Cessazione, ossia qualcosa di realmente soddisfacente.
Adesso scappo a letto, perché l'argomento è veramente enorme e spero solo di aver messo giù qualche spunto...
Sul consiglio che mi chiedi, ossia qualche testo che parli della comprensibilità del mondo secondo la visione buddhista non mi viene in mente niente...cercherò se trovo qualcosa tra la polvere della biblioteca della VIlla... :)
P.S. Sono però altresì "assolutamente" ;D ...convinto , come mi par di capire anche te, che , se parliamo di realizzazione esistenziale autentica di questo Incondizionato, non si possono formulare distinzioni. Le distinzioni sorgono sempre quando si passa dal piano esperienziale a quello concettuale, del linguaggio. Se qualcosa di incondizionato è attingibile dall'esperienza umana la domanda allora è: "E' autentica questa mia "realizzazione"? Il problema mi sembra sempre che sorga quando passiamo nel territorio delle designazioni mentali. Ecco allora che un termine come "vero sé" diventa inaccettabile per un buddhista, che definisce questa realizzazione come Shunya (vuoto/vacuità), mentre la formazione filosofica del vedantino lo porta a definirlo come "vero sé", riferendosi entrambi alla stessa esperienza ( al netto dell'insidiosissimo pericolo che la concettualizzazione come "vero sè" mi sembra contenere, come ho scritto sopra, questa notte...). :)
Concordo sulle distinzioni così come a quanto pare concordava Zhuangzi: "La comprensione degli uomini nei tempi antichi andava davvero lontano! Quanto? Al punto che alcuni di essi credevano che le cose non erano mai esistite - così lontano, verso quel termine, dove niente può essere aggiunto. Quelli al livello subito inferiore pensavano che le cose esistevano ma non avevano confini tra di loro." ;) La vacuità come giustamente affermi tu può in effetti "portare" a ciò "che c'è di più alto".
[per dire la somiglianza tra daoismo e buddismo. Di recente ho trovato molto simili l'espressione di "tathagata libero da ogni classificazione" e il concetto daoista "libertà senza nomi e senza desideri" (pu, legno non scolpito).]
Se tutto è perfetto "vuoto" allora è chiaro che non ci sono distinzioni (ossia la Mente non distingue più tra l'io e il non-io) e l'esperienza della realtà diventa immediata, immacolata ecc. Tuttavia quando leggo che Advaita dice "il Vero Sé è Brahman" non mi pare così diverso dal buddismo proprio perchè ci viene detto dalla stessa filosofia advaitin che tale "sé" è senza "senso del sé". Ora visto che al Parinibbana del Buddha l'universo non è "finito" e lo spirito del Buddha non è andato in un altro universo, allora sincertamente non vedo molta differenza -a livello "fenomenico" (so che la parola è sbagliata) - tra "l'unione/riassorbimento con/in Brahman", il Pari-nibbana, e il "ritorno al Dao" o al "Wu" (nulla). Addirittura la filosofia vedanta ci viene a dire che lo stato di "unione" è per così dire "più pacifica di un sonno senza sonni" ;D - al che si potrebbe obbiettare che allora Brahman è il Nulla e leggo "Brahman è il Vuoto" ;D... sarò "eternalista" io ma sinceramente non vedo una vera distinzione tra queste cose a livello ultimo. Ben diverso però - questo te lo concedo - è che la descrizione di tale "processo" è totalmente diversa. Secondo me il rischio delle filosofie "eternalistiche" è proprio quello che non si "cessa" il senso di "Io" e "Mio" e anzi invece di inginocchiarsi e togliere l'"io" individuale si finisce per avere una sorta di "mania di grandezza", ossia per esempio credersi uguali all'universo (e quindi "tutto è mio"), cosa che Buddha esplicitamente nega. Tuttavia il grande equivoco nasce secondo me dal fatto che mentre gli indù in genere descrivono il loro sentiero come "una ricerca del vero io" i buddisti descrivono il loro sentiero come "una ricerca della liberazione dall'io" - nozioni che sono superficialmente contrastanti ma che a mio giudizio non sono poi così distanti: in entrambi i casi l'obbiettivo è rimuovere "il falso io". In genere credo che ci sia un equivoco e che quando Buddha parla di "io" parli veramente di una "mente con senso del sé" mentre un indù ha in mente l'io come "qualcosa". Entrambi usano gli stessi termini ma in modo diverso. Da entrambi differisce di molto il gianismo nel quale è l'anima individuale a liberarsi, anche se forse anche in questo caso "il senso del sé viene elimitato" ;D Il punto è che in sostanza per un buddista le dottrine delle altre tradizioni in realtà possono essere anche "vere" ma l'unica che "libera" è quella buddista, proprio perchè mentre nel caso del daoismo uno comunque ha il "concetto del Dao" in mente, nel buddismo la mente è libera sia da oggetto che da soggetto. Schopenhauer intuì questo nella citazione che ho riportato nella risposta #46. Il buddismo perciò potrebbe essere la "retta visione" non perchè "è una teoria" ma perchè è un metodo per raggiungere quel "nulla", quella "cessazione", di cui parlano anche le altre tradizioni. Per quanto mi riguarda il vantaggio del buddismo è che nei millenni ha mantenuto molto bene le pratiche meditative mentre la filosofia vedanta non ha mai raggiunto tale sistematicità e ancora di meno il daoismo. Ma a livello di "dottrina", a livello di "intuizione", probabilmente sono agli stessi livelli e non riesco a preferirne davvero uno rispetto agli altri - da questo punto di vista la storia degli uomini ciechi con l'elefante potrebbe essere illuminante. Oppure è solo "apofenia" e sto accumulando "cattivo karma" ;D però quando uno vede le connessioni tra le idee difficilmente se ne sta zitto... ossia quando uno vede espressioni come "Brahman è il vuoto", "più pacifico del sonno senza sogni", "il Dao in eterno non agisce", "semplicità senza nomi è senza desideri", "il saggio desidera di non desiderare", "attieniti al supremo non-essere, stai nella massima calma", "Cessazione", "Vacuità" ecc non ci vedo questa grande differenza ;) Dal punto di vista dottrinale "reintrodurre" il Sé mi sembra un "peccato" molto minore di chi ad esempio "toglie" sostanzialità al Nirvana così tanto da rimanere col Nulla inteso come lo intendiamo noi in occidente ;)
P.S. Mi è venuto in mente l'idea che il daoismo sia originato da una qualche filosofia di indiana. Mi pare troppo diverso da tutte le altre tradizioni cinesi ma forse anche questa è "apofenia" ::)
Il ruolo centrale, fondamentale nel buddhismo è dato dalla diretta comprensione dell'impermanenza (anicca). Anicca sta all'inizio, al centro e alla fine del cammino di Siddhartha stesso. E' nell'incontro con anicca, nella figura del vecchio, del malato, del morente che Siddhartha matura la volontà di comprensione. E' nell'osservazione di anicca che trova la liberazione. Questo ruolo centrale dell'impermanenza è il tratto tipico del buddhismo che, a parere mio, lo differenzia dalle altre religioni ed è da tener presente nel confronto con i sistemi filosofici sorti sulle Upanishad. Gotama disse:
Meditatori, a colui che percepisce l'impermanenza si manifesta chiaramente la percezione dell'inconsistenza e mancanza di un Io. E in chi percepisce questa inconsistenza, l'egoismo viene distrutto. E, come risultato, ottiene la liberazione persino in questa stessa vita. La comprensione di anicca conduce automaticamente alla comprensione di anatta e dukkha (non-sé e sofferenza), e chiunque realizzi questi fatti si trova naturalmente sul cammino che conduce fuori dalla sofferenza.
Sul fatto che trovi molte assonanze tra le varie forme spirituali dell'India e financo della Cina, ho trovato un passo di Sayagyi U Ba Khin, grandissimo maestro di meditazione buddhista morto nel 1971:
Le verità di cui egli parlava (il Buddha storico) erano conosciute anche prima di lui, ed erano comuni nell'India dei suoi tempi. Egli non inventò i concetti dell' impermanenza, della sofferenza e dell'inconsistenza dell'Io. La sua unicità e peculiarità consiste nell'aver trovato una via per passare dai discorsi sulla verità alla diretta esperienza della verità.
Per questo motivo il Dhamma è così fondamentalmente "pratico", diretto e, nonostante abbia nel tempo sviluppato una filosofia e una psicologia raffinatissime, mette quasi in secondo piano la speculazione. Questo magari ad un filosofo può in un certo senso dare "fastidio", essendo più attratto dal teorizzare che dal fare, dal meditare, dal perdere tempo ad osservarsi. Ma non è un problema del Dhamma, bensì dell'approccio che ne abbiamo singolarmente, personalmente...
Nel Brahamajala Suttanta il Buddha fa un elenco di tutte le credenze, le opinioni e i punti di vista del suo tempo e poi afferma di conoscere qualcosa molto oltre tutti quei punti di vista:
Avendo fatto esperienza di come realmente sono il sorgere e il passare delle sensazioni, l'attaccamento verso di esse,il pericolo insito in esse e il distaccarsi da esse, l'Illuminato, o monaci, è diventato distaccato e liberato.
In questo passo Siddhartha dichiara che è diventato un Buddha osservando le sensazioni fisiche come manifestazioni di impermanenza. L'impermanenza, ancora, si rivela il fatto centrale che bisogna comprendere. senza comprensione di anicca non può esserci Nibbana. E' osservando l'impermanenza delle sensazioni corporee che il meditante si avvicina allo stadio incondizionato del Nibbana, al di là delle esperienze sensoriali.
Nei sistemi vedici, come ho già scritto, sembra palesarsi una sorta di sdoppiamento: falso Io/ vero Io. Ma nella meditazione questa frattura non esiste. esiste solo la consapevolezza dei fenomeni fisici e mentali e la loro impermanenza, soggetti al sorgere e cessare. Non è dato trovare alcun "falso Io" e nemmeno nessun "vero io". La consapevolezza non può essere un "Io", che è un aggregato.
Non è che possiamo buttare fuori dalla porta il "falso sé" e quello poi rientra dalla finestra ( mistica finestra) come "vero sé". Per il Buddha c'è un unico sè, ed è vuoto di esistenza intrinseca, come tutti i fenomeni che hanno origine dipendente. :)
Citazione di: Sariputra il 23 Settembre 2017, 00:53:46 AM
Il ruolo centrale, fondamentale nel buddhismo è dato dalla diretta comprensione dell'impermanenza (anicca). Anicca sta all'inizio, al centro e alla fine del cammino di Siddhartha stesso. E' nell'incontro con anicca, nella figura del vecchio, del malato, del morente che Siddhartha matura la volontà di comprensione. E' nell'osservazione di anicca che trova la liberazione. Questo ruolo centrale dell'impermanenza è il tratto tipico del buddhismo che, a parere mio, lo differenzia dalle altre religioni ed è da tener presente nel confronto con i sistemi filosofici sorti sulle Upanishad. Gotama disse:
Meditatori, a colui che percepisce l'impermanenza si manifesta chiaramente la percezione dell'inconsistenza e mancanza di un Io. E in chi percepisce questa inconsistenza, l'egoismo viene distrutto. E, come risultato, ottiene la liberazione persino in questa stessa vita. La comprensione di anicca conduce automaticamente alla comprensione di anatta e dukkha (non-sé e sofferenza), e chiunque realizzi questi fatti si trova naturalmente sul cammino che conduce fuori dalla sofferenza.
Sul fatto che trovi molte assonanze tra le varie forme spirituali dell'India e financo della Cina, ho trovato un passo di Sayagyi U Ba Khin, grandissimo maestro di meditazione buddhista morto nel 1971:
Le verità di cui egli parlava (il Buddha storico) erano conosciute anche prima di lui, ed erano comuni nell'India dei suoi tempi. Egli non inventò i concetti dell' impermanenza, della sofferenza e dell'inconsistenza dell'Io. La sua unicità e peculiarità consiste nell'aver trovato una via per passare dai discorsi sulla verità alla diretta esperienza della verità.
Per questo motivo il Dhamma è così fondamentalmente "pratico", diretto e, nonostante abbia nel tempo sviluppato una filosofia e una psicologia raffinatissime, mette quasi in secondo piano la speculazione. Questo magari ad un filosofo può in un certo senso dare "fastidio", essendo più attratto dal teorizzare che dal fare, dal meditare, dal perdere tempo ad osservarsi. Ma non è un problema del Dhamma, bensì dell'approccio che ne abbiamo singolarmente, personalmente...
Nel Brahamajala Suttanta il Buddha fa un elenco di tutte le credenze, le opinioni e i punti di vista del suo tempo e poi afferma di conoscere qualcosa molto oltre tutti quei punti di vista:
Avendo fatto esperienza di come realmente sono il sorgere e il passare delle sensazioni, l'attaccamento verso di esse,il pericolo insito in esse e il distaccarsi da esse, l'Illuminato, o monaci, è diventato distaccato e liberato.
In questo passo Siddhartha dichiara che è diventato un Buddha osservando le sensazioni fisiche come manifestazioni di impermanenza. L'impermanenza, ancora, si rivela il fatto centrale che bisogna comprendere. senza comprensione di anicca non può esserci Nibbana. E' osservando l'impermanenza delle sensazioni corporee che il meditante si avvicina allo stadio incondizionato del Nibbana, al di là delle esperienze sensoriali.
Nei sistemi vedici, come ho già scritto, sembra palesarsi una sorta di sdoppiamento: falso Io/ vero Io. Ma nella meditazione questa frattura non esiste. esiste solo la consapevolezza dei fenomeni fisici e mentali e la loro impermanenza, soggetti al sorgere e cessare. Non è dato trovare alcun "falso Io" e nemmeno nessun "vero io". La consapevolezza non può essere un "Io", che è un aggregato.
Non è che possiamo buttare fuori dalla porta il "falso sé" e quello poi rientra dalla finestra ( mistica finestra) come "vero sé". Per il Buddha c'è un unico sè, ed è vuoto di esistenza intrinseca, come tutti i fenomeni che hanno origine dipendente. :)
Continuo a vedere il buddhismo come una filosofia gravemente mutilata. Se all'uomo togli il mondo e il corpo (maya, impermanenza), la verità nella parola e nell'intelletto (la conoscenza), il suo "io" e la sua relazione con Dio, resta solo un ombellico individuale che, perdipiù, è ...vuoto! ...C'e qualcosa che non torna!
@C.Pierini scrive:
Continuo a vedere il buddhismo come una filosofia gravemente mutilata. Se all'uomo togli il mondo e il corpo (maya, impermanenza), la verità nella parola e nell'intelletto (la conoscenza), il suo "io" e la sua relazione con Dio, resta solo un ombellico individuale che, perdipiù, è ...vuoto! ...C'e qualcosa che non torna!
No, resta un "regno" di consapevolezza non egoistica, non fondata sull'Io/mio, sui suoi attaccamenti e sul suo ritenersi altro da ciò che lo circonda. In questa consapevolezza sorge spontanea una vera compassione, non una compassione utilitaristica fondata sulla paura. Resta anche un "regno" di libertà autentica seppur forzatamente limitata dalla condizione umana ( il Kamma che necessariamente deve maturare i suoi frutti...). La vacuità è pure un "regno" di spazio illimitato dove la mente può percepire, nell'impermanenza di ogni cosa, una immensa, struggente Bellezza.
Quello che si toglie quindi fa spazio a qualcosa di enormemente più alto, più "nobile" ( in senso spirituale...). Perdendo si guadagna molto di più. :)
Citazione di: Sariputra il 23 Settembre 2017, 18:09:08 PM
@C.Pierini scrive:
Continuo a vedere il buddhismo come una filosofia gravemente mutilata. Se all'uomo togli il mondo e il corpo (maya, impermanenza), la verità nella parola e nell'intelletto (la conoscenza), il suo "io" e la sua relazione con Dio, resta solo un ombellico individuale che, perdipiù, è ...vuoto! ...C'e qualcosa che non torna!
No, resta un "regno" di consapevolezza non egoistica, non fondata sull'Io/mio, sui suoi attaccamenti e sul suo ritenersi altro da ciò che lo circonda.
La "con-sapevolezza" presuppone l'esistenza di un
soggetto cosciente e di un
oggetto di cui il soggetto è con-sapevole ("con-" presuppone una dualità). Ma se tu mi togli l'"io" - che rappresenta il soggetto - e poi mi presenti come illusorio sia il mondo esterno (maya) sia la realtà interiore (il vuoto), cosa resta da considerare come "con-sapevolezza"? Il Nulla assoluto? Se l'io è illusorio, come fa ad "attaccarsi" a qualcosa di altrettanto illusorio? Chi "si attacca" a cosa?
Va bene rifiutare il Logos, ma se poi si vogliono scrivere dei testi sul buddhismo utilizzando il Logos, se ne devono rispettare le regole più elementari; oppure si sta in silenzio e non si scrivono libri. Insomma, non si può pretendere la botte piena e la moglie ubriaca. Vedo che c'è più Logos in questo topic sul buddhismo che in qualunque altro topic di questo forum. Per cui decidetevi, ...o buddhisti! O rifiutate il Logos e state in silenzio, oppure ne fate uso rispettandone i canoni. Altrimenti mi sembra troppo comodo fare affermazioni e poi nascondersi alle critiche con il pretesto che esse seguono le regole inaccettabili del Logos, come se le vostre affermazioni non facessero parte del Logos. ...Dico bene?
L'angolo musicale:
MARIE LAFORET - La vendemmia dell'amore
https://youtu.be/q4oPhGUxFRk
Citazione di: Carlo Pierini il 23 Settembre 2017, 21:03:51 PM
Citazione di: Sariputra il 23 Settembre 2017, 18:09:08 PM@C.Pierini scrive: Continuo a vedere il buddhismo come una filosofia gravemente mutilata. Se all'uomo togli il mondo e il corpo (maya, impermanenza), la verità nella parola e nell'intelletto (la conoscenza), il suo "io" e la sua relazione con Dio, resta solo un ombellico individuale che, perdipiù, è ...vuoto! ...C'e qualcosa che non torna! No, resta un "regno" di consapevolezza non egoistica, non fondata sull'Io/mio, sui suoi attaccamenti e sul suo ritenersi altro da ciò che lo circonda.
La "con-sapevolezza" presuppone l'esistenza di un soggetto cosciente e di un oggetto di cui il soggetto è con-sapevole ("con-" presuppone una dualità). Ma se tu mi togli l'"io" - che rappresenta il soggetto - e poi mi presenti come illusorio sia il mondo esterno (maya) sia la realtà interiore (il vuoto), cosa resta da considerare come "con-sapevolezza"? Il Nulla assoluto? Se l'io è illusorio, come fa ad "attaccarsi" a qualcosa di altrettanto illusorio? Chi "si attacca" a cosa? Va bene rifiutare il Logos, ma se poi si vogliono scrivere dei testi sul buddhismo utilizzando il Logos, se ne devono rispettare le regole più elementari; oppure si sta in silenzio e non si scrivono libri. Insomma, non si può pretendere la botte piena e la moglie ubriaca. Vedo che c'è più Logos in questo topic sul buddhismo che in qualunque altro topic di questo forum. Per cui decidetevi, ...o buddhisti! O rifiutate il Logos e state in silenzio, oppure ne fate uso rispettandone i canoni. Altrimenti mi sembra troppo comodo fare affermazioni e poi nascondersi alle critiche con il pretesto che esse seguono le regole inaccettabili del Logos, come se le vostre affermazioni non facessero parte del Logos. ...Dico bene? L'angolo musicale: MARIE LAFORET - La vendemmia dell'amore https://youtu.be/q4oPhGUxFRk
Il "logos" buddhista ha la finalità di indicare una via da praticare. E' semplicemente il dito che indica la Luna. Non è la Luna. Tu invece, mi sembra di capire, ritieni che il logos sia la Luna stessa. Questo concetto non è accettato come valido nella filosofia e nella pratica buddhista.E' la funzione cosciente (vinnana) della mente che è consapevole, il lucido specchio su cui i fenomeni si specchiano , compreso il senso dell'Io/mio ( che è una sensazione come le altre percepita da vinnana/coscienza, sensazione intesa come percezione psicologica, impressione...). Dalla assunzione della sensazione di un "Io" come di qualcosa di durevole, immutabile, stabile, nasce ciò che appartiene all'io, cioè il Mio, e quindi ogni forma di attaccamento. E' sicuramente molto più saggio stare in silenzio, ma d'altronde si ha pure a volte la necessità di mettere in guardia che si sta prendendo il dito per la Luna... :) Poi, vista la penuria di utenti che scrivono, diventa quasi un'esigenza , anche solo per bilanciare le varie posizioni e , se uno ci riesce, suscitare un interesse , una curiosità verso modi e mondi di pensiero altri ai nostri consueti occidentali; mondi di fronte ai quali mi sento non più di un'umile apprendista... ;) Posto un contributo di Riccardo Venturini che lo spiega meglio di me:Il silenzio del Buddha sulla Realtà ultima non è dunque un silenzio agnostico o strumentale, ma — per usare un termine della tradizione cristiana — un silenzio "apofatico", aspetto essenziale non solo dell'insegnamento, ma della stessa dottrina. L'inesprimibilità della Verità ultima non ha, cioè, origine da un'insufficienza conoscitiva umana, ma è un carattere costitutivo della verità. Solo una via apofatica, una via "negativa", può essere quindi proposta riguardo a
essa, una via che si ponga al di là di tutti i dualismi propri dell'intelletto discorsivo e discriminante.
L'insegnamento supremo di tutti i Buddha è giocato continuamente nella dialettica tra verità convenzionale (e mezzi didattici "provvisori"), da un lato, e Verità ultima, inesprimibile, dall'altro. Leggiamo nel Sutra del loto:
Questo Dharma è inesprimibile, è al di là del regno dei termini, [...] non è cosa che possa essere compresa mediante il ragionamento discorsivo e la discriminazione; solo i Buddha possono conoscerlo.
La Realtà ultima, essendo nel buddhismo definita come Vacuità, risulta non oggettivabile, non concepibile, non raggiungibile dalla coscienza ordinaria. Non si ripeterà mai abbastanza che con Vacuità non si indica il nulla, ma la mancanza di esistenza intrinseca dei fenomeni, ossia l'aspetto relazionale e interdipendente della realtà fenomenica.
È stato detto, dal filosofo Whitehead, che il cristianesimo è una religione che ha cercato una metafisica attraverso la quale interpretarsi, mentre il buddhismo è una dottrina di vita che ha cercato di farsi religione per potersi esprimere. Dobbiamo riconoscere che il buddhismo ha usato felicemente il veicolo religioso, perché, anche se in esso possiamo trovare molti punti in comune, ad esempio, con dottrine etiche dell'antichità classica, queste sono oggi soltanto capitoli di storia della filosofia, mentre il buddhismo continua a essere una grande, vivente realtà spirituale, in cui si riconoscono milioni di uomini. In verità, per rispondere a questa domanda occorre interrogarci su quello che, parafrasando Rolan Barthes, si potrebbe chiamare il "grado zero della religione". Al suo grado zero, il sentimento religioso sembra caratterizzarsi come domanda sul senso ultimo della vita, accompagnata da un sentimento di insoddisfazione nei confronti della realtà del mondo, ovvero dalla convinzione che quella del mondo ordinario non sia l'unica realtà o, ancora, che il modo ordinario di guardare il mondo non sia l'unico modo. Attraverso un diverso
atteggiamento e un diverso modo di guardare è infatti possibile intravvedere una realtà altra, stabilire con essa una qualche forma di comunicazione e, possibilmente, di comunione.
Come si esprime con grande semplicità un sociologo della religione, J. A. Beckford,
sarà sufficiente definire la religione un interesse per un sentimento di universalità o per il significato ultimo delle cose .
P.S. Il Sari e il giovane filosofo Apeiron, con il contributo di altri, hanno cercato di sviluppare , nei loro limiti, un tema portando le loro riflessioni, critiche ed esperienze personali. In altre discussioni si finisce spesso per "litigare" verbalmente , tutto a scapito dell'approfondimento del tema, approfondimento che così viene a latitare...
Citazione di: Sariputra il 23 Settembre 2017, 21:51:05 PM
Citazione di: Carlo Pierini il 23 Settembre 2017, 21:03:51 PM
Citazione di: Sariputra il 23 Settembre 2017, 18:09:08 PM@C.Pierini scrive: Continuo a vedere il buddhismo come una filosofia gravemente mutilata. Se all'uomo togli il mondo e il corpo (maya, impermanenza), la verità nella parola e nell'intelletto (la conoscenza), il suo "io" e la sua relazione con Dio, resta solo un ombellico individuale che, perdipiù, è ...vuoto! ...C'e qualcosa che non torna! No, resta un "regno" di consapevolezza non egoistica, non fondata sull'Io/mio, sui suoi attaccamenti e sul suo ritenersi altro da ciò che lo circonda.
La "con-sapevolezza" presuppone l'esistenza di un soggetto cosciente e di un oggetto di cui il soggetto è con-sapevole ("con-" presuppone una dualità). Ma se tu mi togli l'"io" - che rappresenta il soggetto - e poi mi presenti come illusorio sia il mondo esterno (maya) sia la realtà interiore (il vuoto), cosa resta da considerare come "con-sapevolezza"? Il Nulla assoluto? Se l'io è illusorio, come fa ad "attaccarsi" a qualcosa di altrettanto illusorio? Chi "si attacca" a cosa? Va bene rifiutare il Logos, ma se poi si vogliono scrivere dei testi sul buddhismo utilizzando il Logos, se ne devono rispettare le regole più elementari; oppure si sta in silenzio e non si scrivono libri. Insomma, non si può pretendere la botte piena e la moglie ubriaca. Vedo che c'è più Logos in questo topic sul buddhismo che in qualunque altro topic di questo forum. Per cui decidetevi, ...o buddhisti! O rifiutate il Logos e state in silenzio, oppure ne fate uso rispettandone i canoni. Altrimenti mi sembra troppo comodo fare affermazioni e poi nascondersi alle critiche con il pretesto che esse seguono le regole inaccettabili del Logos, come se le vostre affermazioni non facessero parte del Logos. ...Dico bene? L'angolo musicale: MARIE LAFORET - La vendemmia dell'amore https://youtu.be/q4oPhGUxFRk
Posto un contributo di Riccardo Venturini:
Il silenzio del Buddha sulla Realtà ultima non è dunque un silenzio agnostico o strumentale, ma — per usare un termine della tradizione cristiana — un silenzio "apofatico", aspetto essenziale non solo dell'insegnamento, ma della stessa dottrina. L'inesprimibilità della Verità ultima non ha, cioè, origine da un'insufficienza conoscitiva umana, ma è un carattere costitutivo della verità. Solo una via apofatica, una via "negativa", può essere quindi proposta riguardo a
essa, una via che si ponga al di là di tutti i dualismi propri dell'intelletto discorsivo e discriminante.
L'insegnamento supremo di tutti i Buddha è giocato continuamente nella dialettica tra verità convenzionale (e mezzi didattici "provvisori"), da un lato, e Verità ultima, inesprimibile, dall'altro. Leggiamo nel Sutra del loto:
Questo Dharma è inesprimibile, è al di là del regno dei termini, [...] non è cosa che possa essere compresa mediante il ragionamento discorsivo e la discriminazione; solo i Buddha possono conoscerlo.
Il rischio del metodo "apofatico" è che, se non è bilanciato dal suo opposto complementare "catafatico", a forza di "togliere" si finisce col non far restare nulla.
Voglio dire: è vero che la Realtà ultima
in sé è inesprimibile, ma è anche vero che se Essa fosse assolutamente separata e isolata dalla realtà immanente, se fosse una assoluta "Vacuità", nessuno ne avrebbe mai avvertito la presenza, né mai se ne sarebbe sentito parlare. Mentre, al contrario, la storia umana è stracolma fino all'inverosimile di testimonianze di "contatti" attorno ai quali si sono cristallizzate miriadi di religioni e di civiltà fondate sui loro insegnamenti. Inoltre, non è concepibile che la nostra realtà immanente non abbia alcun legame con la Realtà assoluta, che sia, cioè, una sorta di accidentalità cosmica assolutamente illusoria e priva di senso e da cui non resta che "staccarsi" ("non attaccamento", ascetismo) per poi fuggire
quanto prima e tornare al "Grembo materno" dell'Assoluto. Mi sembra molto più ragionevole credere che, se siamo stati "catapultati" da quel "Grembo materno" in questo nostro Mondo materiale, una ragione dovrà pur esserci; e mi pare altrettanto ragionevole pensare che questo stesso nostro Mondo non sia affatto un capriccio del caso, ma che derivi in qualche modo dall'Assoluto, che ne sia una emanazione "fatta a Sua immagine e somiglianza" e che, pertanto, come intuiva Tommaso, nella conoscenza profonda di esso sia possibile vedervi rispecchiato l'Assoluto stesso. Se così fosse, allora, il nostro scopo non sarebbe quello di fuggire attraverso il "non-attaccamento" e l'ascetismo, ma quello di amare il nostro Mondo e di conoscerlo profondamente, sapendo di amare in lui l'immagine dell'Assoluto; un'immagine non più ineffabile e inesprimibile, ma perfettamente dicibile e rappresentabile come Principio del Mondo. ...E chissà che il famoso detto: "Chi vede me, vede il Dhamma", non voglia significare proprio questo; che il Buddha, cioè, non sia che un simbolo del Mondo in cui si rispecchia il Dhamma Assoluto, il Verbo creatore.L'angolo musicale:CATHERINE SPAAK: Quelli della mia età
https://youtu.be/hQJJR59LZU4
Citazione di: Carlo Pierini il 24 Settembre 2017, 02:47:47 AM
Citazione di: Sariputra il 23 Settembre 2017, 21:51:05 PM
Citazione di: Carlo Pierini il 23 Settembre 2017, 21:03:51 PM
Citazione di: Sariputra il 23 Settembre 2017, 18:09:08 PM@C.Pierini scrive: Continuo a vedere il buddhismo come una filosofia gravemente mutilata. Se all'uomo togli il mondo e il corpo (maya, impermanenza), la verità nella parola e nell'intelletto (la conoscenza), il suo "io" e la sua relazione con Dio, resta solo un ombellico individuale che, perdipiù, è ...vuoto! ...C'e qualcosa che non torna! No, resta un "regno" di consapevolezza non egoistica, non fondata sull'Io/mio, sui suoi attaccamenti e sul suo ritenersi altro da ciò che lo circonda.
La "con-sapevolezza" presuppone l'esistenza di un soggetto cosciente e di un oggetto di cui il soggetto è con-sapevole ("con-" presuppone una dualità). Ma se tu mi togli l'"io" - che rappresenta il soggetto - e poi mi presenti come illusorio sia il mondo esterno (maya) sia la realtà interiore (il vuoto), cosa resta da considerare come "con-sapevolezza"? Il Nulla assoluto? Se l'io è illusorio, come fa ad "attaccarsi" a qualcosa di altrettanto illusorio? Chi "si attacca" a cosa? Va bene rifiutare il Logos, ma se poi si vogliono scrivere dei testi sul buddhismo utilizzando il Logos, se ne devono rispettare le regole più elementari; oppure si sta in silenzio e non si scrivono libri. Insomma, non si può pretendere la botte piena e la moglie ubriaca. Vedo che c'è più Logos in questo topic sul buddhismo che in qualunque altro topic di questo forum. Per cui decidetevi, ...o buddhisti! O rifiutate il Logos e state in silenzio, oppure ne fate uso rispettandone i canoni. Altrimenti mi sembra troppo comodo fare affermazioni e poi nascondersi alle critiche con il pretesto che esse seguono le regole inaccettabili del Logos, come se le vostre affermazioni non facessero parte del Logos. ...Dico bene? L'angolo musicale: MARIE LAFORET - La vendemmia dell'amore https://youtu.be/q4oPhGUxFRk
Posto un contributo di Riccardo Venturini:
Il silenzio del Buddha sulla Realtà ultima non è dunque un silenzio agnostico o strumentale, ma — per usare un termine della tradizione cristiana — un silenzio "apofatico", aspetto essenziale non solo dell'insegnamento, ma della stessa dottrina. L'inesprimibilità della Verità ultima non ha, cioè, origine da un'insufficienza conoscitiva umana, ma è un carattere costitutivo della verità. Solo una via apofatica, una via "negativa", può essere quindi proposta riguardo a essa, una via che si ponga al di là di tutti i dualismi propri dell'intelletto discorsivo e discriminante. L'insegnamento supremo di tutti i Buddha è giocato continuamente nella dialettica tra verità convenzionale (e mezzi didattici "provvisori"), da un lato, e Verità ultima, inesprimibile, dall'altro. Leggiamo nel Sutra del loto:
Questo Dharma è inesprimibile, è al di là del regno dei termini, [...] non è cosa che possa essere compresa mediante il ragionamento discorsivo e la discriminazione; solo i Buddha possono conoscerlo.
Il rischio del metodo "apofatico" è che, se non è bilanciato dal suo opposto complementare "catafatico", a forza di "togliere" si finisce col non far restare nulla. Voglio dire: è vero che la Realtà ultima in sé è inesprimibile, ma è anche vero che se Essa fosse assolutamente separata e isolata dalla realtà immanente, se fosse una assoluta "Vacuità", nessuno ne avrebbe mai avvertito la presenza, né mai se ne sarebbe sentito parlare. Mentre, al contrario, la storia umana è stracolma fino all'inverosimile di testimonianze di "contatti" attorno ai quali si sono cristallizzate miriadi di religioni e di civiltà fondate sui loro insegnamenti. Inoltre, non è concepibile che la nostra realtà immanente non abbia alcun legame con la Realtà assoluta, che sia, cioè, una sorta di accidentalità cosmica assolutamente illusoria e priva di senso e da cui non resta che "staccarsi" ("non attaccamento", ascetismo) per poi fuggire quanto prima e tornare al "Grembo materno" dell'Assoluto. Mi sembra molto più ragionevole credere che, se siamo stati "catapultati" da quel "Grembo materno" in questo nostro Mondo materiale, una ragione dovrà pur esserci; e mi pare altrettanto ragionevole pensare che questo stesso nostro Mondo non sia affatto un capriccio del caso, ma che derivi in qualche modo dall'Assoluto, che ne sia una emanazione "fatta a Sua immagine e somiglianza" e che, pertanto, come intuiva Tommaso, nella conoscenza profonda di esso sia possibile vedervi rispecchiato l'Assoluto stesso. Se così fosse, allora, il nostro scopo non sarebbe quello di fuggire attraverso il "non-attaccamento" e l'ascetismo, ma quello di amare il nostro Mondo e di conoscerlo profondamente, sapendo di amare in lui l'immagine dell'Assoluto; un'immagine non più ineffabile e inesprimibile, ma perfettamente dicibile e rappresentabile come Principio del Mondo. ...E chissà che il famoso detto: "Chi vede me, vede il Dhamma", non voglia significare proprio questo; che il Buddha, cioè, non sia che un simbolo del Mondo in cui si rispecchia il Dhamma Assoluto, il Verbo creatore. L'angolo musicale: CATHERINE SPAAK: Quelli della mia età https://youtu.be/hQJJR59LZU4
L'esperienza della vacuità ( di esistenza intrinseca dei fenomeni, ma anche della brama, dell'odio e dell'illusione) non è un rifiuto, una fuga, ma punta verso uno stato di Medesimalità assoluta, di vuoto assoluto che è assoluta pienezza. Essa parte dal presente assoluto che è esperienza pura, una esperienza in cui non vi è differenziazione e tuttavia non è uno stato di puro nulla. Nell'esperienza pura non vi è distinzione tra "dovrebbe" ed "è", tra forma e contenuto, e quindi non vi è in essa giudizio.La distruzione dei desideri e delle brame, a cui nel buddhismo viene data tanta enfasi, tanto rilievo ( in particolare nel buddhismo delle origini...), non deve essere intesa in senso negativistico ( "E poi cosa mi resta?"...Come scrivi :) ), ma nella pratica si tratta di trasformare questo attaccamento al "mondo" nel karuna, trasformare cioè l'amore egocentrico in compassione autentica, non "pelosa", utilitaristica o basata sulla paura (Di punizioni divine , dell'altrui opinione, del giudizio sociale, ecc.).La filosofia e la pratica del Dhamma inizia con ciò che è primariamente dato alla nostra coscienza/vinnana, che sopra ho defintito come "pura esperienza" ( tieni sempre presente che l'uso dello strumento del linguaggio è. un "dito che indica", uno "mezzo provvisorio"...infatti dire "pura esperienza" significa impegnarsi in qualcosa che sembra già collocato in qualche altro luogo, e quindi l'esperienza cessa di essere pura...). Il Dhammapada riflette questo pensiero quando definisce il punto di partenza della filosof: buddhista come "senza impronta" (apada), illimitabile e vuoto (quindi vacuità/sunna), senza dimora, senza forma e liberato.In termini psicologici viene descritto così: libero dal dolore, libero da ogni lato (punto di vista), senza paura e senza brama egoistica. Se questi termini vengono interpretatisuperficialmente e linguisticamente possono essere facilmente fraintesi, arrivando a considerarli come negativismo.L'esperienza della buddhità, come viene interpretata nel buddhismo ( ché buddhità e buddhismo sono ovviamente due cose diverse...essendo il buddhismo una sorta di galassia di opinioni/papanca sulla buddhità,compresa la mia ovviamente... ;D ) ha qualcosa di noetico (concepito col pensiero) ma, nello stesso tempo, ha pure qualcosa di volitivo o affettivo, che viene inteso come riflettente la natura della Realtà stessa, costituita da prajna ( saggezza trascendente/visione intuitva, ecc.,, è intraducibile nelle lingue occidentali...) e da karuna (compassione/agape). :) P.S.Il Buddha non è un dio. Il buddhismo non nega l'esistenza degli dèi ( nel Canone Pali, quindi i testi più antichi a disposizione, sono presenti, sono soggetti all'impermanenza come ogni cosa, e vengono ad ascoltare il Dhamma predicato da Siddhartha) ma nega l'esistenza di un Dio personale che si prende a cuore il desino di ogni sua singola creatura. La prima Nobile verità, quella del dolore, ritiene insuperabile la contraddizione insita in questa idea di Dio.In questo il buddhismo è simile , per esempio, all'epicureismo, come ha già sottolineato @Apeiron...
Citazione di: Sariputra il 24 Settembre 2017, 09:33:32 AM
L'esperienza della vacuità ( di esistenza intrinseca dei fenomeni, ma anche della brama, dell'odio e dell'illusione) non è un rifiuto, una fuga, ma punta verso uno stato di Medesimalità assoluta, di vuoto assoluto che è assoluta pienezza. Essa parte dal presente assoluto che è esperienza pura, una esperienza in cui non vi è differenziazione e tuttavia non è uno stato di puro nulla. Nell'esperienza pura non vi è distinzione tra "dovrebbe" ed "è", tra forma e contenuto, e quindi non vi è in essa giudizio.
Capisco cosa vuoi dire perché nelle esperienze che ho tentato di sintetizzare nella sezione "Tematiche spirituali" ho vissuto anch'io, seppure per brevi momenti (ma estremamente illuminanti), degli stati di coscienza riconducibili alla tua descrizione. E tra quelle esperienze ce n'è una (una delle prime che ebbi all'inizio della mia ricerca) di cui non ho parlato e che riguarda proprio il Buddha. Se non mi crederai, o se la riterrai solo una mia fantasia estemporanea per apparire un "mistico", avrai tutta la mia solidarietà, ma mi azzardo lo stesso ad accennartela perché per me fu una delle prime "piccole grandi" rivelazioni, il primo "piccolo grande" segno che la nostra esistenza non si esaurisce in ciò che vediamo e che sperimentiamo ordinariamente. Se dovessi darle un titolo, sarebbe: "Il nostro Universo è un Buddha in meditazione". Ebbi questa "visione" fulminea - come anche le altre - in un momento di studio e di grande concentrazione riflessiva; salto la primissima parte della visione perché mi richiederebbe troppo spazio di scrittura, sebbene dimostrerebbe che non si trattò di una semplice fantasia, ma di una vera e propria esperienza. Nella seconda parte di essa mi ritrovo a contemplare un cielo notturno meraviglioso e costellato di stelle "viventi"; poi, all'improvviso, sono proiettato a velocità inusitata verso di esso fino a trovarmi ...fuori dell'Universo, in una oscurità assoluta ma pregna di vita, di beatitudine, di pienezza e di pace perfetta (il "non giudizio" di cui parlavi tu). Poi, alle mie spalle, avverto una presenza "magica"; mi volto e, con grande stupore, vedo la figura maestosa, immensa, del nostro Universo: la sua forma è quella, meravigliosa e regale, di uno stupendo Buddha in meditazione illuminato lateralmente da una luce divina (la cui sorgente era "fuori campo"). Qualcosa o qualcuno mi dice che io ero uscito da quell'Universo-Buddha attraverso il Suo "terzo occhio". ...E a questo punto terminò la visione e tornai in me.
Per il momento termino qui, perché devo uscire. Commenterò stasera il resto del tuo post.
L'angolo musicale:
GRUPPO ITALIANO: Tropicana
https://youtu.be/_a8KJUsDrbw
Sari credo che il "mio vero sé" che trovo tra alcuni vedantini e alcuni daoisti (almeno a quanto mi pare di leggere nel Laozi e Zhuangzi) sia praticamente identico a quello che tu chiami "regno di consapevolezza non egoistica" ;D concedo però che in ultima analisi da questo punto di vista il buddismo è mille volte più coerente delle tradizioni "affini" proprio perchè si fonda sulla dottrina dell'anatta/anatman/non-sé. Perchè se io chiamo "sé" ciò che rimane dopo aver tolto le "impurità" è una mia scelta arbitraria. Posso chiamare quel "regno" anche "sedia", "cavallo", "ragno" o "realtà ultima" ecc, la sostanza non cambia ;D mi immagino che un advaitin (o qualcosa di simile) nel suo percorso spirituale del Neti-Neti faccia così: "queste forme sono impermanenti, quindi non sono il Sé; queste sensazioni sono impermanenti, quindi non sono il Sé; queste percezioni sono impermanenti, quindi non sono il Sé; queste fabbricazioni mentali sono impermanenti, quindi non sono il Sé; questa coscienza è impermanente, quindi non è il Sé". A livello del non-sé dei cinque aggregati ritengo che non ci sia davvero differenza tra i due approcci. Quello che cambia è questo.
Questo è quello che penso: ai tempi del Buddha sia in India che in Cina (ma anche altrove) andava di moda la ricerca dell'Immortalità, ossia andava di moda cercare una Via per la Liberazione da sofferenza, vecchiaia, avversioni, ignoranza (più precisamente direi "delirio")... E andava di moda l'idea che la Liberazione era ottenuta tramite un "Risveglio" in cui si capiva la "vera natura di sé stessi e della realtà". Così si sono formati in India i Sramana, la tradizione di asceti che appunto cercava la Realizzazione. E da questi asceti (o simili) sono nati il giainismo, molta filosofia indù e il buddismo. Ora quello che è bene notare è che in tutti questi casi la "salvezza" dalla Morte (nel buddismo Mara https://en.wikipedia.org/wiki/Mara_(demon) descrizione in inglese) arrivava grazie a questo "lampo", questa "chiara realizzazione" che toglieva tutto le catene del "delirio". Ottenuta questa Realizzazione quello che si arrivava ad avere era una Mente Libera. Ma mentre nel caso delle altre tradizioni i "presunti realizzati" parlavano di un Io (ossia quello che interpreto io è che c'è ancora un senso di "io-mio"), il nostro Buddha (=Risvegliato) ha ritenuto che questa Realtà, questa "Vera Natura" era "senza-io", ossia senza OGNI senso di "Io/Mio" e il risultato era che si aveva una Perfezione oltre che conoscitiva della Realtà Ultima anche etica e di compassione (invito a leggere https://www.piandeiciliegi.it/it/testi-e-documenti/52-metta-sutta). Buddha ovviamente - stando ovviamente al buddismo - era un "Risvegliato" perchè ha conosciuto questa Realtà e quindi anche la Verità (Dhamma). Ma la "specialità" del Buddha è che oltre ad essere riuscito a trovare la "Via" giusta è riuscito anche nel suo intento di insegnare la Via/Cammino/Sentiero ad altri esseri senzienti (per lo meno umani e deva che potevano capirlo). L'"unicità" del Buddismo è che appunto la Destinazione è quella "dimensione" dove non v'è più senso di "io" e di "mio" ossia di "distinzioni" e inoltre da questo punto di vista il Dhamma così come è tramandato oggi mi pare coerente.
Analizziamo ora ad esempio il Daoismo. Secondo Zhuangzi (parafraso la citazione di qualche post fa) "gli antichi non conoscevano distinzioni tra le cose", secondo Laozi bisognava essere come il Supremo Dao (Via) ossia "indistinto, senza desideri, semplice...". Ma vi è un'incoerenza se vogliamo. Infatti mentre il buddismo rigetta ogni distinzione (ogni "io/mio") parte della filosofia daoista e della filosofia vedanta invece sembra promettere una "immortalità" personale, ossia intesa come un "vero io" che sopravvive con ancora il senso di "io e mio". Ma un'analisi più precisa a mio giudizio mette in luce più analogie che differenze. In tutti e tre i casi in realtà l'io/mio viene trasceso. Questo "processo" di trascendenza ci "nasconde" dalla Morte:
"Così se ci fosse una casa con un tetto o una sala con un tetto che abbia finestre a nord, a sud o ad est. Quando il sole sorge, ed un raggio entra dalla finestra, dove si stabilisce? "
"Sul muro di ponente, signore."
"E se non c'è muro di ponente, dove si stabilisce? "
"Sul pavimento, signore."
"E se non c'è pavimento, dove si stabilisce? "
"Sull'acqua, signore."
"E se non c'è acqua, dove si stabilisce? "
"Non si stabilisce, signore."
"Allo stesso modo, dove non c'è desiderio per il nutrimento di cibo fisico, dove non c'è piacere, nessuna brama, allora la coscienza non si stabilisce e non cresce. Dove la coscienza non si stabilisce, il nome e la forma non si sviluppano. Dove il nome e la forma non si sviluppano, non c'è nessuna crescita delle predisposizioni karmiche. Dove non c'è crescita delle predisposizioni karmiche, non si genera il divenire per una nuova rinascita. Dove non si genera il divenire per una nuova rinascita, non c'è nascita , vecchiaia e morte. Quindi, vi dico, nessun dolore, afflizione o disperazione." (Atthi Raga Sutta, Samyutta Nikaya http://www.canonepali.net/sn-12-64-atthi-raga-sutta-dove-ce-avidita/)
La Morte ci trova fino a quando ci "stabiliamo" su qualcosa, fino a quando decretiamo che qualcosa è "mio" (o "io"). Ora: il buddismo ci sta dicendo anche che metafisicamente non c'è una realtà "eterna"? A mio giudizio NO. Perchè? Anzitutto c'è la "Verità Eterna" del Dhamma che usa il concetto di "eternità" per dire che "nulla è eterno" ;D e inoltre alla domanda se "il cosmo è eterno" il Buddha non rispose né sì né no perchè il Dhamma "vale" in entrambi i casi. L'importante è arrivare alla Mente Libera, che come il raggio di luce "non si stabilisce".
Ma è davvero così diverso questo insegnamento da quello affine di certa filosofia indù e certa filosofia cinese? A mio giudizio no. Ma ciò non toglie che sulla descrizione del buddismo mi pare che il Sari sia corretto ;)
Per Carlo. La differenza con la "bhakti", il sentiero "devozionale", è che la relazione con l'Assoluto in questi casi non è più una reazione tra due persone distinte. Quando una persona è devota ad un Dio Personale c'è una devozione tra l'"io" e il "Tu", l'"Altro". Volendo per certi versi la bhakti è anche più ricca visto che sia chi ha un Dio Impersonale, sia chi è vedantin, daoista o buddista in fin dei conti non può né inginocchiarsi a Qualcuno ma soprattuto non può ringraziare Qualcuno o servire Qualcuno (dando così se volgiamo significato alla propria vita). L'obbiettivo delle tradizioni devozionali (cristianesimo compreso) è una relazione con la Persona e quindi c'è ancora necessariamente un "io". Nelle tradizioni come il buddismo invece non si ha la fede che un Dio Personale possa salvare (ancora volendo dalla "Morte", vedi Paolo che dice: "l'ultimo nemico è la Morte"). La salvezza in questi casi è data dalla Realizzazione. Tuttavia ciò non toglie che tradizioni come il buddismo non contemplino una sorta di "storia universale" (vedi i Buddha passati e futuri che insegnano il Dhamma per salvare gli esseri senzienti), realtà "oltre i nostri sensi", entità infallibili (Arhat), Verità Assolute ecc. Una prospettiva "razionalistica" anche se può comprendere a livello concettuale la realtà dell'anatta non riuscirà mai ad essere come il buddismo proprio perchè manca tutta questa "storia" in più... Ritengo che il Pierinismo sia più vicino alla "bhakti" ;)
P.S.
Per quanto riguarda le esperienze... anche io a volte mi sono sentito come se il "mio io si dissolvesse" o come se "tutto è collegato". Ma è anche vero che io sono strano e ho anche seriamente avuto la sensazione che "viviamo un po' come in un Libro che si sta scrivendo e ognuno di noi è un personaggio che può dare un contributo nella Storia" o "un po' come un nodo (non apparente come nel buddismo) nella Rete di relazioni della realtà" ecc. Ancora quindi non ho deciso quale "verità" fa per me: se per me è meglio un approccio "bhakti", simil-buddista, simil-vedantin ecc. Tutti mi sembrano che abbiano il loro valore. Tra le mie esperienze che ho citato solo la prima è geniunamente "compatibile con il (la dottrina del) buddismo". Il resto NO.
P.S.P.S Sari aggiungo due cosette. Primo concordo col maestro di meditazione che hai citato (e dice cose attribuite al Buddha stesso e anche al suo braccio destro, il Generale del Dhamma Sari ;) ). Secondo: il problema dell'epicureismo è che il buddismo è molto più ricco, non è materialista, il suo scopo va oltre la sola "ataraxia" perchè "promette" anche la perfezione etica oltre che quella del risveglio (e della conoscenza del Dhamma). Motivo per cui ritengo paradossalmente il buddismo più simile a Platone rispetto all'epicureismo (tranne ovviamente che sull'esistenza dell'anima)
Una svolta , nel percorso di rendere unitarie le varie "anime" e tradizioni/scuole buddhiste si è avuta nel 1967 in un importante concilio tenutosi a Colombo nello Sri Lanka, dove si è trovata un'intesa su quelli che sono i punti fondamentali ai quali sia i Thera meridionali che il Mahayana si attengono. Riporto il testo per coloro che hanno seguito la discussione tenuta fin'ora e che possono forse trarre un'impressione di "confusione" in merito all'interpretazione della dottrina di questa particolare religione. Questa è l'interpretazione
ufficiale approvata all'unanimità:
Quelle che seguono sono le credenze di base del buddismo espresse in una formula unitaria Mahayana-Theravada presentata al primo congresso del World Buddhist Sangha Council nel gennaio 1967 dal Ven. Walpola Rahula e approvata all'unanimità. Tratto da Paramita n. 50.
Al primo Congresso Internazionale del World Buddhist Sangha Council tenutosi a Colombo, Sri Lanka, nel gennaio 1967, su richiesta del fondatore segretario generale, il compianto ven. Pandita Pimbure Sorata Thera, ho presentato una formula concisa per l'unificazione del Mahayana e del Theravada, che è stata APPROVATA ALL'UNANIMITÀ.
La formula è la seguente:
Qualunque sia il nostro gruppo, denominazione o sistema, in quanto buddisti, noi tutti vediamo nel Buddha il maestro che ci ha dato l'Insegnamento. Prendiamo rifugio nella tripla gemma: il Buddha, nostro maestro, il Dhamma, il suo insegnamento e il Sangha, la comunità. In altre parole, prendiamo rifugio nel maestro, nell'insegnamento e nell'insegnato.
Sia come Theravada sia come Mahayana non crediamo che il mondo sia stato creato e sia governato da un dio a suo piacimento. Seguendo l'esempio del Buddha, nostro maestro, che è l'incarnazione della grande compassione (maha-karuna) e della grande saggezza (maha-prajna), pensiamo che lo scopo della vita sia di sviluppare la compassione per tutti gli esseri, senza discriminazione, e di operare per il loro benessere, la loro felicità e la pace, sviluppando la saggezza che conduce alla realizzazione della verità ultima.
Accettiamo le quattro nobili verità insegnate dal Buddha, ovvero:
1) dukkha, il fatto che la nostra esistenza in questo mondo è una situazione difficile, impermanente, imperfetta, insoddisfacente, piena di conflitti;
2) samudaya, il fatto che questo stato è dovuto al nostro attaccamento egoico, basato su un'errata idea dell'io;
3) nirodha, il fatto che c'è comunque una possibilità di liberazione, di abbandono, di libertà da questo stato, attraverso lo sradicamento completo dell'io egoistico; e
4) magga, il fatto che tale liberazione può essere raggiunta con l'ottuplice via di mezzo, che mena alla perfezione della condotta etica (sila), della disciplina mentale (samadhi) e della saggezza (pañña).
Accettiamo la legge universale di causa ed effetto insegnata nelpaticcasamuppada (origine interdipendente o genesi condizionata) e, in accordo con questo, affermiamo che tutto è relativo, interdipendente e interrelato e che niente nell'universo è assoluto, permanente e duraturo.
Seguendo l'insegnamento del Buddha, riteniamo che tutte le cose condizionate (sankhara) siano impermanenti (anicca) e imperfette, e pertanto insoddisfacenti (dukkha) e che tutte le cose condizionate e non condizionate non abbiano un sé (anatta).
Accettiamo le 37 qualità che conducono all'Illuminazione come aspetti diversi del sentiero insegnato dal Buddha, che conduce alla liberazione, ovvero: le quattro basi della consapevolezza (satipatthana), i quattro giusti sforzi (sammappadhana), le quattro basi dei poteri yogici (iddhipada), le cinque facoltà (indriya: fede, energia, consapevolezza, concentrazione, saggezza), i cinque poteri (bala, lo stesso che le cinque facoltà sopra elencate), i sette fattori dell'illuminazione (bojjhanga), il nobile ottuplice sentiero (ariyamagga).
Ci sono tre modi per conseguire la bodhi o liberazione a seconda dell'abilità e della capacità di ciascun individuo:
1) come uno sravaka (discepolo),
2) come un pratyekabuddha (buddha individuale) e
3) come un samyaksambuddha (un buddha perfetto e compiutamente illuminato).
Accettiamo come l'atto più alto, nobile ed eroico seguire la via del bodhisattva e divenire un samyaksambuddha per salvare tutti gli esseri. Ma questi tre veicoli sono sullo stesso sentiero e non su sentieri diversi. Infatti il Sandhinirmocanasutra, un importante sutra mahayana, dice in modo chiaro e sottolinea che coloro che seguono la linea dello sravakayana (veicolo dei discepoli) o la linea del pratyekabuddbayana (veicolo dei buddha individuali) o la linea dei tathagata (mahayana) conseguono il supremo nirvana sul medesimo sentiero e che c'è un unico e solo sentiero di purificazione (visuddhimagga) e una sola e unica purificazione (visuddhi) e nessun'altra e che non ci sono sentieri diversi e purificazioni diverse e che lo sravakayana e il mahayana costituiscono l'unico veicolo, il solo yana (ekayana) e non veicoli o yana distinti e diversi.
Ammettiamo che in paesi diversi ci siano differenze rispetto ai modi di vita dei monaci buddisti, delle credenze popolari, delle pratiche, dei riti e rituali, delle cerimonie e delle abitudini.
Queste forme ed espressioni esteriori non devono però essere confuse con l'insegnamento fondamentale del Buddha.
Ven. Walpola Rahula
Bel post sull'"ecumenismo" Sari ;)
leggendo però mi sono accorto di tre cose che non mi tornano, seppur minori.
La prima è questa:
"Accettiamo la legge universale di causa ed effetto insegnata nel paticcasamuppada (origine interdipendente o genesi condizionata) e, in accordo con questo, affermiamo che tutto è relativo, interdipendente e interrelato e che niente nell'universo è assoluto, permanente e duraturo."
Trovo la cosa in genere molto interessante e non a caso il Buddha se non erro arrivò ad eguagliare la Verità del paticcasamuppada con la verità del Dhamma stesso, ossia che il "cuore" della dottrina è proprio quello. L'unico "Assoluto", si potrebbe dire, è proprio la paticcasamuppada (ritengo infatti la "vacuità della vacuità" un sofismo) in quanto una volta appresa tale nozione chiaramente uno "lascia andare tutto" e ottiene la resa che è una vittoria. Questo in realtà in un certo senso era implicito con quanto dicevo nella mia "spiegazione mitologica", ossia che per "sconfiggere Mara bisogna arrendersi". Ma anche questo a mio giudizio mostra come la filosofia greca e il buddismo sia diversi: ossia un greco (e anche io) avrebbe detto che v'è una cosa non "interidpendente", ossia che "tutto è interdipendente" - chi infatti capisce fino in fondo questa verità dopotutto per così dire ha una prospettiva su una Verità Assoluta. Ma nel buddismo l'ontologia dei concetti e delle verità non è mai stata sviluppata, a differenza per esempio della filosofia vedanta (motivo per cui ritengo la filosofia greca e indù per certi versi più "ricca"). In ogni caso nuovamente non mi è chiaro la differenza tra l'affermare che "tutto è interdipendente" con l'affermare che "tutto è uno e uno è in tutto" (come tra l'altro a ragione secondo me la scuola Huayan mahayana ha espresso chiaramente https://en.wikipedia.org/wiki/Huayan), verità che per un occidentale che cerca di comprendere la "teoria" non è così diversa dalle affini scuole vedanta e daoiste (non tutte ovviamente). Ossia in sostanza che "qualcosa" (che non è un vero "qualcosa" ;D ) di assoluto (metafisico) c'è anche nel buddismo. Ma ritengo che tutto questo mio appunto sia una noiosa riflessione semantica.
In ogni caso è ben evidente come il buddismo anche se probabilmente non è un assolutismo metafisico (perchè nulla viene proclamato come "entità sostanziale assoluta") è comunque un assolutismo per quanto concerne l'esistenza di una Verità "assoluta", ossia è un "assolutismo epistemologico"
La seconda (e più importante) è quella sull'ideale Bodhisattva. Qui invece ritengo che le differenze tra le scuole siano abbastanza grosse. Il "giuramento del Bodhisattva" se non erro è una cosa molto comune nel buddismo mahayana mentre in quello theravada non c'è. Anzi i Thera mi paiono abbastanza critici per chi crede di essere capace di "salvare il prossimo" senza essere lui stesso "(quasi) salvo". Non a caso il buddismo mahayana è molto più incline ad ammettere "bodhisattva laici" mentre quello theravada l'insegnamento è quasi sempre fatto da monaci.
La terza: non vedo nominato il trittico anicca-dukkha-anatta, nella forma delle tre caratteristiche dell'esistenza :o forse perchè anche per qualcun altro - oltre a me - questo passo del Dhammapada:
277: "tutte le cose condizionate (sankhara) sono impermanenti..."
278: "tutte le cose condizionate (sankhara) di per sé insoddisfacenti..."
279: "tutte le cose (dhamma) sono prive di sé..." (condizionate e non)
risulta problematico. Ossia che quel "dhamma" è un po' ingiustificato o comunque è un non-sequitor rispetto alla patticcasamuppada? :o
Citazione di: Sariputra il 25 Settembre 2017, 09:52:52 AM
affermiamo che tutto è relativo... e che niente nell'universo è assoluto, permanente e duraturo.
....
c'è un unico e solo sentiero di purificazione (visuddhimagga) e una sola e unica purificazione (visuddhi) e nessun'altra
Se nell'universo <<niente è assoluto, permanente e duraturo>>, allora nemmeno l'insegnamento buddhista è assoluto, permanente e duraturo. Quindi potrebbe esistere
più di UN sentiero di purificazione, come sostenevo io giorni fa. Oppure tutto è relativo
tranne ciò che predica il buddhismo? :)
@Apeiron
Penso che, per arrivare alla stesura di un testo condiviso, ogni posizione abbia dovuto ingoiare dei bei "rospi". Il fatto che sia stato approvato all'unanimità è sicuramente un bel risultato.
Dover digerire , per un seguace del Mahayana, che i tre modi della bodhi siano praticamente equiparati nella pari dignità deve esser stato piuttosto duro, come il fatto di accettare l'autorità di un testo come il Visudhimmagga, che è un testo fondamentale di Buddhaghosa e della scuola Theravada. Mentre per i thera sarà stata indigesta questa espressione: "Accettiamo come l'atto più alto, nobile ed eroico seguire la via del bodhisattva e divenire un samyaksambuddha per salvare tutti gli esseri. ". Mi sembra comunque un buon equilibrio ( o equilibrismo?... ;D ) raggiunto, che accontenta tutti.
Però pensa se il cristianesimo, nonostante tutti gli incontri e le tavole ecumeniche siano quasi sterili, arrivasse ad un testo condiviso tra cattolici, protestanti e ortodossi...almeno sui punti chiavi di quello che dovrebbe intendersi per "cristianesimo". E' ancora pura utopia...
La terza: non vedo nominato il trittico anicca-dukkha-anatta, nella forma delle tre caratteristiche dell'esistenza (https://www.riflessioni.it/logos/Smileys/default/shocked.gif)
Lo trovi qua: "Seguendo l'insegnamento del Buddha, riteniamo che tutte le cose condizionate (sankhara) siano impermanenti (anicca) e imperfette, e pertanto insoddisfacenti (dukkha) e che tutte le cose condizionate e non condizionate non abbiano un sé (anatta)."
Si può notare l'estensione del concetto di anatta/non-sé non solo ai sankhara condizionati e soggetti quindi a paticcasamuppada ma anche alle cose non condizionate. Ritengo fondamentale questa precisazione per evitare la possibilità che l'incondizionato venga concettualizzato come un' essenza o un Dio. L'elemento Nibbana è dunque "privo di un sé"...estensione della dottrina dell'anatta anche all'incondizionato ( punto molto difficile da introiettare questo, a parer mio...ma direi conseguenza logica e coerente ).
In ogni caso è ben evidente come il buddismo anche se probabilmente non è un assolutismo metafisico (perchè nulla viene proclamato come "entità sostanziale assoluta") è comunque un assolutismo per quanto concerne l'esistenza di una Verità "assoluta", ossia è un "assolutismo epistemologico"
Sono d'accordo che non si tratti di un assolutismo metafisico ed anche sul fatto che comunque propugna una forma di verità assoluta esperienziale ( il Dhamma).
P.S: Si possono trovare in rete alcune traduzioni leggermente diverse di questo testo ( come sempre purtroppo...) ma ho visto che si discostano di pochissimo. Quindi possiamo prendere la traduzione postata come sufficientemente buona...
Citazione di: Carlo Pierini il 25 Settembre 2017, 17:29:39 PM
Citazione di: Sariputra il 25 Settembre 2017, 09:52:52 AM
affermiamo che tutto è relativo... e che niente nell'universo è assoluto, permanente e duraturo. .... c'è un unico e solo sentiero di purificazione (visuddhimagga) e una sola e unica purificazione (visuddhi) e nessun'altra
Se nell'universo <>, allora nemmeno l'insegnamento buddhista è assoluto, permanente e duraturo. Quindi potrebbe esistere più di UN sentiero di purificazione, come sostenevo io giorni fa. Oppure tutto è relativo tranne ciò che predica il buddhismo? :)
Il buddhismo non ha in sé il concetto di "eternità" e quindi vede l'insegnamento stesso come contingente all'apparire di un buddha nel ciclo dell'esistenza. Solo la presenza e l'insegnamento di un liberato mette in moto la ruota del Dharma ( dà il primo giro ...), ruota che può continuare a girare se l'insegnamento viene trasmesso o se altri liberati appaiono nel mondo condizionato, come sparire in assenza delle condizioni adatte. Prima di Siddhartha, su questo pianeta ( su altri non lo sappiamo... ;D ) non vi era conoscenza di questa possibilità di liberazione. Adesso, dopo 2.500 anni, ne è rimasta "pochina" e sta via via scomparendo o snaturandosi in altro ( vedo tanti spinotti attaccati sulle zucche di bonzi attualmente... :( ).E' come dire. ci può essere insegnamento senza insegnante? Ecco quindi che anche il buddhismo, in assenza de un insegnante, non è assoluto, non è permanente e purtroppo ( a gusto mio ma molti altri ne sarebbero felici...) non può durare. Ecco quindi l'importanza della trasmissione di questo insegnamento per tenerlo "vivo"... :) Nel buddhismo, pur rivendicando per sé l'aderenza al "vero ascetismo", non c'è denigrazione degli altri sentieri purchè conducano alla liberazione...In ogni caso si tratta di una religione e ogni forma religiosa, chi più e chi meno, chi in modo tollerante e chi in modo intollerante, è un pensiero "forte", quindi vitale, che porta all'agire, ecc.
Citazione di: Sariputra il 23 Settembre 2017, 21:51:05 PM
Posto un contributo di Riccardo Venturini che lo spiega meglio di me:
La Realtà ultima, essendo nel buddhismo definita come Vacuità, risulta non oggettivabile, non concepibile, non raggiungibile dalla coscienza ordinaria. Non si ripeterà mai abbastanza che con Vacuità non si indica il nulla, ma la mancanza di esistenza intrinseca dei fenomeni, ossia l'aspetto relazionale e interdipendente della realtà fenomenica.
Nemmeno l'atomo, né l'energia, né i neutrini, né le leggi della Fisica, sono raggiungibili dall'esperienza diretta, eppure l'osservazione accurata e metodica del mondo (la scienza) li ha resi oggettivabili grazie alle loro manifestazioni osservabili. Questo vale anche per la Realtà ultima. La psicologia e la storia comparata dei simboli e delle idee religiose hanno scoperto, infatti, che Essa si manifesta alla coscienza sotto forma di sogni, visioni, intuizioni, ispirazioni, ecc., in immagini simboliche riconoscibili per la loro struttura tipica, anzi, archetipica, diffuse universalmente in ogni tempo e in ogni luogo (si veda il mio topic: "Il concetto junghiano di archetipo"). Ed è lo studio di queste forme simbolico-archetipiche e delle loro proprietà ciò che trasformerà progressivamente la Realtà assoluta in un vero e proprio oggetto di conoscenza. Questa scoperta (ancora pressoché ignorata dall'intellighenzia "dormiente" delle religioni) produrrà nei decenni e nei secoli a venire una rivoluzione delle scienze dello spirito comparabile a quella che l'applicazione degli archetipi numerici ai fenomeni fisici (Galilei) ha prodotto nel campo delle scienze della natura. Come scrive Jung:"L'ipotesi dell'esistenza di un Dio assolutamente metafisico, al di là di ogni esperienza umana, mi lascia indifferente; né io agisco su di lui, né lui su di me. Se invece so che Egli è un possente impulso nella mia anima, me ne devo interessare". [JUNG: Studi sull'Alchimia - pg.59] "Nel definire Dio o il Tao come un impulso dell'anima o uno stato psichico, ci si limita a compiere una asserzione su ciò che è conoscibile, e non invece su quanto è inconoscibile, intorno al quale non potremmo affermare assolutamente nulla". [JUNG: Studi sull'Alchimia - pg.63] "La scienza non ha mai scoperto Dio; la critica della conoscenza sostiene l'impossibilità di conoscere Dio, ma la psiche umana afferma l'esperienza di Dio. Se così non fosse, di Dio non si sarebbe mai parlato". [JUNG: La dinamica dell'Inconscio - pg.353]Ma, probabilmente, i religiosi saranno gli ultimi a rendersi conto e ad accettare questa nuova straordinaria prospettiva di avvicinamento dell'uomo alla Realtà Ultima, appartenendo alla componente più graniticamente conservatrice e dogmatica della cultura umana.
Citazione di: Sariputra il 25 Settembre 2017, 17:51:06 PM
Citazione di: Carlo Pierini il 25 Settembre 2017, 17:29:39 PM
Citazione di: Sariputra il 25 Settembre 2017, 09:52:52 AM
affermiamo che tutto è relativo... e che niente nell'universo è assoluto, permanente e duraturo. .... c'è un unico e solo sentiero di purificazione (visuddhimagga) e una sola e unica purificazione (visuddhi) e nessun'altra
Se nell'universo <<niente è assoluto, permanente e duraturo>>, allora nemmeno l'insegnamento buddhista è assoluto, permanente e duraturo. Quindi potrebbe esistere più di UN sentiero di purificazione, come sostenevo io giorni fa. Oppure tutto è relativo tranne ciò che predica il buddhismo? :)
Il buddhismo non ha in sé il concetto di "eternità" e quindi vede l'insegnamento stesso come contingente all'apparire di un buddha nel ciclo dell'esistenza. Solo la presenza e l'insegnamento di un liberato mette in moto la ruota del Dharma ( dà il primo giro ...), ruota che può continuare a girare se l'insegnamento viene trasmesso o se altri liberati appaiono nel mondo condizionato, come sparire in assenza delle condizioni adatte. Prima di Siddhartha, su questo pianeta ( su altri non lo sappiamo... ;D ) non vi era conoscenza di questa possibilità di liberazione. Adesso, dopo 2.500 anni, ne è rimasta "pochina" e sta via via scomparendo o snaturandosi in altro ( vedo tanti spinotti attaccati sulle zucche di bonzi attualmente... :( ).
E' come dire. ci può essere insegnamento senza insegnante? Ecco quindi che anche il buddhismo, in assenza de un insegnante, non è assoluto, non è permanente e purtroppo ( a gusto mio ma molti altri ne sarebbero felici...) non può durare. Ecco quindi l'importanza della trasmissione di questo insegnamento per tenerlo "vivo"... :)
Nel buddhismo, pur rivendicando per sé l'aderenza al "vero ascetismo", non c'è denigrazione degli altri sentieri purchè conducano alla liberazione...
In ogni caso si tratta di una religione e ogni forma religiosa, chi più e chi meno, chi in modo tollerante e chi in modo intollerante, è un pensiero "forte", quindi vitale, che porta all'agire, ecc.
Vuoi dire che nell'universo
tutto è relativo e impermanente,
tranne le verità rivelate dei liberati? I liberati non fanno più parte dell'universo?
Citazione di: Carlo Pierini il 26 Settembre 2017, 00:31:16 AM
Citazione di: Sariputra il 25 Settembre 2017, 17:51:06 PM
Citazione di: Carlo Pierini il 25 Settembre 2017, 17:29:39 PM
Citazione di: Sariputra il 25 Settembre 2017, 09:52:52 AM
affermiamo che tutto è relativo... e che niente nell'universo è assoluto, permanente e duraturo. .... c'è un unico e solo sentiero di purificazione (visuddhimagga) e una sola e unica purificazione (visuddhi) e nessun'altra
Se nell'universo <>, allora nemmeno l'insegnamento buddhista è assoluto, permanente e duraturo. Quindi potrebbe esistere più di UN sentiero di purificazione, come sostenevo io giorni fa. Oppure tutto è relativo tranne ciò che predica il buddhismo? :)
Il buddhismo non ha in sé il concetto di "eternità" e quindi vede l'insegnamento stesso come contingente all'apparire di un buddha nel ciclo dell'esistenza. Solo la presenza e l'insegnamento di un liberato mette in moto la ruota del Dharma ( dà il primo giro ...), ruota che può continuare a girare se l'insegnamento viene trasmesso o se altri liberati appaiono nel mondo condizionato, come sparire in assenza delle condizioni adatte. Prima di Siddhartha, su questo pianeta ( su altri non lo sappiamo... ;D ) non vi era conoscenza di questa possibilità di liberazione. Adesso, dopo 2.500 anni, ne è rimasta "pochina" e sta via via scomparendo o snaturandosi in altro ( vedo tanti spinotti attaccati sulle zucche di bonzi attualmente... :( ). E' come dire. ci può essere insegnamento senza insegnante? Ecco quindi che anche il buddhismo, in assenza de un insegnante, non è assoluto, non è permanente e purtroppo ( a gusto mio ma molti altri ne sarebbero felici...) non può durare. Ecco quindi l'importanza della trasmissione di questo insegnamento per tenerlo "vivo"... :) Nel buddhismo, pur rivendicando per sé l'aderenza al "vero ascetismo", non c'è denigrazione degli altri sentieri purchè conducano alla liberazione... In ogni caso si tratta di una religione e ogni forma religiosa, chi più e chi meno, chi in modo tollerante e chi in modo intollerante, è un pensiero "forte", quindi vitale, che porta all'agire, ecc.
Vuoi dire che nell'universo tutto è relativo e impermanente, tranne le verità rivelate dei liberati? I liberati non fanno più parte dell'universo?
Se noti, nel testo che ho riportato ( riteniamo che tutte le cose condizionate (sankhara) siano impermanenti (anicca) e imperfette, e pertanto insoddisfacenti (dukkha) e che tutte le cose condizionate e non condizionate non abbiano un sé (anatta). , il concetto di impermanenza e di carattere insoddisfacente viene applicato, nel buddhismo, ai fenomeni condizionati che vengono definiti come sankhara. Ciò che è invece incondizionato ( come l'elemento Nibbana/Nirvana ) non soggiace all'impermanenza e a dukkha ( carattere insoddisfacente) ma soggiace all'anatta/anatman (non-sé come trad.), questo per evitare che venga concettualizzato o ritenuto come un Dio, un'essenza eterna, ecc. come ho scritto nella risposta ad @Apeiron. Il Nibbana infatti necessita di essere realizzato seguendo il Dhamma/Dharma ( o qualunque altro sentiero ove sia presente il "vero ascetismo"). In mancanza di colui che lo realizza non si manifesta, come si può intendere la manifestazione di un Dio, di una divinità, di un'essenza eterna, ecc.Quando si parla di relatività nel buddhismo si parla dell'interdipendenza dei sankhara, dei fenomeni condizionati: "Ogni cosa dipende nella sua natura da tutte le altre, ogni fenomeno preso di per sé è vuoto di una sua "sostanzialità" inerente (non esiste di per sé ma solo in relazione agli altri)." T.R.V. Murti.Sul discorso interessante che fai sui simboli del religioso e sugli archetipi non mi avventuro perché, come ho già scritto, non ho competenza in materia. Ne intuisco le possibili relazioni e profondità ma mi sembra veramente difficile ottenerne un "sistema" ( per di più di evidenza inoppugnabile , "oggettiva" come mi sembra sia il tuo obiettivo dichiarato, dimmi se sbaglio...).Come fruitore di sogni e di visioni ne vedo l'incredibile molteplicità, ma anche il pericolo inerente...Per esempio io ho sempre una "visione" e un sogno relativo ricorrente: vedo donne nude ( sigh :-[)..Che sia per effetto del kamma/karma accumulato nelle precedenti esistenze nel samsara? Se è così trattasi sicuramente di vite passate...nell'"astinenza"!... ;D ;D .Scherzo ovviamente! Non te la prendere, son fatto ( male) così... ;D
;D
@Sariputra, probabilmente avevo dormito male ieri, ti giuro che non ho proprio letto la parola "anatta" (e dire che la cosa mi aveva pure un po' sconvolto) ;D ;D ;D c'erano le tre caratteristiche scritte chiaro e tendo, che figura di m.... ;D ;D ;D
Sì ok forse ho capito (finalmente) perchè si dice che "Nibbana è anatta" anche se ritengo la cosa non così evidente come sembra e nemmeno così "unica" come sembra - anche se il Dhamma come ben ti sforzi a far notare "trascende" ciò che hanno insegnato gli stessi Buddha, Sari ecc ;D Sulla questione dell'assolutismo "epistemologico" direi che è una conclusione necessaria e che risponde proprio alle mie domande sull'"infallibilità del Buddha", ossia che il Buddha è colui che oltre ad avere una conoscenza perfetta della Verità, è anche perfetto nel saperla insegnare (e più passa il tempo, più l'imperfezione dell'uomo fa in modo che quindi non si capisca più nulla del Dhamma ;) ). Poi il Dhamma non è realmente "relativo" come sostieni Sari, proprio perchè come si è detto secondo i buddisti la paticcasamuppada è universale. Ergo dire che la paticcasamuppada è relativa mi pare che sia un (mal) celato sofismo, completamente inutile (dire che il Dhamma insegnato dal Buddha è relativo al tempo in cui è stato esposto non è di certo una "prova" che la verità del paticcasamuppada sia relativa, anzi mi pare una conferma della sua assolutezza). A livello esperienziale, poi, come ben dici tu ovviamente è assolutismo.
La cosa interessante è se davvero l'anatta esclude ogni tipo di "assolutismo"... A mio giudizio NO. Per esempio non riesco sinceramente a ben distinguere la differenza tra la filosofia del Dao a quella buddista a parte che il Dao talvolta viene pensato come "principio". Ma se il Dao non viene pensato come "principio" non mi pare così diverso (non fraintendermi, so che è diverso ma credo che la diversità sia compatibile con il fatto che due saggi possono descrivere la medesima cosa in modo diverso).
O almeno rimane comunque un assolutismo metafisico nel senso di quel meraviglioso e particolare assolutismo del "tutte le cose sono in una e una cosa è in tutte le cose" o dell'interpenetrazione, come sostiene l'Avatamsaka sutra (che perarltro devo ancora leggere e probabilmente non riuscirò mai a leggere) e della filosofia Huayan - motivo per cui la "dissoluzione" dell'io non è solo dissoluzione ma anche "trascendenza" ;)
Inoltre secondo la mia interpretazione il buddismo ha come obbiettivo quello di "purificare" la mente, ossia togliere tutte le "cose in più" per ottenere una mente "perfetta", proprio come dicono i rappresentanti della Tradizione della Foresta Thailandese. E questa "mente" si è raffreddata perchè non fa più attività, non crea più nulla perchè non è più stabilita. Ma forse dire che il Parinibbana è un tipo di "mente" è troppo, ma è l'unico modo per cui io posso apprezzare il buddismo, perchè continuare a non "dire nulla sul Nibbana perchè è trascendente" mi pare che sia un ostacolo alla concretezza stessa del buddismo. E poi un certo supporto questa mia "teoria" la prende anche dal fatto che nella filosofia Mahayana l'idea torna con la "Natura di Buddha", presente in ogni essere senziente.
Per @Carlo "tutto è relativo" in senso metafisico, ossia che non puoi trovare una "cosa" che è ontologicamente separata dal "resto". Ma non è un relativismo (vedi la mia risposta al Sari)... il Dhamma è la Verità. O più precisamente se vuoi la parte "verbale" del Dhamma, l'assoluto "verbale" è a mio giudizio la teoria del paticcasamuppada, dell'originazione dipendente - se vuoi è la "mappa perfetta" con cui il Buddha ha descritto il territorio. E qui è presente l'infallibilità del Buddha (altro assolutismo, se vuoi) in quanto è solo per fede che posso accettare (a meno che non ne abbia avuto esperienza io stesso) la verità che "tutte le cose condizionate sono impermanenti" (per esempio) o la verità del paticcasamuppada - posso fare argomenti di natura scettica su tale principio ma ciò non toglie che in ultima analisi per coloro che non hanno ancora avuto tale esperienza, tutto ciò è da prendersi per fede (per quanto ragionevole o meno sia).
@Per quanto riguarda l'ecumenismo... sì sarebbe bello vedere una cosa con una simile chiarezza anche nel cristianesimo. Però c'è da dire che il Secondo Concilio forse ha ispirato quello buddista visto che quello buddista mi pare posteriore. Ma il problema di fondo è che per come è stato impostato il cristianesimo, con la rigida aderenza alla dottrina, la vedo dura. Per esempio nella pratica di tutti i cristiani potrebbe esserci la coltivazione dell'agape ma è utopia, secondo me.
Citazione di: Apeiron il 26 Settembre 2017, 10:06:41 AM@Sariputra, probabilmente avevo dormito male ieri, ti giuro che non ho proprio letto la parola "anatta" (e dire che la cosa mi aveva pure un po' sconvolto) ;D ;D ;D c'erano le tre caratteristiche scritte chiaro e tendo, che figura di m.... ;D ;D ;D Sì ok forse ho capito (finalmente) perchè si dice che "Nibbana è anatta" anche se ritengo la cosa non così evidente come sembra e nemmeno così "unica" come sembra - anche se il Dhamma come ben ti sforzi a far notare "trascende" ciò che hanno insegnato gli stessi Buddha, Sari ecc ;D Sulla questione dell'assolutismo "epistemologico" direi che è una conclusione necessaria e che risponde proprio alle mie domande sull'"infallibilità del Buddha", ossia che il Buddha è colui che oltre ad avere una conoscenza perfetta della Verità, è anche perfetto nel saperla insegnare (e più passa il tempo, più l'imperfezione dell'uomo fa in modo che quindi non si capisca più nulla del Dhamma ;) ). Poi il Dhamma non è realmente "relativo" come sostieni Sari, proprio perchè come si è detto secondo i buddisti la paticcasamuppada è universale. Ergo dire che la paticcasamuppada è relativa mi pare che sia un (mal) celato sofismo, completamente inutile (dire che il Dhamma insegnato dal Buddha è relativo al tempo in cui è stato esposto non è di certo una "prova" che la verità del paticcasamuppada sia relativa, anzi mi pare una conferma della sua assolutezza). A livello esperienziale, poi, come ben dici tu ovviamente è assolutismo. La cosa interessante è se davvero l'anatta esclude ogni tipo di "assolutismo"... A mio giudizio NO. Per esempio non riesco sinceramente a ben distinguere la differenza tra la filosofia del Dao a quella buddista a parte che il Dao talvolta viene pensato come "principio". Ma se il Dao non viene pensato come "principio" non mi pare così diverso (non fraintendermi, so che è diverso ma credo che la diversità sia compatibile con il fatto che due saggi possono descrivere la medesima cosa in modo diverso). O almeno rimane comunque un assolutismo metafisico nel senso di quel meraviglioso e particolare assolutismo del "tutte le cose sono in una e una cosa è in tutte le cose" o dell'interpenetrazione, come sostiene l'Avatamsaka sutra (che perarltro devo ancora leggere e probabilmente non riuscirò mai a leggere) e della filosofia Huayan - motivo per cui la "dissoluzione" dell'io non è solo dissoluzione ma anche "trascendenza" ;) Inoltre secondo la mia interpretazione il buddismo ha come obbiettivo quello di "purificare" la mente, ossia togliere tutte le "cose in più" per ottenere una mente "perfetta", proprio come dicono i rappresentanti della Tradizione della Foresta Thailandese. E questa "mente" si è raffreddata perchè non fa più attività, non crea più nulla perchè non è più stabilita. Ma forse dire che il Parinibbana è un tipo di "mente" è troppo, ma è l'unico modo per cui io posso apprezzare il buddismo, perchè continuare a non "dire nulla sul Nibbana perchè è trascendente" mi pare che sia un ostacolo alla concretezza stessa del buddismo. E poi un certo supporto questa mia "teoria" la prende anche dal fatto che nella filosofia Mahayana l'idea torna con la "Natura di Buddha", presente in ogni essere senziente. Per @Carlo "tutto è relativo" in senso metafisico, ossia che non puoi trovare una "cosa" che è ontologicamente separata dal "resto". Ma non è un relativismo (vedi la mia risposta al Sari)... il Dhamma è la Verità. O più precisamente se vuoi la parte "verbale" del Dhamma, l'assoluto "verbale" è a mio giudizio la teoria del paticcasamuppada, dell'originazione dipendente - se vuoi è la "mappa perfetta" con cui il Buddha ha descritto il territorio. E qui è presente l'infallibilità del Buddha (altro assolutismo, se vuoi) in quanto è solo per fede che posso accettare (a meno che non ne abbia avuto esperienza io stesso) la verità che "tutte le cose condizionate sono impermanenti" (per esempio) o la verità del paticcasamuppada - posso fare argomenti di natura scettica su tale principio ma ciò non toglie che in ultima analisi per coloro che non hanno ancora avuto tale esperienza, tutto ciò è da prendersi per fede (per quanto ragionevole o meno sia). @Per quanto riguarda l'ecumenismo... sì sarebbe bello vedere una cosa con una simile chiarezza anche nel cristianesimo. Però c'è da dire che il Secondo Concilio forse ha ispirato quello buddista visto che quello buddista mi pare posteriore. Ma il problema di fondo è che per come è stato impostato il cristianesimo, con la rigida aderenza alla dottrina, la vedo dura. Per esempio nella pratica di tutti i cristiani potrebbe esserci la coltivazione dell'agape ma è utopia, secondo me.
Anch'io dormo spesso male... :( Sul fatto che vedi profonde similitudini tra il daoismo e il buddhismo sono d'accordo. Il daoismo è più letterario, poetico ( infatti ha influenzato e liberato tutta la poesia e letteratura cinese e dell'Estremo Oriente; i cui effetti sono quasi palpabili ancor'oggi) meno freddo e sistematico. In un certo senso è forse anche più vicino ad alcuni aspetti della nostra sensibilità occidentale. Non è un caso che un appassionato di buddhismo lo sia spessissimo pure di daoismo ( come l'inadeguato Sari... :) ). Questo sarebbe strano se non vi fossero profonde affinità tra le due forme di spiritualità/filosofia. Affinità "elettive" che non potevano non riconoscersi nell'incontro tra i due e che, dall'arrivo di Bodhidharma in Cina in poi, ha dato origine alla grande stagione del buddhismo Chan e Hwa Yen ( Con un'immagine simbolica possiamo immaginare Siddhartha che ha dato il primo giro alla ruota dell' Insegnamento, Nagarjuna il secondo e Hui Neng, il sesto patriarca, il terzo...). Come si può leggere e non amare le pagine di Ciuang Tze?...Se però cerchi un insegnamento concreto, pratico , attuabile, con qualche maestro che ti può dare delle indicazioni, dei suggerimenti...beh! Sei quasi costretto, in presenza di questa attrattiva verso ambedue, a rivolgerti al buddhismo. Troppo "etereo" il daoismo, troppo legato alla personale esperienza, tradotta in altissima letteratura, di questi Antichi...Ed essendo il Sari più portato e amante della letteratura che non della filosofia pura, confessa che spessissimo trova più ispirazione nel leggersi qualche storia tratta dall'opera di Ciuang Tze, che non le spesso infinite ripetizioni di un sutra buddhista del Canone Pali... :P Sulla tua considerazione:"credo che la diversità sia compatibile con il fatto che due saggi possono descrivere la medesima cosa in modo diverso". La domanda è: E' possibile che, in un linguaggio diverso, entrambi indicassero la stessa esperienza? ...E qua, personalmente, non ho una rsposta e credo francamente sia impossible trovarla. Si può provare una grande ammirazione per ambedue, senz'altro...P.S. Vorrei ora porti una domanda un pò personale ( sei ovviamente padrone di ignorarla...): Cosa ritieni che sia cambiato , nella tua visione della vita, nel tuo rapporto con gli altri, con la tua weltanshauung (ho scritto corretto?...) personale da quando hai avvicinato e ti sei interessato a queste forme di spirtualità/filosofia? Come vedi le cose "concrete" dell'esistenza adesso?Ti faccio questa domanda per uscire un pò dalla parte teorica che abbiamo abbondantemente sviluppato. Penso che qualche cristo che ci legge potrebbe essere interessato anche a questo. Altrimenti: "Sì, bello interessante...ma poi?"...
Caro Sari,
Dalla foga che avevo stamani mi sono dimenticato di dire che in effetti come "equilibrio" tra Theravada e Mahayana ci sta quello che c'è scritto nel documento ecumenico sulla questione del Bodhisattva. Anche perchè è un buon accordo visto che si parte da differenze molto profonde.
Sulla questione daoismo-buddismo, concordo sul fatto che uno è più poetico e l'altro più sistematico. Motivo per cui parlavo qualche post fa di una "differenza di espressione" ma che è forse una differenza di approccio sulla filosofia e spiritualità. Per certi versi il buddismo sino-giapponese delle scuole Chan e Huayan d'altronde mi affascinano parecchio proprio perchè sembra anche influenzato dal daoismo e non mi sorprenderebbe se qualcuno in futuro dimostrasse che il daoismo ha origini indiane (o nepalesi ;D... invertendo così la storia secondo cui Laozi era il maestro di Siddharta ;D ). Il "bello" del daoismo è in un certo senso proprio il fatto che è molto adattabile alla persona, viene molto incontro all'esigenza individuale visto che dottrinariamente è molto "povero". Affascina molto anche perchè, oltre all'influenza sui movimenti artistici, è una filosofia da "outcasts", da persone "particolari" (vedi Zhuangzi/Chuang-tze col suo utilizzo di "pazzi", "mutilati" ecc come portatori della verità.). Inoltre frasi presenti nel Dadejing come "il bene supremo è come l'acqua...fluisce nei posti che la gente odia e quindi è simile al Dao", "il re è colui che si prende i mali del regno" oltre che la già menzionata enfasi dello Zhuangzi che la saggezza si trova anche tra "pazzi", "mutilati" (ossia "peccatori contro la legge" dell'impero) ricordano più che vagamente certe tematiche cristiane, quindi per un occidentale in cerca di una strada (dao ;D ) personale è perfetto. Il problema è che l'assenza di sistematicità lo fa andare in secondo piano rispetto al buddismo, il quale è ben sistematico su ciò che forse conta di più, ossia la pratica (oltre al fatto che l'Immortalità promessa dalla parte "religiosa" del daoismo lascia molto perplessi ;) ). Ma l'aderenza ad una dottrina per chi è curioso e scientifico è difficile e ritengo che un forte merito del daoismo e del buddismo sino-giapponese sia proprio questo "affrancamento" dalle dottrine. Ovviamente ciò non deve essere interpretato come una negligenza nella ricerca del Bene e della Verità, bensì come un'impostazione più adattabile alla persona (per esempio seguire alcune delle regole del Vinaya mi sembra assurdo, non ne capisco proprio il senso ;) ma ovviamente questo perchè sono fatto così io, non ho assolutamente nulla con chi pensa che esse siano sensate ;) ). Motivo per cui dottrine "radicali" come sunyata per me sono difficili da apprezzare quando ad esempio trovi insegnameni meravigliosi che richiedono un assoluto "metafisico" oltre che "epistemologico" - il principio dell'interpenetrazione della scuola Huayan da questo punto di vista sembra essere una "espressione positiva" ma equivalente della dottrina del sunyata e ricorda la "poesia" del daoismo. Motivo per cui l'ho segnalata. Credo che sia una cosa che vari da persona a persona: chi è più portato ad aderire a dottrine preferirà le scuole più rigorose, chi invece è più portato alla creatività e alla ricerca personale della realtà e del significato della vita (come ritengo siamo entrambi) preferirà scuole più "flessibili" sia nella pratica che nella dottrina (e forse più "umane" per certi aspetti). Nel mio caso ritengo che la mia "tendenza a filosofare" per fortuna o purtroppo mi rimarrà tutta la vita e impormi una qualsiasi dottrina in modo rigido per me è impossibile. Motivo per cui dottrine diverse per me sono ugualmente apprezzate, anche perchè ritengo che la rigidità nella storia avrà magari "liberato" molte persone ma è stata anche causa di molti guai sia in oriente che in occidente...
SARIPUTRA
P.S. Vorrei ora porti una domanda un pò personale ( sei ovviamente padrone di ignorarla...): Cosa ritieni che sia cambiato , nella tua visione della vita, nel tuo rapporto con gli altri, con la tua weltanshauung (ho scritto corretto?...) personale da quando hai avvicinato e ti sei interessato a queste forme di spirtualità/filosofia? Come vedi le cose "concrete" dell'esistenza adesso?
Ti faccio questa domanda per uscire un pò dalla parte teorica che abbiamo abbondantemente sviluppato. Penso che qualche cristo che ci legge potrebbe essere interessato anche a questo. Altrimenti: "Sì, bello interessante...ma poi?"...
APEIRON
All'inizio non volevo rispondere - non perchè non voglio o perchè ho paura di "espormi", ma proprio perchè non voglio allontanare le persone da questo tipo di filosofia, visto che personalmente non sono né buddista, ne daoista, né indù... Poi però ho cambiato idea e ritengo che invece anche la mia esperienza può essere importante (anche perchè forse è utile sentire l'esperienza dei pochi che un po' studiano e un po' praticano). Farò una risposta forse troppo breve, ma vorrei cercare di rendere l'idea con la minima quantità di parole. Inoltre la risposta sarà molto "sistematica" (leggendo si capisce cosa intendo). Anticipo fin da subito che più che un Alan Watts sono uno Schopenhauer, ossia troppo attento alla weltanshauung (ok hai scritto bene ;) ) e alla "teoria" e non me ne vanto per niente (visto che so che la pratica è più importante della teoria).
1) visione della vita: qui in effetti sono cambiato molto. Adesso ho una percezione molto più "vissuta" della transitorietà delle cose e questo mi porta da un lato a vedere oltre "il mio orticello" ma dall'altro mi causa molta nostalgia (i giapponesi direbbero mono no aware). Inoltre cosa assurda è che mi sento al contempo al "centro di tutto" e insignificante e questo ovviamente causa a volte problemi di varia natura come ogni trasformazione comporta. Tendo poi ad essere molto passivo, a non voler controllare niente ecc
2) rapporto con gli altri: da un punto di vista cognitivo sono più consapevole delle sofferenze altrui e più aperto alla diversità, ma ciò ahimé è solo a livello di "consapevolezza". Sono anche più volenteroso a aiutare gli altri utilizzando consigli (a volte cito, senza dirlo, alcune parole delle suttas). Rimango però eccessivamente "egocentrico" e la conoscenza di queste tradizioni mi rende consapevole dei miei problemi (e delle mie inadeguatezze ;)) con il "metta" e la "rinuncia" (o con l'agape e la "kenosi" cristiana, o con il "sommo bene" daoista ecc... ci siamo capiti ;) ). Schopenhauer - e gli si può dare dell'ipocrita ma almeno a volte era anche onesto - dal canto suo ci teneva a precisare come il "filosofo non è il santo" (ma solitamente lo ammira), motivo per cui io se proprio devo definirmi mi definisco come "pensatore". Tant'è che ad esempio in questi giorni mi chiedo se ho "troppi amici" - vorrei essere più selettivo - ma al contempo vorrei anche "essere in buoni rapporti con tutti". Edit: sulla questa dell'avere "troppi amici", non voglio essere frainteso come se il buddismo &co mi avessero insegnato di essere asociale... in sostanza mi hanno reso consapevole che certe attività che usualmente si praticano "per divertimento" finiscono per essere anche dannose a lungo termine - ossia sono divertenti per un po' ma poi sono cose da abbandonare. Tuttavia l'assurdo è che essere troppo "inseriti" nella società certamente diminuisce la sofferenza dovuta alla solitudine ma allo stesso tempo finisce per mettere talvolta catene. E poi ho anche l'impressione che chi non ha fatto un po' di percorso spirituale in genere troverà un discorso simile quasi come "offensivo", anche perchè d'altronde sono viste come provocazioni.
3) Per quanto riguarda le cose "concrete". Sono come ho detto molto più passivo e molto più consapevole ai problemi che nascono a causa dell'incontrollabilità della vita ordinaria, pur rendendomi conto che questo tipo di visione delle cose "concrete" non mi da molte possibilità di successo. Per certi versi sono diventato ancora più critico di quello che ero sulla società e sulla sua incapacità di accettare valori che sono contrari a quelli moderni. Anzi a volte le cose "concrete" le vedo come una seccatura proprio perchè ho una volontà di libertà ancora maggiore di quando non conoscevo questo tipo di filosofie/spiritualità - più precisamente non le "disprezzo" ma vedendole per quello che sono in fin dei conti mi pare che la società odierna sia troppo "attaccata" ad esse.
Ma è anche vero che vorrei anche "trasmettere" questo mio punto di vista a più persone possibili, vorrei vedere un "sommovimento" dello spirito quando parlo di queste cose... ma a quanto pare non sono bravo a trasmettere.
Che dire? Certamente il Dhamma &co mi hanno aperto gli occhi e mi hanno reso consapevole su molte cose. Mi hanno reso consapevole di quanti comportamenti ritenuti "sani" in realtà non lo sono per niente e di quanto sia "vera" la verità dell'impermenenza. Mi hanno reso consapevole della virtù del non-attaccamento (che è diverso dall'essere "distaccati"). Tuttavia per ora il mio egocentrismo è ancora lì, le mie paure ridicole sono ancora lì, il mio carattere difficile è ancora lì (anzi a volte proprio la conoscenza della saggezza - che è diversa dalla vera saggezza - di quei maestri mi rende iper-critico) e le mie difficoltà sono ancora lì. Quindi per ora non mi hanno reso "un campione dal punto di vista etico" ma hanno accentuato certi tratti già presenti nella mia persona (per quanto illusoria essa sia ;D ). Ma ahimé i problemi sono ancora gli stessi e sempre presenti ;) ne vale la pensa quindi? Io credo di sì, ritengo che la consapevolezza sia importantissima.
P.S. A quanto pare le persone interessate alla spiritualità sono spesso insonni... probabilmente un collegamento c'è...
@Apeiron, grazie per l'esauriente e onesta risposta.
Dal canto mio posso raccontare di come la mia vita sia una specie di lotta per "restare semplice". Spesso uso o faccio dell'ironia proprio per questo, perchè una risata ha il potere immediato di ricondurre alla sua semplicità la mente. In effetti restare semplici non è facile in un mondo in cui facciamo continuamente accumulo di una quantità enorme, eccessiva di informazioni. Penso , in questo momento, alla quantità di informazioni che conservo in questo pc con cui sto scrivendo. Tutte informazioni a cui posso accedere con un click, mentre fino a 10-15 anni fa dovevo per forza recarmi in una biblioteca, o cercare sulla scrivania...Tutti concordano che questo è un progresso, una semplificazione della vita e della fatica. Così mi trovo con suttas, testi vari, interpretazioni di tutti i tipi, news le più disparate...
Visto che stiamo parlando di buddhismo , spesso mi chiedo se , tutto questo Dhamma a cui posso attingere, se lo voglio, in ogni momento, sia davvero necessario per me...
Si dice che, ai tempi del Buddha, ad alcuni bastava ascoltare un solo sutta per comprendere in profondità l'Insegnamento e trovare un pò di felicità/equilibrio nella propria vita, Oggi invece molti divorano informazioni, fanno un'autentica raccolta d'informazioni. Così, come abbiamo il corpo in sovrappeso per l'eccesso di buon cibo ( accompagnato da un buon vinello di casa...), ci troviamo la mente obesa e in sovrappeso per un eccesso d'informazioni. Un filosofo o uno scienziato penso che istintivamente rifiutino questa immagine della mente cicciona, con palle di lardo informativo che la appesantiscono, ma se questo eccesso non è ben digerito può solo creare confusione. Così a volte, per ritrovare un pò di "leggerezza" mentale mi ripeto che non devo dimenticare il valore della semplicità. Essere semplici è anche un operare con gentilezza verso gli altri e verso se stessi. E, nel caso del buddhismo, è ricordare che l'Insegnamento è semplice: non fare il male, fare il bene, purificare la mente.
Spesso gli insegnamenti semplici sono i migliori. In questo periodo di lutto per la morte di mia mamma ( per la fine della sua penosissima sofferenza sarebbe più corretto dire...) ho compreso come gli insegnamenti semplici che mi ha dato, nella sua semplicità contadina, siano quelli che più profondamente hanno inciso in me e siano i migliori che posso "trattenere".
L'importante è il modo come agiamo e le azioni giuste si riconoscono dai risultati. Questo kamma :) semplice non viene dalla valle del Gange, dal Magadha, ma dalle storie che ci raccontava da piccoli, attorno al tavolo, quando parlava di "buona semina" e del "bravo contadino"...
La gioia che può dare la semplice leggerezza è una sorta, almeno per come la vivo io, di libertà e di pace. Però è qualcosa di vissuto nella mente, dato che la sofferenza fisica è inevitabile . Più si procede negli anni e più la sofferenza del corpo , che si logora, tende ad aumentare il suo peso nella nostra vita, il suo condizionamento. La meditazione aiuta anche da affrontare il disagio di avere un corpo che finirà ( quasi sempre male purtroppo :(). E' chiaro che per un giovane questo fatto sembra sempre più in là, non urgente da affrontare. Lo pensavo anch'io... :'(
Il Dhamma mi ha aiutato ad osservare la sofferenza e vederla come un fatto ineludibile della vita. Questo non lo accettavo ( ancor oggi mi è a volte indigesto...).
Nei sutta i grandi arahant affermano che il mondo è solo sofferenza che sorge e sofferenza che passa. Questo insegnamento spesso lo ritrovo quando una vecchietta con le borse della spesa mi ferma per chiedermi notizie dei vecchi. In realtà non vuole avere notizie, vuole solo qualcuno che ascolti il racconto delle sue sofferenze. Quasi sempre, in vario modo, terminano con:"Cosa vuto...a vita a xe solo tribolar!" ( trad. dal dialetto tipico della Contea: "Cosa vuoi...la vita è solo tribolazione!") :)
Un giorno , rispondendo a Upali, Siddhartha disse che per capire se qualcosa è in accordo con il Dhamma, in accordo cioè con il sentiero, bisogna osservare se fa nascere in noi una buona sensazione di libertà e pace ( credo lo si trovi nell' Anguttara Nikaya...). La via corretta quindi, sempre ricordando questa frase, non è l'accumulo di informazioni sul buddhismo , ma bensì tutto quello che porta alla libertà, alla tranquillità e alla pace ( nei limiti imposti dalla nostra condizione umana, impermanente e soggetta alla sofferenza...):Che questo richieda anche la comprensione è chiaro, però questa comprensione si può fondare su una "manciata di foglie", tutto quello che serve...
Personalmente, proprio perché sono spesso contorto, trovo nell'atto di "restare semplici" uno dei valori più alti, totalmente non settario, della spiritualità.
"All'inizio tutto appariva nuovo e strano, ineffabilmente eccezionale, delizioso e bello. Ero un piccolo straniero che, entrando nel mondo, fu festeggiato e circondato da innumerevoli gioie.La mia conoscenza era divina. Conoscevo per intuizione quelle cose che ricordavo di nuovo per mezzo della ragione più alta. La mia ignoranza era un vantaggio. Sembravo una persona ancora nello stato d'innocenza.Tutte le cose erano immacolate, pure e gloriose: sì, e infinitamente mie, e piene di gioia e preziose. Ignoravo che esistessero peccati, sofferenze o leggi. Non pensavo a povertà, controversie o vizi. lacrime e contrasti erano nascosti ai miei occhi. Tutto era pacifico, libero e immortale. Non sapevo nulla di malattie, di morte, di divisioni o di esazioni, sia di denaro sia di pane. In assenza di tutte queste cose, m'intrattenevo come un angelo nelle opere di Dio, con il loro splendore e la loro gloria e vedevo tutto nella pace dell'Eden. Cielo e Terra cantavano le lodi del mio creatore e non potevano essere più melodiche per Adamo che per me. Il tempo era eternità e un perpetuo sabato di festa. Non è forse strano che un bambino sia l'erede del mondo intero e veda quei misteri che i libri dei dotti non hanno mai spiegato?
Il grano era un frutto immortale che nasceva da solo e che non doveva essere né mietuto né essere seminato. Credevo che esistesse da sempre. La polvere e le pietre della strada erano preziose come l'oro: cancelli chiudevano i confini del mondo. I verdi alberi, quando li vidi per la prima volta attraverso uno dei cancelli, m'incantarono e mi affascinarono; la loro dolcezza e la loro eccezionale bellezza mi fecero balzare in petto il cuore e mi fecero quasi impazzire di estasi, tanto erano strani e meravigliosi. E gli uomini...oh, quali venerabili e nobili creature sembravano i vecchi! E i giovani sembravano angeli sfolgoranti e sfavillanti e le fanciulle strani e serafici modelli di vita e di bellezza! I ragazzi e le ragazze, mentre camminavano per le strade e giocavano, sembravano gioielli viventi. Ignoravo che essi fossero nati e dovessero morire; ogni cosa sussisteva eterna, al suo giusto posto.
L'eternità si manifestava alla luce del giorno e qualcosa d'infinito appariva dietro a ogni cosa, il che corrispondeva alle mie aspettative e veniva incontro ai miei desideri. la città sembrava far parte dell'Eden o essere costruita in Cielo. Le strade erano mie, il tempio era mio, la gente era mia, i loro vestiti e il loro oro e argento erano miei, così come i loro occhi sfavillanti, la loro gradevole pelle e i loro rosei visi. I cieli erano miei, così come il sole e la luna e le stelle, e tutto il mondo era mio, e io ne ero il solo spettatore e fruitore. Ignoravo ogni rozza proprietà, ogni legame, ogni divisione; tutte le proprietà e tutte le divisioni erano mie, nonché tutti i tesori e i loro possessori. Così, soltanto con molto fastidio, io fui corrotto e imparai gli sporchi meccanismi di questo mondo. Devo perciò dimenticare queste cose e diventare di nuovo, per così dire, un bambino per poter entrare nel Regno di Dio."
Questo è un passo tratto da uno scritto di Thomas Traherne, poeta metafisico del XVII sec, mistico e santo della chiesa anglicana.
E' interessante notare come, nel solco delle considerazioni fatte sulle similitudini tra buddhismo e daoismo, o per meglio dire sull'eventuale comune esperienza di una realtà ineffabile, troviamo sponde anche nell'esperienza mistica cristiana. Non sembra , con un linguaggio diverso, che venga additata la stessa esperienza di medesimalità che è la base dello stato mentale che nel buddhismo zen, per esempio, viene definito come sono-mama? Quello che William Blake definiva come "tenere l'infinito nel palmo della mano e l'eternità in un'ora"?
Per quanto sia difficile guardare il mondo in questa maniera scopriamo che poi non è diverso da come lo guardavamo "da bambini" ( e questo si riallaccia prepotentemente alle ragioni e al valore della "semplicità"...). E' il bambino che si meraviglia della scoperta di un fiore tra le sterpaglie...
Quando meno te lo aspetti
scopri un nazuna in fiore
sotto la siepe
(Basho, haiku del XVIII sec.)
P.s. Scusate i "justify" disseminati. sembra che utilizzando il copia/incolla non si riesca ad evitarli. Però era un passo troppo lungo quello del Traherne per ricopiarlo ribattendolo interamente...certo che rovinano la lettura :(
Rispondo ad entrambi i messaggi di Sariputra ;)
Sulla "semplicità". Allora ritengo che nella spiritualità debba essere sempre presente un linguaggio bivalente. Da una parte questo linguaggio deve riflettere il fatto che ci si debba aspettare un "progresso", un "miglioramento" nella consapevolezza, nel carattere, nella prospettiva di vita. Ossia quello che si deve mettere in luce è che dobbiamo "risollevarci" da uno stato "difettoso", o se vogliamo, di "caduta" o di "impurità". Questo approccio ovviamente è "duro", non lascia spazio a molti compromessi, radicale. Questo da un'idea di perfezione come almeno ideale da raggiungere che deve essere per così dire sempre "presente" nelle nostre azioni (almeno intenzionali, il "kamma" buddista - nello giainismo addirittura il "karma negativo" è dato anche da "peccati" non intenzionali. Il giainismo mi sembra eccessivo e preferisco di molto il buddhismo da questo punto di vista). Ora questa perfezione però a sua volta è un ideale e uno stato collegato con quello nostro naturale - o più precisamente uno stato che è "nel nostro potenziale". Infatti se tale perfezione non avesse niente in comune con la nostra natura più profonda, quello che si avrebbe sarebbe una filosofia della disperazione. La cosa interessante è che il daoismo come obbiettivo ha la "semplicità senza desideri (o pretese?)", il nirvana buddista è raggiunto da una mente "senza desideri personali (o pretese personali?)", volendo tale obbiettivo è simile a quello del cristianesimo. Ora è evidente che tale "perfezione" in realtà è uno stato semplicissimo (il Daodejing addirittura dice: Le mie parole sono semplici da capire, molto semplici da mettere in pratica. Ma nessuno riesce a capirle, non nessuno riesce a metterle in pratica. - capitolo 70) ma per motivi vari, perchè abbiamo "altro da pensare e da fare" è addirittura impossibile, anche se tale perfezione è la cosa più "ovvia" che ci sia. E questa è una direzione della spiritualità. L'altra in generale è che bisogna essere in un certo senso tolleranti (vedi l'importanza data dal perdono) con i "peccatori" e con le nostre debolezze (Attenzione: "tolleranza" però non vuol dire non vederle come problematiche o essere permessivi...). Questa seconda parte rende il cammino più "umano" e più "accessibile". Personalmente trovo altamente difficile essere per esempio sempre disposti al perdono, lo riconosco come un "peccato"/difetto/debolezza/mancanza ma non mi "fustigo" per questo, anche perchè se lo facessi non potrei mai progredire (da qui l'idea della "Via di Mezzo" di Siddharta, un vero colpo di genio.). Il problema però è che la società ti fa "avere altro da pensare". Esempio (stupido ma rende): se ho una bolletta da pagare e dobbiamo fare una fila di ore alla posta o un (noioso) problema con la burocrazia (e in Italia da questo punto di vista sappiamo come siamo messi) abbiamo "altro da pensare": diventiamo infastiditi, irritati ecc. Certamente l'essere infastiditi è "dukkha" però è quasi inevitabile visto che la società stessa ci "distoglie". Un altro problema nel cammino potrebbe essere anche l'imporsi regole che ci fanno soffrire e basta e così via. Ergo: quando leggo "le mie parole sono semplici da capire, semplici da mettere in pratica. Ma nessuno riesce a capirle, nessuno riesce a metterle in pratica" mi viene in mente proprio questo. Una semplicità che all'atto pratico è impossibile. Perchè? semplicemente perchè a nessuno viene insegnato di "liberarsi dall'avidità, dall'odio e dal dell'illusione" per dirla con termini buddisti. Per esempio nella società di oggi si predica il valore della "produttività". E se uno non è d'accordo o non è capace di esserlo? Risposta semplice: direi che nemmeno rispondo, mi pare evidente la risposta :( . E uno può seguire il buddhismo ed essere "produttivo"? Volendo sì, visto che il buddhismo vuole purificare l'intenzionalità ma è molto difficile. Causa molti problemi e la notte non si dorme. Si è incompresi e si ha paura di "farsi capire" perchè in fin dei conti quando siamo in preda al dubbio non confidiamo nemmeno che quello che diciamo sia "utile per l'altro" e preferiamo tacere. D'altronde Zhuangzi mette in bocca ad un matto (che però un po' di saggezza per Zhuangzi la possiede ;) ) queste parole, nel capitolo 4: "tutti capiscono l'utilità dell'utile. Nessuno capisce l'utilità dell'inutile". Ma in una società in cui solo l'utile è apprezzato? E se "nessuno capisce l'utilità dell'inutile" che vita potrà mai avere nella società un "inutile"? ::) felice? ::) sì se fosse "perfetto" e "semplice", ma siamo "deboli, imperfetti e complicati" e quindi la nostra aspirazione all'essere inutili, pacifici, all'avere una "mente luminosa, senza avidità, odio e illusione" veramente ci da pace nella nostra vita o è come una croce? La responsabilità di "accollarsi i mali del regno" (capitolo 78, Daodejing) davvero ci rende pacifici e felici oppure nuovamente è un "dukkha" necessario per arrivare a quel senso di "pace" promesso e sperato? Sì concordo che dobbiamo sentire un senso di pace nella nostra pratica. Ma ahimé allo stesso tempo significa anche prendersi sulle spalle "croci" di varia natura...
E qui rispondo al secondo messaggio, visto che le "croci" di cui ho parlato sono i simboli principali di una religione, il cristianesimo. A me non sorprende per nulla che i mistici cristiani, daoisti, indù, buddisti ecc descrivano le loro esperienze in modo simile. Esempio sull'amore. Metta sutta (buddismo): "Come una madre protegge con la sua vita suo figlio, il suo unico figlio così, con cuore aperto, si abbia cura di ogni essere, irradiando amore sull'universo intero". Daodejing (daoismo): "il bene supremo è come l'acqua...[l'acqua] fluisce in luoghi che gli altri disdegnano ed è vicina al Dao" (cap. 8 ), "il saggio nutre le creature senza tenerle come sue, lavora per esse ma non pretende di essere riconosciuto" (cap. 2). Nel cristianesimo ci sono i temi del "dono della propria vita al prossimo che a sua volta è un dono di Dio", della "Croce", l'inno all'amore (inteso come agape) della prima lettera ai Corinzi (capitolo 13) di Paolo ecc. Ora un indiano non è molto diverso da un europeo, un cinese non è molto diverso da un americano, un africano non è molto diverso da un eschimese ecc. Abbiamo diverse culture, molto differenti tra loro ma con molte cose in comune. Non mi sorprende che quindi le esperienze dei mistici siano analoghe: d'altronde un "santo dell'agape" e un sato del metta ritengo che si comporteranno in modo simile ;) Cos'è "L'eternità si manifestava alla luce del giorno e qualcosa d'infinito appariva dietro a ogni cosa" (citazione del testo citato da Sariputra) se non qualcosa di molto simile a "il Dao è universale" o "ogni essere ha la natura di Buddha"? Se la Pace e l'Amore "semplici ma al tempo stesso perfetti" sono anche incondizionati davvero ci sorprende che si senta come un'esaltazione interiore anche nelle cose più semplici, "insignificanti" e inutili? D'altronde: "il bene supremo è come l'acqua...[l'acqua] fluisce in luoghi che gli altri disdegnano ed è vicina al Dao".
Personalmente ho avuto momenti in cui mi è sembrato di aver "toccato" qualcosa di simile a questa "pace incondizionata" ma sono durati pochissimi secondi (o forse anche "attimi" molto intensi magari durati meno di un secondo). Li ho certamente "toccati" (o semplicemente ho smesso di "agire" - wu wei ;D - e li ho accolti? ) ma nella maggior parte del tempo sono l'uomo (oppure il "giovane", il "ragazzo"...) "difettoso", "indaguato" di sempre :(
@ Apeiron scrive:
Il problema però è che la società ti fa "avere altro da pensare". Esempio (stupido ma rende): se ho una bolletta da pagare e dobbiamo fare una fila di ore alla posta o un (noioso) problema con la burocrazia (e in Italia da questo punto di vista sappiamo come siamo messi) abbiamo "altro da pensare": diventiamo infastiditi, irritati ecc. Certamente l'essere infastiditi è "dukkha" però è quasi inevitabile visto che la società stessa ci "distoglie".
Contemplare la sofferenza, propria e degli altri, non è semplice. Eppure, dopo tutto, il Dhamma è proprio questo: osservare la sofferenza ( la prima Nobile verità...). Sei in un ufficio pubblico in fila da tre ore per una pratica e sta per arrivare il tuo turno finalmente... I piedi ti fan male, le gambe sono anchilosate, la mente è piena di nervosismo, irritata...ma ecco! Adesso tocca a te...In quel preciso momento, come al solito, l'impiegato si alza e se ne va...è la pausa caffè! Terribile!...Vorresti ucciderlo.
Io mi arrabbio continuamente perché voglio controllare il mondo, voglio che le cose vadano come spero e progetto . Qualcosa va storto ( perché qualcosa va sempre storto...) e comincio a soffrire. Quando smetto di combattere con il mondo e inizio a comprendere questa irritazione, questa sofferenza, le cose cominciano a cambiare. Nel buddhismo questa nuova reazione viene definita nibbida . Nibbida è la risposta che nasce dal comprendere che qualunque cosa farai sarà insoddisfacente o che ci saranno problemi. A questo punto si dovrebbe ( si dovrebbe... :() essere abbastanza saggi da non evitarli e non cercare di cambiarli. I problemi fanno parte integrante del samsara. Quando si comprende questo la nostra reazione alla vita si trasforma. Con un esempio si potrebbe paragonare a quando cerchi di mangiare una mela guasta e continui a tirar via il marcio per mangiare il resto. Il problema del samsara, del resto, è che è tutto marcio. Allora si dovrebbe, per il buddhismo...gettare la mela, rendersi conto che non la si può mangiare, è tutta guasta. Capire che si può vivere anche senza la mela, disinteressarsene, lasciarla andare...
Comprendere quindi che il dukkha, la sofferenza, è connaturata al mondo e non possiamo controllarla. Non abbiamo il potere di risolvere questo problema. Al massimo possiamo continuar a tirar via pezzi, sperando che resti qualcosa di commestibile da mangiare...
Nel Dhamma non si cerca di controllare la sofferenza, ma di comprenderne le cause interiori che ci tengono aggrappati ad essa. Ajahn Brahm diceva che:
"Quando siete addolorati o in difficoltà ricordatevi sempre un'importante definizione della parola 'sofferenza': chiedere al mondo qualcosa che non può dare. Pretendere l'impossibile dal mondo. Se chiedete qualcosa che il mondo non può darvi, sappiate che state chiedendo di soffrire."
Purtroppo seguire il Nibbida è la classica cosa che "dovremmo fare" ma non facciamo ;D comunque hai colto perfettamente il segno: il problema è che vogliamo controllare il mondo cosa che è chiaramente impossibile. Stiamo per prendere un regionale e... inaspettatamente vediamo una fila lunghissima alle macchinette della biglietteria. Ci infuriamo perchè con ogni probabilità non riusciremo a prendere il treno. Eppure ciò è chiaramente fuori dal nostro controllo. Imprechiamo contro la gestione della biglietteria ma poi scopriamo che lo abbiamo fatto a torto perchè il flusso di persone era eccezionale. A questo punto imprechiamo contro il "sistema che non va", ma a vuoto. Imprechiamo infine contro noi stessi, ma in realtà di errori non ne abbiamo davvero fatti, visto che non potevamo sapere nulla di tutto ciò. A questo punto imprechiamo contro il samsara perchè è un brutto "processo" (samsara e nirvana sono d'altronde prima di tutto verbi ;D ). E nulla alla fine la nostra rabbia finisce per buttarci a terra l'umore perchè in ultima analisi siamo peggio di Don Chisciotte che combatte contro i mulini a vento. Il nemico non c'è, eppure abbiamo un bisogno profondo di "far guerra" per avere il controllo. Proprio questa pretesa di controllo ci pervade e la continuiamo a voler giustificare razionalmente. Poi vai in oriente e vedi i buddisti che ti consigliano di tirar via ogni tentativo di controllo, i daoisti che ti dicono di agire senza agire ;D Ma solo quando, dopo molte sofferenze, uno capisce che questa "fissa" di controllare le cose che abbiamo porta ancora a sofferenza nosra e altrui allora cominciamo a "risvegliarci" (alla risposta alla domanda se le filosofie orientali condannino la sofferenza direi proprio di no: anzi soffrire è necessario per "risvegliarci"). Ma noi belli "risvegliati" dobbiamo comunque lavorare, pagare le tasse, competere nei concorsi, pensare alla nostra carriera, cercare di tenere una faccia sempre "sorridente" anche quando il nostro umore è a terra, dobbiamo combattere per rispettare le deadlines ecc. In sostanza Eraclito diceva: "Polemos - il conflitto - è il padre di tutte le cose" (frammento 51). Ma mentre FORSE Eraclito ci voleva belligeranti e coraggiosi (interpretazione mia, ma gli stoici la pensavano in modo diverso ;) ) Buddha e Laozi ci vogliono far "trascendere" da questa condizione di conflitto. Perchè mentre Eraclito (ma anche Hegel e Nietzsche) tuonava(no) che "bisogna essere consapevoli che il conflitto è comune a tutti, la giustizia è contesa e tutte le cose nascono dalla contesa..." (frammento 80)*. Laozi e Buddha (per esempio ma ovviamente non solo) invece pur vedendo ovviamente "il conflitto" ci volevano proprio aiutare a "salvarci" da tale realtà proprio perchè la "giustizia non è la contesa". Ma come possiamo noi raggiungere la "non-azione" dove riunciamo a controllare le cose (e quindi in ultima analisi rinunciamo alla "contesa") quando dobbiamo per mangiare e vivere nella società combattere? Perchè se magari quel regionale era importante perchè avevo un appuntamento di lavoro in un'azienda alla fine rischio di perdere l'opportunità! Come faccio a non arrabbiarmi per queste piccole cose quando praticamente tutto mi impone di farlo? ;) Questo è il motivo per cui "le mie parole sono facili da comprendere, facili da mettere in pratica ma nessuno le comprende, nessuno le mette in pratica" (citazione Daodejing ma probabilmente anche Gotama il Buddha era d'accordo).
http://enlight.lib.ntu.edu.tw/FULLTEXT/JR-PHIL/thomas.htm qui c'è uno studio che compara la filosofia "neoplatonica" di Plotino con la filosofia della scuola Yogacara (e in realtà anche della scuola Hua-yan).
*Nota a piè di pagina: La cosa interesante è che Eraclito (e Nietzsche) ritenevano che "il tempo è un bimbo che gioca ad un gioco di tessere (=quindi il "gioco" segue regole, il logos): di un bambino è il regno" (quindi "innocente"). Inoltre Eraclito e Nietzsche erano polemici con i propri contemporanei... quindi questa "interpretazione" che sto usando è molto probabilmente semplicistica anche se a mio giudizio per entrambi davvero "la giustizia è contesa" (ergo per loro non ci può essere una vita senza guerra, ergo...). Per quanto riguarda Hegel invece i conflitti erano necessari per un "fine superiore". In ogni caso mi sembra assurdo come gli stoici e i cristiani antichi (che preferivano la pace alla guerra) riuscivano a tollerare certe massime del filosofo efesino. Forse sono stati stregati dall'aspetto della sua filosofia che metteva in luce da un lato il flusso degli eventi e l'impermanenza mentre dall'altro il logos come "ordine delle cose". Per certi versi il "difetto" del buddimo è che in esso è quasi assente la riflessione sul "logos" della natura. Da questo punto di vista la filosofia vedanta è molto più sviluppata secondo me - non a caso eminenti fisici come Bohm e Schroedinger erano molto attratti dalla filosofia vedanta.
@Apeiron
Il dottor David Bohm era anche molto vicino, simpatizzante direi, al pensiero di Jiddu Krishnamurti. Comunque anche il buddhismo attrae i fisici...Lo stesso Ajahn Brahm che ho citato , inglese d'origine, è laureato in fisica teorica a Cambridge e si è fatto bhikkhu theravada nel 1974. Adesso è l'eminente abate del più grande monastero dell'emisfero australe, a Perth mi sembra di ricordare.,,allievo del grande maestro della foresta Ajahn Chah. Poi c'è il famoso fisico Apeiron... ;D ;D ;D
SARIPUTRA
Il dottor David Bohm era anche molto vicino, simpatizzante direi, al pensiero di Jiddu Krishnamurti. Comunque anche il buddhismo attrae i fisici...Lo stesso Ajahn Brahm che ho citato , inglese d'origine, è laureato in fisica teorica a Cambridge e si è fatto bhikkhu theravada nel 1974. Adesso è l'eminente abate del più grande monastero dell'emisfero australe, a Perth mi sembra di ricordare.,,allievo del grande maestro della foresta Ajahn Chah.
APEIRON
Sì ecco ho confuso "advaita" con "vedanta" ;D Krishnamurti d'altronde non è vedantin ma solo advaitin a quanto pare ;D Ecco Ajahn Brahm oltre ad essersi laureato in fisica ha anche insegnato per un anno... pensa che ormai ho "quasi" deciso di fare il prof al liceo visto che insegnare mi è sempre piaciuto. Poi a quanto pare il mio destino mi farà andare in Thailandia ;D
Tornando più serio. Volevo commentare due cose: per quanto mi riguarda la "non-separabilità" accomuna Bohm, Krishnamurti, Advaita, Daoismo e anche Buddhismo sia Mahayana che Theravada. Quindi non mi sorprende che ci siano fisici attratti dal buddhismo. Inoltre l'approccio del Buddha del Canone Pali sembra quasi quello di un matematico visto il suo impegno a chiarificare i suoi insegnamenti, a riformulare le domande che gli vengono poste e così via. In sostanza la "pecca" del buddhismo è che forse è troppo "introspettivo". Motivo per cui il "Logos dell'Universo" non entra nella filosofia buddhista anche se per certi versi la "paṭiccasamuppāda" è una sorta di "Legge della Natura". Il "vantaggio" se vogliamo della filosofia vedanta (ma anche occidentale) è che ha il coraggio di esporsi anche a parlare della natura, del mondo "esteriore".
SARIPUTRA
Poi c'è il famoso fisico Apeiron... (https://www.riflessioni.it/logos/Smileys/default/grin.gif) (https://www.riflessioni.it/logos/Smileys/default/grin.gif) (https://www.riflessioni.it/logos/Smileys/default/grin.gif)
Ahahah. E magari fossi un bravo fisico ;D ;D ;D alla fine sono solo un po' "pazzo" (ma Zhuangzi diceva che i pazzi... va beh dai la finisco con l'autoesaltazione ;D )
http://www.accesstoinsight.org/lib/authors/thanissaro/notself2.html
Il buddhismo come ormai è stato ripetuto ad infinitum è una religione e una filosofia curiosamente molto sistematica ed empirica. Sistematica perchè il sistema filosofico è estremamente rigoroso; empirico perchè - per quanto viene affermato - si fonda sull'esperienza del momento presente. Ora per comunicare tra di noi utilizziamo il linguaggio e nel linguaggio utilizziamo nomi. Il fatto che noi usiamo il linguaggio si fonda sull'assunzione che per certi versi il mondo sia "mappabile" con i nostri concetti. La coppia più elementare di concetti è quella, se vogliamo, di "io" e "non-io", la primissima divisione concettuale che distingue "me" dal "resto". Ora il mondo "esterno" a sua volta viene mappato in varie "parti" e questo mi rende possibile il relativo controllo su di esso.
La cosa curiosa del buddhismo è che si fonda sulla dottrina dell'anatman. L'anatman è una posizione secondo la quale non esiste un "io" separato (attenzione: "separato" non "eterno" fra poco spiego perchè). Secondo il buddhismo una volta stabilita l'esistenza dell'io tutti i filosofi prima di lui si dividevano in due "categorie". Da una parte c'erano gli "eternalisti" secondo i quali vi era un "io" che sopravviveva alla morte del corpo. Dall'altra gli "annichilazionisti" ossia coloro che asserivano che alla morte oltre al corpo "cessa" anche l'"io". In ambo i casi si nota che le filosofie su fondano sull'assunzione dell'esistenza di un "io" separato, distingubile. Un giorno Siddhartha però disse: "ciò che voi credete atman in realtà non lo è, quindi eternalismo e annichilazionismo sono entrambe "concezioni errate"". Da questa fulminea intuzione alcuni buddhisti sono convinti che il "Buddha ha negato l'esistenza dell'io tout court" e/o che "l'unica differenza tra un annichilazionista e il buddhista è che il primo ritiene che alla morte qualcosa venga distrutto, mentre il secondo ritiene che niente viene distrutto" (interpretazione sostenuta da chi dice Nibbana=Oblio). Ebbene sapete già come la penso sulla seconda posizione che a mio giudizio è completamente errata perchè il buddhismo mira alla "trascendenza" e non all'oblio - altrimenti è nichilismo (i sassi sarebbero più saggi perfino del Buddha e il Nulla ancora più dei sassi ;D ). Per quanto riguarda la prima posizione vorrei però fare una riflessione.
Ora se accettiamo che il Buddha ha creato una teoria metafisica allora noi esseri umani non abbiamo un "io" perchè non abbiamo una "sostanza". E questa è la dottrina della vacuità che è ovviamente compatibile con il canone Pali e le filosofie successive. Tuttavia leggendo l'articolo nel "link" mi è venuto in mente che anche "anatman" potrebbe riferirsi ad una condizione della mente, una particolare "esperienza". Ossia anziché essere una affermazione metafisica sulla realtà e quindi portare all'inevitabile "sunyata" di Nagarjuna potrebbe essere una affermazione epistemologica, ossia una radicale trasformazione della mente. Una mente che a questo punto ha trasceso ogni distinzione perfino quella tra "io" e "non-io", diventando quindi "ineffabile", "incommensurabile" ecc. Con questa interpretazione allora Buddha sarebbe interessato solo alla "sofferenza e alla cessazione della sofferenza" e non a formulare una teoria metafisica della realtà. Questa interpretazione dell'anatman come "strategia meditativa" da un lato (per stabilire che "questo non sono io, non è mio...") e come "esperienza" dall'altro "funzionerebbe" sia con la posizione secondo cui ci sono "sostanze" sia con la posizione secondo cui "non ci sono sostanze". Questo spiegherebbe il motivo per cui Buddha non ha voluto rispondere per esempio se il cosmo era eterno o meno e domande simili. In sostanza il buddhismo in questo approccio non conterrebbe una teoria della realtà bensì sarebbe una sorta di tecnica, una "via" per raggiungere una "mente liberata". Personalmente appoggio questa seconda opzione perchè evita le difficoltà dell'affermare la teoria metafisica della vacuità. In genere ritengo che Buddha volesse "spazzare via" anche le posizioni come "io sono un tutt'uno come l'universo" (che dopotutto non riesco a distinguere dalla teoria della "vacuità") perchè è una teoria metafisica a cui ci si può (erroneamente ?)"attaccare".
Ossia il buddhismo non porterebbe a negare l'io bensì a raggiungere uno stato in cui non si ha più la concezione di essere una entità separata e distinta. Questo spiegherebbe la forte affinità (che non significa "uguaglianza" !) dal punto di vista filosofico con le filosofie daoiste e advaita.
@Apeiron scrive:
In sostanza il buddhismo in questo approccio non conterrebbe una teoria della realtà bensì sarebbe una sorta di tecnica, una "via" per raggiungere una "mente liberata". Personalmente appoggio questa seconda opzione perchè evita le difficoltà dell'affermare la teoria metafisica della vacuità.E' esattamente questo il significato, secondo me, delle ripetute affermazioni di Siddhartha sul fatto che lui insegna solo il dolore e la sua cessazione. Buddha non ha interesse a formulare una nuova teoria metafisica, non è lo scopo per cui ha abbandonato gli agi e i piaceri del palazzo paterno. Ha visto" nascita, vecchiaia, malattia e morte" e vuole trovare un modo per sfuggire a questa sofferenza, non vuole più ri-nascere e continuare così a sperimentare nascita, vecchiaia, malattia e morte. Già in questa vita, con la realizzazione della Liberazione, non sperimenta più la ri-nascita del dolore causato all'attaccamento ai dhamma mondani: il dolore e l'angoscia esistenziale causati da questo. Il corpo, per effetto del karma precedente, continua la sua corsa finché, logoro, vecchio e ammalato non giunge alla dissoluzione. Il karma, invariabilmente, deve giungere a maturazione.Quindi passa anche il Buddha Shakyamuni e resta il suo Dhamma, il suo insegnamento, come un manuale d'istruzioni per giungere a sperimentare quello stato libero dal fuoco dei dhamma mondani (dhamma come cose/fenomeni...), quella libertà che dà vero sollievo, vera pace , quel ritrarre la mano ( la mente ) dal calore doloroso della vita ( "Tutti i dhamma sono in fiamme"...). Un manuale per poter vivere lo stesso stato vissuto da Siddhartha, e che lui ha definito come Nibbana/Nirvana ( estinzione/cessazione della fiamma.. questa inesauribile sete d'esistenza, quest'arsura dolorosa)."Il buddhismo non porterebbe a negare l'io bensì a raggiungere uno stato in cui non si ha più la concezione di essere una entità separata e distinta. "Qualora si realizzasse uno stato in cui non vi è più una concezione di "essere un'entità separata e distinta", l'io si sarebbe già dissolto perché la sua esistenza si fonda proprio sul fatto di ritenersi un'entità separata e distinta. L'io, come designazione mentale e innato senso di autoidentificazione che la mente fa dei suoi aggregati di cui fa esperienza, ovviamente esiste, ma è "vuoto" (shunya) di esistenza intrinseca, ossia vuoto di esistenza autonoma al di là dei fenomeni di cui può far esperienza. Nel buddhismo la consapevolezza/autocoscienza non è l'io , me è vinnana, il senso interno della mente. L'io è una struttura mentale che sta tra phassa ( contatto) e vinnana ( coscienza) ed è pertanto un prodotto dei cinque aggregati. Il Dhamma budhista mira ad ottenere uno stato in cui la mente, liberatasi della sua identificazione con il senso dell'io/mio, dimora in uno stato reale ( quindi non illusorio o concettuale) di saggezza "naturale" ( prajna) e di compassione "non pelosa" (metta/karuna).Il Nobile Ottuplice Sentiero è la medicina , il purgante che indebolisce il poderoso senso dell'io/mio che giganteggia nelle nostre vite.Nel buddhismo tutto passa nella relazione tra phassa e vinnana e viceversa tra vinnana e phassa, l'uno influenza l'altra, "c'è questo perché c'è quello"...tutto il processo è condizionato da avidya ( ignoranza della vacuità e relativo/conseguente inevitabile attaccamento a nama-rupa [nome e forma]...). Vinnana è l'elemento che è legato alle formazioni karmiche, pertanto è vinnana che ri-nasce di vita in vita, di esistenza in esistenza, sempre esperimentando dukkha (sofferenza). Pertanto c'è rinascita e non reincarnazione-trasmigrazione nella concezione buddhista. Non è l'io effimero che rinasce, ma le formazioni kammiche che alimentano la comparsa nel ciclo del samsara della coscienza/vinnana.« Il Buddha disse: "Che cos'è che si chiama senso primo della Coproduzione condizionata? Perché esiste quello, esiste questo ...
Condizionate dall'ignoranza
compaiono i coefficienti karmici;
condizionata dai coefficienti compare la coscienza;
condizionati dalla coscienza compaiono nome e forma;
condizionati da nome e forma compaiono i sei sensi;
condizionati dai sei sensi compare il contatto;
condizionata dal contatto compare la sensazione;
condizionata dalla sensazione compare la "brama";
condizionata dalla brama compare l'attaccamento;
condizionata dall'attaccamento compare l'esistenza;
condizionata dall'esistenza compare la nascita;
condizionate dalla nascita compaiono vecchiaia e morte, tristezza e sofferenza.
È ciò che si chiama il grande aggregato intero dei dolori. È tale ciò che si chiama il senso primo della Coproduzione condizionata »
(Gautama Buddha, Nidānasūtra 124, 547b-548a)Questo processo funziona esattamente anche all'inverso, per questo parlavo di come il contatto influenza la coscienza e di come la coscienza si crei il proprio contatto spinta dall'ignoranza e dall'attaccamento. :)
Grazie della chiarezza e della risposta istruttiva, come sempre Sari ;)
Volevo però fare una precisazione. La teoria meta-fisica della realtà della Coproduzione Condizionata afferma che non esistono entità separate. Questa è la "filosofia" buddhista. Il problema è che non ci sono "prove" di una tale "teoria", è un dogma da accettare o rifiutare per fede. Il problema è che se io mi metto a dibattere con un filosofo "buddhista" e chiedo: "come fai a essere sicuro della validità della teoria?" all'inizio mi dirà "caro Apeiron, guarda anche che i buchi neri prima o poi seguono la legge dell'impermanenza...". Io a questo punto dico "sì amico mio ma non hai dimostrato la teoria anche se riconosco la sua ragionevolezza"... a questo punto per sostenere le parole del Buddha mi viene detto "ehm, le parole del Risvegliato sono confermate perfino dai buchi neri, allora è certamente vero"- il problema è che dal punto di vista filosofico non si può procedere così, è ancora un "ipse dixit". E si ritorna a quello che dicevo pagine e pagine fa, se la Coproduzione Condizionata la prendiamo come teoria della Realtà allora ovviamente dobbiamo ammettere che il Buddha ha peodotto una "teoria infallibile" della Realtà.
Ma il mio post (e anche il tuo) mostrano che c'è un'altra possibilità. Ossia che il Buddha non ha prodotto alcun dogma ma ha solo insegnato "la sofferenza e la cessazione della sofferenza"! Infatti quello che dicevo io era che il Buddha era unicamente interessato al "curare" la relazione che noi abbiamo con la realtà, non a fornirci una "teoria a supporto". In questo caso anche se in realtà ognuno possiede un "atman" il buddismo rimarrebbe potenzialmente "vero", perchè alla fine della fiera sarebbe una terapia dell'atman stesso, rendendolo "puro" - ossia senza la continua sete di "io/mio". Ad ogni modo, onestamente non riesco a capire perchè mai la presenza di un atman condurrebbe all'attaccamento-avversione quando a mio giudizio è possibile pensare ad "atman" senza attaccamento-avversione e perfino liberi da io/mio.
Per esempio Meister Eckhart scrisse: "tutto sarebbe donato a chi rinunciasse a sé stesso anche solo per un istante". Ok che il cristianesimo crede nell'esistenza di un "io separato" ma una frase del genere è molto "buddhista". D'altronde la rinuncia "a sé stesso" è quella di chi non pensa più in termini di "io/mio". In questi termini secondo me Eckhart ha espresso un pensiero compatibile con il buddhismo ma non con la "teoria metafisica della vacuità/coproduzione condizionata". Ovviamente un buddhista potrebbe ritenere di avere il diritto di dirmi: "no Apeiron, perchè Eckhart è un eternalista, quindi tu che li metti in relazione dichiari un falso Dhamma. Questo ti conduce solo ad accumulare sofferenza nel lungo termine sia a te stesso che agli altri perchè chi ti ascolta ovviamente apprende un falso Dhamma e potresti commettere "Anantarika-karma" se crei uno scisma....". Me lo può dire solo se non ammette la possibilità che la Liberazione sia possibile anche se la Coproduzione Condizionata non è una "teoria metafisica".
Questo in genere è il motivo per cui non potrei mai seguire le orme di Ajahn Brahm (a meno di cambiare idea...) ;D. Non riuscirei mai ad impormi la convinzione che un principio come la "Coproduzione Condizionata" debba essere letta in un modo anziché in un altro. Come ho già detto sono più un misto tra Platone e Pirrone. Nella mia "visione" dell'anatta il Nirvana potrebbe essere, in linea di principio, ottenuto anche da persone che hanno fedi diverse dal buddhismo e che non seguono il Nobile Ottuplice Sentiero. Ma questo contraddice la Maha-Parinibbana Sutta.
Ragion per cui per certi versi preferisco il Daodejing e lo Zhuangzi, libri i cui autori anche se hanno formulato una teoria sulla Realtà non hanno mai dichiarato (da quanto ne so io) di essere infallibili. Tutta la questione dello "scisma" a mio giudizio nasce proprio dalla convinzione che il Dhamma non è "solo" una "terapia" bensì una descrizione infallibile della Realtà. Se fosse come solo una "terapia" tutti potrebbero essere "buddhisti", non solo quelli che "hanno fede nel Buddha (o più precisamente coloro che ritengono che le suttas dicano la "verità")" ;) L'approccio dei due testi daoisti è molto meno "aggressivo" contro le altre culture e visioni, almeno per quanto sono riuscito a vedere.
P.S. Se i buddhisti ritenessero che il buddhismo è solo una terapia di certo si vedrebbero dibattiti di questo tipo nei monasteri. Invece questi dibattiti sono impossibili nei monasteri stessi, così come ad un monaco cattolico non può venire in mente di negare la Trinità. Un filosofo invece riconosce certamente la sua "ignoranza" (ossia la "saggezza socratica") ma allo stesso tempo può apprezzare le dottrine delle varie religioni. Un filosofo cerca il Bene e la Verità indipendentemente dalle dottrine lette, conosciute ecc. Con ciò non voglio "attaccare" chi si affida ad una dottrina o l'altra ma non si può nemmeno dire che chi si affida a tali dottrine sia solo "filosofo" - è un filosofo religioso. Però ecco questo è ciò che ha distanziato il "Siddharta" personaggio dell'ononimo romanzo di Hesse dalla dottrina di Gotama (nel racconto del romanzo ovviamente) - non a caso dal punto di vista esperienziale mi ritrovo molto nella vicenda umana di Hesse anche se a differenza sua non sono cristiano.
Ma se ci sono "altri sentieri" allora quel passo del Maha-parinibbana sutta dimostra o che il Buddha non era infallibile oppure che è stata una aggiunta successiva oppure che la nostra interpretazione è errata ;)
Sicuramente chi si affida ad una particolare dottrina spirituale e vi ripone la sua fiducia non è un filosofo nel senso stretto del termine, ma aspira a qualcosa di enormemente grande. Vuole tutto in poche parole. Eppure per raggiungere questo tutto il sentiero che ti sforzi di seguire ti chiede, come nel buddhismo, di rinunciare a tutto, compresa la tua volontà di aver tutto. Oltre a questo ti chiede persino di rinunciare a te stesso, al tuo attaccamento all'idea di raggiungere la "verità". E questo non è un obiettivo che si pone un filosofo che vuol comprendere concettualmente una dottrina. Infatti è il filosofo che chiede: dimostrami che la tua dottrina è vera, così che la possa preferire ad un'altra. Mentre l'aspirante al tutto, famelico di tutto, ode una parola ( di "vita eterna", come dice Pietro a Yeoshwa...) e corre ad investire la sua vita in quella precisa parola. Perchè è proprio quella parola che trascende, che crea uno squarcio nell'ossessione di "afferrare" la verità con il pensiero.
Nel caso del paticcasamuppada buddhista, la catena di co-produzione interdipendente, la coerenza appare al praticante, al meditatore tra le coppie stesse degli anelli. E', come dice il Buddha, perché esiste quello che anche questo esiste. E' nella pratica stessa che, per esempio, posso vedere che dal contatto nasce la sensazione, e come dalla sensazione nasce l'attaccamento all'esistenza , e così via...
Ma paticcasamuppada non può, come giustamente scrivi, essere definita come una teoria scientifica sulla realtà. Non è dimostrabile scientificamente. Paticcasamuppada è sempre un'esperienza della mente che pratica "il vero ascetismo". Quindi si tratta sempre di un piano spirituale di conoscenza. O di un piano mentale se preferisci...
Il Buddha ha sempre messo in evidenza che il suo è un insegnamento (Dhamma) in cui si può trovare il vero ascetismo, vuoto di dispute e che invita a venire a vedere. Non ha mai affermato che non possano esistere altri sentieri in cui vi sia questo vero ascetismo. Quindi la centralità è sempre del Dhamma e non della figura storica o mitologica, leggendaria di Gotama Siddhattha. E' la medicina che guarisce la malattia, il Buddha è solamente il medico che invita a prenderla. E l'unica dimostrazione che può dare è il far vedere come la medicina l'abbia realmente guarito, come ha guarito lui stesso. E qui entra in gioco il discorso sulla "fede", che contraddistingue qualunque forma di pensiero religioso. Se non hai fiducia che la medicina che il Buddha ti invita a prendere sia quella giusta ( "dimostramelo" dice il filosofo o lo scienziato al medico) non la prenderai, o la prenderai "un poco", giusto un assaggino per vedere che effetto fa, ma non andrai fino in fondo con la cura e quindi , in un certo senso, tu stesso la invaliderai, ritenendo alla fine che "non funziona". Ma è possibile anche che quello che non ha funzionato sia stato l'approccio...
Molti pensieri ed esperienze possono essere 'affini' a quello buddhista. La saggezza intuitiva naturale della mente (prajna) non è circoscritta a chi opera la tonsura e si infila la kesa ( tonaca ). Farsi monaco è utile casomai per avere uno stile di vita, un'opportunità per sviluppare con maggior vigore la pratica meditativa senza tutti gli obblighi e adempimenti della vita ordinaria nella società.
Poi , aver intorno a sé altre persone che condividono il cammino, può essere utile per approfondire, sviluppare o mettere in discussione la bontà del proprio impegno o della propria coerenza.
Ma si può praticare e seguire i cinque precetti anche senza farsi monaco. Vimalakirti viene indicato spesso come esempio di persona laica egualmente "illuminata".
Sempre restando nella metafora del medico e del malato direi che il Dhamma originario di Buddha , come viene tratteggiato nel Canone Pali, è "duro", spietato quasi. Non lascia nulla alla consolazione umana. Sembra che il medico ti stia operando senza alcun anestetico. Non si cura di spazzare via tutto, senza lasciare un "contentino" all'io/mio del paziente. E' assolutamente pre-cristiano in questo senso. Sei avvolto nell'ignoranza, ti dice senza tanti giri di parole. Devi liberartene, punto. Il tuo bene non è "sentirti bene" ma liberarti dall'ignoranza. Non vuoi farlo? "Così come a te, ora, bene pare. vai in pace." Di fronte a questa asciutta schiettezza, questa sistematica opera di demolizione, capisco perfettamente che il daoismo, il brahmanesimo, le espereinze mistiche dei vari monoteismi, abbiano un sapore molto più "dolce". Questi parlano della gioia dell'incontro con l"assoluto" , con il "trascendente", quello invece si accanisce sulla tua sofferenza cercando di estirparti tutto il pus purulento...
Io, se fossi stato il Siddhartha di Hesse, sarei rimasto nel bosco di bambù, anche se fa molto male... :(
Sì concordo il Canone Pali è durissimo, un percorso letteralmente senza compromessi. Qualsiasi "opinione" che si discosta viene definita "pericolosa", "erronea", "eretica" ecc. Si afferma poi che tutti i problemi nascono dalla "visione errata", ossia dall'avere un'opinione diversa da quella del Buddha. Su cosa? su sé stessi e il mondo. Infatti come era da tradizione nell'India il comportamento discende dalla propria "concezione" del mondo. Quindi se uno ha una concezione sbagliata, i suoi comportamenti sono sbagliati. Buddha dice rinuncia a tutto. E "tutto" significa: dubbio, incertezza, curiosità all'infuori del Dhamma, brame, attaccamenti, avversioni... E cosa rimane dopo aver rinunciato a tutto? Beh Niente ;D o come diceva Schopenhauer "niente" in relazione al "tutto". Ma la cosa che a me sorprende molto è il successo del Buddhismo nell'occidente quando filosofie come quella di Schopenhauer vengono "bollate" come "pessimiste". Per certi versi il Buddhismo del Canone Pali è anche peggio perchè mentre Schopenhauer lascia intendere che il "nulla della non-volontà non è il nulla assoluto", questo "contentino" non è nemmeno lasciato dal Buddha, anzi il buon "numero due" Sariputra dice: "l'assenza di sensazioni è la felicità". In sostanza la cura non corrisponderebbe alla morte solo perchè l'io è illusorio. Ma di fatto sì! E anzi: chiunque la pensa in modo diverso è destinato a un lunghissimo cammino di sofferenza visto che il meglio che può aspirare è una rinascita nei "paradisi" ma ciò che sta in alto nella ruota finisce in basso. Ma è davvero questo l'obbiettivo? Perchè se è così allora il buddhista ha lo stesso obbiettivo dei suicidi: dire che niente ha valore intrinseco e che l'io è illusorio finisce - se preso con zelo e rigore - per voler dire "la mia cura che ti sto dando non è un'eutanasia solo perchè in fin dei conti tu non esisti" ;D Bastava una frase, un solo sutta, un verso che dicesse "Nibbana è trascendenza" o "Nibbana non è il Nulla" e queste perplessità che in fin dei conti allontanano dal Dhamma sparirebbero, almeno in parte, e sarebbe più facile "conquistare" un po' tutti (in realtà volendo ci sono ma sono completamente fumose, come ad esempio "il Tathagatha non può essere classificato" - se non è trascendenza questa ;)... ma nuovamente anche l'Oblio non può essere classificato con "definizioni positive" quindi si ritorna al punto di partenza). E invece no... in sostanza è come se Buddha dicesse "tutto è futile e tu non esisti ma hai la testa in fiamme, quindi cosa aspetti a porre fine a questa farsa? ma attento non te la cavi nemmeno con la morte perchè poi rinasci in una vita vana e illusoria in cui soffri anche se tu sei illusorio. Se vuoi evitarti questa perdita di tempo he chiamiamo "vita" ti offro la morte definitiva perchè tutto è futile e tu sei illusorio." - ahimé il Canone Pali può essere accostato anche a questo e mi sconvolge l'assoluta facilità con cui tanti monaci si "bevono" il Dhamma senza porsi questo problema - d'altronde quello che sinceramente mi da più "fastidio" non è l'assenza dell'"immortalità" bensì l'asssenza di qualcosa che possieda valore intrinseco. Ma allo stesso tempo c'è una luce in fondo al Tunnel... ossia il riconoscere che "la vita più autentica" è proprio di quelli che sono "privi di sé" e in tal caso la "morte definitiva" in ultima analisi è "l'espressione più alta della vita" e in tal modo quel "Niente" in realtà sarebbe il Vero Tutto, un qualcosa degno di essere enormemente grande. Ma qual è il problema: l'onestà intellettuale. Davvero, dico io, un monaco deve accettare di "buon grado" una filosofia che può significare "tutto è futile e anche tu sei illusorio ma hai la testa in fiamme, quindi cosa aspetti a porre fine a questa farsa?". Secondo me - personalissima opinione - tanti monaci, specie occidentali, sono anche molto ingenui dal punto di vista filosofico, altrimenti non mi spiego questa "felicità" che hanno quando si mettono a parlare del Dhamma senza ammettere che il Nirvana potrebbe essere un "tipo di mente". Poi eh... sarà la mia follia o la mia brama o il mio orgoglio a farmi dire queste cose, ma sinceramente il tutto mi lascia perplesso. Posso capire ad esempio uno che si sacrifica anche senza speranza speranze ultraterrene ma lo fa per "amore" ritenendo che l'amore sia una cosa con valore intrinseco, non riesco a capacitarmi della motivazione che possa portare un uomo a rinunciare a tutto in cambio di niente, nemmeno una convinzione di dire "cerco ciò che ha Valore Intrinseco". Mi scuso per il messaggio ma mi pare evidente o che noi "comuni mortali dubbiosi" siamo dei semplici folli accecati da quel simpaticone di Mara che parlano senza cognizione di causa, oppure mi pare altrettanto evidente come la motivazione che spinge un buon numero di monaci sia una delle seguenti: o non è molto diversa da quella del "nichilista" che cerca la morte oppure per una irrazionale fede nell'essere sicuro che le espressioni "positive" riferite al Nirvana non siano semplicemente dei palliativi e che i "nichilisti" in realtà hanno ragione.
Questa riflessione mi fa capire perchè in fin dei conti, a parte i Sautantrika, siano stati "costretti" a "postulare" una certa metafisica del Nirvana. Per i Sarvastivadins il Nibbana era una "cosa esistente", per i Theravada non è da intendersi come "semplicemente non-esistente" ma è "una realtà", i Pudgavaladins e erano più o meno eternalisti e molti Mahayani in fin dei conti dicono che "non è la non-esistenza". Ma ahimé nulla è più coerente dell'interpretazione "logica" dei Sautantrika e nulla è più coerente ad una geniuna perplessità rispetto a tale interpretazione ;)
Ma ormai mi sono accorto di essere divenuto fin troppo ossessionato dalla questione :( un buddhista Zen "per compassione" mi starebbe bastonando (e non avrebbe tutti i torti) per calmare la mia "mente di scimmia" ;D . Con questo discorso volevo mostrare tre cose: 1) il voler essere "privo di desideri" non siginifica l'essere convinti che ad esempio l'io non esiste - ossia è ben pensabile vedere qualcuno con un "io" ma senza (o quasi) alcuna preoccupazione individuale (un santo) e in genere un "santo" di una tradizione non buddhista sarà più vicino al "santo buddhista" di quanto lo sarà mai un "sempliciotto" come me 2) che una interpretazione "completamente negativa" delle parole del Buddha (o dei suttas) è ben plausibile e secondo me non è così attraente, non mi "smuove" per nulla se non per dare un po' di "terrorismo psicologico" 3) interpretazioni diverse dalla (2) non sono più plausibili della (2) se si ascolta solo "il cervello" ma anche "il cuore" quando si leggono i discorsi dei suttas. Si deve per così dire ascoltare anche il "cuore", ma il "cuore" è molto legato alle brame quindi... boh.
Finire un mega-discorso con un "boh" ormai mi succede in continuazione, probabilmente non ha nemmeno senso quello che dico ;D anche perchè questo mio discorso apparentemente "anti-Buddha" non aveva alcuna intenzione di essere tale, perchè chi può essere contro qualcuno a cui è attribuito il Metta Sutta? Maledetto e allo stesso tempo benedetto Logos umano, che ci (non uso "mi" ma "ci" perchè di certo non sono l'unico ;D ) fai combinare? :o
Aggiunta: So benissimo che non ha senso discutere su cose già dette dopo che si è stabilito che sono cose oltre ogni discussione... "So" benissimo che la Cessazione non è quella cosa. Ma come dici tu, Sari, una cura senza anestetico può dare l'impressione di una tortura. Ad ogni non ritengo nemmeno che il buddismo non abbia una "prospettiva" eterna e ritengo he Il Supremo Obbiettivo sembri il Nulla ma in realtà è... Per dirla alla Schopenhauer: "Noi vogliamo piuttosto liberamente dichiarare: quel che rimane dopo la soppressione completa della volontà è invero, per tutti coloro che della volontà ancora son pieni, il nulla. Ma viceversa per gli altri, in cui la volontà si è rivolta da se stessa e rinnegata, questo nostro universo tanto reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, è – il nulla.". D'altronde come già ho accennato più uno è meno preoccupato per sé, più vive di più anche se sembra che viva di meno. Se uno non ha più una prospettiva individuale e a differenza dei sassi l'ha trascesa a questo punto vive al massimo anche se sembra che non viva più. In questo modo, per certi versi, il Parinibbana sembra la morte ma in realtà è in un senso importante la Vita... ad ogni modo le mie perplessità di vedere alcuni monaci sempre sorridenti rimangono, secondo me non si sono ancora resi conto di quanto il Nibbana somigli al Nulla e di quanto sia errato avere riverenza per il Nulla. Socrate per esempio non aveva molti problemi con l'annientamento alla morte dell'io ma riteneva che in ogni caso bisognasse seguire il Bene e la Giustizia anche se questo poteva significare molta sofferenza... ma il Bene e la Giustizia erano valori "eterni" o più precisamente che trascendevano l'esistenza individuale e aveva senso spendere la propria vita per essi. Ritengo un peccato che nel buddismo non si parli dell'assiologia, ossia lo studio dei valori. Altrimenti se il "nibbana è solo la cessazione della sofferenza" il Nobile Ottuplice Sentiero sembra semplicemente una ricerca della propria "cessazione della sofferenza", una sorta di edonismo mascherato. Ritengo ben più "alto" accettare la propria sofferenza di un obbiettivo simile. Ma come ho già detto questo deriva da una lettura troppo "letterale" del Canone Pali. Questo approccio letterale confonde il simile con l'uguale ;)
Chiudendo il discorso del messaggio di prima (ossia se il buddista è un filosofo "puro" - qui concordo col il primo paragrafo del Sari, se Nibbana= Nulla ecc) vorrei però fare una domanda sull'etica buddhista (ma ovviamente se qualcuno vuole riaprirlo può farlo).
Nel pensiero "occidentale" in genere si sente dire la frase (con cui ovviamente concordo) "si deve fare il giusto perchè è giusto, indipendentemente dalle conseguenze" - motivo per cui come ho citato prima Socrate (o il Platone dell'Apologia) non era davvero interessato alle conseguenze nella vita dopo la morte, seguiva la convinzione che "fare il giusto ha valore intrinseco". Nel caso del buddhismo invece una frase come "si deve fare il giusto perchè è giusto" è vista come "vera" o no? Voglio dire l'azione si definisce "giusta" per le sue conseguenze? O più precisamente ci sono filosofi buddhisti - non necessariamente antichi - che hanno esplorato questa tematica in modo analogo ai filosofi "occidentali"? ;)
N.B. Per me l'etica consequenzialista è un "passo indietro" rispetto all'etica che contempla il comportarsi secondo "il giusto perchè è giusto". Ovviamente per definizione l'Arhat si comporta in questo modo visto che è "disinteressato", ma ero curioso nel sentire se c'è una letteratura buddista sul tema... anche se non credo visto che per loro è "papanca"
Edit: Sull' infallibilità del Buddha ossia incapacità di errore etico e dottrinale segnalo questp https://dhammawheel.com/viewtopic.php?t=22342
@Apeiron
Il buddhismo è pieno di valori positivi: c'è la gioia, la libertà, la compassione, la benevolenza, la beatitudine, la calma, la tranquillità, per esempio. Quindi non stiamo parlando del manuale del perfetto suicidio senza residuo. Nel Dhamma però manca totalmente l'idea , che viene dal pensiero greco-cristiano, che il mondo sia un "bene" e che la vita materiale e sensibile "nel mondo" sia bella ( perché voluta da un Dio-Bene che l'ha creata per noi...). Pertanto il concetto di "giusto" appare un pò diverso. E' giusto ciò che sopprime la brama , l'odio e l'illusione, perché questo permette di realizzare uno stato mentale di autentica compassione. Il bene autentico poi viene da sé, dalla mente liberata. La moralità (sila) è quindi fondamentale, è la pietra su cui costruire l'edificio meditativo che può sfociare nella saggezza e quindi nel bene. La vacuità dei fenomeni non li consegna all'irrealtà, ma toglie solamente l'illusione che siano dotati di "sostanzialità", ossia della proprietà di essere autonomi, separati . E' come svegliarsi da un lungo sonno. Mentre sogni ritieni vere le immagini e le vicende del sogno, ma al risveglio percepisci una realtà diversa e comprendi di aver solo sognato. Per questo Chokei (Chang-ching), dopo venti lunghi anni di studio del Dhamma, alzò la tenda e vide il mondo esterno, perse la precedente comprensione ( concettuale) e disse:
"Come mi sbagliavo! Come mi sbagliavo! Alzo lo schermo e guardo il mondo! Se qualcuno mi chiede quale sia la filosofia che io capisco gli darò immediatamente un colpo sulla bocca con il mio hossu"
Qui Chokei parla dell'esperienza del satori, dell'illuminazione e non solo non spiega con il linguaggio ciò che vide quando lo schermo fu alzato ( inteso come i kilesa,le contaminazioni mentali) ma respinge qualsiasi domanda che potesse essergli posta sull'argomento e giunge persino a "minacciare" l'interlocutore se anche lui non tiene la bocca chiusa. Chokei sa che, se qualcuno tentasse di pronunciare anche una sola parola, di dire "questo" o "quello", la reale definizione mancherebbe il segno.
Tu vorresti, "avresti bisogno" si potrebbe dire che i testi ti spiegassero concettualmente cos'è la Cessazione, ma qualunque definizione mancherebbe il segno, come racconta la storiella che ho riportato.
Io uso spesso , per definirmi, il termine "zucca vuota" ;D. ..In realtà è un'espressione tipica buddhista quella di paragonarsi la testa ad una zucca...
La mente di Saichi è come una zucca sull'acqua,
che galleggia sempre, Sospinta dai venti,
Navigando
Verso la Pura Terra
La vacuità della mente ( dal peso della brama, dell'odio e dell'illusione...) le permette di "galleggiare" verso il Nibbana che non si ottiene con la volontà di ottenerlo, ma che si realizza quando si rende "vuota" la zucca...La vera esperienza della vacuità è quindi l'esperienza di una vita "trascendente".
Nell'Aranavibhanga sutta Siddhartha distingue due tipi di piacere: quello sensoriale e quello della rinuncia. Il primo è un piacere che acquisisce ( oggetti ed esperienze e si lascia coinvolgere da essi..), il secondo è quello del Dhamma, ossia del lasciarli andare, del lasciarli sfumare, della loro scomparsa e della rinuncia al controllo.
Da ragazzino ricordo che , qualche volta, mi capitava di avere dei pomeriggi senza compiti . Allora me ne andavo per la campagna, passeggiando tra i filari delle viti. Toccavo le foglie , mi fermavo ad osservare...in quei momenti non avevo desideri, nè voglia di giocare o fare qualcosa. Mi piaceva semplicemente assaporare la calma e la tranquillità . Era un'esperienza di vacuità, in un certo senso. La calma data dal pomeriggio "vuoto" dai compiti e da ogni impegno, da ogni gioco. E' uno dei ricordi più preziosi che serbo. Forse i pomeriggi più memorabili della mia adolescenza. Ero già un pò "strano"... ;D
Perchè la meditazione sia fruttuosa andrebbe praticata con lo stesso spirito. Non bisogna appesantirsi la mente con ogni sorta di concetti o di aspettative...si dovrebbe semplicemente dimorare nel piacere che dà la calma della mente, il suo acquietarsi. Sopra scrivevo dell'importanza della semplicità. Ecco...la semplicità è come piantare un seme: le cose poi iniziano a crescere da sé. Se il terreno è buono, non occorre controllare...che crescano. Nel buddhismo questa semplicità, portata nella meditazione, conduce ai jhana e quindi all'uscita dal samsara.
La meditazione quindi dà felicità autentica. Non c'è alcun annichilimento, alcun suicidio. E' proprio perché facciamo spazio ( vuoto) nella zucca che può dimorarvi una felicità e una compassione autentica.
E' una felicità dal gusto diverso da quella che otteniamo dal piacere sensoriale . Diventa un veicolo di quiete e poi, infine, di libertà...
Più si procede sul cammino della Cessazione e più , a parer mio, si capisce la genialità dell'insegnamento di Siddhartha.
Ti lascio con un altro passo del tuo collega fisico, Ajahn Brahm:
Quando si assapora uno stato di vera pace, fiorisce la beatitudine e allora tutto l'Insegnamento ci appare nel nostro stesso cuore. L'intero Tipitaka vi si schiude davanti, mentre i sensi svaniscono e la mente conosce i vari stati di beatitudine.. I khanda vengono visti nella loro realtà. capite perché si dice che i sensi sono in fiamme, perchè sono sofferenza, e provate un senso di stanchezza. Avete un moto di rifiuto, o nibbida; dalla nibbida viene il viraga (sfumare), e dal viraga la cessazione. Ecco in che modo ci si libera. Il sentiero, la comprensione, la gioia, la meditazione profonda, sono nel vostro cuore.
Nietzsche si divertiva a dividere le filosofie e le religioni in due classi "affermatrici della vita (o del mondo)" e "negatrici della vita (o del mondo)". Nella prima classe ci ha inserito di tutto: cristianesimo, platonismo, filosofia di Schopenhauer, buddhismo, alcune scuole vedanta, spinozismo ecc. Nella seconda classe ha inserito: la sua filosofia e forse quella di Eraclito ( ;D ) e alcune scuole vedanta. Questo perchè a suo dire tutte le filosofie a parte la sua e quella di Eraclito erano un rifiuto al mondo, alle passioni, ai desideri ecc. Nel caso di platonismo e cristianesimo ovviamente il desiderio era spostato. Nel caso della filosofia di Schopenhauer, buddhismo ecc invece si aveva un "rifiuto" del mondo. Per quanto riguarda Eraclito scrisse: "vedere il mondo come un gioco divino oltre il bene e il male: in questo Eraclito e i Vedanta sono i miei predecessori". Ora il "povero" Nietzsche a mio giudizio fece un errore grossolano, ossia non si rese conto che anche le filosofie che da lui erano "negatrici della vita" in realtà davano il massimo della vita. I cristiani nella "gioia della Lode divina", i platonisti nella "contemplazione delle Forme, specie quella del Bene (quest'ultima se vuoi è la mia attuale "concezione di Assoluto")", i buddhisti nella Cessazione ecc. Tu giustamente mi fai notare i valori positivi presenti nel buddismo che ogni tanto mi dimentico (come vedi sono una "zucca vuota" anche io ;D ): d'altronde è proprio l'assenza di desideri che ci fa vivere pienamente perchè usando impropriamente le parole di Schop. "smettiamo di voler vivere e finalmente viviamo ;D " - in questo ritengo che il trittico delle filosofie orientali (ossia: vedanta, daoismo e buddhismo) sia d'accordo. Ma il problema del Canone Pali forse è il linguaggio: mi sembra molto spostato verso il "negare", l'annichilire, lo sguardo negativo verso la realtà. Ben diversa è la mia impressione quando ho letto alcuni scritti del buddhismo cinese dove viene invece enfatizzata la parte "positiva" dell'insegnamento del Buddha, ossia quasi la glorificazione della Vita (Dogen arriva addirittura a dire: "la Natura di Buddha è l'impermanenza" - non so se il Buddha storico l'avrebbe preso a ceffoni per una frase simile ma a mio giudizio l'unica differenza è di tono, di enfasi - davvero a questo punto la filosofia Zen è diversa da quella del gioco divino "lila" vedantino??). E qui appunto a mio giudizio c'è la differenza tra il Canone Pali e la filosofia Mahayana. Leggendo il Canone Pali si ha l'impressione che tutta la realtà sia una prigione, che bidogna amare (metta&karuna) le creature perchè siamo come in una prigione e soffriamo assieme (ossia quasi un amore di "pietà" più che di compassione), e che dopo milioni di anni di "lacrime" (la Assa Sutta per esempio) la contemplazione dell'annichiliazione viene quasi automatica - non mancano ovviamente anche note positive nel Canone Pali, ma la parte "negativa" è molto enfatizzata. Leggendo invece certi scritti del buddhismo Mahayana l'impressione è quasi ribaltata, la "vacuità" diventa quasi un'apertura all'Infinito, l'impermanenza diventa quasi una glorificazione della vita contro la morte ecc. Non a caso mi rendo conto che molti theravadins più conservatori siano molto "perplessi" rispetto alla filosofia mahayana. Personalmente sono più vicino alla filosofia mahayana proprio perchè la trovo più "ricca", aperta, accogliente ecc. La Cessazione concordo con te che è un bene - ad esempio quando abbiamo una sete intensa stiamo male, quando abbiamo bevuto non abbiamo più sete, che è cessata ;)
Ma la mia domanda era però un'altra. Fin dal principio la filosofia greca era interessata alla questione del "Valore". Comunemente il valore "econimico" è una stima di quanto un bene sia importante. Per Platone il "Bene-in-sé" è il massimo "Valore" ed è infinito, eterno ecc. Mi chiedevo se la filosofia buddhista in genere ha per così dire composto "trattati" su questi temi (e non solo sutras ;) )? Spero di essermi spiegato meglio.
@Apeiron
Non sono purtroppo a conoscenza di trattati specifici che parlino di "valori", nel senso comune che intendi . I valori penso si possano trarre in maniera implicita dai discorsi stessi, ma certamente non sono trattati per esteso. Il bene o la virtù morale è fondamentale nel buddhismo, è quasi una condizione sine qua non per lo sviluppo spirituale e quindi umano ( se ti ricordi la famosa allocuzione più e più volte ripetuta dal Buddha: "Ecco la virtù, ecco la meditazione, ecco la saggezza...ecc.).
Sul tenore del linguaggio , diverso tra il Canone e i sutra mahayanici, sono d'accordo e credo vada a indicare, oltre alla diversa epoca storica e culturale in cui sono stati scritti (India e cultura ascetico-itinerante i primi; Tibet-Cina in prevalenza i secondi ...) anche l'enfasi diversa che si voleva dare alle due "anime" del buddhismo praticato. Da una parte la visione più conoscitiva, speculativo/filosofica e dall'altra quella più devozionale-compassionevole ( a grandi linee s'intende che poi abbiamo ampie eccezioni da l'una e dall'altra parte...). Il buddhismo, come via di mezzo, si è sempre distinto per una posizione/non posizione lontana da ogni estremo. Ma se la pratica era più facilmente inseribile in questo contesto, il linguaggio invece, per sua natura , tende sempre a inclinare verso una posizione o l'altra, accentuando un aspetto o l'altro, ambedue presenti nell'insegnamento. Quindi il canone "pende" sempre per un'accentuazione, a mio parere, dell'aspetto dell'ascesi, del non-attaccamento e cioè di negazione di ciò che non è Dhamma . Il Mahayana invece usa un linguaggio più positivo, in cui vengono messe in evidenze le qualità e gli aspetti più decisamente trascendenti ( assolutistici) del pensiero di Siddhartha. Ambedue gli aspetti sono però già presenti in seme nel buddhismo originario. Nagarjuna infatti, pur considerato come l'iniziatore della riflessione mahayanica, ci teneva a specificare che il concetto di vacuità (shunyata) era ben presente già nei testi originali. Quindi si vedeva come uno sviluppatore di qualcosa predicato dal Buddha e che però era rimasto quasi in secondo piano a causa delle successive interpretazioni del primo Sangha, che vertevano molto sulla centralità dell'Abidhamma. Attualmente, a parte qualche scuola particolarmente tradizionalista, vedo che c'è un ampio uso di citazione di passi dei sutra mahayanici anche in autori theravada e viceversa. Questo dà l'idea che si cerchi una visione più complessiva, proprio per giungere a smussare le inclinazioni verso un estremo o l'altro che affiorano nei linguaggi scritti usati nei secoli. E questo è interessante e ci richiama il testo ecumenico che ho inserito sopra. Insomma, anche l'insegnamento cammina...
Sulla questione dei "trattati" filosofici devo dire che me lo aspettavo, d'altronde a parte forse la filosofia Vedanta, questo tipo di "opere" non sono comuni in oriente. Peccato, aiuterebbe chi ha una mentalità "matematica" e "speculativa".;)
Anche la spiegazione che dai sul linguaggio in effetti ci può stare: d'altronde allora i Samana indiani erano quasi tutti eternalisti, ossia ritenevano che "il (senso del) sé" si potesse conservare in qualche modo ad infinitum e quindi l'obbiettivo era proprio quello di "dare una spinta" da questo punto di vista. Probabilmente fosse nato in Occidente avrebbe usato un linguaggio simile ai Mahayana visto che le neuro-scienze d'altronde suggeriscono già loro che "il (senso del) sé è illusorio", ergo da noi l'anatta sembra quasi un'ovvietà, motivo per cui per esempio un Sam Harris o un Batchelor non hanno problemi a dire che il Buddha non era religioso, che non ha insegnato la teoria delle rinascite, che la parte mitologica del buddismo è mera superstizione e che non possiede assoluti (quando in realtà ovviamente è tutto falso...) ;) mentre una volta in pratica era dire "l'io esiste" la moda, oggi invece in occidente si dice "l'io è illusorio", ma questi "buddhisti" di certo non sono Arhat. Fai conto che tempo fa ero molto vicino al materialismo (per non molto tempo in realtà), credevo che la nostra identità fosse una flebile illusione che alla morte veniva annientata ecc ma allo stesso tempo ritenevo che l'uomo avesse la mente più sviluppata o quasi (visto che mi sono immaginato alieni più sviluppati di noi) di ogni essere. D'altronde l'evidenza scientifica di certo non smentisce tale visione, anzi. Tuttavia per quel brevissimo periodo che ho sostenuto una tesi simile rimpiangevo quella ricchezza perduta di quasi tutti gli altri filosofi che parlavano di un mondo molto più ricco e denso di quello visibile. Ben diverso è il buddhismo, che come la maggioranza delle religioni suggerisce l'esistenza di menti qualitativamente diverse dalle nostre ma a differenza di molte - se non tutte- altre religioni nega l'eternità di questi individui perfetti (per certi versi si può dire che il Buddha è un "dio" - d'altronde supera i devas, gli dei del Pantheon - ma è un "dio" che è impermanente ;D ) . Sentire parlare però di "anatta" così frequentemente lo ritengo pericoloso, visto che appunto i materialisti moderni asseriscono bene o male una cosa simile (ovviamente non uguale, ma simile). Ben vengano le assolutizzazioni dei Mahayana altrimenti si corre il rischio di creare un fraintendimento molto grosso, ossia quello tra "nulla" e "trascendenza". Il rigoroso Buddha del Canone Pali d'altronde doveva parlare di qualcosa che "non è né terra né fuoco..." (Udana 8.1) ossia negando tutti i concetti (fino ad allora?) utilizzati per descrivere tale "trascendenza". Inoltre il buddhismo "secolare" moderno non si rende conto di quanto per tutti i buddhisti sia importante l'infallibilità del Buddha mentre il buddhismo secolare non credo che contempli la possibilità che un uomo possa veramente diventare "infallibile", "impeccabile" ecc come l'Arhat.
Probabilmente Sari l'insegnamento è in cammino (bella immagine ;) ) per questo motivo: pur essendo infatti "immutabile" lo "Zeitgeist", la mentalità dell'uomo continua a mutare, quindi anche le parole utilizzate nelle suttas e nelle sutras hanno un significato diverso da quello che riteniamo noi (chissà tra l'altro quanto questo mutamento è cominciato). Quindi per quanto mi riguarda tenderò sempre più ad usare termini "eternalisti" parlando di buddhismo perchè l'altro estremo purtroppo ormai è la norma ;)
@Apeiron
Questo che rilevi è un punto molto interessante. Concordo con la tua opinione che , nell'Occidente ateo e materialista, la visione mahayana è da preferire, anche solo perchè insinua il dubbio alle menti troppo facilmente pronte ad etichettare ( pro domo sua...) il Dhamma del Buddha come un insegnamento ateo, materialista e relativo ( a certe situazioni o esperienze psicologiche...). Il canone Pali sorge in opposizione al brahmanesimo vedico e quindi a una società impermeata dal senso della divinità , legato al sacrificio, all'organizzazione in rigide e intoccabili caste che facevano dell'accesso alla spiritualità una possibilità rigidamente determinata. Il pantheon indiano era ( ed è) sterminato. Il Buddha proponeva la centralità della persona, al di là di ogni casta, come valore fondante di una nuova concezione del Dhamma spirituale, in cui la possibilità dell'incontro con la trascendenza e con la liberazione dal dolore e dalla catena ininterrotta delle rinascite era aperta a tutti ( addirittura alle bhikkhuni, alle donne...) e non solo ai brahmani. I testi pali riflettono anche nel linguaggio usato questo spirito di negazione della visione brahmanica e insistono proprio in questo per evidenziare la differenza del nuovo Dhamma con i precedenti millenari insegnamenti. In quell'epoca i brahmani godevano di un prestigio indiscusso e svolgevano un ruolo cruciale nella vita religiosa, sociale e politica ( erano spesso ministri o dignitari dei re...). A un certo punto il ritualismo divenne così esasperato che si arrivò ad affermare:"Se il brahmano non celebra il sacrificio serale, il sole non tramonta": In una società come quella indiana del quinto sec. a.C. la figura del Buddha si erge come quella di un "rivoluzionario" che nega la possibilità che i sacrifici offerti agli dèi portino benefici spirituali ma che pone l'uomo come soggetto e agente della propria crescita spirituale e della propria liberazione, che è l'incontro con uno stato di reale mutamento interiore e di visione della realtà.IL Buddha non solo negò l'autorità dei sacri testi ( i Veda) ma mise in discussione la validità del sistema delle caste arriavndo ad ammettere nel Sangha addirittura i fuoricasta, gli intoccabili. Arrivò dire che i veri brahmani sono coloro che hanno realizzato la Via che conduce al Nibbana (Sezione del brahmano del Dhammapada, da 383 a 423...):
Ma io non chiamo brahmano chi è nato
dal grembo di una brahmana, chi è nato
da madre brahmana.
Uno così è solo un arrogante, è uno che possiede
molto.
Ma chi non possiede nulla ed è libero da
attaccamento: costui io lo chiamo brahmano.
Nel testo originale, la brava traduttrice Genevienne Pecunia, mette in evidenza che c'è un'espressione efficace, bhovadi, cioè "che dice bho" dove bho è la consueta formula con cui ci si rivolge agli uguali o agli inferiori. I brahmani, che si ritengono la casta più elevata, si rivolgono agli altri come ad uguali o inferiori. Da questo si scorge la loro arroganza. Oltre a questo "possiedono molto", il che darebbe ad intendere che si facevano pagare profumatamente per celebrare i loro sacrifici ( ricorda qualcosa di nostrano?... :().
P.S. Tutta questa filippica solo per dire che ogni testo va inserito nel contesto culturale e sociale in cui nasce. Il linguaggio "duro" del canone Pali riflette questo contesto, ovviamente. Porta pazienza... :-[
@Sari
Nessuna pazienza (cit. Sariputra ;D ).
Il Siddharta Gotama storico che sia stato davvero o meno quell'infallibile mente che ci è stata tramandata certamente fu un "rivoluzionario", andò contro la sua cultura riformando probabilmente sia i movimenti Samana che l'induismo vedico del tempo. Come ben osservi tolse quel valore sacro che avevano allora le caste, insegnava a tutti il nuovo "Dhamma", creò un ordine di monache alla pari dei monaci ecc Proferì le parole della Metta Sutta (!) e certamente le mise in pratica (o fece del suo meglio se non era davvero "infallibile"). Ma il Buddha Sakyamuni che ci è stato tramandato è ben più di un rivoluzionario ossia di una personalità storicamente "plausibile" (almeno agli occhi di un sempliciotto che scrive 2500 anni dopo circa). Quello che vedo è un individuo "profondo, incommensurabile, difficile da capire, come l'oceano", ossia di un uomo che ormai è più paragonabile ad una divinità (seppur "non eterna") più che all'uomo comune (intendevo questo nel discorso degli alieni ;) , non che il Buddha non fosse nato umano). Perchè? Non può commettere errori morali, non può fare affermazioni false, non può errare nella dottrina ecc. Un uomo del genere è ormai paragonabile ad una divinità. Ma allora è esistito veramente, secondo quel sempliciotto di Apeiron? Sono abbastanza convinto che sia esistito un Siddharta Gotama (tra l'altro il nome e il cognome ho scoperto essere essi stessi ricolmi di significato), abbia fatto l'asceta e abbia esposto gli insegnamenti che almeno in parte costituiscono il buddhismo ma mi duole dirlo mi perplede molto in modo non molto dissimile dall'Incarnazione crisitiana che questo uomo fosse davvero come ci è stato tramandato. Posso capire saggio, posso capire santo, posso capire carismatico ma qui siamo di fronte a un qualcosa di incredibile. A confronto Socrate che sentiva i messaggi divini del suo daimon e che aveva una missione datagli dall'Oracolo di Delfi diventa estremamente "plausibile". Ma questo significa che bisogna abbandonare il buddhismo perchè è in fin dei conti una religione e quindi appartiene all'"infanzia dell'umanità"? NO. Semplicemente riconoscere questa "implausibilità" ci fa scoprire la ricchezza delle varie forme di buddhismo, una ricchezza che non potrà mai essere contenuta in una filosofia come quella di Batchelor. No perchè il buddhismo anche se Buddha non fosse mai esistito è una fonte di ricchezza spirituale incredibile. Per questo motivo si dovrebbe ribaltare il nostro modo di vedere le religioni! Sì sono implausibili ma è proprio la loro implausibilità che le rende "qualcosa di più alto" (per esempio ho citato l'Incarnazione cristiana. Se si toglie il sovrannaturale dal cristianesimo si arriva ad una semplice - seppur onorevole - filantropia come tra l'altro mi pare che sostenevi anche tu ;) ). Solamente infatti davanti a qualcosa che vediamo come incredibilmente Grande possiamo sentire il Mistero. Mistero che non mi trasmettono per niente i "buddhisti secolari" ma che il "buddhismo" invece sì ;)
P.S. Interessante il discorso che hai postato sul fatto che i brahmani per il Buddha fossero tutti, perfino "gli ultmi". Così come sui sacrifici (nell'Antico Testamente c'è scritto "misericordia voglio e non sacrifici" (Os 6,6)). E vorrei mettere in evidenza l'amore per l'ultimo e l'emarginato che accomuna Buddha e Gesù. Ed anche, aggiungo io, lo Zhuangzi e il Daodejing. In tutti questi casi si ha a che fare con "rivoluzionari" che vanno contro le isituzioni del tempo a favore dell'emarginato ecc. Domanda (chiaramente retorica) che mi faccio prima di tutto a me stesso: sarà, per caso, forse un'indicazione di qualcosa?
P.S.P.S Sul discorso della contestualizzazione mi fai venire in mente anche il daoismo. Oggi diciamo che DaodeJing e Zhuangzi ci invitano ad essere "naturali". Il problema è che a quei tempi essere "naturali" voleva dire una cosa ben più profonda e misteriosa di quanto lo sia oggi. Ma mi sembra che pochi su questo punto ci riflettano davvero. Per esempio leggo che il "Dao coincide con le Leggi della Fisica" (sicuro di averlo letto, non so dove ma l'ho letto)... no il Dao mi pare molto più "ineffabile" :)
Credo ci siano pochi dubbi che Siddhartha Gotama sia realmente esistito. Dopo la sua cremazione , i suoi resti sono stati divisi e sono diventati le reliquie di otto stupa originali che, nel III sec. a.C., per volere dell'imperatore Asoka il grande, sono stati aperti e le reliquie divise tra circa mille stupa. Ancora oggi gli otto stupa originali sono oggetto di venerazione. Sul fatto dell'implausibilità della figura "infallibile" del Buddha storico, direi che un conto è l'atto di fede che compie il buddhista e un altro il rapporto critico che dall' esterno si stabilisce con questa figura. Vista con gli occhi razionali e scientifici questa infallibilità appare come mitologica, ingenua e da boccaloni ( termine che ho imparato frequentando questo forum... ;D). Dal praticante che , giorno dopo giorno, riesce a maturare dei progressi nella sua vicenda spirituale seguendo l'insegnamento di questo personaggio, sorge invece una spontanea adesione che sfocia in un' autentica certezza di essere su una strada veritiera. Come un cristiano , per esserlo veramente, non può dubitare dell'esistenza storica del Cristo e di tutto ciò che è stato riportato da coloro che si sono definiti come testimoni di quegli eventi, così un seguace del Buddha non può dubitare dell'infallibilità del maestro nella comprensione del Dhamma da seguire per giungere "all'altra riva"...Altrimenti non sei un cristiano e non sei un buddhista. Puoi essere un "simpatizzante critico"... ;)
Un conto è l'agiografia che si è depositata nei secoli sulla figura umana del Buddha, rendendolo quasi una divinità, un'altra è il riconoscimento della statura spirituale di quest'uomo che ha aperto una strada nuova per giungere al "senza-nome". Statura che ne fa, insieme a Cristo, una delle due figure più possenti apparse nella storia spirituale umana e che hanno così profondamento inciso in tutti gli aspetti della vita dell'Occidente ( per Cristo ) e dell'Oriente ( per il Buddha).
L'affinita' piu'sorprendente fra Gesu' e il Buddha riguarda il concetto di amore: entrambi, infatti, predicano la Regola d'Oro, in base a cui ogni uomo deve trattare il suo prossimo come se stesso. Molte delle piu' note affermazioni di Cristo, in ordine al fatto di porgere l'altra guancia, di amare i propri nemici; nonche' l'idea che chi di spada ferisce, di spada perisce, si rispecchiano nelle parole del Buddha.
"La dottrina morale del Buddha", osserva Burnett Hillman Streeter, illustre studioso di Oxford, "e' sorprendentemente simile al discorso evangelico". Inoltre, le parole dette da Gesu' sulla montagna costituiscono il suo piu' grande insegnamento, esattamente come il Dhammapada, concettualmente affine al Sermone, costituisce il libro piu' importante del buddhismo: se esso e' la trasposizione scritta in lingua pali della tradizione orale sorta tra i primi iniziati buddhisti, il discorso evangelico della montagna e altre parti dei quattro Vangeli vengono infatti attribuiti ai primi seguaci di Cristo.
Siddhartha era senz'altro umano e aveva anche dei dubbi, come quando non era convinto che i tempi fossero maturi per l'apertura del Sangha alle donne ma venne poi persuaso dalle suppliche della madre adottiva Mahapajapati, convertitasi al Dhamma del figlio...Allora lascio due frasi tratte dai testi buddhisti per definire un pò la figura del Buddha:
Era esperto nel conoscere i pensieri e le azioni degli esseri viventi. VIMALAKIRTINIRDESHA SUTRA 2"Non ho mai visto prima d'ora - disse il venerabile Sariputto - ne' ho mai udito riferire da alcuno di un maestro che parli cosi' amabilmente". SUTTA NIPATA 955Ma è il Dhamma da seguire, non il Buddha!...Siddhartha è morto. Per vederlo ancora si deve necessariamente riconoscerlo nel Dhamma, nel suo insegnamento ( che poi esorta a farlo lui stesso, prima di morire, no?...) :)
Già concordo con quanto hai scritto. Diciamo che "simpatizzante critico" come definizione mi piace anche se più vado avanti nello studio (e per poco che riesco nella pratica) mi sembra di essere un "simpatizzante agnostico" ;D ossia più vado avanti più tutto mi sembra paradossalmente più misterioso. Quindi ecco: potrebbe davvero essere stato "infallibile", "speciale" ecc, non mi prendo la briga di negarlo, anche perchè "è una cosa che so di non sapere".
Sulla sua storicità ovviamente ci sono molti più indizi a favore che contro mentre per esempio nel caso di Laozi gli indizi sono semplici leggende. Recentemente hanno anche dubitato perfino dell'esistenza di Socrate, anche se abbiamo moltissime testimonianze della sua esistenza. Ovviamente a mio giudizio sono esistiti sia un Siddharta Gotama che un Socrate ma quello che mi dà molte perplessità è che sia esistito il Siddharta Gotama del Canone Pali. Non mi sorprenderebbe se in futuro venisse rivelato che molto di ciò che è attribuito a lui in realtà è stato detto da molti suoi "discepoli". L'esistenza degli Arhat così come sono descritti mi ha sempre lasciato perplesso, la vedo come una cosa estremamente improbabile. Ma ovviamente ritengo anche assurdo essere certi della loro non-esistenza visto che " Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia."(Amleto, Shakespeare). Me ne rendo conto. Quindi sono scettico ma credo che sia la cosa più "intelligente" da fare.
Nel buddhismo tibetano viene data molta importanza allo scetticismo perchè è visto come l'unico modo di "purificarsi" da posizioni erronee, così come un buon orafo deve esaminare la purezza dell'oro. Per la mia comprensione delle cose ritengo molte cose "false" ma sai com'è ;D ad ogni modo una cosa che mi perplede molto in realtà è chiamare "Siddharta Gotama" il fondatore del Buddhismo. In realtà non può essere considerato in modo analogo a Gesù da questo punto di vista proprio perchè ci viene fatto notare che il Dhamma è già stato insegnato, nella lontana antichità lo si praticava forse meglio di oggi e così via. Allo stesso modo dire che i fondatori del daoismo sono Laozi e Zhuangzi lo ritengo un'altra assurdità visto che entrambi ci tengono a farci notare come i loro insegnamenti sono già stati insegnati molto tempo prima (e in questo caso ci tengono ancora di più a dire che allora venivano praticati meglio). Idem per lo giainismo e per l'induismo. Come ben fai notare tu è il Dharma ad essere seguito e non il Buddha. Per il buddhista sia ingenuo che serio il Buddha è "infallibile", lo scettico da questo punto di vista invece cerca il Dharma e usa il buddhismo come strumento. Ad ogni modo stando alla storia dei ciechi e dell'elefante, la Realtà è molto più vasta delle nostre limitate menti quindi il Nobile Silenzio sembra essere un ottimo modo per "comprendere l'ineffabile" ;)
Ho ancora pensato alla questione dello status ontologico del Nibbana (e la relazione con "Anatta") e ho trovato anche questo link che pare utile (oltre che dire le stesse cose che afferma Il Sari) https://what-buddha-said.net/library/Wheels/wh011.pdf ... ok ancora non capisco la differenza tra una visione "positiva" del Nibbana (almeno come tipo l'"Essere" di Parmenide per intendersi...) e dire che "non deve essere compreso come semplicemente non-esistenza". Ma sarà un mio limite ;D
Curiosità. Stasera mi sembra che mi stia vendendo un qualche malanno e stavo meditando su quanto il fatto di star male fisicamente impone restrizioni sulla vita, qualsiasi cosa si voglia fare (ok lo so è solo un normale malanno ma quando parto per la tangente ahimé non mi ferma nessuno ;D ). Il che mi ha fatto riflettere e mi è sorta questa curiosità (forse un po' fuoriluogo): ma che succede a chi non ha la salute fisica per fare il monaco? Voglio dire i precetti del tipo "mangia al massimo 2 volte al giorno e chiedi solo cibo in elemosina" (e altri) chiaramente "funzionano" solo se si è in buona salute. Così come ad esempio chi non può camminare non può fare la "meditazione in cammino". Quindi mi chiedo per curiosità: in questi casi la corsa al Risveglio è rimandata alla vita successiva? :( idem a chi magari sorge una qualche malattia grave. In questi casi si confida nelle rinascite? :(
Citazione di: Apeiron il 10 Ottobre 2017, 22:48:04 PMHo ancora pensato alla questione dello status ontologico del Nibbana (e la relazione con "Anatta") e ho trovato anche questo link che pare utile (oltre che dire le stesse cose che afferma Il Sari) https://what-buddha-said.net/library/Wheels/wh011.pdf ... ok ancora non capisco la differenza tra una visione "positiva" del Nibbana (almeno come tipo l'"Essere" di Parmenide per intendersi...) e dire che "non deve essere compreso come semplicemente non-esistenza". Ma sarà un mio limite ;D Curiosità. Stasera mi sembra che mi stia vendendo un qualche malanno e stavo meditando su quanto il fatto di star male fisicamente impone restrizioni sulla vita, qualsiasi cosa si voglia fare (ok lo so è solo un normale malanno ma quando parto per la tangente ahimé non mi ferma nessuno ;D ). Il che mi ha fatto riflettere e mi è sorta questa curiosità (forse un po' fuoriluogo): ma che succede a chi non ha la salute fisica per fare il monaco? Voglio dire i precetti del tipo "mangia al massimo 2 volte al giorno e chiedi solo cibo in elemosina" (e altri) chiaramente "funzionano" solo se si è in buona salute. Così come ad esempio chi non può camminare non può fare la "meditazione in cammino". Quindi mi chiedo per curiosità: in questi casi la corsa al Risveglio è rimandata alla vita successiva? :( idem a chi magari sorge una qualche malattia grave. In questi casi si confida nelle rinascite? :(
Spero che sia solo un malanno di stagione, tipico dell'autunno. Mi chiedi cosa succede a chi non ha la salute fisica per fare il monaco...beh! Direi che non esiste un limite fisico per meditare.Sei ammalato? Coltivi la consapevolezza del tuo disagio fisico, la frustrazione che ti provoca, sei consapevole dell'insofferenza della mente che 'vuole scappare'. L'afflizione quindi può diventare uno strumento di meditazione per sviluppare vipassana ed anche metta ( provare benevolenza e compassione verso il proprio corpo sofferente. Visualizzare con gentilezza e semplicità il fatto che questo corpo, così bistrattato dalla mente, ci sorregge, ci permette di fare, di vedere la bellezza, ecc. ).Nella comunità monastica il precetto di non prendere cibo solido dopo mezzogiorno vale solo per le persone in buono stato di salute. Per gli ammalati ci si prodiga per liberarlo, nei limiti del possibile, dalle sue pene fisiche ( non nel senso di ammazzarlo, ovviamente ;D ). Però, nella tradizione della foresta, si è parecchio 'duri'. Non si bada ai malanni passeggeri, si va ad elemosinare il cibo con la febbre , se non è da cavallo, per capirci...Ajahn Tate, per esempio, era un monaco che si trovava in ospedale per curare un cancro, valutato dai medici incurabile. Decise di sospendere ogni cura e di tornare al monastero nella foresta, per morire. Visse altri 25 anni. Un bhikkhu estremamente stimato e venerato che diceva, alla gente che andava a trovarlo per avere un consiglio, che la medicina che l'aveva tenuto in vita era stata la meditazione.Credo che gli abbiano dedicato una grande sala del Dhamma, se non ricordo male, l'ho letto parecchio tempo fa...dicono che parlasse pochissimoSe sei in carrozzella non puoi ovviamente fare la meditazione camminata, ma puoi esercitare la presenza mentale del gesto di spingere la carrozzella. In fondo quello che è importante è il coltivare i fondamenti della presenza mentale, non lo strumento o il modo per farlo. Si può meditare mangiando o urinando e defecando. L'importante è esserci, essere presenti e non permettere al bufalo di scappare in continuazione ( il bufalo è simbolicamente la mente che non risiede quasi mai nel presente ma vive del ricordo del passato e nell'immaginazione del futuro...).Ti rispondo anche alla domanda che mi hai posto nel topic su Dio.Intendevo che , nella visione vedica e upanishadica, l'assoluto Brahman genera le molteplici divinità che sono rappresentazioni simboliche delle molte manifestazioni e funzioni di un unico Dio: "respirava senza produrre respiro, per propria forza, quell'Uno" (Rig-Veda). Questo Uno che si manifesta prima in tre, poi in 33, poi in 333, poi in 33.000.000 ( cifra simbolica ad indicare l'infinità di forze che muovono il cosmo) non si disintegra nella sua molteplice manifestazione, ma sottolinea che si manifesta come molti aspetti. Uno di questi aspetti ( riconducibile a Shiva) è la trasformazione , la morte. Pertanto la morte e la sofferenza connessa è una manifestazione di Dio. In un certo senso lo definirei come un 'abitare la morte' da parte di una manifestazione di Dio/Ishvara. Questo perché in questa visione l'uomo attribuisce a DIo la funzione di creatore (Brahma) prima di ogni altra, poi di conservatore, di colui che 'mantiene' in essere (Vishnu/Lakshmi) e infine di trasfomatore, di distruttore (Shiva). In una visione non lineare ma bensì ciclica del tempo si ripete in Dio questo andamento eterno di creazione, sostentamento e riassorbimento della creazione, che quindi non è una ma molteplici, infinite creazioni. Creazione al plurale, come plurali sono le manifestazioni dell'Uno.Ecco che quindi, a parer mio, il significato e il peso nella metafisica vedica della morte non è paragonabile alla visione abramitica. La vita, con le sue gioie e i suoi dolori, con la sua tarsformazione/morte è parte di Ishvara stesso, è Ishvara stesso. Ma questo non è panteismo o ingenuo naturalismo, si tratta di speculazione metafisica dato che l'Uno precede metafisicamente ogni polarità e separazione. Per questa mancanza assoluta di dualità viene definito col neutro (ékam). Riferendosi agli attributi di questo principio metafisico infatti è opportuno parlare di non-dualità piuttosto che di 'Unità', secondo gli insegnamenti della scuola Advaita.P.S. sai niente che fine/trasformazione ha fatto il Pierini? Dopo 500 e passa manifestazioni apparse in poco più di un mese è scomparso... :-\ ???
Ieri ho detto a @sgiombo queste parole a riguardo della "virtù" e della possibilità di realizzarla (direi che è piuttosto in tema ;D ):
"D'altronde credo che sia un problema millenario: ok conosciamo cosa significa essere "virtuoso" ma è evidente che molti "in questa vita" (ossia per gli anni che abbiamo a disposizione) non riusciranno mai ad essere virtuosi visto che in ogni caso non è ovviamente facile come "cammino". D'altro canto però è anche bene avere come obbiettivo "la virtù" altrimenti si rischia che l'"uomo tirannico" che è in noi - usando l'espressione di Platone - agisca in modo indisturbato. Qualche mese fa leggevo su internet se i buddhisti ritenevano che "il Risveglio" è questione o meno di fortuna (visto che in pochi in questa vita si liberano) ? La risposta se non ricordo male era che ciò era in parte vero ma veniamo salvati da tale "sfortuna" dal fatto che "la morte non è la fine". Analogamente anche Kant "postulò" una vita dopo la morte per questo motivo (o un motivo simile). D'altronde a meno che per dire non siamo già "predisposti" il divenire "perfetti" per noi è un'impresa se non impossibile, davvero difficile (e anche si va per certi versi a "fortuna". Per esempio se domani un asteroide cadesse vicino a dove abito, non credo che mi rimarrebbe quel poco di comportamento "virtuoso" che ho (o credo di avere ;D ).). E se uno nasce in un contesto (anche dettato dalla propria interiorità) che lo fa tendere a ciò che "non è virtuoso"? Mah... altro mistero della vita :( sono considerazioni come questa che mi fanno pensare che "qualcosa" di "oltre" ci sia.""
Anzitutto introduco il tutto dicendo che non era niente di che, appunto sono quei malanni che tra autunno e primavera vengono e vanno (anch'essi sono piuttosto impermanenti e fugaci, tant'è che da piccolo cercavo di "studiare" le sensazioni che mi provocavano e cercavo di trovarne una regolarità nel loro comportamento - ovviamente i risultati di quelle ricerche erano piuttosto modesti ;D )
Leggendo il tuo ultimo messaggio mi sono reso ancora più conto di quanto "sono misero" ( ;D ). Ieri mi pareva che stesse arrivando una sorta di "parainfluenza" ma oggi come un bolla si è dissolto, sto meglio ecc. Ebbene per quanto riguarda la respirazione ieri era un po' difficoltosa e quindi questo mi distoglieva l'attenzione. Il problema è che seppur credo che sia vero quanto tu dici, ossia che il dolore può essere utilizzato come strumento di meditazione. Eppure ritengo che sia molto difficile. E anzi o malattie o circostanze di vario tipo possano impedire la pratica meditativa (sia laica che monastica. Monastica soprattutto visto che le regole mi paiono molto ferree. Ovviamente hanno chiaramente un loro senso ;D ). Per questo motivo mi è venuta in mente l'idea per cui il ciclo delle rinascite possa essere visto nel buddhismo come una sorta di "corso pedagogico", ossia che finché non siamo davvero pronti dobbiamo rinascere. Poi ad un certo punto si può sperare almeno nell'Entrata nella Corrente. Ma l'austerità del buddhismo da questo punto di vista non sembra scendere a compromessi. Quasi che dicesse: muoviti a fare tutto adesso altrimenti poi potranno passare molti kalpas prima di .... :-\ o forse mai :-\ in ogni caso questo è in parte il discorso che mi ha fatto pensare che anche nel buddhismo c'è una sorta di "Fato" come per esempio la ciclicità del Dhamma, i buddha passati e futuri... Ossia che la realtà è "densa". E forse prima di poter "liberarci dell'io" forse si deve arrivare a "raffinare" il suo senso di identità e di appartenenza. Solo allora forse sarà pronto per...
Sulla questione della morte. Sì concordo che c'è una differenza e che tale differenza con le culture abramitiche. Assumo che una visione simile la abbiano anche il daoismo e il buddhismo (almeno lo Zen visto che Dogen dice che "La Natura di Buddha è l'Impermanenza" ma anche Nagarjuna secondo cui "i limiti del samsara sono i limiti del nirvana") Tuttavia ci sono anche somiglianze almeno con l'unica che in parte conosco, il cristianesimo. Per esempio il "Re della Morte", Mara, è "l'ultimo nemico" e il Nirvana è descritto come "il senza-morte". Descrizione simili per Dao e Brahman. Ad ogni modo la differenza potrebbe essere questa: mentre per gli orientali il "nemico" sono le nostre stesse illusioni, per la visione abramtica è "un altro" e lo stesso vale per l'Amico. L'Alterità, il riconoscimento dell'"io-tu", ossia il valore alla persona nella sua unicità e nella sua particolarità è un tema assai sviluppato nelle religioni abramitiche mentre la "dissoluzione", il raggiungere lo stato del "legno non scolpito" è il tema delle cosiddette "vie di liberazione". Espresse in questo modo la loro visione è completamente diversa. Ma a mio giudizio questa diversità rende ancora più "stravolgenti" le somiglianze inattese ;)
P.S. Rispondendo al tuo "P.S." no purtroppo non so nulla.
La ri-nascita sempre come un'ulteriore possibilità? Tutta la metafisca e non solo, il sistema sociale e culturale del sub-continente indiano è vissuto ( e vive ancora) sull'eterno ciclo di nascita-morte-rinascita.
La morte è un nemico, è sofferenza, ma non perché 'pone fine alla vita', che è la paura e il terrore naturale dell'uomo, ma perché la perpetua , ti costringe a ri-nascere a ri-soffrire ancora e poi ancora. Donde viene questa millenaria sapienza che ruota, che dà per scontato, per assodato, pacifico che si viva, si muoia e poi si rinasca? Mi ha sempre fatto riflettere questa assoluta certezza che investe ogni forma di spiritualità/filosofia sorta sul quel terreno fecondo. Cosa percepivano della vita quegli antichi saggi che composero, forse quasi 2.000 anni prima di Cristo, il Rig-veda, il più antico testo della cultura indo-europea? Perché nessuno, nemmeno Siddhartha, mise mai veramente in discussione questa certezza? Sì, ci furono pensatori nichilisti, marginali, ininfluenti che non fecero scuola.
Se prendiamo come nostra stessa esperienza quei continui ricordi, sogni o visioni che inspiegabilmente ci fanno incontare volti che ci sembra di aver sempre conosciuto, ambienti in cui ci sembra di aver sempre vissuto, sensazioni strane che riconosciamo senza averle mai provate...beh!A volte ci sono spiegazioni plausibili, altre volte meno. Ricordo di quel bimbo palestinese che ricordava di essere stato ucciso con un colpo alla testa. Venne infine ascoltato da un ricercatore, non ricordo il nome, e il bambino lo portò nel luogo esatto dove sentiva di esser stato sepolto. Scavarono e trovarono i resti di un uomo con un foro nel cranio...ma ci sono tante storie documentate. Quella di Katsugoro. raccontata da Lafcadio Hearn, è inquietante e documentata da numerosi documenti dell'allora distretto di Tamagori, in Giappone alla metà dell'ottocento. Lo stesso Lafcadio Hearn provò su stesso l'ipnosi regressiva per verificare...sogni, visioni, sensazioni interiori, brevi flash...cosa c'è?...
Il buddhismo del canone è 'anche' il buddhismo votato a spegnere questo fuoco della rinascita, questo ciclo samsarico. Ecco che a noi occidentali, una cosa che forse, per la nostra cultura, appare come positiva ( il rinascere, l'avere ancora una possibilità di migliorarsi, di assaporare ancora questa vita così bella ma anche così dolorosa) si trasforma per l'indiano in un tormento, in una sete d'esistere che non trova quiete, da troncare, per sempre.
"Ancora tu sei ammaliato dalle follie dell'arte, della poesia e della musica, dalle delusioni del colore e della forma, dalle delusioni del linguaggio e del suono sensibile.
Ancora questa apparizione chiamata Natura- che è solo un altro nome per significare vuoto ed ombra-t'inganna e t'ammalia, e ti riempie con sogni di desiderio per le cose dei sensi.
Ma chi desidera veramente conoscere, non deve amare questo fantasma della Natura, non deve trovare delizia nello splendore di un chiaro cielo, né nel mormorio di fiumi correnti, nè nelle forme dei monti e dei boschi e delle valli, né nei loro colori. Chi veramente desidera conoscere non deve trovar delizia nel contemplare le opere e i fatti degli uomini, nell'osservare il gioco di marionette delle loro passioni e delle loro emozioni. Tutto ciò non è altro che un tessuto di fumo, un barbaglio di vapori, un'impermanenza, una fantasmagoria.
Perché i piaceri che gli uomini chiamano alti e nobili o sublimi non sono altro che più larghi sensualismi, più sottili falsità; fioriture velenose ed apparentemente belle dell'egoismo, tutte radicate nell'antica melma degli appetiti e dei desideri...
Tutto ciò che esiste nel Tempo deve perire. Per lo Svegliato non v'è tempo, né spazio, né cambiamento, né notte, né giorno, né caldo, né freddo, né luna, né stagioni, né presente, né passato, né futuro. La forma e i nomi delle forme sono ugualmente nullità. La conoscenza solamente è reale e per chiunque la guadagna l'universo diventa uno spirito. Ma è scritto: 'Colui che ha superato il Tempo nel passato e nel futuro deve essere di mente eccezionalmente pura'.
Tale mente non è la tua. Ancora ai tuoi occhi l'ombra sembra sostanza, l'oscurità luce e la vacuità bellezza. E quindi la vista delle tue nascite anteriori ti dà solamente dolore".
(Lafcadio Hearn-Spigolature nei campi di Buddho-Laterza 1922 uno dei testi più antichi di Villa Sariputra ;D).
In sostanza l'"indiano" ormai ha vissuto talmente tante volte che vede tutto come "dukkha", visto che "ogni reame di rinascita è sofferenza".
Il "sino-giapponese" invece è stufo di vivere nel modo "non naturale" e vuole vivere "naturalmente" (naturale per un cinese antico è cosa ben diversa da "naturale" come lo intende un "occidentale materialista moderno" ;D )
Il "greco" è interessato all'arete che ricorda per certi versi il Cinese.
L'"abramitico" invece vede questo mondo come "caduto" nel peccato e spera nella riconciliazione.
Ebbene il buddhismo ha avuto influenze nel Sud-est asiatico (l'"indiano") e nell'Estremo Oriente (il "sino-giapponese") ;D Quello che si nota è che mentre nel buddhismo "meridionale", probabilmente più vicino al "vero" (?) pensiero di Siddharta, l'idea è che siamo imprigionati con il fuoco nella testa e dobbiamo liberarci ora (e se non lo facciamo ora probabilmente perdiamo il "treno" e rimaniamo a soffrire per anche miliardi di anni - o forse per sempre), per il buddhismo "settentrionale" invece il problema è che non ci rendiamo conto di essere già liberi (!). Ma il problema è che Buddha con la sua "dottrina" (?) dell'anatta ha chiaramente detto che "nascita e morte di "esseri" in realtà sono illusorie" e quindi in ultima analisi si è raggiunto un punto di contatto tra la pessimista "India" (sud-est asiatico) e l'ottimista "Cina" (estremo oriente) tant'è che appunto come abbiamo già ripetutamente discusso daoismo e buddhismo sono simili anche se "l'approccio" sembra per certi versi completamente diverso (in realtà si può dire la stessa cosa di certe filosofie Vedanta oltre che del buddhismo). Si arriva perfino a Dogen che dice "l'impermanenza è la Natura di Buddha" (e anche Nagarjuna con la sua identificazione di "samsara" e "nirvana" ci era molto vicino) cosa che ricorda il "celebre" passo secondo cui il Dao si trova anche negli escrementi ;D , Ad ogni modo la cosa interessante è che mentre Buddha Sakyamuni era partito dall'idea di essere in una prigione (quasi eterna) da cui scappare i daoisti invece partivano dall'idea molto diversa per la quale dobbiamo "vivere nel modo giusto". Lo Zen (e lo Huayan) sembra(no) ad esempio una perfetta sintesi delle due "visioni". Se l'impermanenza è la natura di Buddha qual è la differenza con la "lila" degli indù e quindi con una visione positiva della vita (ma si può anche dire: se il problema è la "caduta" della nostra illusione non punta verso quella direzione?).
In modo simile si può anche discutere sull'idea della "caduta" in senso "abramatico" in una "vita di peccato e di morte" e la "caduta" nel "samsara". D'altronde siamo legati al samsara perchè ci è preclusa la consapevolezza della "vera realtà"! Una volta "tolto" questo problema siamo "riconcialiati" ;D Quindi a mio avviso è incredibile anche la somiglianza (o forse la "vaga somiglianza") anche se il "punto di partenza" è qualcosa di completamente diverso ;)
@Apeiron
"Al sommo dell'esperienza religiosa si pone l'illuminazione mistica; la presenza diretta del Dio. A quel grado, i modi delle diverse religioni si unificano nella conoscenza del divino".
Questo brano è tratto dall'introduzione ad un libro di D.T. Suzuki che, come sai, era sicuramente uno dei massimi esperti e studiosi delle somiglianze e dissomiglianze tra cristianesimo e buddhismo ( in questo caso zen..). Analizzando i diversi linguaggi usati da due dei sommi esponenti della mistica delle due parti, Maestro Eckhart e Saichi, Suzuki ci porta lungo un sentiero impervio sì, ma affatto campato in aria, di un 'sentire' comune di fronte all'esperienza massima possibile alla mente umana. In questo periodo sto seguendo un corso serale dedicato alla mistica sufi, in una cittadina della Contea, veramente interessante e che apre ad un mondo spirituale tra i più 'misteriosi' e misconosciuti (a dimostrazione che la saggezza e l'autentica spiritualità vivono a tutte le latitudini e in tutte le culture..).
Il problema, come sempre, è quello di formulare con il linguaggio più adatto ( meno limitante e contradditorio possibile...) questi vissuti quando si scende dalle 'vette' e si vuole indicare il sentiero migliore per 'salire'. Ossia la domanda è: 'Chi mi può fornire una mappa, la più dettagliata possibile, per incamminarmi?'
Come esperienza personale ho visto la concretezza , la pragmaticità, il buonumore buddhista e l'ho ritenuto una mappa più circostanziata, più dettagliata e coerente, in cui l'elemento fideistico e dogmatico è meno pervasivo, meno vincolante, essendo il Dhamma buddhista fortemente sbilanciato verso la pratica meditativa personale piuttosto che l'adorazione o la preghiera.
Ma sono anche questioni di sensibilità personale. Per dirti...mi capita di piangere come un vitello leggendo e rileggendo il 'manoscritto M' di Teresa di Lisieaux...me ne vergogno un pò, :-[ lo confesso...ma è così. La Bellezza e l'intuizione autentica di un grande spirito cristiano o musulmano o hindu mi commuovono profondamente, mi sento veramente come un bambino di fronte a queste profonde sensibilità e tanto più se questo coincide con la coerenza di vita.
Io sono contrario al sincretismo tra le varie religioni, perché finisce per annacquare tutto, per renderlo un minestrone indecifrabile. Ci sono molte voci, molti uccelli che cantano nel bosco, perché ridurre queste melodie ad un'unica voce?... :(
Aspetta non fraintendermi... non sono favorevole al sincretismo e ritengo lasciare che le varie voci siano da valorizzare nella loro differenza (il rispetto dell'altro... ;) ). Ma rimango completamente stupefatto proprio dal vedere come su alcuni punti ci sia una convergenza a volte totalmente inattesa. Non riesco per esempio a capacitarmi della somiglianza tra il concetto di "Teotl" della filosofia azteca (pensa te quanto sono nevrotico, anche i nativi americani non lascio in pace ::) ) e "Dao" anche se ci sono forti differenze (prima di tutto Teotl è visto quasi come una sorta di "artista cosmico", il Dao no. Secondo l'ontologia pare differente). Ma la somiglianza è incredibile perchè non ci può essere stata una comunicazione tra Aztechi e gli antichi cinesi. Eppure.... eppure!
SARIPUTRA
Come esperienza personale ho visto la concretezza , la pragmaticità, il buonumore buddhista e l'ho ritenuto una mappa più circostanziata, più dettagliata e coerente, in cui l'elemento fideistico e dogmatico è meno pervasivo, meno vincolante, essendo il Dhamma buddhista fortemente sbilanciato verso la pratica meditativa personale piuttosto che l'adorazione o la preghiera.
Ma sono anche questioni di sensibilità personale. Per dirti...mi capita di piangere come un vitello leggendo e rileggendo il 'manoscritto M' di Teresa di Lisieaux...me ne vergogno un pò, (https://www.riflessioni.it/logos/Smileys/default/embarrassed.gif) lo confesso...ma è così. La Bellezza e l'intuizione autentica di un grande spirito cristiano o musulmano o hindu mi commuovono profondamente, mi sento veramente come un bambino di fronte a queste profonde sensibilità e tanto più se questo coincide con la coerenza di vita.
APEIRON
Ti ringrazio della tua onestà e della tua disponibilità a parlare di cose personali. Riguardo alla lettura di questi spiriti spesso mi sento davvero piccolo, mi sento quasi obbligato a genuflettermi rispetto a loro. Non ho mai letto il "manoscritto M" ma ho letto un po' di informazioni su santa Teresa e devo dire che non mi sorprende che per una mente recettiva possa dare un effetto simile.
Ad ogni modo sì il Dhamma buddhista, e in genere le "vie della liberazione" dove l'approccio "fideistico" è minore mentre è maggiore la parte pragmatica si accordano meglio anche per me. La mia mente analitica infatti ha una certa difficoltà ad accettare seriamente un cammino "devozionale" ma preferisce uno più "esperienzale" (anche se riconosco e rispetto molto il cammino devozionale se fatto nel modo giusto. D'altronde lo trovo un ottimo modo per aprirsi all'Altro - sia divino ("A" maiuscola) che umano ("a" minuscola)... ;) e anzi talvolta quasi li invidio perchè sentirsi amati e saper ringraziare arrichiscono di molto la vita). Una mente come la mia necessita di ragionamenti, dubbi e idee come il corpo neccessita dell'acqua - motivo per cui anche se sono più "attratto" e mi sento più vicino alle "vie della liberazione" non riesco veramente ad accettarle con tutto me stesso (mi ci ritrovo molto in Hesse e nei suoi personaggi... anche se mi rendo conto di avere alcune peculiarità che mi distinguono da lui e dai suoi personaggi ritengo che la loro "sete" che a volte li fa letteralmente disperare è presente anche in me). Anzi la mia mente analitica è talmente "analitica" che talvolta vede tale sua propensione come una sorta di prigione e per questo motivo mi affascinano molto le espressioni poetiche delle varie dottrine quasi più delle dottrine stesse, perchè mi liberano da questa mia caratteristica che talvolta è una prigione. Il buddhismo da questo punto di vista lo trovo per lo meno un aiuto "pragmatico" a questa sensazione. Aiuta a farmi smettere di continuare a produrre idee, dubbi, argomentazioni che talvolta hanno un ritmo assai esagerato ;) A volte tu dici che la spiritualità deve essere anche carne. Ebbene ritengo che anche la mente (o se mi è permesso usare il termine poco buddhista "anima" ;D ) sia anch'essa per certi versi "carne" e che talvolta la stessa mente speculativa sia non molto dissimile da quella "passionale"... d'altronde cosa ha il filosofo se non la "sete" (termine che è da prendersi quasi in modo non metaforico) della Verità? E la spiritualità di cosa non ha sete se non del Bene?
D'altronde non a caso Laozi dice (seppur facendo violenza al testo e astraendo dal contesto con molta probabilità di errore) "il Bene supremo è come l'acqua...". Col buddhismo spesso ho avuto la sensazione che queste mie seti (ovviamente anche molto più mondane di Bene e Verità eh ;D ) sono riuscite a trovare pace, ossia ad estinguersi (nirvana) ;) salvo poi presentarsi di nuovo, talvolta più potenti di prima :( ;D
Nel buddhismo uno dei fattori più importanti da sviluppare è la saggezza ( prajna). Senza saggezza non c'è liberazione dal samsara e quindi dalla sofferenza insita nel divenire. Ma è possibile ottenere saggezza senza sviluppare la meditazione? Senza almeno raggiungere il primo jhana? Viceversa , è possibile accedere al jhana senza saggezza? Nel Dhammapada si dice:"Non c'è jhana senza saggezza".
Ma cos' è il jhana? Sviluppare il jhana non è semplice. Spessissimo molte persone che si dedicano alla meditazione non riescono nell'impresa. L'identificarsi troppo con il corpo crea agitazione e questo è un problema in meditazione. Quando ci si invischia nei cinque sensi, i problemi aumentano e la quiete diventa un autentico miraggio. Se si 'lascia andare' il fattore percezione, i sensi si pacificano. Se la meditazione procede come deve procedere, dopo un pò di tempo, il corpo tende a 'scomparire'. Si abita uno stato in cui non ci sono più le mani, le gambe, la schiena...( ovviamente ci sono sempre, quel che viene a cessare è la percezione da parte della coscienza di queste parti...). Non si avvertono più gli acciacchi della mezza età ;D , nè i dolori e nemmeno piacere fisico...alè...sparisce tutto! Il corpo si 'raffredda', si calma, le onde percettive si acquietano... A questo punto molti provano paura ( in fin dei conti non è molto piacevole sentire svanire il corpo...), una sensazione come di 'affogamento' ed escono dal samadhi ( concentrazione). Se però si impara a 'lasciar andare' il corpo, oltre alla possibilità di approfondire la meditazione, ci si abitua presto ad una cosa che ritornerà molto utile nella vecchiaia e nella malattia...
La liberazione che si prova nel lasciar andare nella meditazione è bellissima. E' un piacere con un gusto diverso e più profondo dei normali piaceri della vita quotidiana. E' più 'sottile'...
Spesso, in meditazione, passa inosservato perché la mente cerca sempre qualcosa di familiare, di vicino alla nostra esperienza ordinaria. Bisogna prestare attenzione, ma questo dovrebbe essere un aspetto normale del samadhi...Nel Majjhimanikaya, Siddhartha paragona il piacere dei sensi a quello di un cane che rosicchia un osso sporco di sangue: ha il gusto del cibo...ma è privo della carne che nutre e sazia.Il piacere del jhana, del frutto della meditazione, dà 'sostanza' e reale soddisfazione. Non è un gusto superficiale ed effimero, è qualcosa di autentico.
A questo punto della meditazione, con la quiete gioiosa data dal jhana, sorge un primo barlume di prajna (saggezza); si incomincia a intuire l'inizio della fine della sofferenza, di dukkha.
Uno dei problemi di questi stati di beatitudine consiste nel pericolo della loro seduzione . La mente cerca la meditazione e il jhana per volerne sempre di più. E' di nuovo all'opera il desiderio, la brama che porta a nuovo attaccamento all'esistenza nel divenire. Allora bisogna rammentare ciò che ci ha portati fino a quel punto, ossia la capacità di 'lasciar andare'... :)
Si incomincia a capire che la brama è veramente la causa della sofferenza, lo si constata di persona, in noi stessi , nella dinamica stessa della meditazione che ci porta di fronte alla visione di questo attaccamento al mondo. La paura spesso ci fa preferire l'osso sporco di sangue, da rosicchiare, purché ci si possa illudere che sia 'nostro'...
La meditazione profonda è realmente intensa e piena di 'carne' nutriente. Una sola esperienza di jhana può cambiare una vita, può farci sentire appagati per molto tempo, forse anche per l'intera vita.
Può sembrare una cosa strana e insolita, ma chi l'ha avuta capisce il perché.
La vera meditazione fa toccare una dimensione interiore straordinaria ( senza voci, visioni o altro...quelle aspettano sul ponte).
Sariputra tutto molto bello (sono serio eh) ;) volevo però farti tre domande concrete (di cui due un po' personali quindi sei libero di non rispondere ;D ):
1) hai raggiunto (almeno) il primo jhana?
2) dopo quanti anni di pratica eventualmente lo hai raggiunto?
3) è necessaria l'interazione con un maestro per fare progressi, secondo quanto hai appreso?
Ad ogni modo il tuo omonimo disse: "Il Nirvana è Pace... Che non ci siano sensazioni (vedana) è la Pace" (credo che intenda il Nirvana dopo la morte, anche se magari al momento del Risveglio magari "si capisce"). Ora gli interpreti secondo cui il Nirvana è il "nulla" ritengono che l'affermazione del tuo omonimo si riferisce al fatto che il nirvana è uguale alla "morte" che si avrebbe se non si rinascesse. Tuttavia sinceramente trovo una certa somiglianza tra le esperienze che descrivi tu parlando dei jhana e la frase "incriminata". Ma la descrizione che tu ne dai ha molta "positività". E ciò è confermato dalla "mitologia" (?) dei piani dell'esistenza che ad ogni livello di jhana associa un "piano". Il problema è che tutti i jhanas sono impermanenti, ossia sono "stati di concentrazione condizionata"
Ergo: qualcuno ha mai pensato che il Nirvana - inteso come l'assenza delle sensazioni - è una sorta di "stato di concentrazione incondizionata" - ossia il "massimo" dei jhana (ma qualitativamente diverso da essi)?
Apeiron, permettimi di non rispondere alle prime due domande, perché le parole sono facilmente fraintendibili, in quanto coloro che magari leggono avendo solo un'infarinatura generica di Dhamma possono trarre conclusioni che sono al di là delle mie intenzioni. Se parlo dell'argomento 'jhana' è perché lo trovo importante nel contesto di questa discussione sul buddhismo e non per celebrare i miei successi o insuccessi personali a riguardo. E' una di quelle cose ( l' eventuale successo/insuccesso...) che mi riprometto sempre di tenere nella sfera più intima possibile ( anche per non alimentare il senso dell'io/mio.. :) ma anche perché sento che è 'bene' così...).
La terza domanda: un maestro non è indispensabile ma certo giova molto ad un meditante proprio quando questi s'imbatte in certe esperienze che possono addirittura diventare dannose per il praticante stesso. Non dimentichiamoci che molte persone, fantomatici guru, si servono di questo per esercitare potere e per alimentare il proprio ego, anziche lottare per diminuirlo, o per scrivere corposi libri di visioni e messaggi direttamente trasmessigli da entità soprannaturali. Il problema è : dove trovare un nobile maestro che ti possa aiutare senza pretendere qualcosa in cambio? Soprattutto qui da noi? Ce ne sono, ma bisogna cercare parecchio...
La funzione del Nibbana è 'dare pace' o 'confortare' ed è sicuramente uno stato di quiete, di non agitazione, ma anche uno stato della mente 'che conosce'. E cosa conosce la mente? "Prima c'era la brama, ora non c'è più. Prima c'era l'avversione, ora non c'è più. Prima c'era l'ignoranza, ora non c'è più". Coloro che intendono il Nibbana come 'nulla' non hanno compreso fino in fondo l'Insegnamento e soprattutto non hanno esperimentato in modo non illusorio i jhana. I quattro Jhana ( secondo il buddhismo) sono come cancelli da superare , ma il meditante non vede nella pratica tutta questa schematicità descrittiva , come riportata dai testi, che sembrano quasi delle guide Michelin... ;D La meditazione fluisce spontanea e s'approfondisce da sé, senza che vi sia , da parte della coscienza, una necessità continua di catalogare."Ecco il primo jhana!...Acc...ecco il secondo...o forse no? Sarà mica il terzo? ...Che li abbia già raggiunti tutti e quattro?"... :o
Scherzo, ovviamente, ma c'è questo rischio. "Ho raggiunto il primo jhana, e tu?"; "Io sto lavorando sul secondo". Questo non è serio. La prima serietà che impone la meditazione buddhista è quella delle motivazioni e non può esserci, per il Buddha, motivazione che non abbia solide radici nella moralità ( sila ). Molti buddhisti , soprattutto occidentali, praticano il Dhamma e la meditazione ritenendo secondaria la moralità della motivazione. L' autentica purezza dei jhana però è strettamente legata alla purezza delle intenzioni. Intenzione di comprendere con il proprio 'cuore' le quattro nobili verità e in particolare la prima. Mi è capitato di incontrare dei personaggi che si definivano come buddhisti, ma che rifiutavano la moralità ( soprattutto in campo sessuale, ovviamente...) e che arrivavano a definirsi tali proprio perché "Il Buddha non ha mai predicato tutta quella sessuofobia dei cristiani...". Oltre al sesso libero si fumavano dei bei cannoni, specificando che il Buddha non l'ha mai proibito e che il quinto precetto non riguarda la Marihuana, ampiamente usata da millenni dai santoni hindu per visualizzare gli dèi...Capisci che comodo diventa allora il dichiararsi "buddhista"? Ci costruiamo un bel Dhamma su misura. I jhana e il Nibbana diventano allora, semplicemente, 'farsi un'altra esperienza sensazionale'. In realtà questi meditanti alfine trovano solo confusione e altra sofferenza...
La concentrazione che porta al jhana è un mezzo potente per stabilizzare la mente, così che possa avanzare nella vipassana, nella visione profonda. Il Nibbana è una condizione di libertà dal sankhara, dal continuo processo di creazione della mente; viene infatti definito come 'non-prodotto' e 'non-creato'. Questo , a mio parere, significa che né è un sankhara, né che attraverso il sankhara viene prodotto.
Il Nibbana è quindi una condizione priva di ulteriori creazioni. Un uomo libero da avidya (ignoranza) non produce alcun sankhara. Ottenuto il Nibbana l'arahant conserva i suoi fattori di personalità ( khandha, dei quali uno è per l'appunto il sankhara...) fino alla morte. I cinque fattori sono ben compresi, rimangono ancora 'in piedi', anche se le loro radici sono state tagliate. Solo al momento della morte le attività 'si acquietano'. In pratica, a mio parere, solo i tipi di sankhara che determinano conseguenze di natura kammica ( quindi la brama, l'odio e l'illusione...) vengono definitivamente sradicati con l'entrata nello stato di Nibbana in vita. Nei jhana, e in particolare nella sola realizzazione del primo, c'è una temporanea scomparsa, una 'sospensione', ma poi, non avendo ancora ottenuto la visione profonda, si torna al sankhara. Che cosa succede al momento della morte dell'arahant? Come ben sai, Siddhartha rifiutò di farsi coinvolgere in una discussione su questo. Riporto un brano di Rune Johannsson, uno psicologo svedese esperto di pali e sanscrito e ovviamente di Dhamma:
Potremmo dire che quando un insieme di forze interagenti, privo di un sostrato materiale, viene a cessare, non rimane nulla. A questo punto la personalità umana si annullerebbe nella morte. Ma il mondo del Buddha era differente: egli conosceva bene i processi della coscienza e sapeva, dall'esperienza meditativa, che questa non deve necessariamente cessare quando cessano tutti i processi coscienti. Al contrario, era proprio questa per lui la condizione ideale: una quieta tranquillità, una coscienza immobile, completamente priva di processi coscienti, assolutamente impersonale, assolutamente illimitata. Giungere a tanto era il solo modo per vincere l'impermanenza e la molteplicità; ed egli sentiva che si trattava di una condizione permanente, l'unica condizione permanente possibile..."
Sariputra, grazie della risposta. Mi rendo conto che le mie domande erano oltre che personali, anche malposte.
Mi spiego meglio riguardo alle prime due (e anche in modo minore la terza). Sulla questione dei jhana, ovviamente, mi sono per così dire dimenticato due cose: la "rapidità" con cui si ottengono è soggettiva e che ad ogni modo il raggiungimento di tali livelli di concentrazione di per sé non sono un indizio a favore o a sfavore della "validità" della filosofia buddhista. Sulla questione del maestro la tua risposta mi ha soddisfatto, anche se devo dire che di per sé come domanda era anch'essa malposta. D'altronde già il fatto che ti chiedo informazioni su teoria e pratica del buddhismo mostra che i maestri sono necessari (sì ti considero un maestro mentre non considero maestri quei "falsi" guru ;) di cui hai scritto nella tua risposta, sia chiaro). D'altronde la "storia" ci insegna che lo stesso Buddha ha dovuto imparare le tecniche di meditazione dai dei maestri (ovviamente se non erro ;) ), quindi è impensabile imparare senza. Inoltre anzi probabilmente è anche insensato visto che in un certo senso ogni momento e in ogni situazione impariamo qualcosa sul "Dhamma", solo che in genere non vogliamo imparare D'altronde questo segue abbastanza facilmente dalla definizione di Dhamma e dal fatto che la nostra vita è condizionata, che a sua volta segue dal fatto che non siamo entità "isolate" (spero che non sia oscuro questo mio pensiero, semma lo rispiego) ;) Ad ogni modo la mia domanda era in relatà questa: quanto è comune che i praticanti ottengano il jhana? Ma anche questa è facilmente fraintendibile e può portare il lettore fuori strada, anche se toglie il fattore personale.
Riguardo poi al Nirvana. Non era mia intenzione tediare ancora sulla questione se l'Obbiettivo del buddhismo è per così dire "nichilistico". Ma vista la paziente risposta che mi hai dato, fortunatamente non hai letto questa intenzione nella mia domanda. Volevo però spiegare il motivo per cui oggi dopo anche aver riflettuto meglio (e aver letto la tua risposta ;) ) mi rendo conto che l'"idea" di Nirvana che ho "riportato" era un non-senso. Semplice: i "jhanas" si "ottengono" e quindi si "creano" e la loro "tenuta" dipende da condizioni ben precise. Il Nirvana non può essere descritto come una "concentrazione incondizionata" perchè la concentrazione non è incondizionata ma è condizionata. Quindi anche questa idea che mi era venuta in mente era priva di senso. Di nuovo però questo invece racchiude un'altra questione che la mia "mente di scimmia" ha voluto oscurare. Ossia, anche qui una curiosità che "butto qui" senza volere una risposta. Come è possibile per esempio riconoscere se si è "Entrati nella Corrente" (per chi ci legge: il primo livello di Risveglio. Incompleto) ? Si è per caso "entrati" in contatto con il Nirvana? Se sì, lo si riconosce in modo automatico o lo può dire solo un altro "Risvegliato"? Cioè una volta che ho ottenuto questo "step" lo riconosco necessariamente? (si noti che questa domanda in realtà vale anche per ogni altro percorso spirituale. Come cioè si distingue il vero e autentico "risveglio" da un errore. Magari ci si è andati vicini eh ma è pur sempre un errore ;D ) Ma anche questo non essendo un problema propriamente "buddhista" ma riguardante l'esperienza religiosa in generale, va fuori dai limiti di questo argomento.
Ad ogni modo lo stesso Buddha dice "c'è monaci un non-nato..." - di certo non dice si "ottiene il non-nato" ;)
A volte serve anche pensare un po' di più alle domande che si fanno :)
NOTA: Ne approfitto per dire agli eventuali lettori che le mie disquisizioni sul Dhamma sono quelle di un semplice interessato e spesso non sono sicuro che abbiano senso o meno.
@Apeiron si domanda:
Come è possibile per esempio riconoscere se si è "Entrati nella Corrente" (per chi ci legge: il primo livello di Risveglio. Incompleto) ? Si è per caso "entrati" in contatto con il Nirvana? Se sì, lo si riconosce in modo automatico o lo può dire solo un altro "Risvegliato"? Cioè una volta che ho ottenuto questo "step" lo riconosco necessariamente?
"Entrare nella corrente" ( sotapanna) è il primo dei quattro 'frutti' della liberazione e , secondo la tradizione ( molto schematica ripeto...) dei sutta, permette di entrare definitivamente nel Nibbana al massimo entro sette nascite. Quali sono le caratteristiche del sotapanna?
-indebolimento dell'egocentrismo.
-minore brama verso gli oggetti sensoriali.
-minore avidità di guadagni, averi, riconoscimenti, beni mondani.
-maggior capacità di condividere.
-capacità di percepire la natura impermanente di tutto ciò che sembra piacevole e bello.
-non cadere nell'errore di considerare come permanente ciò che è impermanente.
-capacità di non-vedere l'essere in ciò che ne è privo.
-il non attaccamento a formule e riti.
-vedere l'importanza della pratica di vipassana e samatha.
Di solito si associa al sotapanna l'impossibilità di mentire, di rubare e di tenere una vita sessuale sregolata e, ovviamente, il far del male intenzionalmente agli altri.
Al di là dello schemino ( che risulta però utile e interessante per il praticante buddhista per fare una 'verifica' dello stato della propria pratica...) direi che 'entrare nella corrente' ha un significato, nella nostra vita ordinaria, particolare. Io lo definisco come "un'ombra di Dhamma su ogni cosa" (è una frase mia, prendila con le pinze... :)). Ossia lo intendo così: in ogni pensiero che rivolgo verso le cose istintivamente lo verifico anche alla luce dell'Insegnamento ( non solo perché vi è pure un pensare concreto "necessario"...). Studio le stelle? Le vedo anche alla luce del Dhamma. Studio fisica? La studio anche alla luce del Dhamma. Coltivo la vite? La coltivo anche alla luce del Dhamma. Spero di non essere stato troppo criptico...
Sì, i jhana sono molto importanti, ma non sono decisivi per la liberazione. Questa è il frutto della visione profonda penetrante. I jhana potrebbero essere definiti come dei 'pseudo-nibbana'. Il Nibbana infatti distrugge tutti gli elementi negativi della mente; il jhana invece li sopprime solamente e temporaneamente.
Quanto è comune che i praticanti ottengano il jhana?
Non praticando grandi gruppi di meditanti non saprei darti una risposta precisa. Da quel che so per sentito dire e che leggo non è una cosa comune. Però molti possono essere, a mio avviso giustamente, riservati su queste esperienze. Diffido di quelli che vanno in giro urlando a tutti: "Ho raggiunto il primo jhana!". Nella tradizione buddhista si dice che, in quest'era di Kali-yuga, è raro trovare qualcuno in grado di realizzare anche solo il primo jhana. Sembra che era molto comune al tempo del Buddha. Altri uomini...(sigh :'( ).
Ciao
Ottima risposta (e non sei stato criptico!)! Grazie mille ;) (tra l'altro sono anche io un po' smemorato. Già in un'altra discussione avevi fatto lo stesso discorso della "rarità" delle persone che oggi ottengono i jhanas :) )
Riguardo allo schemino. Beh come ogni schemino è un po' da "prendere con le pinze" (secondo me). Però è anche vero che è molto interessante in quanto può dare una certa libertà sulla rigidità della dottrina.
-indebolimento dell'egocentrismo.
-minore brama verso gli oggetti sensoriali.
-minore avidità di guadagni, averi, riconoscimenti, beni mondani.
-maggior capacità di condividere.
-capacità di percepire la natura impermanente di tutto ciò che sembra piacevole e bello.
-non cadere nell'errore di considerare come permanente ciò che è impermanente.
-capacità di non-vedere l'essere in ciò che ne è privo.
-il non attaccamento a formule e riti.
-vedere l'importanza della pratica di vipassana e samatha.
Gli unici punti forse veramente dottrinali sono quelli su impermanenza, quello dell'essere e quello di "formule e riti" (ossia il secondo, il terzo e il quarto a partire del fondo). E questo è un segnale di apertura non indifferente :)
La cosa interessante semmai è vedere se questo "salto" è tanto o poco "rigido". Voglio dire: se dobbiamo pensarlo come un "salto discreto" o un "percorso continuo" (oppure entrambe le cose ;D ). Nel caso del percorso continuo l'apertura è direi, ovvia.
"un'ombra di Dhamma su ogni cosa". Bellissima espressione. Almeno per la dottrina della Natura di Buddha direi che non è troppo "da prendere per le pinze" ;)
Di ritorno, domenica sera, da un seminario con lama Geshe Gedun Tarchin, molto interessante e che verteva sul tema "Yoga e Sogno", mi risuonavano nella zucca vuota questi due termini che abbiamo approfondito durante la riflessione: saggezza e compassione. Quando si parla di 'natura di buddha' ci si chiede spesso cos'è questa benedetta natura. La 'radiosità' della mente di buddha ( Pabhassara citta) non è altro che saggezza e compassione (panna e karuna). Saggezza e compassione vanno sempre insieme come gli estremi di un bastone: quando c'è uno c'è anche l'altro. Un atto saggio è anche un atto compassionevole e un atto di compassione è anche un atto saggio. Dove dimorano la saggezza e la compassione nella natura di buddha priva di un sé esistente intrinsecamente? Questa la domanda che serpeggiava tra i partecipanti alquanto confusi...E' indubbiamente un passaggio ostico , perché in definitiva queste qualità vivono nella vacuità. Proprio perché dimoranti in uno spazio illimitato e vuoto, e non causate dai kilesa legati alla catena di cause e condizioni , vengono considerate nel buddhismo come la madre (panna) e il padre (karuna) della mente liberata dall'attaccamento. Vedendo la mente in preda alla brama, all'odio e all'illusione la si può paragonare ad un bambino bisognoso di educazione per crescere rettamente e maturare nella comprensione. Saggezza e compassione possiamo così vederli come i genitori di questa mente che, con molti sforzi e abili mezzi, trova l'uscita da questi ciechi attaccamenti al mondo creato dal contatto dei sensi. Ci sono ovviamente molti altri 'famigliari' coinvolti in questo processo: moralità, entusiasmo nella pratica, perseveranza, ecc. ma il ruolo fondamentale è quello dei genitori: il ruolo della saggezza e della compassione.
Già questa definizione delle qualità di una mente che sperimenta nibbana dimostra che la pretesa di etichettare come 'nichilismo' il buddhismo sia ingiustificata ed erronea. La vera natura di una mente che sperimenta la cessazione ( della brama, dell'odio e dell'illusione...) è la luce della saggezza e della compassione. Questa mente 'luminosa' è già in noi, per questo si dice provocatoriamente "se incontri il Buddha per la strada , uccidilo", proprio per mettere l'accento su questa auto-realizzazione e non concepire la buddhità come qualcosa da 'raggiungere', posto là fuori da qualche parte.
Con un banale paragone possiamo immaginare la mente come una lampada di vetro completamente oscurata ( a volte) o parzialmente oscurata ( altre volte) ma con la luce della lampadina ben luminosa al suo interno. Questa luce è sempre presente in noi, ma non può certo splendere se il vetro è terribilmente sporco, imbrattato da tutti i nostri attaccamenti. Attaccamento così potente che ormai è un tutt'uno con il vetro stesso, così che possiamo arrivare a dire che proviamo il piacere dell'"attaccamento all'attaccamento", la più sottile e pericolosa forma di legame samsarico della mente e che, nella visione tradizionale buddhista, è considerato la matrice dell'inesausta sete di rinascita della coscienza ( vinnana). Nel buddhismo questo speciale attaccamento all'attaccamento è definito come ' il ladro che fa da garante del ladro'...
Luminosità è anche la prima visione del jhana perché cosa sono in definitiva i jhana buddhisti se non il grande spettacolo del dissolvimento della mente ( condizionata) che scompare, nell'atto della meditazione di samatha e di vipassana ( calma e visione profonda)? E ciò che risplende ha quel carattere che possiamo definire come 'la mia mente'? E' qualcosa di 'personale' forse? Praticare e investigare da noi stessi questo punto mi pare essenziale. Non serve che qualcuno venga a dirci cos'è o cosa non è . Sperimentiamo nella pratica meditativa se persiste ancora la volontà di definire e di identificare come 'io/mio' ciò che accade nel jhana. Assistere a questo fenomeno dà un brutto colpo all'illusione. Vedendo 'scomparire' la mente come senso dell'io/mio nel jhana si capisce che non è altro che un sankhara come gli altri. Le grandi intuizioni di Siddhartha nascono dalla pratica dei jhana e dal loro superamento nel Nibbana, nell'anatta del dissolvimento.
La maggior difficoltà che s'incontra nel pacificare la volontà è quella di arrivare, nella pratica meditativa, al samadhi profondo, perchè questa pacificazione dà la sensazione di sparire. Ritornando all'attenzione sull'oggetto di meditazione questa sensazione viene superata... :)
Bellissimo post Sari! :)
Ritengo che la "mente luminosa" sia una delle più belle metafore mai lette. Una metafora per certi versi simile è la seguente:
"Così se ci fosse una casa con un tetto o una sala con un tetto che abbia finestre a nord, a sud o ad est. Quando il sole sorge, ed un raggio entra dalla finestra, dove si stabilisce? "
"Sul muro di ponente, signore."
"E se non c'è muro di ponente, dove si stabilisce? "
"Sul pavimento, signore."
"E se non c'è pavimento, dove si stabilisce? "
"Sull'acqua, signore."
"E se non c'è acqua, dove si stabilisce? "
"Non si stabilisce, signore."
"Allo stesso modo, dove non c'è desiderio per il nutrimento di cibo fisico, dove non c'è piacere, nessuna brama, allora la coscienza non si stabilisce e non cresce. Dove la coscienza non si stabilisce, il nome e la forma non si sviluppano. Dove il nome e la forma non si sviluppano, non c'è nessuna crescita delle predisposizioni karmiche. Dove non c'è crescita delle predisposizioni karmiche, non si genera il divenire per una nuova rinascita. Dove non si genera il divenire per una nuova rinascita, non c'è nascita , vecchiaia e morte. Quindi, vi dico, nessun dolore, afflizione o disperazione." https://www.canonepali.net/2015/05/sn-12-64-atthi-raga-sutta-dove-ce-avidita/
Qui la coscienza viene paragonata ad un raggio di luce. L'avidità (e l'avversione) invece è paragonata ad una superficie dove essa si stabilisce (e siamo tentati di dire dove essa "muore", così come il raggio di luce "muore" una volta che colpisce una superficie). L'immagine della libertà della luce che non si stabilisce è una di quelle che secondo me sono più affascinanti ;)
P.S. Questo messaggio in origine era molto diverso. Ma siccome conteneva molte cose già dette (dal sottoscritto) ho pensato di cambiarlo e parlar d'altro. Chiedo scusa per il disagio.
Ritengo che la "mente luminosa" sia una delle più belle metafore mai lette. Una metafora per certi versi simile è la seguente:
"Così se ci fosse una casa con un tetto o una sala con un tetto che abbia finestre a nord, a sud o ad est. Quando il sole sorge, ed un raggio entra dalla finestra, dove si stabilisce? "
Ad una fronda, docile
la luce oscilla
alle nozze con l'aria;
nel senso di morte,
eccomi, spaventato d'amore.
(Nel senso di morte- Salvatore Quasimodo)
Siate Luce a Voi Stessi
(Buddha)
:)
Di seguito la metafora della "mente luminosa" come è scritta nel Canone Pali (Anguttara Nikaya):
51. "Luminosa, o monaci, è la mente, ma è sporcata dagli influssi impuri. La persona ordinaria, non istruita, non percepisce ciò come [il suo stato] reale, questo è perché, per una persona ordinaria, non istruita, non v'è nessuna coltivazione della mente"
52. "Luminosa, o monaci, è la mente, quando è liberata dagli influssi impuri. Il discepolo dei Nobili, istruito, percepisce ciò come [il suo stato] reale, questo è perché, per un discepolo dei Nobili, istruito, v'è una coltivazione della mente".
Viene poi usata la metafora dell'acqua pulita e sporca (Anguttara Nikaya):
45. Monaci, è impossibile che un uomo stando sulla riva di uno stagno melmoso possa vedere delle conchiglie, dei sassi, delle pietre e dei pesci muoversi o fluttuare nell'acqua. Allo stesso modo è impossibile per un monaco con la mente offuscata vedere il proprio bene, il bene di un altro, o realizzare qualcosa di nobile e divino.
46. Monaci, è possibile che un uomo stando sulla riva di uno stagno limpido con acqua pura e trasparente possa vedere delle conchiglie, dei sassi, delle pietre e dei pesci muoversi o fluttuare nell'acqua. Allo stesso modo è possibile per un monaco con una mente limpida vedere il proprio bene, il bene di un altro, o realizzare qualcosa di nobile e divino.
In questo senso la metafora dell'acqua pulita e anche dello specchio è usata qui: https://www.canonepali.net/2015/06/an-10-51-sacitta-sutta-la-propria-mente/
Zhuangzi (daoismo): "nessuno si specchia nell'acqua corrente. Si specchia nell'acqua calma", (capitolo 5) "l'uomo perfetto usa la sua mente come uno specchio: non anticipa e non insegue niente, risponde ma non trattiene" (capitolo 7)...
La bellezza di questo tipo di immagini non è fine a sé stessa (come non lo sono in realtà le poesie). Si pensa spesso qui in occidente che usare analogie e immagini è un modo per oscurare il significato. Ma talvolta parlare per immagini, utilizzare un linguaggio che può essere interpretato in più modi ha vantaggi: quello che avviene in sostanza è che il linguaggio "poetico" riesce a comunicare molto di più di quello "tecnico" in quanto l'immagine è flessibile e modellabile mentre il linguaggio tecnico è per sua natura più "vago". Ma questa vaghezza non significa che si sta parlando a vanvera o che si vuole oscurare il significato. Invece questa vaghezza serve proprio a comunicare qualcosa che il linguaggio tecnico non può comunicare. In particolare la nostra mente non possiamo osservarla come un oggetto materiale, quindi nel nostro linguaggio abbiamo molti modi allusivi di riferci ad essa: "mi è venuto in mente" ("in" quasi fosse una scatola ;D ), "il flusso di coscienza" (quasi fosse un fiume...) e così via. D'altronde Wittgenstein scrisse una cosa meravigliosa: "un'intera mitologia è contenuta nel nostro linguaggio". Lo stesso Wittgenstein però saggiamente ci fece capire che non bisogna prendere "alla lettera" tali espressioni, altrimenti si creano confusioni concettuali: la mente non è né un fiume né un contenitore dopotutto. Tuttavia la cosa misteriosa è che questo tipo di linguaggio è davvero un "nonsenso" in quanto la mente non è né uno specchio d'acqua e nemmeno un raggio di luce solare. Ma quando leggiamo queste (e altre) metafore sentiamo che ci comunicano qualcosa, ci alludono a qualcosa. Il linguaggio è allusivo. Wittgenstein anche se è considerato talvolta il campione della "demitologizzazione" era il primo a capire l'importanza di poesie, immagini, linguaggio allusivo e "nonsensi". Ma in un'epoca dominata dalla tecnica (tecnica ancora più della scienza) come la nostra tendiamo a vedere questo tipo di immagini come un qualcosa di "ingannevole", nel senso che il linguaggio allusivo non ci sembra più allusivo ma una sorta di "inganno" che adorna il nulla con parole insensate. Dopotutto quando si accusa di "nichilismo" il buddhismo si compie proprio questa operazione: "mente luminosa", "pace", "l'altra riva", "l'incondizionato", "il non-nato" ecc sono viste tutte come metafore atte a dare una connotazione psicologicamente "accettabile" del nibbana. Le descrizioni "negative" più precise sono invece da prendersi alla lettera: "assenza di sensazioni", "tutto ciò che è percepito si raffredda", "estinzione" e così via invece sono appunto descrizioni "giuste" perchè in esse non sembra esserci alcun significato "ulteriore". Al giorno d'oggi si è persa l'allusività. La si vede come "inutile". "Inutile"...
Zhuangzi: "tutti gli uomini conoscono l'utilità dell'utile. Nessuno conosce l'utilità dell'inutile" (capitolo 4)
"Il commentatore del Bodhicaryāvatāra di Śāntideva, Prajñākaramati (XI secolo) nel suo Bodhicaryāvatārapañjika arrivò a sostenere che la dottrina delle Quattro nobili verità è in contrasto con quella della vacuità e che solo la terza, il nirodha, è una verità ultima, le restanti tre sono elaborate per il mondo, sono "mondane"[14]."cit https://it.wikipedia.org/wiki/Quattro_nobili_verit%C3%A0Ciao Sari e Apeiron.
Ho letto gli ultimi post, interessante.
La prima cosa che mi è venuta in mente, è cosa distingue induismo e buddismo?
Pur non sapendo niente di Buddismo, mi è venuto in mente il concetto di vacuo.
Ho poi pensato bene, prima di parlare, di iniziare a capirci qualcosa, di leggere per pima la wiki, che è il metodo più veloce.
(e inutile certo).
Vi ho citato quel pezzo, perchè ha fatto da eco immediata a quanto mi è venuto in mente.(random)
Ma appunto che idea vi siete fati della vacuità? Sono curioso.
In un certo senso non sono del tutto contrario all'idea che nello stato meditativo qualcuno possa aver percepito qualcosa di simile.
E però nel range delle similitudini ci possiamo pescare di tutto.
Tra l'altro leggendo la Wiki, che ricostruisce un buddismo che così a prima impressione mi sembra mooooolto mitologico, poco filosofico in ultima analisi.
Ma appunto la vacuità non c'entrerebbe niente con la sua premessa.
Credo che la questione del nichilismo si possa per così dire usando le parole di Prajñākaramati ricostruire come critica forse proprio dalla fusione del mondano con il filosofico.
A me sembra evidente che non possano convivere.
Cosa ne pensate di chi pensa che il buddismo abbia una corrente di destra (elitaria) e una di sinistra (sociale). Appunto il Theravada e il Mahāyāna.
Seguendo una argomentazione logica, d'altronde è per me ovvio, che siamo tutti già Buddha.
E che si tratti "semplicemente"(per modo di dire) di consapevolezza.
Ma voi siete ascoltatori o avete superato già qualche ruota?
Oddio lo so una marea di domande, è che la cosa mi incuriosisce, e aprofitto dell'entusiasmo che avete portato, per riscaldare un pò il mio (anche se via indù ;) ).
Provo a dirti la mia a tuo rischio e pericolo ;D
La prima cosa che mi è venuta in mente, è cosa distingue induismo e buddismo?
Risposta breve: se per "induismo" intendi l'advaita (o tutte le filosofie che mirano all'unione dell'atman con Brahman), il buddhismo rifiuta l'esistenza di atman E brahman.
Risposta lunga: sinceramente qui mi pare più chiaro l'induismo mentre il buddhismo rischia una facile degenerazione nichilistica - specie quello del Canone Pali (uniche scritture riconosciute dalla scuola Theravada). Stando alla dottrina "ufficiale" l'assunzione fondamentale che unisce buddhismo e induismo è che i non-realizzati dopo la morte rinascano (nel Canone a seconda del karma la destinazione è uno dei 31 piani di esistenza). Come l'induismo il buddhismo dice che i piani di rinascita sono TUTTI impermanenti. Sul concetto di "realizzazione" però le due filosofie divergono. L'induismo è molto coerente e facile da capire: si rinuncia alla propria esistenza individuale e si "ritorna" a Brahman (il "vero" atman). Nel buddhismo invece l'idea è che vige l'anatta e che la morte quanto la nascita è illusoria: non perchè il PROCESSO in sé non sia reale bensì perchè "nessuno" nasce e nessuno muore. Il problema che si forma adesso però è come interpretare questo. E qui ritengo che gli stessi buddhisti si siano sbizzarriti. Alcuni (i Sautrantika e diversi pensatori moderni della scuola Theravada) ritengono che l'Incondizionato che compare nei testi buddhisti non abbia alcuna esistenza, ma sia semplicemente un modo più "positivo" per definire il Niente (Anatta=non-esistenza=abhava?). Altri invece ritengono che il Nirvana sia un altro tipo di esistenza e che sia un assoluto ontologico (es. Dharmakaya). Molti altri rigettano entrambe le posizoni dicendo che sono due estremi. Ad ogni modo una lettura molto letterale dei suttas favorisce la prima lettura, ma non appena a mio giudizio si pensa con la propria testa ci si rende conto che la posizione "anatta=nulla" è come quella di un cieco che nega l'esistenza di persone che percepiscono i colori. La cosa interessante però a questo punto è che cosa veramente rende DIVERSO in ultima analisi il buddhismo dall'induismo (e dal daoismo) a livello di "verità ultima". Su questo non so risponderti. Personalmente ti posso dire che ritengo le ontologie leggermente diverse ma molto simili. Ma dovrai accontentarti di ciò.
Ma appunto che idea vi siete fati della vacuità?
L'inesistenza di "qualcosa" che abbia un'esistenza separata dal resto, la realtà è meglio pensarla come una rete (i nodi sono "agglomerati" di una rete che SEMBRANO esistere in modo distinto). Il Nirvana perciò sarebbe un "dissolvimento" in questa "rete". Ritenere che esistano "cose" distinte è una illusione "di comodo". Su questo le tradizioni advaita e simili nell'induismo (credo), daoismo (credo), e buddhismo (credo) concordano.
Cosa ne pensate di chi pensa che il buddismo abbia una corrente di destra (elitaria) e una di sinistra (sociale). Appunto il Theravada e il Mahāyāna.
La vera differenza è l'idea Bodhisattva. I Mahayana ritengono che siccome il Dhamma trascende anche l'insegnamento del Buddha storico è "più giusto" cercare di fare in modo nel corso delle varie rinascite che più persone "entrino nella corrente". I Theravada invece ritengono che anche se il Dhamma trascende il Canone Pali, essendo la liberazione una cosa molto difficile tale "speranza" dei mahayana rischia di "trattenere" le persone nel samsara. Così almeno è come la vedo io. Ad ogni modo la distinzione tra i due percorsi è meno "netta" di quello che sembra.
Seguendo una argomentazione logica, d'altronde è per me ovvio, che siamo tutti già Buddha.
E che si tratti "semplicemente"(per modo di dire) di consapevolezza.
Ma voi siete ascoltatori o avete superato già qualche ruota?
Nel buddhismo "atman" non è mai esistito, ergo nascita e morte di "qualcuno" sono illusioni perchè quel "qualcuno" in ultima analisi non c'è. Quindi sì in un certo senso puoi dire che siamo già Buddha. Le interpretazioni "nichilistiche" dicono che rimosse le illusioni e cessati i condizionamenti non rimane che il nulla (e sono talvolta pure contenti di dire ciò ;D ). Altri ritengono che è come purificare l'oro dalle impurità e quindi qualcosa rimane. Stando a quanto mi pare di capire dal Canone Pali la mia posizione è più simile a quest'ultima. Per inciso la mia scuola "preferita" è lo Huayan anche se a dire il vero la conosco molto superficialmente (l'interpentrazione dei fenomeni - la rete di Indra ecc). Per quanto mi riguarda non sono buddhista, l'anatta non mi convince ancora (anche perchè le interpretazioni nichilistiche hanno molto supporto e a me sinceramente il nichilismo non mi piace. Se i nostri valori, la nostra coscienza ecc sono tutte illusioni allora la vita è un semplice errore. Siccome credo invece che la vita abbia valore non sono d'accordo). Questo mi costringe a dire che NON ho superato alcuna "ruota" (inoltre non credo nemmeno alla dottrina delle rinascite se non come metafora - probabilmente se non avessi studiato qualcosa di scientifico avrei accettato questo "dogma".).
Riguardo al commentatore del XI secolo ha per certi versi ragione. La verità eterna è il Nibbana: solo il Nibbana è incondizionato per il semplice motivo che "non si rinasce più". Lo stesso Nobile Ottuplice Sentiero è "condizionato" ("mondano" lo eviterei come termine, per noi significa dire tutt'altro. Di certo i "deva" e gli "inferni" non sono mondani). Tuttavia il Dhamma almeno è un "assoluto epistemologico" ma le sua attualizzazioni chiaramente sono "condizionate" (un concetto simile lo dice Laozi nel Daodejing: "il Dao di cui si può parlare non è l'eterno Dao...i maestri dei tempo antichi praticavano l'insegnamento non detto...colui che sa non parla, colui che parla sa" ecc. Il discorso è che l'espressione della verità incondizionata è condizionata). Il Karma pur essendo "condizionato" è molto vicino ad essere considerato una "legge morale" così "forte" da essere analoga alla "legge di gravità" (questo significa che il buddhismo non è relativista).
N.B. Personalmente ritengo che il "Dharma" ossia la "Verità" non l'abbia (ancora) detta nessuno. Motivo per cui ritengo che sia improprio parlare di "false religioni" anziché di "religioni incomplete".
P.S. La componente "mitologica" del Buddhismo è un altro indizio che fa capire come il Processo della storia secondo il buddhismo non sia illusorio (idem per l'induismo, altrimenti non servirebbero i riferimenti ai kalpas). Però secondo entrambe le tradizioni (così come per il daoismo) la rete concettuale di astrazioni con cui "comprendiamo" la storia è qualcosa da trascendere. Proprio perchè bisogna "trascendere" non riesco a capacitarmi di una possibile concezione nichilistica e la componente "mitologica" è un forte indizio contro a questa.
Nota sul nichilismo: il nichilismo sostiene che esiste solo l'elemento "mondano", ossia che esistano solo i condizionamenti. Tolti i condizionamenti non rimane niente. Lo stesso "incondizionato" d'altronde può essere letto come "libero da condizionamenti" e la "non-esistenza" è libera da condizionamenti. Ad ogni modo il punto che maggiormente sostiene questa lettura è l'ambiguità del Buddha (e di Sariputra, il suo numero due ;)) riguardo a "cosa rimane" tolti i condizionamenti. Siccome in nessun testo c'è scritto che "Nirvana non è non-esistenza" allora chi propone questa lettura dice che in caso contrario una frase del genere dovrebbe esserci stata.
@Green Demetr scrive:
La prima cosa che mi è venuta in mente, è cosa distingue induismo e buddismo?
Da punto di vista storico il buddhismo si propone come una critica profonda dell'intero sistema vedico. Nel buddhismo vi è il rigetto del sistema delle caste e del potere brahminico basato sui sacrifici. Abbiamo così, nella prima comunità buddhista un insieme eterogeneo di figli della casta dei guerrieri, di quella dei brahmani, dei commercianti frammista a intoccabili e financo a ex assassini (Angulimala). Brahmano , per il Buddha, non si è per diritto di nascita: "Non è per i capelli intrecciati né per il clan né per la nascita che un uomo diventa un brahmano. Colui nel quale sono sia la verità sia il Dharma, questi è felice, questi è un brahmano.!" E ancora: "Che importa dei tuoi capelli intrecciati, stupido? Che importa dei tuoi abiti di pelle di antilope? Dentro di te c'è la giungla e tu pulisci di fuori!" (Dhammapada, 393-394).
Il Buddha accoglie nella comunità monacale anche le donne, che però praticano separate dagli uomini per evidenti motivi.
Se la moksa induista presenta analogie con il Nirvana buddhista ci sono però profonde divergenze filosofiche. L'una ha come obiettivo la realizzazione della propria identità col Brahman (Tat Tvam Asi, "Tu sei Quello"-"Quello sei Tu" in cui il soggetto è "Quello"), nel buddhismo il fine è la liberazione dalla sofferenza esistenziale e si rifiuta qualsiasi tipo di speculazione metafisica su cos'è questa liberazione, in quanto trattasi di esperienza e non di concettualizzazione. Il Nirvana non è qualcosa da teorizzare o capire, ma qualcosa da vivere. Il silenzio del Buddha su queste questioni è coerente con l'insegnamento che la Cessazione è uno stato da realizzare, attraverso una pratica e una condotta di vita che viene chiamato Nobile Ottuplice sentiero. Pertanto del Nirvana non si può dire che "è" e neppure che "non-è" essendo indefinibile. Se pensiamo che il fine del buddhismo è raggiungere la liberazione dalla sofferenza possiamo intuire che il Nibbana è quello stato in cui viene a cessare la sofferenza.
Ma appunto che idea vi siete fati della vacuità?
Cercando di essere coerente con quanto sopra personalmente non mi sono fatto alcuna idea in proposito. Nel buddhismo originario quando si parla di vacuità la s'intende come mente vuota dalla brama, dall'odio e dall'illusione. Questa definizione, apparentemente 'povera' del Nibbana, in realtà comunica un messaggio positivo e stimolante, indica la possibilità e l'esistenza di una via/sentiero che può essere percorsa e di una meta che può essere raggiunta.
Vacuità di esistenza intrinseca o 'anatman' ( assenza di atman) è riferito alla totalità dei fenomeni che nel buddhismo sorgono sempre in dipendenza da cause e condizioni e sono perciò interdipendenti, sono quindi privi di esistenza intrinseca, di atman/anima/essenza propria. Per il buddhismo la concezione di un sé dotato di esistenza autonoma è la primaria fonte della sofferenza.
Ma voi siete ascoltatori o avete superato già qualche ruota?
Questo aggregato che si fa chiamare Sari sta rotolando ormai da tanti anni... :)
Mah sono sempre più convinto che la tendenza a voler vedere le distinzioni crei molti più conflitti dove questi non dovrebbero esserci... ;D
Faccio un dialogo immaginario tra un advaitin (A) e un buddhista (B)...
A: per i non-realizzati cosa succede secondo la tua dottrina: rinascono, non rinacono, rinascono e non rinascono, non rinascono e non non rinascono? per me rinascono
B: rinascono
A: ok. Questo perchè sono convinti di avere un'esistenza separata e intrinseca, il "jivatman".
B: sì infatti in ognuno dei 31 piani di esistenza si parla di "essere", inteso come essere individuale. Su questo direi che concordiamo, caro rivale.
A: E non è vero che nascita e morte ecc visto che sono concetti sensati quando si pensa all'esistenza di "qualcuno", un individuo separato, in realtà non sono che illusioni (visto che richiedono che tale essere sia distinto dal "resto")?
B: su questo ti posso dare ragione. Infatti il Buddha-Dhamma dice che le "cose condizionate" in realtà non sono "cose". Questa è "anatta", l'inesistenza di un'identità intrinseca delle cose. Vorrei però adesso parlare dell'incondizionato, d'altronde se non ci fosse l'incondizionato come potremmo liberarci dal condizionato?
A: L'incondizionato esiste e lo chiamo Brahman. Jivatman, l'io individuale, abbiamo concordato che è illusorio. Ma "atman", il vero io, in realtà non è diverso da Brahman, la Realtà Incondizionata. Però noi vediamo illusoriamente distinzioni dove in realtà queste non ci sono.
B: Qui amico mio dobbiamo però non essere d'accordo. Pensare a Brahman è pensare ancora ad un sé. Esso è prodotto da ignoranza, attaccamento e odio.
A: Mah, tu che non riconosci Brahman non sei libero da ignoranza, attaccamento e odio. Ad ogni l'incondizionato, il nirvana, è la semplice liberazione dai condizionamenti?
B: sì.
A: e tolti i condizionamenti rimane qualcosa o no?
B: (non parla)
A: per me quello che rimane è proprio Brahman. Infatti il Realizzato non è più convinto di possedere un "io", ma il suo "io" si è per così dire dissolto. Questo è il riassorbimento in Brahman.
B: Anche per il Buddha-Dhamma il senso dell'io si dissolve. Ma l'unione con Brahman è falsa perchè è un concetto.
A: e il tuo no? Ad ogni modo Brahman è oltre ogni concetto, quindi ciò che ho detto è solo un dito per puntare alla luna.
B: no. Il tuo dito crea attaccamento, odio e ignoranza. "Atman= Brahman" è falso.
A: tu sei nichilista, tu crei attaccamento, odio e ignoranza. Eretico. Non a caso se neghi che "nirvana=nulla" allora affermi che il nirvana esiste. Viceversa se neghi che "nirvana= qualche forma di esistenza" sei nichilista.
B: tu sei l'eretico.
Ecc... a me sembrano tremendamente simili le loro posizioni. Le distinzioni nette mi sembra che creino solo settarianismi e incomprensioni (ahimé da entrambe le posizioni). Se in entrambi i casi viene negata l'esistenza di un'identità separata e il senso dell'io-mio, che senso ha continuare a fissarsi sulle distinzioni? Mi pare ben chiaro che puntino a "quella cosa" entrambi. La descrizione di "quella cosa" è ovviamente diversa. Ma è davvero utile, produttivo fissarsi in questo modo sulle distinzioni? Mah. Rimango sempre più convinto che la verità trascenda ogni dottrina e queste dispute su dettagli simili mi sembra che siano un buon contributo a dukkha (che poi ovviamente fu Sankhara il primo a non capire il buddhismo e tacciarlo di nichilismo perchè negava "atman".... non sto facendo un'apologia dell'advaita ;) ).
Per quanto riguarda il vero motivo per cui preferire uno o l'altro. Secondo me il buddhismo è molto più pratico per la pratica individuale. Però l'induismo oltre a cercare di spiegare la "sofferenza" cerca anche di spiegare perchè ad esempio il mondo ci appare regolare (perchè gli oggetti cadono sempre verso il basso e così via). Nei testi buddhisti non ho mai visto nessuna filosofia della natura, non ho mai visto alcuna curiosità per capire perchè la materia anch'essa si comporta in modo regolare. Questo è il grosso limite del buddhismo secondo me, così come il buddhismo è certamente migliore dell'induismo per altri aspetti. Ma proprio perchè il loro approccio alla realtà è diverso, diversa è anche la "zattera". Fare disquisizioni su quale delle due sia più "vera" secondo me crea solo conflitti.
Il buddhismo cinese in genere si è anche interessato della natura. Ritengo che per esempio la filosofia per la quale "ogni cosa contiene la saggezza del Buddha" ha il grande merito di riconoscere che anche nella natura "inanimata" esitono "regolarità" (e spesso questo tipo di filosofie non è molto distante da tradizioni che puntano ad una sorta di "monismo"...). Non capisco sinceramente la tendenza anche di questo tipo di religioni e filosofie (che non sono filosofie e religioni del Libro) a mettere in risalto così tanto le differenze, ossia ad essere rigide con i dogmi. Posso capire la rigidezza delle religioni devozionali, ma qui la religione e la filosofia sono fuse nel tentativo di comprende la realtà (a partire dalla nostra natura). Motivo per cui quando leggo le espressioni a riguardo della "liberazione" fatte da questo tipo di tradizioni tendo a vedere più somiglianze che differenze.
Buona Domenica.
P.S. Ovviamente buddhismo e advaita sono diversi. Ma il motivo della loro differenza è il loro approccio iniziale alla realtà. Differenza che poi si riflette anche nella descrizione della "verità ultima". Purtroppo devo dire che anche gli "orientali" mi deludono per quanto riguarda il dogmatismo.
Modifica: personalmente ritengo entrambe le visioni incomplete. Al di là della differenza, così ben evidente dal messaggio di Sariputra, vorrei precisare come nonostante la differenza tra i due approcci (il Buddha si interessa della "sofferenza" dell'individuo e del modo per estirparla. Un indù si interessa invece del rapporto tra l'individuo e il "resto".) la descrizione della "verità ultima" contiene notevoli somiglianze. Ovviamente un buddhista può rimanere tale senza riconoscere alcun merito alla filosofia induista e viceversa. Quello che mi fa specie però è la rigidità con cui anche in queste tradizioni si tratta l'altro. Il Buddha è "l'unico insegnante" per i buddhisti (gli altri sono degli eretici, dei folli ecc) e un eretico per gli indù. Osservando come ci sono vari approcci alle cose ritengo totalmente inutile questo tipo di comportamento. Perchè non cercare di armonizzare ed andare oltre i punti di vista delle sette? Che differenza c'è tra il "dissolvimento dell'io", "il riassorbimento in Brahman" ecc? E la mia domanda non è meramente "cosa mi succede alla morte?" quanto invece "qual è la natura della realtà?": qual è la differenza del significato di queste espressioni (e non meramente delle espressioni stesse)?
Ossia oltre ad osservare le espressioni ed evidenziare le differenze, dovremo chiederci qual è il loro significato. C'è differenza ontologica tra le varie descrizioni? Perchè se il nirvana non è semplicemente "la cessazione" ma anche una realtà "positiva" allora la differenza a livello ontologico è veramente piccola. Il Daodejing dice: "tutti al mondo dicono che la mia Via è vasta e somiglia a nessuna cosa. Proprio perchè è vasta che somiglia a niente. Se somigliasse a qualcosa, sarebbe diventata, molto tempo fa piccola." (capitolo 67). Ossia ciò che trascende la nostra capacità di comprendere può essere sì indicato in molti modi. Ma c'è veramente un modo "giusto" per indicarlo? O ci sono diversi modi "giusti"? Nuovamente l'unico modo per dire che c'è solo un modo giusto è equivalente a ritenere che un determinato maestro è infallibile e - mi si lasci dire anche "onniscente" (ossia che conosce tutto ciò che si può conoscere). Motivo per cui paragonare queste tradizioni è come paragonare le mele alle pere, dicendo che le mele (o le pere) sono migliori. Dire che "anatta" o la "vacuità" falsificano il "riassorbiomento" in Brahman significa dire che Buddha e gli advaitin usano il termine "atman" allo stesso modo. Non c'è alcuna evidenza di ciò. Vorrei ricordare come equivoci millenari nascono proprio dall'uso della stessa parola per dire cose diverse. In ambo le tradizioni la liberazione è legata al non ritenere che si ha un'identità distinta e in entrambe le tradizioni l'idea è che "ciò che rimane" va oltre le nostre possibilità cognitive. In fin dei conti atman è solo una parola...
Le differenze non devono necessariamente essere percepite come negative soprattutto, come nel caso delle tradizioni spirituali sorte nella cultura indiana, se non sono causa di contrapposizioni violente. Per questo non direi che la visione sia 'dogmatica' come la intendiamo in senso monoteistico, ma dialettica. Mi sembra addirittura di ricordare che, per secoli, fino all'invasione mussulmana dell'India, scuole buddhiste e brahmaniche spesso studiavano sotto lo stesso tetto, come per es. nell'università di Nalanda. dove tra l'altro si trova lo stupa dove sono sepolto. ;D
Pensiamo poi come la fervida fantasia indiana abbia inglobato la figura stessa del Buddha nel suo ricco pantheon, ritenendolo un avatar di Vishnu come Rama e Krshna e 'neutralizzando' la teoria dell'anatta in modo inverosimile...Nel crogiuolo hindu ogni visione spirituale viene rispettata, ammirata...il mito del guru, del maestro che ti indica la Via è onnipresente e pervasivo ...quasi non importa il fondamento filosofico di quel che insegni, se sei un guru sei sicuramente nel giusto ( con tutti gli squallidi abusi che poi si concretizzano praticamente e socialmente...).
Ben diverso è il carattere dogmatico dei monoteismi abramitici che crea mondi separati, violente contrapposizioni, incomprensioni e rigetti totali, financo arrivare alle persecuzioni e alla guerra...eppure tutti e tre adorano fondamentalmente lo stesso concetto di Dio :(...
E come nei monoteismi ci sono differenze così le ritroviamo nell'alveo della cultura indiana sorta sui Veda e che ha visto nel Dhamma buddhista il primo sforzo di smarcamento da essa e dalla sua cultura, 'cristallizzante' la società, basata sulle caste. Il buddhismo , da subito, si viene a configurare come una religione universalistica, che sa parlare e adattarsi a molteplici culture , arrivando a permearle in profondità , come nel caso della Cina, del Giappone e dell'intero sud-est asiatico, mentre il neo-brahmanesimo rimane confinato ad una forma di spiritualità fortemente su base etnica e le sue scorribande in giro per il mondo spesso si riducono a palestre yoga per casalinghe stressate e con la cellulite...
Il buddhismo ha un carattere di apertura che manca a molte tradizioni religiose e questo , nel bene e nel male, lo sta facendo apprezzare molto al di là dei confini in cui si è sviluppato.
Le differenze sul concetto di 'assoluto' ci sono , tra buddhismo e advaita vedanta e , a mio modesto parere, non sono nemmeno superficiali, o marginali o semplicemente di linguaggio.
Dobbiamo considerare, sempre tendendo presente le differenze di punto di partenza già citate da @Apeiron, che nel Vedanta l'assoluto/brahman è satchitananda, ossia essere-conoscenza-beatitudine ( oceano dei poteri di saggezza) mentre l'assoluto buddhista o Nirvana è impersonale e privo di qualunque definizione e non è uno stato estatico. Questa differenza riflette la differenza nella pratica meditativa delle due tradizioni: la pratica vedanta cerca l'unione con l'assoluto che è Dio/personalizzazione di satchitananda e ritiene che questa si realizza compiutamente nell'estasi in cui sparisce la concezione erronea dell'io/mio e ci si 'immerge' in questo oceano di beatitudine consapevole. Il buddhismo ritiene questi stati, erroneamente identificati come unione col sacro, impermanenti e inefficaci in ultima analisi per trascendere lo stato di sofferenza in modo definitivo, che si ottiene solamente con la visione profonda del carattere impermanente, doloroso e privo di un sé di ogni cosa ( compresi quindi gli stati estatici così importanti per il vedantino...). Per il Buddha il Nirvana non è un essere e non è beatitudine sensibile. La differenza non è di poco conto perché una, quella vedanta, porta alla visione di un assoluto che è Dio, che quindi è un 'essere' dotato di esistenza intrinseca e da cui, a cascata, come una immensa fioritura sbocciano innumerevoli forme del divino; l'altra ad uno stato di libertà non definibile in categorie concettuali di teismo o a-teismo ma solo per via negativa come superamento di tutto ciò che, essendo impermanente, ci lega al carro della sofferenza.
Banalizzando si potrebbe riassumere con: una cerca l'unione col divino; l'altra lo ignora, pur non essendo atea, semplicemente ritiene che il Nirvana sia più assoluto di qualunque Dio e infatti, nei sutta, spesso appaiono le raffigurazioni di questi dei che vengono ad ascoltare il Buddha, per sfuggire anch'essi alla sofferenza di essere un dio...
Il Buddha insiste spesso nel mettere in guardia contro la tendenza della mente a opporre coppie di opposti, come esistenza e non-esistenza. Questa tendenza dà grande soddisfazione alla mente e questo rafforza l'adesione/attaccamento a essi. Per questo Siddhartha soleva ripetere che solitamente gli uomini si basano sul dualismo. Non mi stupisce quindi che anche il Nirvana si tenti di concepirlo secondo questa logica di contrapposizione: assoluta esistenza o assoluta non-esistenza. Ma i rigidi concetti dell'esistenza e dell'inesistenza non possono esprimere adeguatamente la natura dinamica della realtà. E tanto meno possono essere applicati al Nibbana, definito da Siddhartha come lokuttara (trascendente) e atakkavacara (oltre ogni pensiero concettuale)...
Non sorprende nemmeno quindi che , presi da questa tendenza a contrapporre, a volte si definisca il Nibbana come non-esistenza ( soprattutto all'inizio della sua penetrazione in Occidente che ha portato molti a definire il buddhismo come una dottrina nichilistica...), e altre volte in senso di esistenza , interpretato quindi alla luce di nozioni filosofiche e religiose già conosciute, quali "puro essere", "pura coscienza", "pura identità" o in base a qualche altro concetto metafisico.
Alcune scuole buddhiste, di fronte all'elusività del Nibbana, a loro volta cadevano in questa mania di contrapporre e così troviamo i sautantrika che favorivano un'interpretazione negativa e invece le scuole mahayana delle 'Terre di buddha', del Buddha Primordiale, del Tathagatagarbha, che favorivano un'interpretazione positiva o metafisica.
Non è sempre facile evitare questi due punti di vista opposti dell'esistenza e della non-esistenza e lo vediamo , nel nostro piccolo, anche in questa riflessione sul forum...
Ricordiamoci sempre che il Nibbana, nel pensiero del Buddha, è identificato con la terza nobile verità, cioè con la Cessazione del dolore. Mi sembra che spesso molti, anche tra i buddhisti, se lo dimentichino...
Questa discussione aperta da @acquario è iniziata proprio dal fondamentale prerequisito per accostarsi e interessarsi al Dhamma buddhista e cioè la profonda percezione che il problema da risolvere è legato alla sofferenza dell'esistenza. Compresa a fondo la prima nobile verità, quella della sofferenza, abbiamo una prima intuizione anche della terza... :)
« Di ogni oggetto che a una causa deve la sua esistenza, il Tathagata la causa ha spiegato, e di questo oggetto ha spiegato anche la fine. Questa è la dottrina del Grande Asceta "
Questa è la formula tradizionale, ancora usata, per indicare gli insegnamenti del Buddha e che Assaji recitò a Sariputra/Upatissa nei pressi di Rajagaha e che lo convinse a seguire Gotama Siddhartha... :)
A me sincerament ela differenza tra le varie tradizioni non mi entusiasma molto se esiste un'unica via per la liberazione. Però posso capire chi invece l'apprezza. Ma non posso condividere. Se la Liberazione è qualcosa di possibile ritengo che siano possibili più vie e che queste possano essere descritte in vario modo. Ad ogni modo vorrei puntualizzare che qui non è la questione di prendere un estremo o l'altro. Nella visione nichilistica non si da alcun valore alla vita. Nella visione non-nichilistica invece si cerca di cambiare "tipo" di esistenza, un'esistenza nuova senza "io" e senza sofferenza. Ma in questa seconda visione si riconosce il valore dell'esistenza comune. In sostanza si vede come un miglioramento.
Inoltre una mente matematica non può accettare che qualcosa che "non è esistenza" non sia "esistenza" ;) motivo per cui ho grosse difficolta a capire Ajahn Brahm ;D (scherzo, ma solo in parte)
Ad ogni modo vorrei far notare come nell'advaita Brahman non è visto come un Dio Personale. Si parla di "Nirguna", senza attributi.
P.S. Ho eliminato una parte di troppo
Citazione di: Apeiron il 05 Novembre 2017, 19:25:45 PMA me sinceramente la differenza tra le varie tradizioni non mi entusiasma molto se esiste un'unica via per la liberazione. Però posso capire chi invece l'apprezza. Ma non posso condividere. Se la Liberazione è qualcosa di possibile ritengo che siano possibili più vie e che queste possano essere descritte in vario modo. Ad ogni modo vorrei puntualizzare che qui non è la questione di prendere un estremo o l'altro. Nella visione nichilistica non si da alcun valore alla vita. Nella visione non-nichilistica invece si cerca di cambiare "tipo" di esistenza, un'esistenza nuova senza "io" e senza sofferenza. Ma in questa seconda visione si riconosce il valore dell'esistenza comune. In sostanza si vede come un miglioramento. Inoltre una mente matematica non può accettare che qualcosa che "non è esistenza" non sia "esistenza" ;) motivo per cui ho grosse difficolta a capire Ajahn Brahm ;D
E infatti sia il Buddhadhamma che l'Advaita riconoscono un grande valore all'esistenza umana e non solo, lo estendono pure a tutte le creature senzienti, sensibilità che, diciamocelo francamente, non ha certo abbondato in passato ( e nemmeno molto tutt'oggi direi...) nei monoteismi abramitici, con grandi eccezioni come, per esempio, la figura di Francesco d'Assisi...Sulla questione della matematica direi che sono avvantaggiato , visto che solitamente schiacciavo un pisolino durante le lezioni scolastiche, dovuto al mio totale disinteresse per la materia... :-[...ma se Ajahn Brahm non ha trovato controindicazioni.... ;) A parte gli scherzi è evidente che queste specie di contraddizioni concettuali servono per accentuare l'importanza data alla pratica meditativa, al fattore esperienziale più che non a quello puramente speculativo...direi che il 'capire' questo passo sia intuibile all'interno della comprensione del paticcasamuppada, almeno per me...
P.S. Il brahman è privo di attributi ma è "sostanziale" e le sue manifestazioni , da Ishvara in giù, prendono la forma e gli attributi degli dèi personali con caratteristiche precise e riconducibili alle forze in cui si manifesta il Brahman...
Citazione di: Apeiron il 04 Novembre 2017, 16:11:09 PM
Provo a dirti la mia a tuo rischio e pericolo ;D
La prima cosa che mi è venuta in mente, è cosa distingue induismo e buddismo?
Risposta breve: se per "induismo" intendi l'advaita (o tutte le filosofie che mirano all'unione dell'atman con Brahman), il buddhismo rifiuta l'esistenza di atman E brahman.
Risposta lunga: sinceramente qui mi pare più chiaro l'induismo mentre il buddhismo rischia una facile degenerazione nichilistica - specie quello del Canone Pali (uniche scritture riconosciute dalla scuola Theravada). Stando alla dottrina "ufficiale" l'assunzione fondamentale che unisce buddhismo e induismo è che i non-realizzati dopo la morte rinascano (nel Canone a seconda del karma la destinazione è uno dei 31 piani di esistenza). Come l'induismo il buddhismo dice che i piani di rinascita sono TUTTI impermanenti. Sul concetto di "realizzazione" però le due filosofie divergono. L'induismo è molto coerente e facile da capire: si rinuncia alla propria esistenza individuale e si "ritorna" a Brahman (il "vero" atman). Nel buddhismo invece l'idea è che vige l'anatta e che la morte quanto la nascita è illusoria: non perchè il PROCESSO in sé non sia reale bensì perchè "nessuno" nasce e nessuno muore. Il problema che si forma adesso però è come interpretare questo. E qui ritengo che gli stessi buddhisti si siano sbizzarriti. Alcuni (i Sautrantika e diversi pensatori moderni della scuola Theravada) ritengono che l'Incondizionato che compare nei testi buddhisti non abbia alcuna esistenza, ma sia semplicemente un modo più "positivo" per definire il Niente (Anatta=non-esistenza=abhava?). Altri invece ritengono che il Nirvana sia un altro tipo di esistenza e che sia un assoluto ontologico (es. Dharmakaya). Molti altri rigettano entrambe le posizoni dicendo che sono due estremi. Ad ogni modo una lettura molto letterale dei suttas favorisce la prima lettura, ma non appena a mio giudizio si pensa con la propria testa ci si rende conto che la posizione "anatta=nulla" è come quella di un cieco che nega l'esistenza di persone che percepiscono i colori. La cosa interessante però a questo punto è che cosa veramente rende DIVERSO in ultima analisi il buddhismo dall'induismo (e dal daoismo) a livello di "verità ultima". Su questo non so risponderti. Personalmente ti posso dire che ritengo le ontologie leggermente diverse ma molto simili. Ma dovrai accontentarti di ciò.
Ma appunto che idea vi siete fati della vacuità?
L'inesistenza di "qualcosa" che abbia un'esistenza separata dal resto, la realtà è meglio pensarla come una rete (i nodi sono "agglomerati" di una rete che SEMBRANO esistere in modo distinto). Il Nirvana perciò sarebbe un "dissolvimento" in questa "rete". Ritenere che esistano "cose" distinte è una illusione "di comodo". Su questo le tradizioni advaita e simili nell'induismo (credo), daoismo (credo), e buddhismo (credo) concordano.
Cosa ne pensate di chi pensa che il buddismo abbia una corrente di destra (elitaria) e una di sinistra (sociale). Appunto il Theravada e il Mahāyāna.
La vera differenza è l'idea Bodhisattva. I Mahayana ritengono che siccome il Dhamma trascende anche l'insegnamento del Buddha storico è "più giusto" cercare di fare in modo nel corso delle varie rinascite che più persone "entrino nella corrente". I Theravada invece ritengono che anche se il Dhamma trascende il Canone Pali, essendo la liberazione una cosa molto difficile tale "speranza" dei mahayana rischia di "trattenere" le persone nel samsara. Così almeno è come la vedo io. Ad ogni modo la distinzione tra i due percorsi è meno "netta" di quello che sembra.
Seguendo una argomentazione logica, d'altronde è per me ovvio, che siamo tutti già Buddha.
E che si tratti "semplicemente"(per modo di dire) di consapevolezza.
Ma voi siete ascoltatori o avete superato già qualche ruota?
Nel buddhismo "atman" non è mai esistito, ergo nascita e morte di "qualcuno" sono illusioni perchè quel "qualcuno" in ultima analisi non c'è. Quindi sì in un certo senso puoi dire che siamo già Buddha. Le interpretazioni "nichilistiche" dicono che rimosse le illusioni e cessati i condizionamenti non rimane che il nulla (e sono talvolta pure contenti di dire ciò ;D ). Altri ritengono che è come purificare l'oro dalle impurità e quindi qualcosa rimane. Stando a quanto mi pare di capire dal Canone Pali la mia posizione è più simile a quest'ultima. Per inciso la mia scuola "preferita" è lo Huayan anche se a dire il vero la conosco molto superficialmente (l'interpentrazione dei fenomeni - la rete di Indra ecc). Per quanto mi riguarda non sono buddhista, l'anatta non mi convince ancora (anche perchè le interpretazioni nichilistiche hanno molto supporto e a me sinceramente il nichilismo non mi piace. Se i nostri valori, la nostra coscienza ecc sono tutte illusioni allora la vita è un semplice errore. Siccome credo invece che la vita abbia valore non sono d'accordo). Questo mi costringe a dire che NON ho superato alcuna "ruota" (inoltre non credo nemmeno alla dottrina delle rinascite se non come metafora - probabilmente se non avessi studiato qualcosa di scientifico avrei accettato questo "dogma".).
Riguardo al commentatore del XI secolo ha per certi versi ragione. La verità eterna è il Nibbana: solo il Nibbana è incondizionato per il semplice motivo che "non si rinasce più". Lo stesso Nobile Ottuplice Sentiero è "condizionato" ("mondano" lo eviterei come termine, per noi significa dire tutt'altro. Di certo i "deva" e gli "inferni" non sono mondani). Tuttavia il Dhamma almeno è un "assoluto epistemologico" ma le sua attualizzazioni chiaramente sono "condizionate" (un concetto simile lo dice Laozi nel Daodejing: "il Dao di cui si può parlare non è l'eterno Dao...i maestri dei tempo antichi praticavano l'insegnamento non detto...colui che sa non parla, colui che parla sa" ecc. Il discorso è che l'espressione della verità incondizionata è condizionata). Il Karma pur essendo "condizionato" è molto vicino ad essere considerato una "legge morale" così "forte" da essere analoga alla "legge di gravità" (questo significa che il buddhismo non è relativista).
N.B. Personalmente ritengo che il "Dharma" ossia la "Verità" non l'abbia (ancora) detta nessuno. Motivo per cui ritengo che sia improprio parlare di "false religioni" anziché di "religioni incomplete".
P.S. La componente "mitologica" del Buddhismo è un altro indizio che fa capire come il Processo della storia secondo il buddhismo non sia illusorio (idem per l'induismo, altrimenti non servirebbero i riferimenti ai kalpas). Però secondo entrambe le tradizioni (così come per il daoismo) la rete concettuale di astrazioni con cui "comprendiamo" la storia è qualcosa da trascendere. Proprio perchè bisogna "trascendere" non riesco a capacitarmi di una possibile concezione nichilistica e la componente "mitologica" è un forte indizio contro a questa.
Nota sul nichilismo: il nichilismo sostiene che esiste solo l'elemento "mondano", ossia che esistano solo i condizionamenti. Tolti i condizionamenti non rimane niente. Lo stesso "incondizionato" d'altronde può essere letto come "libero da condizionamenti" e la "non-esistenza" è libera da condizionamenti. Ad ogni modo il punto che maggiormente sostiene questa lettura è l'ambiguità del Buddha (e di Sariputra, il suo numero due ;)) riguardo a "cosa rimane" tolti i condizionamenti. Siccome in nessun testo c'è scritto che "Nirvana non è non-esistenza" allora chi propone questa lettura dice che in caso contrario una frase del genere dovrebbe esserci stata.
Bellissimo. Diciamo che sei un buddista critico. ;)
Sì credo però che la cosa interessante è perchè parlare di vacuità invece che niente.
La vacuità è infatti un niente al posto di qualcosa, e cosa sarebbe questo "qualcosa"?
La storia dei nodi l'ho capita poco.
Sul termine induismo.
Sì scusate intendo l'advaita anche se il mio maestro a posteriori ho capito che viene dalla tradizione shivaita. (un mix delle 2 scuole dunque).
Già ;) ed è proprio la compassione/metta/karuna ciò che lega queste "vie". La pratica meditativa certamente è utile per comprendere le cose.
In sostanza: in entrambe le tradizioni l'obbiettivo è valorizzare la vita. In un certo senso è passare dalla "vita" alla "Vita". Per dirla in modo "paradossale": la massima "rinuncia" è la massima realizzazione, la massima resa è la massima vittoria e così via.
In genere il problema del matematico "stereotipato" è che pretende chiarezza. Per sua natura ciò che è vago lo spaventa. E inoltre cerca anche una certa coerenza con tutto il suo pensiero.
La mente razionale è come una sorta di "coltello di precisione". Divide e separa, cerca di rimuovere ogni ambiguità. Purtroppo questo non è sempre possibile quindi si rende conto che qualcosa superi la sua "zona di competenza". Finisce per "venerarla" e fare in modo che ogni descrizione "sbagliata" di essa venga rimossa. Motivo per cui l'apofatismo in genere piace ai matematici. Però il rischio dell'apofatismo è che continuando a rimuovere non rimane niente.
Si potrebbe passare a discutere poi della relazione matematica-filosofia indiana. Ci sono molti spunti interessanti. Però è proprio la matematica (e la fisica) una delle cose che mi trattiene dall'abbracciarle. In particolare ho un fortissimo fascino del platonismo, anche questo è molto comune. Concetti di infinito, perfezione ecc sono concetti molto "affini" alla matematica. Idem per la fisica: il mondo è ordinato. Sembra davvero che ci sia un "logos" dentro di esso.
Per quanto riguarda Brahm mi sorprende la sua scelta perchè ha scelto una tradizione molto disinteressata alla scienza. Però tale scelta può essere vista proprio come un'espressione di venerazione dell'"ordine" naturale stesso. Si riconosce che è "oltre" la nostra comprensione e quindi si rinuncia anche a questo. Così come si rinuncia alla filosofia. Se non si rinuncia a scienza e filosofia (che si fondano proprio sul continuo metttere in discussione e voler conoscere cose nuove) è impossibile abbracciare una tradizione rinunciante (in toto). Al massimo si può essere dei "ammiratori e critici" esterni come furono Einstein, Bohm, Schroedinger ecc. ;)
@Apeiron scrive:
Se non si rinuncia a scienza e filosofia (che si fondano proprio sul continuo metttere in discussione e voler conoscere cose nuove) è impossibile abbracciare una tradizione rinunciante (in toto). Al massimo si può essere dei "ammiratori e critici" esterni come furono Einstein, Bohm, Schroedinger ecc.
Sono d'accordo su questo. E' molto difficile per un cultore di scienza e filosofia abbracciare in toto una tradizione rinunciante. Infatti, un pò provocatoriamente, sarei persino portato a scrivere che un maestro come Ajahn Chah era "più buddhista" di un grande filosofo e logico buddhista come Nagarjuna stesso...
Diciamo che un ammaestratori circense di tigri preferisce senz'altro una tigre ignorante per farle fare il salto attraverso il cerchio infuocato, piuttosto che una che disquisisce sull'ostacolo... ;D
@Green: non posso definirmi buddhista ;D uno che non crede né alle rinascite e ha un'interpretazione eretica del Nirvana non può ahimé essere chiamato buddhista.
Per la rete e i nodi: pensala così. In genere noi pensiamo alla realtà fatta di "cose" che interagiscono, ossia di una rete in cui i "nodi" interagiscono attivamente tra di loro. Il buddhismo suggerisce che i nodi non hanno esistenza intrinseca, ossia sono come il gioco della sabbia di Eraclito (secondo Nietzsche) senza nessun Eone che giochi con sé stesso.
La questione della dicotomia vacuità-niente è una delle maggiori difficoltà del buddhismo (nel senso che è difficile da accettare). Se togli i nodi non rimane nemmeno l'interazione perchè non c'è niente che interagisce (e le interazioni cessano). Però "qualcosa" deve rimanere. E qui avviene ciò che mi fa tormenta. Perchè se rimane "niente" allora si sprofonda nel nichilismo. Se rimane "qualcosa che non è niente" rimane qualcosa, ma dire che rimane qualcosa è dire che rimane qualcosa di sostanziale e questo non si riconcilia con l'anatta come Sariputra ben puntualizza. E ad una mente logica tutto ciò è una sorta di tormento (e siccome i logici sono masochisti spesso si divertono a soffrire per trovare la soluzione di paradossi insolubili ;D ).
Recentemente alcuni favoriscono l'interpretazione "nichilistica" perchè è "logica": se non rimane niente di sostanziale allora non rimane niente. Storicamente pochi hanno appoggiato una tale interpretazione. E visto che "logicamente" asserire che "qualcosa" è "né esistenza né non-esistenza" non ha senso la cosa un po' mi da un certo "fastidio". Per questo appoggio una interpretazione molto vicina ad una sorta di "monismo" pur sapendo che è in possibile contraddizione con le "scritture" stesse.
P.S.
Comunque non sono solo queste perplessità che non mi fanno abbracciare il buddhismo. Ce ne sono molte. Anzi nessuna religione o filosofia mi soddisfa veramente. Tutte mi sembrano incomplete. E al contempo interessanti. Però l'avere una forte propensione alla spiritualità E alla filosofia che ti porta a essere al contempo interessato alle tradizioni religiose e insoddisfatto con tutte ti porta molto spesso ai limiti della pazienza ;D
@Sari Personalmente mi ritengo un "mistico logico". Devo dire che è una sorta di sindrome delle identità multiple. La parte mistica è pronta a credere e a rinunciare ad ogni istante. La parte logica invece vuole chiarire tutto, a livelli quasi ossessivi. La cosa interessante è che anche nelle tradizioni stesse ci sono "mistici logici". San Tommaso d'Aquino per esempio era un logico fino a quando disse dopo un'epserienza visionaria che tutto ciò che aveva scritto era "paglia". Wittgenstein è uno dei perfetti esempi di incarnazione di estremo razionalismo ed estremo irrazionalismo - anzi gli piaceva la mistica proprio perchè lo faceva smettere di pensare. Personalmente assomiglio a Wittgenstein, mi riconosco molto nella sua esperienza di vita. Però come nel suo caso la parte logica non ti fa smettere mai finché sei arrivato "veramente a destinazione". Su Nagarjuna posso darti quasi ragione. D'altronde la logica vuole capire, il misticismo vuole "arrendersi". Sono due tendenze opposte e talvolta ti portano veramente a perdere la pazienza ;D
Citazione di: Sariputra il 05 Novembre 2017, 20:33:45 PM
Citazione di: Apeiron il 05 Novembre 2017, 19:25:45 PMA me sinceramente la differenza tra le varie tradizioni non mi entusiasma molto se esiste un'unica via per la liberazione. Però posso capire chi invece l'apprezza. Ma non posso condividere. Se la Liberazione è qualcosa di possibile ritengo che siano possibili più vie e che queste possano essere descritte in vario modo. Ad ogni modo vorrei puntualizzare che qui non è la questione di prendere un estremo o l'altro. Nella visione nichilistica non si da alcun valore alla vita. Nella visione non-nichilistica invece si cerca di cambiare "tipo" di esistenza, un'esistenza nuova senza "io" e senza sofferenza. Ma in questa seconda visione si riconosce il valore dell'esistenza comune. In sostanza si vede come un miglioramento. Inoltre una mente matematica non può accettare che qualcosa che "non è esistenza" non sia "esistenza" ;) motivo per cui ho grosse difficolta a capire Ajahn Brahm ;D
E infatti sia il Buddhadhamma che l'Advaita riconoscono un grande valore all'esistenza umana e non solo, lo estendono pure a tutte le creature senzienti, sensibilità che, diciamocelo francamente, non ha certo abbondato in passato ( e nemmeno molto tutt'oggi direi...) nei monoteismi abramitici, con grandi eccezioni come, per esempio, la figura di Francesco d'Assisi...
Sulla questione della matematica direi che sono avvantaggiato , visto che solitamente schiacciavo un pisolino durante le lezioni scolastiche, dovuto al mio totale disinteresse per la materia... :-[...ma se Ajahn Brahm non ha trovato controindicazioni.... ;)
A parte gli scherzi è evidente che queste specie di contraddizioni concettuali servono per accentuare l'importanza data alla pratica meditativa, al fattore esperienziale più che non a quello puramente speculativo...direi che il 'capire' questo passo sia intuibile all'interno della comprensione del paticcasamuppada, almeno per me...
P.S. Il brahman è privo di attributi ma è "sostanziale" e le sue manifestazioni , da Ishvara in giù, prendono la forma e gli attributi degli dèi personali con caratteristiche precise e riconducibili alle forze in cui si manifesta il Brahman...
Mi sembra di capire che dunque la principale differenza sia, a parte quella sociale, quella teoretica sull'essenza dello stato assoluto.
Diciamo che mi torna il rifiuto della cosmologia (microcosmo-macrocosmo) da parte del buddismo per cui si parla non tanto di religione ma come di filosofia.
Mi chiedo Sari che mi pare sei più disponibile ad accettarlo, quali siano le argomentazioni allora alla stessa concettualizzazione del passaggio delle ruote.
Infatti vi è un chiaro disegno di percorso, quindi di innalzamento da un lato individuale ad uno cosmico, che però viene rigettato.
Inoltre dalle tue stesse spiegazioni e mi pare pure sulla wiki, vi sono delle manifestazioni del raggiungimento dello stato di nirvana.
Come può qualcosa che è niente avere una manifestazione di qualcosa?????
D'altronde era lo stesso problema che Herman Hesse trovò nel suo tentativo di conversione al buddismo.
Se tutto è niente perchè vi sono delle scuole che insegnano qualcosa???
In cosa consiste l'elevazione voglio dire, se tutto è niente e indifferenziato???
Inoltre il commentatore dell'xi sec, aveva ragione la questione del dolore, alla luce degli stadi più avanzati è semplicemente un "giochino sociale" (ndr tutta mia).
Se tutto è niente come può esserci attacamento???
Per non parlare del ciclo delle incarnazioni, anche questo indicato nelle obiezioni di Apeiron.
A meno che ripeto giovani uomini è sul concetto di vacuo che dobbiamo interrogarci.
qualcosa che è vacante.
ma se è vacante qualcosa prima c'era.
in questo senso forse è qualcosa che non è, ma che nello stesso tempo è.
In Hegel sarebbe ciò che viene prima di Niente, ossia lo Spirito.
In Hegel il concetto di vacuo esiste. In matematica sarebbe di una potenza zero di x.
ossia zero allo zero fa 1.
Comunque se mi torna nel contesto formalizzato della filosofia, non mi torna nel contesto comunque cosmologico della storia indiana.
Insomma anche secondo me al di là delle formule di "scuola" non mi pare che advaita e buddismo siano così lontani, almeno nelle loro formule più ardite. Tra coincidenza e annullamento.
Ciò che coincide si annulla perciò tu sei quello, ossia non sei più niente che non totalita.
Appunto ma totalità e indifferenza non cambia tanto alla zolfa.
Certo se invece intendono proprio niente, ossia zero in quanto zero, siamo nei guai!
MA COME SARI rotoli ;D suvvia diciamo che galleggi sulla superficie della prima ruota!
Altrimenti molta tua saggezza non si capirebbe ;) ;)
Citazione di: Apeiron il 05 Novembre 2017, 21:16:14 PM
@Green: non posso definirmi buddhista ;D uno che non crede né alle rinascite e ha un'interpretazione eretica del Nirvana non può ahimé essere chiamato buddhista.
Per la rete e i nodi: pensala così. In genere noi pensiamo alla realtà fatta di "cose" che interagiscono, ossia di una rete in cui i "nodi" interagiscono attivamente tra di loro. Il buddhismo suggerisce che i nodi non hanno esistenza intrinseca, ossia sono come il gioco della sabbia di Eraclito (secondo Nietzsche) senza nessun Eone che giochi con sé stesso.
La questione della dicotomia vacuità-niente è una delle maggiori difficoltà del buddhismo (nel senso che è difficile da accettare). Se togli i nodi non rimane nemmeno l'interazione perchè non c'è niente che interagisce (e le interazioni cessano). Però "qualcosa" deve rimanere. E qui avviene ciò che mi fa tormenta. Perchè se rimane "niente" allora si sprofonda nel nichilismo. Se rimane "qualcosa che non è niente" rimane qualcosa, ma dire che rimane qualcosa è dire che rimane qualcosa di sostanziale e questo non si riconcilia con l'anatta come Sariputra ben puntualizza. E ad una mente logica tutto ciò è una sorta di tormento (e siccome i logici sono masochisti spesso si divertono a soffrire per trovare la soluzione di paradossi insolubili ;D ).
Recentemente alcuni favoriscono l'interpretazione "nichilistica" perchè è "logica": se non rimane niente di sostanziale allora non rimane niente. Storicamente pochi hanno appoggiato una tale interpretazione. E visto che "logicamente" asserire che "qualcosa" è "né esistenza né non-esistenza" non ha senso la cosa un po' mi da un certo "fastidio". Per questo appoggio una interpretazione molto vicina ad una sorta di "monismo" pur sapendo che è in possibile contraddizione con le "scritture" stesse.
P.S.
Comunque non sono solo queste perplessità che non mi fanno abbracciare il buddhismo. Ce ne sono molte. Anzi nessuna religione o filosofia mi soddisfa veramente. Tutte mi sembrano incomplete. E al contempo interessanti. Però l'avere una forte propensione alla spiritualità E alla filosofia che ti porta a essere al contempo interessato alle tradizioni religiose e insoddisfatto con tutte ti porta molto spesso ai limiti della pazienza ;D
@Sari Personalmente mi ritengo un "mistico logico". Devo dire che è una sorta di sindrome delle identità multiple. La parte mistica è pronta a credere e a rinunciare ad ogni istante. La parte logica invece vuole chiarire tutto, a livelli quasi ossessivi. La cosa interessante è che anche nelle tradizioni stesse ci sono "mistici logici". San Tommaso d'Aquino per esempio era un logico fino a quando disse dopo un'epserienza visionaria che tutto ciò che aveva scritto era "paglia". Wittgenstein è uno dei perfetti esempi di incarnazione di estremo razionalismo ed estremo irrazionalismo - anzi gli piaceva la mistica proprio perchè lo faceva smettere di pensare. Personalmente assomiglio a Wittgenstein, mi riconosco molto nella sua esperienza di vita. Però come nel suo caso la parte logica non ti fa smettere mai finché sei arrivato "veramente a destinazione". Su Nagarjuna posso darti quasi ragione. D'altronde la logica vuole capire, il misticismo vuole "arrendersi". Sono due tendenze opposte e talvolta ti portano veramente a perdere la pazienza ;D
A mio parere invece matematicamente dovrebbe risolversi anche abbastanza facilmente.
Certo rimarrebbe un buddismo formale.
Ma possibile che non esista alcun matematico che abbia raggiunto il nirvana, così da potercelo spiegare ;)
Non parlarmi di frustrazione con le religioni a me.... ;D
@Green e Apeiron
Avete molte aspettative sulle religioni e quindi molte frustrazioni.
Nessuna aspettativa uguale nessuna frustrazione.
Lasciar andare le aspettative è ottimo. Funziona sempre, anche nell'amore... ;D
Il problema quindi, riassumendo un pò, è il vuoto o vacuità di esistenza intrinseca. Quella cosa che i buddhisti chiamano sunnata/shunyata.
Ma cosa significa, nel linguaggio del Dhamma, 'vivere nel vuoto' o 'dimorare in sunnata' ?
Nel linguaggio dhammico:
'conoscere' = conoscere il vuoto
'vedere chiaramente' = vedere chiaramente il vuoto
'sperimentare' = sperimentare il vuoto
'vivere nel" = vivere nel vuoto
'essere vuoti' = essere il vuoto stesso
Se pensiamo che 'conoscere il vuoto' significhi averlo preso come un argomento di studio e di discussione siamo fuori strada. Nel linguaggio del Dhamma, 'conoscere' non s'intende l'apprendere attraverso lo studio o l'ascolto. Questo è un apprendimento incompleto anche se ci par di capire. Siamo abituati a pensare che 'conoscenza' e 'comprensione' si riferiscano al leggere, all'ascoltare, al riflettere, al pensare. E' il lavoro del filosofo, giusto? Beh, per il Buddha sono funzioni inutili alla conoscenza del vuoto. 'Conoscere il vuoto' nel buddhismo indica la consapevolezza del vuoto in una mente realmente vuota. Per essere conosciuto il vuoto deve essere presente.
L'espressione 'essere vuoti' indica l'assenza del senso del sé e di quanto appartiene al sé, quindi la mancanza del senso dll'io/mio che sono ambedue visti come i prodotti dell'attaccamento. Che cosa è vuoto? La mente, semplicemente la mente svuotata dalla sue forme più grossolane e sottili del senso dell'io/mio. La forma grossolana s'intende l'ego empirico, la forma sottile il senso del sé.
Quando la mente è libera anche dalle forme più sottili, dal senso del sé, si dice che è il vuoto stesso.
Il termine 'vuoto' passa poi a indicare la caratteristica fondamentale di tutte le cose. Per il buddhismo la natura di tutte le cose è il vuoto. Con 'tutte le cose' s'intende sia i rupadhamma (oggetti materiali) che i namadhamma (fenomeni mentali): tutto , dal granello di polvere sino al Nirvana...Ogni cosa ha la qualità del vuoto.
Anche il Buddha, il dhamma , i suoi frutti fino al Nirvana hanno questa identica qualità vuota.
Questo 'vuoto' appare come uno spazio di ampia possibilità. Il problema è che noi non lo vediamo. Persino il passerotto che sta svolazzando fuori dalla mia finestra ha in sè la caratteristica del vuoto.
"Il vecchio pino proclama il Dhamma" recita un koan zen. Anche lui esprime questa vacuità, la condivide con noi e con tutte le cose, ma non la vediamo...
Il vuoto non è una cosa negativa. E' solo questa vacuità che permette la vita. Se le cose non fossero vuote ( di esistenza intrinseca, di un sé) tutto sarebbe immobile, morto.
La mente però non vede la realtà così, ma attribuisce a qualsiasi cosa un sè, un'essenza, una distinzione e dà quindi origine all'attaccamento e poi alla sofferenza insita nell'attaccamento stesso.
Per il Buddha, 'conoscendo il vuoto' non si dà origine all'attaccamento e quindi alla sofferenza. :)
Quindi, un matematico non può spiegare in formule matematiche il Nirvana. ???
La comprensione dell'anatta ( non sè o vacuità ) è veramente ostica tanto da non essere insegnata nemmeno nei paesi di tradizione buddhista, ma riservata ai bhikkhu ( monaci). Impermanenza e sofferenza sono al confronto molto più semplici. Anatta richiede molta pratica meditativa, retta visione e un'esistenza ormai 'consumata', una certa stanchezza della sete d'esistere... spiritualmente, se fossimo in ambito cristiano, si potrebbe paragonare ad un 'dono'...forse lo è...non tanto la comprensione della vacuità quanto il poter capire o scorgere come , proprio da questo vuoto, possa esistere autentica compassione e saggezza e , in definitiva, una grande bellezza... :)
Citazione di: Sariputra il 05 Novembre 2017, 22:45:07 PM
@Green e Apeiron
Avete molte aspettative sulle religioni e quindi molte frustrazioni.
Nessuna aspettativa uguale nessuna frustrazione.
Lasciar andare le aspettative è ottimo. Funziona sempre, anche nell'amore... ;D
Il problema quindi, riassumendo un pò, è il vuoto o vacuità di esistenza intrinseca. Quella cosa che i buddhisti chiamano sunnata/shunyata.
Ma cosa significa, nel linguaggio del Dhamma, 'vivere nel vuoto' o 'dimorare in sunnata' ?
Nel linguaggio dhammico:
'conoscere' = conoscere il vuoto
'vedere chiaramente' = vedere chiaramente il vuoto
'sperimentare' = sperimentare il vuoto
'vivere nel" = vivere nel vuoto
'essere vuoti' = essere il vuoto stesso
Se pensiamo che 'conoscere il vuoto' significhi averlo preso come un argomento di studio e di discussione siamo fuori strada. Nel linguaggio del Dhamma, 'conoscere' non s'intende l'apprendere attraverso lo studio o l'ascolto. Questo è un apprendimento incompleto anche se ci par di capire. Siamo abituati a pensare che 'conoscenza' e 'comprensione' si riferiscano al leggere, all'ascoltare, al riflettere, al pensare. E' il lavoro del filosofo, giusto? Beh, per il Buddha sono funzioni inutili alla conoscenza del vuoto. 'Conoscere il vuoto' nel buddhismo indica la consapevolezza del vuoto in una mente realmente vuota. Per essere conosciuto il vuoto deve essere presente.
L'espressione 'essere vuoti' indica l'assenza del senso del sé e di quanto appartiene al sé, quindi la mancanza del senso dll'io/mio che sono ambedue visti come i prodotti dell'attaccamento. Che cosa è vuoto? La mente, semplicemente la mente svuotata dalla sue forme più grossolane e sottili del senso dell'io/mio. La forma grossolana s'intende l'ego empirico, la forma sottile il senso del sé.
Quando la mente è libera anche dalle forme più sottili, dal senso del sé, si dice che è il vuoto stesso.
Il termine 'vuoto' passa poi a indicare la caratteristica fondamentale di tutte le cose. Per il buddhismo la natura di tutte le cose è il vuoto. Con 'tutte le cose' s'intende sia i rupadhamma (oggetti materiali) che i namadhamma (fenomeni mentali): tutto , dal granello di polvere sino al Nirvana...Ogni cosa ha la qualità del vuoto.
Anche il Buddha, il dhamma , i suoi frutti fino al Nirvana hanno questa identica qualità vuota.
Questo 'vuoto' appare come uno spazio di ampia possibilità. Il problema è che noi non lo vediamo. Persino il passerotto che sta svolazzando fuori dalla mia finestra ha in sè la caratteristica del vuoto.
"Il vecchio pino proclama il Dhamma" recita un koan zen. Anche lui esprime questa vacuità, la condivide con noi e con tutte le cose, ma non la vediamo...
Il vuoto non è una cosa negativa. E' solo questa vacuità che permette la vita. Se le cose non fossero vuote ( di esistenza intrinseca, di un sé) tutto sarebbe immobile, morto.
La mente però non vede la realtà così, ma attribuisce a qualsiasi cosa un sè, un'essenza, una distinzione e dà quindi origine all'attaccamento e poi alla sofferenza insita nell'attaccamento stesso.
Per il Buddha, 'conoscendo il vuoto' non si dà origine all'attaccamento e quindi alla sofferenza. :)
Quindi, un matematico non può spiegare in formule matematiche il Nirvana. ???
La comprensione dell'anatta ( non sè o vacuità ) è veramente ostica tanto da non essere insegnata nemmeno nei paesi di tradizione buddhista, ma riservata ai bhikkhu ( monaci). Impermanenza e sofferenza sono al confronto molto più semplici. Anatta richiede molta pratica meditativa, retta visione e un'esistenza ormai 'consumata', una certa stanchezza della sete d'esistere... spiritualmente, se fossimo in ambito cristiano, si potrebbe paragonare ad un 'dono'...forse lo è...non tanto la comprensione della vacuità quanto il poter capire o scorgere come , proprio da questo vuoto, possa esistere autentica compassione e saggezza e , in definitiva, una grande bellezza... :)
Poichè qualche gradino l'ho sorpassato. Capisco benissimo che potrebbe essere veramente qualcosa che si prova, e che si ritiene assimilabile al concetto di vuoto.
Sempre nella adolescenza ho provato la meditazione zen.
E ho capito subito che era un buon metodo per arrivare ad alcuni stati meditativi, che però avevo già raggiunto.
Ma nella mia esperienza meditativa non ho proprio mai neppure lontanamente percepito la sensazione di vuoto.
Sensazione del niente sì. senzazione vertigionosa del distacco dell'io sì.
Ma il vuoto proprio mai, ma essendo rimasto proprio al gradino che viene prima della meditazione illuminata, non posso certo escludere questa sensazione.
Certo rimane il problema del fatto che si possa riportare qualcosa come la sensazione di vuoto, quando si sta dicendo che per conoscere è necessario il vuoto.
Che va bene per le prime formulazioni, non faccio fatica a ricordare che era esattamente così.
'conoscere' = conoscere il vuoto so benissimo cosa vuol dire
'vedere chiaramente' = vedere chiaramente il vuoto so benissimo cosa sia
'sperimentare' = sperimentare il vuoto sperimentato e fuggito aggiungo
'vivere nel" = vivere nel vuoto questo ancora oggi è la mia via
MA'essere vuoti' = essere il vuoto stesso
ecco questo proprio non mi torna proprio.
dunque non mi torna nemmeno che il pino sia testimonianza del vuoto.
Comincio a capire come mai però gli studiosi di fisica siano così interessati a questa concezione.
La mia era una battuta sul matematico ovvio.
So benissimo che è una pratica più che una conoscenza.
alla prossima! ;)
@Sariputra, nel mio caso credo che sto continuando a girare attorno al problema (e alla soluzione forse) ormai da anni. Quanto tu dici è affascinante, davvero. Una visione delle cose molto bella che ricorda... il daoismo :o mi spiego meglio: se il Vuoto è la "Vita", tutta la danza delle formazioni dell'esistenza condizionata è manifestazione di questa "Vita". Se ci fosse qualcosa di "sostanziale" sarebbe come una "diga" a questo "fiume di vita". La sofferenza come ormai ripetiamo da non so quanti interventi ( ;D ) nasce dal voler aggrapparsi alle forme di questa "danza cosmica". Perchè dicevo che è simile al daoismo? Perchè d'altronde un'azione veramente libera è spontanea come lo scorrere dell'acqua in una cascata. La Vacuità di cui parli mi pare simile alla "spontaneità". Però rimane un altro problema: questo Processo è eterno o meno? ;D probabilmente il Buddha non avrà voluto rispondere :-[ O meglio il Nirvana è eterno "e vuoto".
Altra cosa: perchè nella nostra mente ci formiamo concetti di "eternità", "infinito" e così via se poi non alludono a niente? Anzi sono le cose che paiono dare il senso dell'esistenza umana. Sembrano richiedere che "qualcosa" sia eterno (fai conto che ci sono filosofie che tengono conto dell'esistenza di qualcosa di eterno ma che ritengono che dopo la morte fisica non ci sia nulla, quindi la presenza o meno di qualcosa di eterno non c'entra con la sete di "vivere"). Immagino che anche qui c'è il Nobile Silenzio :-[
Perchè è iniziato il samsara? Altro Nobile Silenzio :-[
Forse la cosa frustrante per il filosofo è proprio quella di dover smettere di fare filosofia. La filosofia è come una sorta di "sospetto": vogliamo capire prima di. E questo funziona sempre a parte le cose più importanti. Forse.
Non rimane dunque che smettere, lasciare la scena. Ritirarsi. Eppure una decisione del genere significa terminare l'attività per cui ci si è resi conto che bisogna terminare la stessa.
Riguardo alle aspettative sulle religioni. Vero ne ho molte: ma i "religiosi" non ne hanno di meno. Sono convinti che la loro religione sia la verità ;D io la cerco pur sapendo che è fuori dalla mia portata ;D
Anche i fiumi e le rocce non hanno aspettative. Diventare senza aspettative è come diventare (in un certo senso) fiumi e rocce, esseri inanimati. Un'immagine al tempo stesso nichilistica e piena di libertà. Come il nirvana. Ma cosa significa quel "(in un certo senso)"? Questo è il problema filosofico. Vita spontanea. Ma l'uomo virtuoso è meno spontaneo dell'ubriaco, quindi la spontaneità deve essere "assoluta". Perchè chi cerca la spontaneità più vera è anche il meno spontaneo? L'essere meno spontaneo è quindi "la caduta"? Se sì perchè parlare della spontaneità assoluta? Perchè parlare del vuoto? Perchè fare in modo che la gente lo cerchi se non si può trovare? Perchè parlare in modo contraddittorio? Non è un modo per allontanare la gente dal Nirvana? Perchè parlare di "libertà", far ragionare su concetti di infinito e incondizionato se poi chi ritiene che ci si può aggrappare a qualcosa di incondizionato si allontanano dalla verità? E qui immagino un altro Nobile Silenzio :-[ ;D (questo è un esempio di girare in tondo)
Bene dai altra nottata di confusione ;D
Ma Apeiron allora l'obbiettivo della tua vita spirituale è diventare come una roccia o come l'acqua della cascata, come un essere inanimato? "Sì e no, voglio essere libero come una cascata o una roccia." Ma cosa significa "sì e no"? "Beh forse significa... "Taci Apeiron, per favore >:( "Mah vorrei ancora dire..." Zitto >:( "Ma..." ;D
@Apeiron
Una grande passione porta lontano, nella consapevolezza però che, alla fine, 'non si va da nessuna parte'... :)
E forse il segreto sta proprio nel rinunciare alla volontà di andare in qualche luogo in cui a noi pare che tutto ci apparirà 'giusto' e convincente...
La libertà della roccia e della cascata sta in fondo proprio nell'essere veramente una roccia o una cascata ( ovviamente si tratta di metafore...).
La somma nostra libertà non può, allo stesso modo, stare proprio nell'essere quello che siamo?
Il problema è che noi forse non vogliamo esserlo, vogliamo essere di più e in questo volere di più...perdiamo anche quello che in fondo già abbiamo...
Se torniamo alla simbologia dell'Eden, la 'caduta' si pone proprio in questa tensione , in questa 'sete' a voler di più. La conoscenza non è forse anche una volontà di 'essere di più' di quel che siamo? Al di là dell'utilità concreta per migliorare la nostra probabilità di sopravvivenza è anche volontà di godere sempre di più, no? Il piacere dato dal conoscere e l'attaccamento che questo comporta. E quindi: "Via, lontano da me! Creatura che non vuoi più essere creatura..."La 'punizione' è l'avidya, l'ignoranza,il velo che copre la reale natura di ciò che siamo.
E l'eterna bramosia, l'insoddisfazione continua...
Si può anche dire che questa insoddisfazione e bramosia siano proprio la nostra natura e andare avanti così, provando in fondo piacere dal nostro attaccamento all'attaccamento, con una 'sana' accettazione dell'inevitabile affanno esistenziale. E' il nostro "fato"...
Ma alcuni si stancano di questo. C'è nostalgia del ritorno all'Eden...l'incommensurabile ritorno alla 'natura di buddha' che è in noi...
Ecco, proprio in questa interiore esigenza, in questo sentire vivere uno spazio illimitato dentro di noi che vedo poi il formarsi di quelli che definiamo concetti di "infinitezza" e di "eternità" e la ricerca, a volte disperata, di scorgerli là fuori, da qualche parte. Proprio perchè in noi vive la nostra natura di buddha che abbraccia l'incondizionato, il trascendente lokuttara abbiamo una matrice che anela all'infinito. In fondo il "nulla a cui aggrapparsi" di cui parla Siddhartha è proprio la presa di coscienza che non possiamo trovare appigli in uno spazio vuoto e illimitato e allora...ci tocca lasciar andare per trovare la 'quiete' in questo silenzio sconfinato....
Il Buddhismo si riduce a questo : lasciar andare , purificare la mente e tornare all'eden ( questa è un'aggiunta poetica personale... :) ).
Qui non c'è la volontà di conoscere del greco , ma bensì la stanchezza di vivere nella sofferenza dell'indiano, la stanchezza data da questi infiniti cicli di nascita e morte...
Comprendo perfettamente la tua ansia di conoscere...ero un pò così anch'io, da giovine...
Adesso, man mano che il tempo passa, trovo soddisfacente persino stare semplicemente con "le quattro capriole di fumo del focolare"...che sia l'inizio della vecchiaia?... :-\
Ho trovato questa vicenda storica, a proposito dell'università buddhista di Nalanda:
Lo storico persiano e musulmano, Abu Umar Minhaz, nella sua opera Tabaquat-I-Nasiri, riferisce che furono migliaia i monaci bruciati vivi o decapitati da Muhammad Khalji che in questo modo voleva sradicare definitivamente il Buddhismo dall'India. L'incendio della ricchissima biblioteca di Nalanda durò, secondo Minhaz che fu contemporaneo agli avvenimenti, per mesi e la combustione delle migliaia di manoscritti provocò per giorni il permanere di una coltre scura sotto le colline.
@Sariputra, Grazie per le parole ;) in sostanza riconosco il paradosso della ricerca della conoscenza, tuttavia l'unico modo per cui la "brama" dell'infinito può spegnersi è quella di "avere la certezza" che ci sia qualcosa di "infinito"/"eterno"/"illimitato". Motivo per cui una volta che si ha "quella certezza" il fuoco si spegne. E a differenza di quanto viene affermato da chi è convinto del "positive thinking", la libertà non sta nell'affermazione ma nella dissoluzione. Tuttavia... la "dissoluzione" ha un duplice aspetto, uno perverso e uno "sperato". Quello perverso è quello nichilistico e sinceramente a me fa rabbrividire il fatto che molti sono "contenti" del nichilismo. L'altro "sperato" invece è l'"Eterno Riposo" - che può essere per certi versi pensato come lo scorrere di un fiume senza impedimenti ("il rivo stramazzato" di Montale - se si pensa che l'incondizionato non ci sia secondo me è dare la vittoria proprio a ciò che causa i problemi).
Per quanto riguarda la libertà degli esseri inanimati... ecco essi sono il perfetto esempio di "libertà" ;D Questi processi semplicemente "avvengono", non hanno alcuna preoccupazione. Tuttavia l'avere una coscienza implica la "caduta": si forma il senso dell'io e del mio e quindi ciò che "ci va bene" e ciò che "non ci va bene" - ossia le preferenze, gli obbiettivi, gli scopi. La grande intuizione che ho trovato nell'oriente è proprio questa e l'ho trovata in ogni filosofia buddhista, advaita (e simili) e daoista. Mi sembra che il loro obbiettivo sia quindi una sorta di "vita spontanea" proprio come le rocce e i fiumi. La libertà piena (veramente è una metafora che mi piace molto. Anzi dopotutto è molto più che una metafora) ;D come non vedere la libertà nella formazione delle nuvole, dei temporali, dei cicloni, delle eruzioni vulcaniche, delle rivoluzioni dei pianeti ecc. Come non vedere la bellezza di questa armonia silenziosa? Come non vedere dunque questa attività "rilassata", libera e innocente? Come non osservare in contemplazione questo silenzioso gioco cosmico? Le nebulose non si sforzano ad essere tali, i pianeti non si sforzano a seguire la loro armonia e le galassie non si sforzano nel loro moto attorno al centro dell'ammasso galattico. Tutto va, libero e innocente. Tutto "al di là del bene e del male". Solo chi parla, chi teorizza "vuole" afferrare qualcosa e per questo comincia a combattere, cerca di afferrare ecc.
La grande "caduta" perciò è davvero quella di non riuscire a "stare al proprio posto". Così l'uomo, il più complesso degli animali, quando non è più capace di stare nella sua armonia silenziosa finisce per averne nostalgia. Non rimane che l'io nel suo isolamento. "Infinito", "eterno" ecc concetti inventati dal ricordo di quella libertà "assoluta". Assolta ossia incondizionata. Perchè possiamo esseri liberi dalle faccende quotidiane, possiamo essere liberi di fare questo e quello, ma sono tutte libertà relative e non "incondizionate". Così l'uomo comincia a ricercare questo "assoluto". Lo cerca e non lo trova. Si rende conto che non lo troverà mai. Si dispera. Legge i "saggi" e vede come tutti questi dicono "smetti". Però vede una cosa: questo smetti potrebbe essere una resa che non sottointende alcuna vittoria, la resa del nichilista colui che preferisce l'eterno nulla all'"eterno riposo" e al "movimento rilassato" dei pianeti e delle galassie. Vede gente dire che la vita è dolore e dunque bisogna "estinguerla" - rabbrividisce a sentire questo. No "sunyata" non è questo, nirvana non è questo. Vuole però "esserne sicuro": studia e studia. E finisce per rendersi conto che "tutto è paglia" ;D poi se lo dimentica e la ricerca riparte perchè dopo aver abbandonato la ricerca non ha trovato alcun "di più" e quindi ricomincia. E rifinisce. E ricomincia ;D Che il "filosofo spirituale" sia una sorta di mentecatto? D'altronde perchè farsi tutti questi problemi se si è già Buddha? ;D
Forse proprio perchè è proprio quando si è al culmine dell'impegno - ossia al culmine dell'allontanamento - che "scatta" il "ritorno". Ecco questo è il significato di una pratica atta a "dominare la mente", tutto questo controllo che si esercita sulle nostre pulsioni serve a rendersi conto che "il controllo è illusione"? Però chi agisce spontaneamente sembra proprio essere chi è il "peggiore", chi non si fa scrupoli ecc. Quindi perchè avviene ciò? Chi segue ciecamente gli istinti d'altronde non agisce in modo spontaneo? E dunque il Dubbio torna da queste osservazioni empiriche.
Quella che è sparita forse è la "fede". D'altronde come non leggere anche nella "fiducia nella Provvidenza" delle religioni devozionali l'abbandono dell'io? Forse. Come non leggere saggezza e libertà nella contentezza di stare vicino al focolare? Ma d'altronde se uno ha completamente abbandonato l'interesse per sé è contento con... "niente" :o
Perchè crucciarsi con la differenziazione tra "vuoto" e "non-esistenza" se poi chi ha completamente abbandonato tutto è contento con "niente"? ;D D'altronde il nichilista dice: ebbene se è senza desideri uno può ben essere contento con la prospettiva della "non-esistenza" e il tuo crucciarti nella distinzione tra "vuoto" e "non-esistenza" è un altro modo per allontanarti da ciò che cerchi! Cosa è tutto questo discorso sul "valorizzare" la vita e l'eternità se non una "sete inestinguibile" da "condannare"/rinunciare? Il Risvegliato non avendo brame sarebbe ben contento anche nel nulla. Questa è la Libertà. Eppure... Non è forse questo uno dei Mistero dell'Esistenza? Voler di meno significa essere più liberi. Voler niente significa la libertà assoluta che accomuna il Risvelgiato alla roccia e al fiume. Eppure i non-risvegliati nel loro profondo cercano la Vita (la beata "vacuità"?) e non la "non-esistenza". Forse che i non-risvegliati hanno un po' di saggezza dietro al velo delle illusioni?
Questa è la Grande Confusione. La vita a quanto pare è un lunghissimo koan. (Per @Green il koan del pino credo che sia chiaro alla luce di tutto questo).
Riguardo all'antica università è un interessante esempio di sincretismo antico. Cosa che fa molto riflettere anche sulla risoluzione di questo enigma ;D
@Apeiron scrive:
Tuttavia... la "dissoluzione" ha un duplice aspetto, uno perverso e uno "sperato". Quello perverso è quello nichilistico e sinceramente a me fa rabbrividire il fatto che molti sono "contenti" del nichilismo. L'altro "sperato" invece è l'"Eterno Riposo" - che può essere per certi versi pensato come lo scorrere di un fiume senza impedimenti ("il rivo stramazzato" di Montale - se si pensa che l'incondizionato non ci sia secondo me è dare la vittoria proprio a ciò che causa i problemi).
L'insegnamente sulla vacuità è molto pericoloso perché, se mal compreso, può indurre proprio a quello che paventi. L'anatta non era molto sottolineato nel primo buddhismo perché si era probabilmente consapevoli di questo rischio ed io condivido questa impostazione. Nagarjuna lo mette al centro del suo "secondo giro" della ruota del Dhamma, se così si può dire, accentuandone l'aspetto onnipervasivo che era in effetti già presente nei sutta del Canone, ma che le prime scuole non sottolineavano. La critica di Nagarjuna nelle Madhyamikakarika è rivolta, più che al Samkhya e ai sistemi basati sulle Upanishad, proprio alle scuole buddhiste, in particolare Sarvastivada, che ritenevano che ad alcuni concetti espressi dal Buddha corrispondevano delle realtà sostanziali. E' andato Nagarjuna addirittura al di là dell'intenzione del Maestro? Io non lo penso, ma ho sempre visto questa concezione del vuoto nella sua possibile ambivalenza. E' relativamente semplice spiegare la vacuità dell'ego, ma altra cosa è parlare di vacuità del sé, della coscienza/vinnana stessa e addirittura del Nibbana...
Per questo la vacuità deve essere il traguardo del cammino e non la partenza. Solo alla fine del sentiero di pratica del Dhamma si può cominciare a comprendere e intuire cosa intendeva Siddhartha con questo concetto.
Se non compreso o peggio, preso alla 'lettera', ti può far sprofondare interiormente nell'apatia, nel materialismo o nel più bieco nichilismo.
Questo perché il vuoto necessita di essere visto da panna/prajna. In assenza di prajna la comprensione è disastrosa e non porta che disastri...
E qui...
Però chi agisce spontaneamente sembra proprio essere chi è il "peggiore", chi non si fa scrupoli ecc. Quindi perchè avviene ciò? Chi segue ciecamente gli istinti d'altronde non agisce in modo spontaneo? E dunque il Dubbio torna da queste osservazioni empiriche.
Quelli che all'apparenza sembrano agire spontaneamente in realtà vediamo solo agire in essi la brama, l'odio e l'illusione. Essi appaiono come burattini i cui fili sono abilmente tirati dalle tre robuste radici di ogni male.
Hanno un bel dire:"Ma io sono spontaneo", la loro voce è la voce dell'io/mio. Per conoscere il vuoto, il buddhismo insiste nella necessità di abbandonare ogni forma di illusione. Solo così ci si apre ad un'autentica spontaneità e naturalezza. Solo quando vede il dao il saggio può cavalcare il drago nel cielo o nuotare negli abissi, metafora immaginifica della vera libertà...
Che il "filosofo spirituale" sia una sorta di mentecatto? D'altronde perchè farsi tutti questi problemi se si è già Buddha? (https://www.riflessioni.it/logos/Smileys/default/grin.gif)
Huang Po rimproverava ai discepoli di essere come colui che, avendo un diamante in fronte, percorre il mondo intero alla sua ricerca. E, se non basta il mondo, si cerca nei cieli, negli inferni e nei "mondi di Brahma".
Non ci basta il mondo umano, dobbiamo frugarne altri... :(
Quella che è sparita forse è la "fede". D'altronde come non leggere anche nella "fiducia nella Provvidenza" delle religioni devozionali l'abbandono dell'io? Forse. Come non leggere saggezza e libertà nella contentezza di stare vicino al focolare? Ma d'altronde se uno ha completamente abbandonato l'interesse per sé è contento con... "niente"
E infatti una vera fede , matura se così si può dire, implica l'abbandonarsi. Come un bimbo si affida con fiducia ai genitori, anche se non capisce, ha timore, è inquieto...ma sa che il genitore è con lui e che "tutto andrà bene alla fine", qualunque cosa accada. Così , abbandonando l'io/mio con tutte le sue paure, dubbi e inquietudini ( e tanta ansia di ottenere...) "tutto andrà bene"... :)
Bellissimo scritto giovane Apeiron, pieno di pathos. Molto sentito...
P.S. Appena potrò riporterò una descrizione dei "quattro stati sublimi" fatta da Nyanaponika Mahathera per far comprendere ai nostri quattro lettori quanto 'positivo' sia il Dhamma buddhista. ;)
Grazie Sari ;) Ancora non vedo però nessuna ragione per preferire "anatta/sunyata" a concetti come "Dao", "Brahman" ecc - se non la "fede" nell'infallibilità del Buddha. Quello che segue è un commento, so benissimo che "anatta" nel Canone Pali non si deve interpretare come segue. Mi metto dal punto di vista di un "monista" (il fan del buddhismo theravada lo consideri un esercizio intellettuale utile a togliere interpretazioni sbagliate)...
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Ad ogni modo vorrei a questo punto virare il discorso sulla relazione Buddha-"monismo" - se vogliamo è una critica all'anatta (ti prego di portar pazienza ;D ). Uno dei motivi per cui l'anatta può causare l'apatia potrebbe proprio ricercarsi nel rifiuto di una sorta di "monismo". Per esempio una semplicissima analisi naturalistica suggerisce che l'uomo e gli animali sono imparentati. Motivo per cui già questo dovrebbe suggerire che anche gli animali debbano essere trattati con rispetto. Un monista direbbe: tu non sei diverso da quello, quindi rispettalo. Ergo "metta" e "karuna" (ossia la compassione) in un monismo sono ovvietà, così come la Regola d'Oro. Se poi guardiamo alla fisica vediamo che i pianeti si attraggono, le galassie si attraggono e così via. Nulla è "isolato". L'universo, la natura è vista come una "rete". Questo tipo di visione rafforza ancora di più "metta" e "karuna" perchè da un lato fa comprendere che si è parte di qualcosa di più grande; dall'altro lato può ad esempio suggerire la metafora della libertà delle rocce e dei fiumi, ossia della spontaneità. Tutto questo crea un senso d'appartenenza molto profondo, un senso di vicinanza perfino con gli oggetti inanimati. Non a caso sono nate le dottrine dell'Anima Mundi, del Dao, Brahman ecc e in tutte queste per lo meno il rispetto delle creature è molto enfatizzato.
(In realtà anche nelle religioni devozionali la compassione può essere rafforzata dall'idea che "Dio ama" ma visto che il buddhismo esclude categoricamente l'esistenza di un Dio Personale Creatore, non ne voglio parlare qui)
Il problema è che l'Ego, ossia la tendenza a "pensare solo a sé" con questo tipo di filosofie cala, proprio perchè si ha questo aumentato senso di appartenenza. Ma allo stesso tempo non si può dire che il "sé" è abbandonato bensì ridefinito e il senso di identità è anche un senso di appartenenza - si ama il mondo. Apparentemente l'identità si rafforza e non a caso questo tipo di filosofie è molto consistente nell'arrivare a dire "sii uno con l'Infinito".
Ma poi arriva il Buddha e dice: "tutto questo è falso". Brahman non esiste, Dao non esiste, Anima Mundi non esiste ecc, tutte queste filosofie sono "erronee" perchè si basano sulla sete dell'esistenza. In realtà qualsiasi "forma di vita" prima o poi deve seguire la ferrea legge dell'impermanenza. Quindi l'uomo deve rinunciare a tutto, avere "nibidda", abbandonare tutto e lasciare andare tutto. Solo così si estingue :o Sono convinto che "anatta" non sia il nichilismo per ragioni che non posso comprendere ma qui a mio giudizio c'è un grosso problema. Mentre infatti nelle altre filosofie la "dissoluzione" può essere vista sia come un'affermazione che una negazione dell'Io nel buddhismo (specie del Canone Pali, ancor più di quello Mahayana - quindi dissento con l'affermare che Nagarjuna ha fatto la mossa "pericolosa") è enfatizzata solo la negazione e la mira a salvarsi, il che sinceramente mi sorprende. Con un approccio simile l'interpretazione nichilistica e perversa è facile da sostenere anche utilizzando i discorsi del Buddha. Il Risvegliato non ha più alcun desiderio, non ha più "sete dell'esistenza" (e come potrebbe averne visto che tutto è destinato a morire?). Siccome niente è "permanente" e non c'è nemmeno il "contentino" del "credere" a Brahman (o Dao ecc), l'esistenza è vista come una prigione da cui liberarsi il prima possibile - per cui bisogna salvarsi (visto che una "salvezza" collettiva è impossibile). "Metta" e "Karuna" non hanno valore intrinseco, bensì "strumentale"- quello che conta è prajna, ossia appunto la conoscenza, lo squarcio del "velo di Maya". Un "monista" invece pur in un certo senso essere riuscito a "trascendere" interpreta la cosa in modo diverso: "non è l'esistenza - nemmeno la "mia" esistenza - il problema - il problema è come "uso" questo mio io. Non è tanto pensare all'esistenza del mio "io" il problema. Infatti essendo io una "manifestazione" della Vita, come gli altri esseri, con determinate caratteristiche ho capito che il mio egoismo è un problema - per quanto riguarda la "sete dell'esistenza": io non ho sete individuale, visto che sono una semplice manifestazione della Vita". Perchè credere in Brahman, il Dao, l'Anima Mundi dovrebbe far persistere l'ignoranza, l'odio e la brama, quando in realtà si ben comprende la limitatezza della propria vita e si sa che ad esempio questo: quando muoio, i "resti" contribuiranno a formare altra vita, così come io sono stato "formato" dalla "morte" di altre forme e così via. Invece leggo che se io non credo all'insostanzialità di "tutto" (perchè?) perpetuerò la "mia" esistenza. Il problema che vedo io è il seguente: può andar bene ritenere esatto l'insegnamento per sé stessi ("io" così come sono non sono eterno e devo accettare la mia limitazione) ma perchè non pensare che la Vita, di cui io sono una temporanea (e spazialmente limitata) espressione, sia eterna? Che male fa se non accentuare "metta" e "karuna"? Perchè fissarsi con la questione dell'anatta applicandola a tutto l'universo - nirvana compreso, negando ogni tipo di "idea di Dio"?
E qui sinceramente vedo una grossa differenza tra Mahayana e Theravada e preferisco di gran lunga i Mahayana. Infatti mentre nel Theravada c'è solo l'enfasi del "vuoto", i mahayana parlano di "Natura di Buddha" accanto al "vuoto". Mi piace particolarmente lo Hua-yan (in italiano "ornamento fiorito") e il Chan/Zen perchè la Natura di Buddha è "ovunque", ogni cosa ha valore e la Vita è vlorizzata al massimo (Dogen: "l'impermanenza è la Natura di Buddha" - ma allora che differenza c'è con Anima Mundi, Dao, Brahman? Dire "il Cambiamento è la Natura di Buddha"....). Solo con questa enfasi posso capire il Metta Sutta del Canone Pali. Ma questa "enfasi" che ti fa vedere il Buddha anche nei granelli di sabbia è quasi un punto di vista opposto a quello "negazionista" del Canone Pali stesso. Ma più che "eliminare" il sé, questa dissoluzione dell'Ego, questo riconoscere che perfino le "cose" hanno valore mi pare una sorta di "affermazione" del Sé, della Vita ecc. Affermazione che posso trovare ben esplicita in molti pensatori Mahayana e in particolar modo del buddhismo cinese (quello tibetano in realtà lo conosco molto poco...). Quando i Theravada criticano le varie idee di Dio come dovute alla "sete dell'esistenza" o a false consolazioni per restare "pigri" nella pratica spirituale (perchè un "Altro" pulisce il mio karma) mi sembra che siano molto superficiali (lo stesso Nyanaponika Thera credo che abbia totalmente sbagliato a "capire" il vero significato dell' "idea di Dio", anche quella del Dio Biblico - le sue analisi delle altre religioni mi sembrano - e mi spiace molto dirlo - molto superficiali - almeno da ciò che si legge qui https://en.wikiquote.org/wiki/Nyanaponika_Thera - questo ovviamente non toglie la grandezza dello stesso come maestro spirituale ;) non voglio essere offensivo). Ecco mentre lo Zen/Chan e in genere il buddhismo dell'Asia Orientale (cinese, giapponese, vietnamita come il contemporaneo Thích Nhất Hạnh ecc) è abbastanza esplicito nel vedere la vacuità in entrambi i suoi aspetti di "vacuità" e di "assoluto/Natura di Buddha": così infatti come i "monisti" vedo il "Valore" affermato in tutto (dire che ogni cosa è un'espressione della Vita conferisce Valore ad essa).
Affermazione che sono sicuro essere presente anche nel Canone Pali e nella scuola Theravada ma la dottrina del "vuoto" rischia veramente di trasformare il buddhismo in una sorta di nichilismo. Specialmente quando vedo che la prima cosa che viene detta agli occidentali è "ogni cosa è senza un sé".
P.S. Questo non vuole essere un attacco alla tradizione Theravada o al Canone Pali, che ritengo tra le massime "meraviglie" presenti su questo sofferente e ferito mondo. Ma vuole essere un'obiezione all'importanza eccessiva data all'insegnamento del non-sé. I Mahayana devo dire che con i loro "assolutismi" hanno capito il problema.
@Apeiron,
ci sono evidenti differenze tra la tradizione dei Thera e quelle, perché anche queste sono diverse fra loro, delle correnti mahayaniche. Ma sono ambedue autentico buddhismo, pur con l'accentuare e dare la preminenza ad un aspetto piuttosto che ad un altro. Soprattutto se consideriamo che i testi del Mahayana sono molto posteriori al Canone Pali e per lo più sorti all'interno di culture molto diverse da quella hindu di vari secoli prima di Cristo. Tanta acqua è passata sotto i ponti dagli anonimi autori del Canone a un Dogen (800/1.000anni circa? Non si sa di preciso...).
Se pensiamo solo alla grande differenza che troviamo tra i quattro evangeli che pur sono stati scritti più o meno nello stesso periodo storico e nello stesso brodo culturale, con differenze evidentissime di accentuazione di aspetti diversi, possiamo essere 'benevoli' anche con gli autori dei sutra buddhisti. Basti pensare che nel Vangelo di Giovanni non è riportata nemmeno l'istituzione dell'Eucarestia, per capire che, se venisse valutato da un non esperto di Nuovo Testamento, sarebbe quasi tentato di dire che ci troviamo di fronte quasi a due religioni con una base comune ma diverse. In realtà non è così...
Sono convinto che questi oscuri bhikkhu estensori del Canone non fossero meno 'illuminati' dei loro successori mahayanici . Entrambi indicano la stessa esperienza , con parole molto diverse e con più o meno afflato poetico ( anche questo ha la sua importanza...) o sottolineatura di un aspetto della pratica piuttosto che un altro, ma il buddhismo ha bisogno di superare queste apparenti differenze (e in parte lo sta facendo...). E' un 'lavoro' che spetta, dal mio punto di vista, al buddhismo contemporaneo , il trovare parole nuove per esprimere il Dhamma senza snaturarlo o alterarne il significato... In questo noi occidentali possiamo essere più 'freschi' degli orientali, che subiscono anche l'influsso delle loro tradizioni culturali secolari, per arrivare ad un linguaggio dhammico realmente universale...
Nyanaponika è stato un grande maestro, non ho capito benissimo cosa c'era scritto sulla pagina Wiki ( il mio inglese è pessimo...), ma è stato fondamentale, essendo tedesco di nascita e profondo conoscitore della filosofia tedesca in particolare, per dare una prima corretta spiegazione di molti punti che ancora risultavano 'ambigui' per noi...E' sicuramente uno che pone in attenzione il carattere non teistico del Dhamma, forse più di altri proprio per la sua formazione filosofica occidentale...ma a me interessano le sue spiegazioni sul Dhamma più che le sue più o meno approfondite conclusioni sulle varie religioni...è chiaro che per conoscere meglio il cristianesimo magari è preferibile leggersi Agostino... :)
Spesso hai citato Wittgenstein e penso che lo apprezzi...beh! Proprio W. mi sembra metta in guardia dalle 'insidie' del linguaggio...
Ognuno di noi ha una 'musica' che preferisce. Se il linguaggio che pare accentuare l'aspetto 'positivo', come si presenta nel Mahayana e in genere in tutte le opere chan e zen, influenzate profondamente dalla letteratura profondissima e dalla poetica daoista, ti è più consono trovo giusto che segui questa ispirazione...
Dal canto mio spero che apprezzi lo sforzo di trovare e presentare con un linguaggio mio, personale si può dire, questa antica tradizione spirituale... :-[
P.S: Se ti piace in particolare lo Hwa Yen ti consiglio la lettura del testo "La dottrina buddhista della Totalità- filosofia del Buddhismo Hwa Yen" di Garma C.C. Chang - Ubaldini Editore ( ovviamente se non l'hai già letto e se è possibile trovarlo...) :)
Anzitutto grazie!
Lasciami però precisare che non volevo "accusare" il buddhismo Theravada o rinnegare il valore di Nyanaponika (motivo per cui ho cercato di precisarlo) ;) Riguardo a quest'ultimo volevo dire che lì quello che ha scritto secondo me è una lettura superficiale (prima ha precisato che nessuna concezione di Dio va bene per i buddhisti, poi ha affermato che le altre religioni sono visioni "dannose". Cosa che a mio giudizio è sbagliata anche dal punto di vista del buddhismo stesso).
Riguardo alla scuola Theravada e il Canone Pali. Si può interpretare la continua esortazione a "trascendere" in modo molto positivo, ossia nell'affermazione che ogni nostro concetto che ci facciamo sulla realtà non riuscirà mai a catturarla completamente. Si può poi affermare che tutte le dottrine "positive" in realtà sono presenti anche nel Canone Pali - per esempio anche la dottrina per la quale "ogni cosa è priva di un sé" può essere letta quasi in modo opposto - ossia che tutto ha valore. Quello che mi spaventa però è appunto che le sutra mahayana e la letteratura chan/zen è nata molto tardi e come ben fai notare tu citando il Nuovo Testamento ciò può significare che è più probabile che queste non siano più "buddhismo vero". Lo stesso vale per Dogen. D'altronde il continuo richiamo alla spontaneità ha un sapore molto più "cinese" che "indiano" (o "nepalese" visto che Buddha è nato là ;D ). Tuttavia lo stesso buddhismo Theravada ci tiene a precisare che le interpretazioni nichilistiche sono errate. Oltre a questo poi come non si può descrivere se non come "spontanea" e "libera" l'azione di un uomo con una mente priva di attaccamento e avversione? ;) Tuttavia quello che volevo dire è che troppo spesso vedo associata l'idea "metafisica-sete dell'esistenza". Nell'antica Grecia gli dei erano immortali, gli uomini invece no (e alla morte o non c'era alcun aldilà oppure c'era l'Ade, un posto non molto bello, dicamo ;D lo stesso Epicuro dice che ci sono gli dei ma gli uomini sono mortali e non vi è aldilà. Gli stoici pur affermando l'esistenza di una "Anima Mundi" non credevano nell'esistenza di un'aldilà ;) ). Motivo per cui non ha senso secondo me la critica a ogni concezione di Dio se è motivata dall'assunzione (sbagliata) "Dio (o qualcosa di permanente)=sete di esistenza (personale)".
Chiedo ancora perdono se ho ecceduto con le critiche. Purtroppo a proposito delle ambiguità del linguaggio l'equivoco è facile da creare :-[ anzi a volte si critica in modo pesante proprio ciò che si apprezza di più ;D
@Apeiron
Spesso nei vari commentari buddhisti, quando ci si riferisce al concetto di Dio, si trova l'espressione "estremo positivo della metafisica". Questo lo pone all'opposto dell'"estremo negativo del nichilismo".
E' importante capire che il Buddhismo non ritiene dannoso in senso kammico la fede in un Dio ( e qui penso che ci si rivolga all'idea di Dio come intesa nella concezione vedica e upanishadica, piuttosto che greca o cristiana...), ma solo come un impedimento alla piena realizzazione del Nibbana. Viceversa il nichilismo è ritenuto dannoso sia a livello kammico che come impedimento enorme alla realizzazione stessa. Spesso , in vari incontri a cui ho partecipato, sono presenti molti cristiani e devo dire che non si pone mai un contrasto netto ( anche perché non si arriva certo a discutere di sunnata... ;) ) in quanto , ad un livello per così dire "basico", la riflessione su anicca e su dukkha (impermanenza e sofferenza), trova profonde risonanze anche nell'interiorità del credente in Cristo. Si potrebbe quasi parlare di una forma di saggezza così naturale e condivisa che appare difficile porre significative obiezioni ( basta prendere in mano un testo biblico come il Qoelet per capire che in fondo si parla della comune esperienza di vita...). La meditazione in sé poi non va ad 'urtare' contro l'eventuale fede in un Dio. essendo fondamentalmente forgiata su tecniche yoga che nascevano proprio come strumento per l'unione con l'Assoluto/Brahman. Chiaro poi che, a livelli meditativi profondi le strade divergono ( soprattutto al momento del 'riemergere' in cui si va ad interpretare e dare un significato all'esperienza diretta stessa formulandolo in un linguaggio...).
Ritengo che Nyanaponika, per esempio, ritenga "dannosa" la fede in un Dio come forma di impedimento alla possibilità di 'lasciar andare' ogni forma concettuale. Un buddhista tende a considerare sullo stesso piano ogni forma concettuale di trascendenza e invita al 'superamento' dell'attaccamento al concetto; attaccamento che può diventare un ostacolo importante sulla via della Cessazione (della sofferenza). Quindi non è un giudizio etico sulla fede, ma eminentemente un giudizio pratico, da buon insegnante di Dhamma che deve indicare la Via per...
E infatti, se parliamo di piano etico, metta e karuna sono base della pratica corretta stessa e in questo non c'è divisione con l'approccio teistico. Tu dici che il buddhismo li intende solo come strumenti...per me invece non sono solo il mezzo necessario e imprescindibile per una retta visione, ma li ritroviamo anche nel fine, in quanto la mente 'illuminata' , che dimora nella Cessazione, dimora anche in metta e karuna, il suo agire stesso diventa autentico metta e karuna. La qualità di una mente che sperimenta Nibbana, sperimenta metta e karuna, oltre che prajna (saggezza).
L'enfasi sulle definizioni date in senso negativo ha un preciso scopo e lo dice proprio il Nyanaponika Thera:
I modi di espressione negativa hanno un altro importante vantaggio. Le affermazioni come quella che definisce il Nibbana "la distruzione del desiderio, dell'odio e dell'illusione" indicano la direzione da prendersi, e quel che si deve fare per realizzare davvero il Nibbana. Ed è questo ciò che più conta. Queste parole circa la sconfitta del desiderio, dell'odio e dell'illusione propongono un compito chiaro e convincente, che può essere intrapreso immediatamente. Inoltre, non solo indicano una via che è in sé valida e praticabile, ma parlano anche della meta elevata che può essere parimenti sperimentata immediatamente, e non solo in un ignoto futuro. Perché è stato detto:
"Se il desiderio, l'odio e l'illusione sono stati completamente distrutti, allora si può vedere il Nibbana qui e ora, senza indugi, disponibile alla verifica e direttamente sperimentabile dal saggio."
Anguttara Nikaya, 3:55
(tratto da "La Visione del Dhamma" di Nyanaponika Thera)
Ricordiamoci che questi sono malettamente pragmatici ( i thera intendo...) e "freddi" nel trattare in maniera imparziale ogni concetto, anche i più elevati come quelli di Dio stesso. Sono pre-cristiani e avulsi da ogni diatriba e contrapposizione violenta ( che respiriamo e viviamo anche noi, basta solo leggere qualcosa su questo forum... ;) )come si è sviluppata in Occidente... ;)
P.S. Se osserviamo le espressioni artistiche e soprattutto le statue raffiguranti il Buddha realizzate in India e nel sud-est asiatico, quindi nei paesi a prevalenza di Buddhismo Theravada, vediamo che sono tutte caratterizzate dal famoso sorriso. A differenza di molte immagini vajrayane tibetane per esempio...è un particolare curioso che mi ha fatto spesso riflettere: una dottrina che appare fredda e austera, quasi aristocratica e poi un sorriso! E' molto interessante e invita a guardare oltre il linguaggio usato...
Già è interessante vedere l'austerità dei Thera e vederli al contempo sorridenti (sia le persone "esistenti" sia le iconografie).
Tornando al discorso dell'esistenza di un Assoluto... il motivo per cui posso pensare che il "credere" in un Assoluto può ostacolare il Nibbana è come ben dici tu il fatto che non "lasci andare" i concetti. Quindi più che negare le filosofie "simil-monistiche" (veramente non so come chiamarle ;D ), quello che si nega è la loro "utilità". D'altronde se io "penso" a Brahman mi vedo ancora "distinto" da esso, se dico "io sono uno con Brahman" è come se dicendolo non resto più "unito" a Brahman (questo se vogliamo è il paradosso del monismo). Motivo per cui "nirguna Brahman" è ineffabile: se ne parli automaticamente non sei "dissolto". Pensiamo al discorso della spontaneità. Abbiamo noi esseri non spontanei e pieni di dukkha un'idea di spontaneità, però per essere veramente spontanei dobbiamo lasciare andare anche quell'ultima idea (d'altronde i fiumi e le rocce pur essendo "reali" sicuramente non "dividono" la realtà in concetti e nemmeno pensano "io sono uno con la Realtà"). Qui appunto vorrei far notare come le tradizioni "monistiche" sono concordi con il buddhismo su questo punto: ossia che uno non può essere "cosciente" di essere "uno" con l'Assoluto. Se lo fosse allora non sarebbe più "uno" con l'Assoluto.
Utilizzando un dialogo zen (non mi viene in mente la fonte):
"come posso accordarmi alla Via?"
"se provi ad accordarti ti allontani!"
Le tradizioni monistiche e il buddhismo sono in realtà d'accordo su questo punto: la conoscenza "vera" della "Realtà" trascende i concetti. E non appena provi a parlarne in realtà non riesci a comunicarla (in modo più banale: non riesco a comunicare il gusto del gelato ;D ). Infatti se le mie azioni sono spontanee mi "dimentico" di fatto sia di me stesso che della realtà, sia dell'io e che del non-io. Così dunque si può vedere come la "Realtà" e il "Nulla" in realtà si assomigliano: in ambo i casi "io" e "non-io" "non ci sono". E qui c'è il "problema" del Cambiamento. Se una "realtà" sostanziale cambia non rimane più sé stessa e il "nulla" non può cambiare. Ergo non rimane che questo: la Realtà è "senza identità" perchè è dinamica - la Realtà è il Divenire. Ma il "divenire" non può essere né concepito come "io" né come "non-io", perchè siccome "è dinamico" non può avere nulla di statico e siccome è però "qualcosa", non può essere definito "non-io". A questo punto però veramente il problema è meramente linguistico. Voglio dire se il "Divenire" lo chiamo "Brahman", "Sunyata", "Dao" alla fine intendo la "medesima" "cosa" (ok in realtà è una non-cosa ma spero di essermi chiarito ;D ). Inoltre il Divenire "un continuo mutamento" si può anche pensarlo come "permanente", "senza mutamento" perchè dire "il divenire muta" è dire un'insensatezza. Sinceramente ho questo grande "sospetto": anche in oriente si lasciano ingannare dal linguaggio ;) altrimenti non mi spiego questa veemenza contro ogni concezione di "Assoluto". L'Assoluto può d'altronde essere anche un "Processo", non una sostanza. Su questo mi pare che i mahayana abbiano capito di più che il buddhismo non è poi così diverso da altre dottrine.
Tempo fa dicevo che appoggiavo l'interpretazione dell'anatta non come una teoria metafisica bensì come "esperienza meditativa". Credo proprio che sia questo "assorbimento" di cui parlo, l'esperienza diretta o immediata. La vita di tutti i giorni invece ci offre un'esperienza diretta in cui "l'io" si oppone al "non-io" e quindi non vi può essere un'esperienza diretta o un "assorbimento nell'azione" ;) non "credendo" personalmente nell'infallibilità del Buddha non posso appoggiare la sua dottrina come "la corretta teoria del Tutto" (motivo per cui per me non ha senso chiedersi se il buddhismo è compatibile col darwinismo, con la meccanica quantistica o altro - e anche con "daoismo" o l'"induismo"): però ritengo che se il Nirvana è questa "esperienza" in cui si è totalmente "abbandonati" al Divenire dell'Univero, allora posso concordare - così come posso concordare che se sono veramente "assorbito" in un'attività mi dimentico sia di "me" che di "ciò che non sono io" e rimane solo l'azione - ossia la realtà. Su questo mi sembra che Daodejing/Zhuangzi, buddhismo e simil-advaita concordino. Se poi il Buddha-Dhamma sia l'unico modo per raggiungere questo "stato" in modo "permanente" (ossia se è davvero l'unico modo per liberarsi di "dukkha") non lo so ovviamente dire, ma direi che ciò è ben altra cosa rispetto a dire che "il buddhismo è vero, l'advaita è falso (o vicerversa)", "l'io esiste", "non esiste alcun io" ecc.
Il mio problema con un approccio "settario" è che si perde proprio questo. E in questo senso vale il detto del Daodejing "chi sa non parla, chi non sa parla".
P.S. Un cristiano potrebbe anche lui fare un discorso simile con la "visione beatifica": quando "vedo" Dio non sono realmente "cosciente" di vedere Dio, bensì vedo (e quindi di fatto l'io e il non-io sparisce). Il motivo per cui mi piacciono queste tradizioni orientali è che appunto l'intuizione dell'"esperienza diretta" ,"pre-concettuale", "in cui di è dimenticato l'io e il non-io" sono veramente universali.
P.S. Sulla "natura" di un'azione spontanea può essere utile anche https://it.wikipedia.org/wiki/Flusso_(psicologia) nozione nata qualche decennio fa nella psicologia moderna.
@Apeiron,
sono d'accordo con gran parte del tuo ultimo post. Infatti ( e forse ne abbiamo già discusso qualche pagina addietro...) il Buddha non afferma mai che il "buddhismo" (che non esisteva ovviamente all'origine trattandosi semplicemente di "seguire il Dhamma dell'asceta Gotama"...) è l'unica verità, ma bensì che il vero ascetismo si trovava in tutte quelle discipline/esperienze meditative dove era presente il Nobile Ottuplice Sentiero. Quindi la realizzazione del 'trascendente', di lokuttara era legata al sentiero, cioè alla pratica e non all'enunciazione teorico/filosofica del Dhamma. Questa veniva poi, e in un certo senso era soggetta alla pratica del Sentiero. Non è una differenza di poco conto, a parer mio, in quanto si stabiliva nella realizzazione pratica il fondamento e non nella logica o nella speculazione ai riguardi dell'insegnamento stesso. Con un banalissimo paragone si potrebbe dire che, data una certa medicina necessaria per curare la sofferenza, l'efficacia della medicina non è subordinata all'eventuale linguaggio usato nella confezione per descriverla. In realtà si può benissimo praticare il sentiero senza aver mai letto nessun libro di filosofia buddhista ( e in Oriente lo si è fatto per migliaia d'anni da parte di molte persone...) semplicemente seguendo l'esempio pratico e diretto di un maestro di meditazione buddhista di samatha e vipassana. Un altro punto è che la filosofia ai riguardi dell'"insegnamento dell'asceta Gotama" si sviluppa centinaia d'anni dopo il Parinibbana di Siddhartha ed già subordinata alla pratica che si andava stabilizzando nel passaggio da bhikkhu a bhikkhu, partendo dai primi discepoli del Buddha stesso. Ultimamente, dalla fine dell'ottocento in poi, come sai, si è tentato e si tenta di tornare a questa primitiva impostazione soprattutto attraverso il "Buddhismo della foresta" in cui 'esperienza pratica assume nuovamente il carattere prevalente e l'aspetto devozionale che, per secoli, è stato il vero aspetto popolare del buddhismo perde la sua importanza, come era effettivamente nel buddhismo delle origini. E' chiaro che lokuttara trascende ogni linguaggio; anzi è proprio a quel punto che ogni designazione viene a morire, come ogni formula per definirlo. L'"illuminato" ( anche se non mi piace molto questo termine che a volte si presta a fraintendimenti, a parer mio...) non è più un "buddhista", un "daoista" o un "vedantino". Ossia (credo di averlo già scritto...) il Buddha non era un buddhista ( e Ciuangtze non era un daoista)... :)
Allora tu dirai:"E perché devo preferire il Dhamma dell'asceta Gotama rispetto ad altri Dhamma?". Si potrebbe rispondere:" Perché il Sentiero insegnato da Gotama sradica definitivamente e permanentemente la sofferenza esistenziale ed è qualcosa di 'concreto', di attuabile, che invita a "venire e vedere" se veramente funziona" mentre in altri Sentieri che, se ben praticati ci possono pure portare alla stessa vetta, c'è un grande rischio, come hai ben scritto anche tu, di potersi perdere nell'attaccamento al concetto, mancando così il 'bersaglio'... :(
Sì un discorso simile sul buddhismo del Buddha lo avevamo già fatto tempo fa ;) Per esempio si potrebbe pensare che Cratilo con la sua filosofia che "non si può toccare nemmeno una volta lo stesso fiume" abbia per così dire "capito" la Vacuità. Oppure che Hegel dicendo che "tutto è Divenire" sia arrivato al Dhamma con una via diversa. Quello che manca in questi filosofi però è proprio la discussione che una mente veramente libera è "priva" di attaccamento/avversione, che ha "esperienza diretta" della realtà e così via - ossia manca l'aspetto "spirituale", ossia il come io mi rapporto alle cose. Viceversa un platonista, uno che dice che gli enti matematici esistono eternamente può secondo me pensare che il Dhamma sia giusto, visto che non è possibile "attaccarsi" ai concetti matematici. Ergo la "metafisica" intesa come postulare qualcosa di completamente astratto e "irraggiungibile" per un buddhista più che essere "falsa" è "inutile": non porta a niente di "concreto". Allo stesso modo però dimenticarsi che l'anatta è una "teoria" che riguarda principalmente il senso del sé (ossia se esiste nei cinque aggregati qualcosa che "controlla") e farne una teoria metafisica e dichiarare false tutte le altre teorie sulla realtà secondo me non ha senso ;) e non facendo ciò ci si risparmia un sacco di polemiche e incomprensioni (anche tra le varie scuole ;) )
L'anatta che viene definito come il 'cuore' dell'insegnamento del Buddha è un' esperienza che si rivela pienamente nel Nibbana. Lo si può intuire a volte, si può intuirne anche la logica, ma non lo si realizza in pieno se non nel Nibbana. Quindi si potrebbe dire che è un Tathagata che vede compiutamente l'anatta. In effetti è un concetto elusivo perchè tutto il nostro universo , materiale e mentale ,è concepito come atta. Non viene spontaneo pensare in termini di anatta, ma bensì in termini di atta. Ora, qual'è il problema che incontriamo essendo così radicata in noi la visione 'atta' dell'esistenza di tutte le cose? Che rischiamo, anche nelle forme di spiritualità più sottili e raffinate, più 'elevate' di vedere atta in ogni dove. Possiamo vedere atta nei più sublimi stati mistici; possiamo vedere atta in metta e karuna e dargli il nome Dio o Allah o Brahma; possiamo infine vedere atta anche nel Nibbana. Perché così funzioniamo. Questa è la natura di avidja, la natura dell'illusione/ignoranza.
Perchè Buddha invita a tenersi lontano sia da una visione eternalista che da una nichilista? Perché sono ambedue 'atta'. E' sempre lo stesso modo di funzionare di avidja. Secondo il Buddha nessuna delle due spalanca le porte della prigione in cui la visione atta della nostra vita ci tiene rinchiusi. Allora, capovolgendo ogni pre-esistente visione spirituale o filosofica, Siddhartha proclama che, per uscire veramente dalla prigione bisogna 'vedere' il mondo come an-atta , come vacuità di esistenza intrinseca, che vuol dire anche 'lasciar andare' atta...
Quando Buddha indicò come concepiva l'anatta, il non-sé fu decisamente diretto e disse : "Non c'è in questo corpo nessun atta, perché se ci fosse atta in questo corpo, quest'ultimo avrebbe la possibilità di decidere se essere così o non essere così". L'anatta è dunque anche l'assenza totale di controllo, è l'idea di assenza totale di controllo di ciò che ci circonda e nella cui ricerca noi, esseri che vediamo il mondo come 'atta', riversiamo l'intera nostra esistenza. E', come hai scritto anche tu, un'intenzione 'rinunciante' al controllo...
Perchè allora scegliamo 'atta' e non 'anatta'? Perché, a mio parere, "fissando" ogni cosa , vedendola come 'atta' ossia dotata di sostanza propria, avidjia può illudersi di controllarla e controllandola vincere la paura di esistere in un universo dove noi, personalmente, non abbiamo veramente controllo di 'anicca', del mutare e divenire incessante di tutto ciò che ci circonda...
Se riflettiamo e meditiamo profondamente su 'anicca' ecco subito apparire 'anatta'...se ci aggrappiamo ad 'atta' ecco 'dukkha', la sofferenza... :(
In fin dei conti, il vedere la nostra mente come 'atta', non è come crearsi e consegnarsi ad un 'fantasma' che ha la funzione di rassicurarci?...
Una piccola nota personale. Quando, a sedici anni o giù di lì, lessi per al prima volta un libro sull'insegnamento del Buddha ebbi una specie di 'scossa', non so come definirla. Avevo già letto parecchio di spiritualità e vivevo in una famiglia profondamente cattolica tradizionalista, ma mi rendevo conto di tovarmi di fronte a qualcosa di 'diverso' che mi interrogava e che rispondeva alle mie domande inerenti anche al mio particolare stato di allora, che non era certo felice per via di varie tribolazioni...
Se non senti la vita , o la vivi, profondamente intrisa di sofferenza, ti sentirai attratto da una filosofia/religione come il Buddhismo? Perché in fondo, da quel punto, è partito pure il principe Siddhartha... ::)
@Sari,
tu dici: "Quando Buddha indicò come concepiva l'anatta, il non-sé fu decisamente diretto e disse : "Non c'è in questo corpo nessun atta, perché se ci fosse atta in questo corpo, quest'ultimo avrebbe la possibilità di decidere se essere così o non essere così". L'anatta è dunque anche l'assenza totale di controllo, è l'idea di assenza totale di controllo di ciò che ci circonda e nella cui ricerca noi, esseri che vediamo il mondo come 'atta', riversiamo l'intera nostra esistenza. E', come hai scritto anche tu, un'intenzione 'rinunciante' al controllo..." Già! questo è il cuore dell'"anatta" - ossia il vedere che gli eventi non possono essere controllati. Anatta per come lo inteprepreto io è proprio la netta visione che la pretesa del controllo è illusoria. Non a caso: fiumi, nuvole, pianeti, stelle, galassie certamente "agiscono", "fanno qualcosa" ma le loro "azioni" sono prive dell'illusione del controllo che noi abbiamo. E anzi lo stesso vale per le piante, ossia per tutto ciò che non è "animale". Ma se vogliamo forse anche gli stessi animali sono liberi dall'illusione del controllo (almeno non hanno il concetto di "controllo", purtroppo hanno l'istinto del controllo, donde la loro sofferenza :( ). Per quanto riguarda comunque gli essseri inanimati e gli esseri viventi diversi dagli animali le loro azioni sono spontanee, sono prive di preoccupazioni! Sono il perfetto esempio sia dell'"anatta" che del "wei-wu-wei" (ossia l'azione senza azione - senza pretesa di controllo). Questo secondo me è il segreto dell'"anatta".
Ma il controllo non è "qualcosa" di astratto, non ha senso parlare per esempio del "senso di controllo" o della "sofferenza" di un fiume. Il loro agire è "libero", libero da "agenda" (ossia da "pianificazioni", scopi, pretese, brame e avversioni). Motivo per cui dire "la roccia è anatta" è tautologico. Dire invece la frase che tu dici del corpo mette in luce tutta la questione. Siamo noi a dover rinunciare alla pretesa del controllo. La "caduta" è stata proprio la pretesa di poter controllare le cose - cosa che ha alimentato la brama di possesso e di "potenza"/dominio. Se uno agisce spontaneamente senza alcuna pretesa di controllo, senza alcuna idea di controllo per quale motivo potrebbe voler ad esempio essere violento? Ad esempio si ruba solo se si ha la pretesa che l'oggetto rubato è "nostro", oppure che la vittima del furto "se lo merita" e noi abbiamo il diritto di farlo. La realtà di anatta secondo me è questo. La verità in un certo senso più umile. Se ad esempio ci fosse un qualcosa fuori dall'universo di "permanente" che importanza avrebbe? Non servirebbe a nulla per il nostro controllo. Motivo per cui Buddha saggiamente non ha dichiarato "non c'è alcun "Sé"" oppure "nulla è permanente", bensì tutto ciò che ci riguarda è fuori in senso ultimo dal nostro controllo. Questo ritengo essre il grande messaggio, il vero significato di "anatta". E perchè dunque non possiamo controllare niente? Semplice: il mondo non è formato da "cose" ma da reti di processi e interazioni. Ergo il nirvana è anche la nostra "mente naturale" perchè d'altronde le azioni di chi non ha pretese sono appunto spontanee e naturali! Maledetto controllo! Però:
perchè un'intepretazione nichilistica ci riesce meno facile da accettare? Semplice perchè in tal caso la nostra vita è un mero errore. Se "nirvana" significasse semplicemente la distruzione della "mente" che differenza ci sarebbe tra un Realizzato e una roccia? Se l'obbiettivo finale è quello di essere spontanei d'altronde non è proprio voler tornare ad essere rocce. E qui ritengo il merito delle intepretazioni "sostanziali" del "nirvana": il ritorno forse non è un semplice ritorno. Forse non ritorniamo ad essere rocce, nel Silenzio della "non-azione" ossia dell'azione Spontanea di fiumi e rocce. Se fosse così allora la vita sarebbe un errore. No, il nirvana forse è una "vita" che ha le stesse caratteristiche di spontaneità e innocenza di fiumi e rocce, di pianeti e stelle - ossia è una sorta di "processo dialettico" (tesi-antitesi-sintesi? tesi: mondo naturale, antitesi: illusione del controllo sintesi: nirvana ?). Ma in effetti che ci sarebbe di male se tornassimo al "nulla" inteso come ritorno alla natura? Ritorno alla natura e alla spontaneità? Eppure siamo veramente soddisfatti di un tale esisto? :( e qui che differenza pratica c'è tra buddhismo e altre tradizioni come il daoismo e l'advaita se il ritorno alla "spontaneità" è il tornare come "oggetti inanimati"? In tutti e tre i casi se il ritorno non è anche un superamento siamo veramente soddisfatti di un tale esito? :(
Nota personale: Questo è il vero motivo per cui non sono ancora "convinto" di abbracciare questo tipo di tradizioni. Dicono la verità, ossia che non possiamo controllare nulla e quindi la "rinuncia" non è una vera "rinuncia" ma una sorta di liberazione. Ma si può davvero chiamare liberazione se l'obbiettivo è davvero quello di tornare ad essere rocce? (non intendo ri-iniziare il dibattito, voglio solo dire che mi rimane questo dubbio che finora non ho risolto - altri magari saranno più convinti di me. Forse il dubbio nasce proprio da quel desiderio di controllo. Forse) Ma è davvero un ritorno e non un superamento? Mah
Rigardo alla tua nota personale: il problema del cristianesimo tradizionalista, è che vieta il pensiero. O credi o non credi (se non credi sei fuori, anatema), non c'è una seconda possibilità o una possibilità di "provare di volta in volta", di testare, di mettere in dubbio - il dubbio è malvisto specie dai tradizionalisti (un po' meno in realtà dalla stessa Bibbia - dopotutto Tommaso non è stato ripudiato per il suo dubbio - e dalla Chiesa post-Concilio). Per una mente a cui "naturalmente" vengono dubbi è impossibile "mandar giù" sempre tutto. Sarà pure un peccato, ma non lo si risolve dicendo "credi" o "è un mistero" . Si lascia semmai correre il rischio di sbagliare, di andare nell'ortodossia - altrimenti non si fa che innalzare l'odio e il risentimento - invece "lasciando andare" forse il "miscredente" capisce l'errore. Questo è vero per il cristianesimo "conservatore". Meno per quello "post-concilio", che è molto più umano.
L'altro grande problema del cristianesimo è che pone barriere concettuali molto rigide (talvolta, bisogna riconoscerlo, plausibili. Ma altre volte sembra che escano dal nulla): l'uomo è totalmente un'altra cosa rispetto agli animali. Le cose sono separate e distinte, noi stessi abbiamo un'anima individuale che è nettamente separata dal resto. Invece empiricamente il mondo lo capiamo meglio proprio "smorzando" le distinzioni (oltretutto il "filosofo" non è "orgoglioso" di quello che sa, ma semmai rifiuta un dogma perchè "sa di non sapere" ;) ). Forse daoisti, advaita e buddhisti sbagliano a non porre distinzioni (in realtà questa mia mancanza di accettazione completa della "non-separabilità" mi allontana dall'abbracciare le cose). Però smorzando le distinzioni posso essere più aperto all'altro, posso accettare i miei e gli altrui difetti, posso capire l'altro. E così via. Certamente anche nel cristianesimo ci si interroga molto sulla sofferenza (d'altronde il simbolo è la croce). Però ci sono anche molti, troppi dogmi. Si può volendo criticare buddhismo e advaita, magari si accettano in parte le loro dottrine ma comunque si può praticare - si può metterle in dubbio, d'altronde in questi casi è un "vieni a vedere". Recentemente anche nel cristianesimo è arrivata l'idea del "cominciare a credere", ossia che l'approccio corretto è graduale, si accettano gradualmente le "verità". Però non è mai un "vieni a vedere" concreto come il buddhismo, specie per chi ha una mente caotica e "vitale". Il buddhismo attrae perchè appunto tratta della sofferenza, un aspetto molto concreto (di nuovo lo fa anche il cristianesimo con "Dio che diventa Carne" ma non è così diretto).
A riguardo all'età, io sui diciassette anni ho avuto una vera e propria crisi esistenziale (ma è stato un processo al contempo improvviso e graduale), ho cominciato a vedere difetti in me e nel "mondo degli uomini". Ho cominciato a pensare molto alla morte e alla sofferenza e inoltre insiame a Spinoza, Schopenhauer era diventato il mio "preferito" (in realtà quest'ultimo fatto è avvenuto all'inizio del mio diciannovesimo anno d'età, però poco importa) - l'interesse per il cristianesimo nel frattempo era sparito (non c'è stata alcuna ribellione, semplicemente non mi sentivo più parte della comunità e non accettavo di andare a messa per "tradizione". Diciamo che non ne sentivo il bisogno). Per la prima volta mi sono cominciato a porre seriamente le domande sulla "spontaneità", sulla "libertà", sul "mondo dopo la morte" ecc. E ho cominciato ad essere attratto dalle filosofie orientali, prima il daoismo e poi il buddhismo (semplicemente perchè ho per caso trovato il testo del Daodejing). Schopenhauer a 17 anni ebbe la sua crisi che lo rese "pessismista" per tutta la vita. Quindi forse è normale ;D Secondo me la scossa è ciò che attiva la vita spirituale (oppure se già presenta la fa "esplodere"). Senza nessuno si mette a cercare, a mettere in dubbio come sta vivendo ecc. E d'altronde le tradizioni "non-duali" solitamente appunto smorzando le distizioni sono molto accoglienti e solitamente meno inclini ad "anatemizzare".
scritto il 7-11-2017
Ieri notte ragionavo su quali collegamenti fare.
Ho pensato a quello che avete scritto, e l'intuizione è arrivata puntuale a timbrare il cartellino.
Non è come in un primo momento ho pensato un idea vicino a quella di Hegel, è l'esatto contrario.
Perchè, dopo che l'intuizione mi è venuta, ho ricordato la cosa principale: che per L'India la Storia non esiste.
La linea di pensiero è sempre stata quella di cosa fosse questo vacuo, cosa stesse per.
Poi ho realizzato che non c'è bisogno di un passaggio dialettico, perchè appunto la storia non esiste.
Dunque quel "stare per" non poteva che essere quello che in termini occidentali chiamerei il fenomeno.
Ossia è il fenomeno stesso che sta alla base della vacuità, ossia la vacuità è la vacanza del fenomeno.
Ma non nel senso occidentale (dialettico, storico) nemmeno nel senso ebraico (che in effetti sottende un Dio a creare il mistero del fenomeno rispetto al suo vacuo, alla sua mancanza, appunto la mancanza di DIO).
No! ma nel canonico modo indiano sì.
Ossia il macrocosmo che coincide con il microcosmo.
Vi è al suo interno però la forza del pensiero filosofico, infatti se il macrocosmo non è più un piano cosmico, allora lo sarà il microcosmo.
Ma se il microcosmo è il cosmico, allora la condizione di separazione umana, ma anche animale, minerale etc..etc..è la fonte dell'illusione, che il microcosmo è parte del macrocosmo. Ossia che la parte sia una parte del tutto.
A questo punto è facile congiungere i pezzi.
Infatti la parte non è la parte del tutto, ma è il tutto.
E' per questo che necessitana il nirvana, il vacuo.
Ossia la necessità di dimenticarsi come parte che fa parte di un tutto, e invece di ricordarsi che siamo un tutto che è anche una parte.
La condizione allora sarà quella della riflessione su ciò che manca alla parte per essere tutto.
Appunto: la stessa mancanza. E' solo poichè vi è mancanza che la parte è anche il tutto.
le tecniche meditative dunque saranno un tentativo di riflessione su questa falso dualismo fenomenico.
La mia è solo una intuzione, come al solito originata non so da che. Ma la ritengo sufficiente per aggiungere il buddismo nel mio progetto religioso, che a questo punto comprende teologia negativa, protestantesimo, cristianesimo delle origini, filosofia advaita, shivaismo e ora anche buddhismo. Credo che mi fermerò qui, mi sembra un materiale già abbastanza gravido, e che non so come farò a mettere in agenda.
@Green ti mancano il Dao-De-Jing (o Tao Te Ching) e lo Zhuangzi (o Chuang-tzu o Ciuangtzé) e poi sei al completo ;D ti posso garantire che questi due libri cinesi composti prima del 200a.c. sono dei veri gioielli. Anche se anche per essi puoi dire che la Storia non Esiste.
Riguardo all'inesistenza della storia. Sì hai ragione da un certo punto di vista. Però puoi anche pensare che la ruota del samsara sia una sorta di "caduta" e la liberazione sia la "redenzione". Quindi il processo dialettico c'è anche qui: tutto dipende da come interpreti il Ritorno. Più precisamente quello che esiste per il buddhismo è il Divenire. Ma questo "divenire" è vuoto di "entità": in sostanza la Storia non esiste perchè "tutto è bloccato" (pensa a Parmenide) bensì la Storia non esiste perchè nulla si evolve. Il mondo è una rete di avvenimenti, di eventi e di "fatti". Non di cose (e senza cose non avviene in verità nulla).
Ad ogni modo sull'illusiorietà della Storia pensa a questa frase:
Zhuangzi: "la soggezza degli antichi arrivava fino ad un limite. Quale limite? Quello per cui non credevano che esistevano cose. Di più non si può arrivare. Quelli dopo di loro ritennero che le cose esistevano ma non ponevano confini tra di esse. Quelli dopo ancora ponevano confini ma non distinguevano tra "accettabile" e "non accettabile". Fu quando si riconobbe la distinzione tra "accettabile" e "non accettabile" che la Via fu ferita"
La forte contrapposizione con il cristianesimo è che la storia delle distinzioni e dei concetti è "reale" per il cristiani: Gesù ad esempio è morto e risorto. Ovviamente non si può non rifersi ad un "sé distinto" in questo caso. Quindi la Storia di fatto è illusoria per le tradizioni advaita, daoismo e buddhismo. D'altronde per l'occidente cos'è la Storia se non la storia degli sforzi e le azioni degli uomini? Di certo non è la "non-azione" del corso dei fiumi o dei pianeti oppure di un Divenire senza "sé" separati e distinti! Questa è la grande differenza tra religioni come il cristianesimo e le religioni indiane e il daoismo.
P.S. Questa è pure la differenza tra la filosofia di Nietzsche e la filosofia indiana e daoista. Nietzsche cercava l'affermazione dell'uomo (e della storia), questo tipo di tradizioni invece preferisce la "non-affermazione". Pensa anche al fatto che Gesù si è incarnato una volta. Invece di Buddha ce ne sono stati molti e molti ancora ne verranno, idem per Krsna e il daoismo è stato insegnato fin "dai tempi antichi"...
Ciao Apeiron.
No! penso proprio che il bagagliaio del mondo religioso sia già pieno ;), anche se i testi da te citati sono parte della saggenza di tutti i tempi.
Sul Samsara: ma vedi è proprio questo il punto, è proprio dal fatto che criticavi l'accettazione del samsara da parte del buddhismo, che l'idea si è poi dipanata.
Non è possibile che sia come nell'advaita.
E infatti non lo è. Se per l'advaita il samsara fa parte del gioco cosmico dei multiversi, ossia uno dei tanti giochi, non così per il buddhismo che invece lo ritiene la cosa più importante.
Credo che meditare sul Samsara sia una delle tecniche più difficili. Non so se esistano scritti che lo testimonino.
Ma ci devono essere per forza. (vedrete che li scoprirò)
Infatti è credo uno dei nirvana assoluti, se non il nirvana assoluto.
Quando tu citavi il nobile silenzio in maniera anche ironica (suppongo), è perchè non hai ancora capito (suppongo) che il nobile silenzio è inevitabile per comprendere la vacuità.
Ossia non è possibile spiegare ciò che è il risultato del vacuo, senza aver percepito (suppongo, sari chiedo aiuto nel caso) il vacuo.
Se io spiegassi cosa è il vacuo, lo spiegherei come se fosse possibile storicamente, o illusoriamente, ossia lo dovrei porre come storia, come racconto.
E invece solo possibile come vissuto, e quindi quella che va spiegata è la tecnica meditatoria ad esso associata.
(al nobile silenzio).
A ben pensarci lo Zen e il Buddismo Giapponese (di cui mi sono innamorato con la lettura del fumetto IKKYU, un must per chiunque), ha improntato le sue caratteristiche storielle proprio su questa ambivalenza di ciò che è a partire da ciò che NON è.
Alla prossima. ;)
NB.
Ormai padroneggi Nietzche con sicurezza vedo! Sì è proprio come dici.
(sulla figura di Cristo, io sarei più vicino a vederlo come profeta, posizione eretica se ce ne è una, diciamo che i profeti sono l'equivalenza degli illuminati indiani, o dei loro Avatar.)
Caro Green,
Peccato volevo convertirti al daoismo (scherzo visto che nemmeno io lo sono e nemmeno un daoista vorrebbe convertirti) ;D A parte gli scherzi...
Voglio solo dire una cosa. Riguardo al "Silenzio" ero "semi-ironico". Ritengo vero che la "perfetta libertà dalla sofferenza" è essere come l'acqua che scorre, i pianeti che ruotano attorno al Sole ecc. Sono tutte azioni immediate e pure. Sono pure azioni senza sforzi. Ovviamente non essendo "cose animate" non si può parlare di "felicità" o di "beatitudine". Il Realizzato allo stesso modo non agisce con sforzo o facendo piani per vantaggio personale. Non ha più alcuna illusione di controllo. Quindi è come l'acqua che scorre, i pianeti che ruotano.
Per quanto riguarda il Divenire nell'advaita e nel buddhismo. Sì so che sono diversi ma in entrambi i casi si parla di "azione spontanea, senza [senso del] sé, no". Proprio come il gioco del fanciullo (lila) o l'acqua che scorre. Queste immagini mi danno l'idea di "libertà". Sinceramente non mi interessa più sapere quale delle "immagini" sia più "vera".
Il problema è semmai se il nirvana è o meno il "ritorno all'inanimato" - la "distruzione" totale della mente o solo la sua "cessazione". In un caso c'è il ritorno allo stato iniziale. Nel secondo si ha un salto dialettico.
In questa discussione sono arrivato a questa conclusione: il Realizzato è l'essere più spontaneo di tutti. Questo perchè non c'è più intenzionalità, brama di affermazione, pianificazione ecc. Proprio come l'acqua che scorre.
Tutto il problema si riduce a questo "come". Come ben dici che cosa è davvero il vuoto buddhista, il Dao, l'assorbimento con Brahman ecc lo si saprà solo quando si è "raggiunto l'obbiettivo". Prima di allora non si può sapere. Bisogna per così dire "avere fede" ;)
Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere (Wittgenstein) - così adesso aldilà di tutte queste discussioni provo a "tacere" perchè visto il ritmo dei miei messaggi, ormai tutto questo è diventato una sorta di "ossessione" ;) (il che tra l'altro mi è possbile solo perchè facendo una tesi teorica lavoro comodamente a casa e nelle "pause" vengo qua a scrivere. Anche se la cosa mi piace molto, ho però capito che la moderazione è essenziale devo imparare a "togliermi anche questa dipendenza" ;D ) Ergo cerco di tacere (ovviamente se hai domande cerco di risponderti ma non mi va di teorizzare ancora (almeno per un po'))
Ad ogni modo ci siamo capiti che sia il fanciullo, il Realizzato ecc sono tutti "spontanei" (proprio per questo non ha più senso parlare di "Storia" per loro - visto che la storia è fatta da interventi atto a "controllare" la direzione del mondo). La "vacuità" del senso del sé individuale ci porta proprio ad essere spontanei, contenti ecc ossia liberi. Personalmente ritengo che anche il "parinirvana" - ossia il nirvana dopo la morte - non sia il ritorno all'inanimato. Ma è solo una mia convinzione ;)
Si potrebbe pensare di cercare un compromesso tra la visione "non-storica" e quella "storica". Ma come ho detto per ora lascio perdere ;) vado a rifugiarmi nel silenzio !
Alla prossima!
Ritengo di aver raggiunto di una conclusione (ovviamente è vero solo in parte ;D ). La parola "bhava" si riferisce all'esistenza con un senso del sé. Un'esistenza alla quale c'è contrapposizione tra "io" e "non-io". "Abhava" si riferisce invece a quando non c'è un "io" dove dovrebbe esserci. Liberazione dal senso dell'io è quando questa contrapposizione finisce: non c'è più contrapposizione tra "io" e "non-io" - le rigide distinzioni sono finite.
Al che rimangono queste alternative:
1) al parinirvana non rimane che il Nulla (di permanente) - il cosmo è destinato a finire. (incondizionato=totale nulla - posizione dei Sautrantika=nichilismo?) Se Buddha ha insegnato questo allora era un nichilista. Il che non inficia la mia stima verso il personaggio... però la sua filosofia è incompleta.
2) al parinirvana si torna alla "polvere", però il cosmo è eterno (ma ciclico?). La differenza col materialista in questo caso e nel precedente è la sola dottrina delle rinascite. Nuovamente la sua filosofia è incompleta perchè si riduce ad un materialismo (ancora compatibile con la posizione dei Sautrantika?=nichilismo?). E da qui ci si potrebbe chiedere: perchè la materia ha comportamenti regolari? perchè ci sono leggi fisiche ben determinate e non è meramente caos? Se non ci fosse niente di "mentale" (spero che questa parola non crei troppa confusione) nella materia perchè l'universo è regolare ecc. Ritengo interessante che certe forme di panteismo naturalistico vedono la morte come il "parinirvana" buddhista espresso in questi termini (e ovviamente anche nella posizione "1").
3) l'incondizionato è semplicemente la cessazione della distinzione dell'io/non-io. In questo senso si ha la "spontaneità" - il supremo abbandonarsi all'infinito (https://www.riflessioni.it/logos/Smileys/default/wink.gif) si è raggiunta "l'immortalità" perchè nessun "io" può sperimentare la morte (o la nascita). L'incondizionato però è una realtà, o più precisamente è il "corretto" modo di vedere il samsara. Quindi non può essere definito non-esistenza. Non può cessare perchè altrimenti ci sarebbe qualcosa che cessa. (Incondizionato=Divenire? posizione di Nagarjuna? posizione preferita dal Sari? (https://www.riflessioni.it/logos/Smileys/default/wink.gif) ). Notare la somiglianza che può essere vista con molti aspetti della filosofia del Chuang-tzu (se non ha insegnato l'immortalità dell'io) e di certe forme di filosofia vedanta (lo scrivo piccolo per evitare dispute dottrinarie ;D )
4) l'incondizionato è una realtà trascendente - che non muta, aldilà dell'impermanenza - completamente distinta dal samsara. Sempre "presente" ma distinta dal samsara https://www.canonepali.net/2015/06/udana-8-1-nibbana-sutta-la-completa-liberazione-1/, https://www.canonepali.net/2015/06/udana-8-3-nibbana-sutta-la-completa-liberazione-3/ (Buddhaghosa? Theravada Tradizionale?)
5) l'incondizionato è la "citta eterna" ("citta" in pali si riferisce alla "mente" - non ho dimenticato un accento ;D ), la mente che ha trasceso spazio e tempo - o più precisamente è la vera natura della mente (Natura di Buddha? posizione della Tradizione della Foresta Thailandese (sottoscuola Theravada)? posizione del Sari? (https://www.riflessioni.it/logos/Smileys/default/wink.gif) )
6) Hua-yan/Avatamsaka: nirvana è la realizzazione che "una cosa contiene tutte le cose - tutte le cose contengono una cosa".
7) Il Buddha e gli ahrant esistono ancora individualmente (posizione della scuola Pugdavala - criticata da tutte le altre? Buddhismo delle Terre Pure?)
Se Buddha ha storicamente sostenuto la visione materialistica "raffinata" come nel caso "1" e "2" allora per me non era "Risvegliato" per il problema che nella nostra mente si formano concetti come "infinito", "eterno", "assoluto", "bene supremo" e non giustifica il fatto che la materia ha comportamenti regolari - che suggerisce che ci sia un "aspetto mentale" anche nella materia "inanimata" (inoltre queste posizioni paiono molto vicine alla posizione degli "annichilazionisti" (ucchedavada), di coloro che dicevano che alla morte un "io" moriva...). Riguardo alla "7" l'esistenza è ancora individuale e quindi pare contraddire l'affermazione che "il nirvana è la cessazione dell'esistenza (bhava)". Rimangono le posizioni "3","4","5","6" che forse sono molto più simili di quello che sembrano (se è una di queste la posizione del Buddha allora può essere stato un "Risvegliato") ;)
Forse Buddha parlava sì di un "nulla" ma un nulla relativo (anche perchè d'altronde è la Via di Mezzo), un "niente" per tutti coloro che sono intrappolati nel samsara. Riporto una interessante citazione di Schopenhauer nuovamente per comodità:
"il concetto del nulla è essenzialmente relativo, e si riferisce sempre ad alcunché di determinato, ch'esso nega. Codesta relatività fu attribuita (specie da Kant) soltanto al nihil privativum, indicato col segno – in opposizione al segno +; il qual segno –, capovolgendo il punto di vista, poteva diventare +; e in contrasto con quel nihil privativum, si stabilì un nihil negativum, che fosse il nulla sotto tutti i rapporti, per esempio, del quale si cita la contraddizione logica, distruggente se stessa. Ma, guardando più da vicino, un nulla assoluto, un vero e proprio nihil negativum non si può neppure immaginare:ogni nihil negativum, guardato più dall'alto o sussuntoad un più ampio concetto, rimane pur sempre un nihil privativum....
Noi vogliamo piuttosto liberamente dichiarare: quel che rimane dopo la soppressione completa della volontà è invero, per tutti coloro che della volontà ancora son pieni, il nulla. Ma viceversa per gli altri, in cui la volontà si è rivolta da se stessa e rinnegata, questo nostro universo tanto reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, è – il nulla." (Arthur Schopenhauer)
Immagino @Apeiron, una sera durante la quale il Buddha tiene un discorso ai bhikkhu (monaci) nel giardino di Jetavana, con le torce che fanno danzare strane ombre sui volti e sulle spalle, alzarsi e porre le sue sette alternative all'attenzione dell'assemblea e di Siddhartha stesso...
Poi mi par di immaginare le labbra dell'illuminato assumere la piega di un sorriso...ma...nessuna risposta all'inquieto ricercatore , all'asceta filosofo itinerante Apeiron, giunto dal lontano Ellade...solo silenzio . Nell'aria solamente il rumore del vento tra gli alberi di pippala, qualche fruscio di tonache, un leggero brusìo ai margini della grande assemblea...
Cos'è il Nirvana? Perché non risponde?...Perchè questo silenzio?...Qual'è la posizione di quest'uomo che dicono sia 'illuminato'? ...@Apeiron di illuminato vede solo il suo volto, rischiarato dalla luce danzante delle torce. Perché il Buddha non afferma con chiarezza qual'è la natura del Nirvana?...Sembra quasi...un 'agnostico'...molti lo pensano, infatti...
"Ciò porta chiaramente alla conclusione che l'agnosticismo in tali questioni non si basa su una convinzione ragionata dei limiti della conoscenza; esso riposa sulla duplice base che Buddha stesso non è giunto ad una chiara conclusione riguardo la verità di questi problemi, ma è convinto che la disputa su essi non conduce alla forma mentis essenziale per il raggiungimento del Nirvana" . Keith-Filosofia buddhista.
Ma il silenzio del Buddha non può nemmeno essere interpretato come agnosticismo, perché questo sarebbe un atteggiamento di dubbio e disperazione, mentre la sua risposta è decisa e risoluta. Non è nemmeno una specie di sospensione del giudizio, in attesa di un ipotetico momento più favorevole per rendere pubblica la "verità" sul Nirvana. No...non è così... abbiamo sempre quel sorriso a smentire questo dubbio. Pare un sorriso e un silenzio che parla...tante volte ha ripetuto che non ha trattenuto nulla per sé, come invece quei maestri dal 'pugno chiuso'. Buddha forse ignora la metafisica?...No, ha una grande padronanza e conoscenza delle speculazioni filosofiche del suo tempo...ha avuto a disposizione migliori insegnanti del Regno del Magadha...ha studiato per anni con i più famosi filosofi e asceti...è sicuramente un metafisico di altissimo livello. Grazie alla sua penetrante analisi ha raggiunto una posizione che trascende e annulla i procedimenti dogmatici della Ragione....Il suo rifiuto della metafisica speculativa è deliberato e coerente. Per lui la critica stessa è filosofia...
La sua posizione non è nichilista nemmeno in forma implicita e nemmeno è considerata tale da qualsiasi sistema buddhista. Siddhartha si oppone in termini espliciti all'idea che la sua disciplina spirituale implichi l'inesistenza del Nibbana. Quante volte i bhikkhu lo hanno sentito parlare in termini 'positivi' dell'elemento Nibbana, come 'qualcosa' al di là di ogni sofferenza e mutamento, come inalterabile e quieto, non soggetto al decadimento e senza macchia...come vera pace oltre l'oceano del divenire.
Come un'isola, ecco...come un'isola di protezione... come un rifugio che è anche la meta.
Se non vi fosse all'orizzonte quest'isola di coralli come sarebbe possibile trovare una via d'uscita da tutto questo dolore?...Quale uscita dalla soggezione dell'impermanenza samsarica?...
Però Siddhartha non dubita affatto della realtà del Nirvana, ma...non permetterà mai di caratterizzarlo e rivestirlo di termini empirici come essere, non-essere, ecc.
Ecco il silenzio che interroga @Apeiron l'ellenico...il silenzio della piena consapevolezza della natura indescrivibile dell'Indescrivibile...
Accanto al Buddha seggono Sariputta e Mogallana. Alle sue spalle il bonario Ananda, il mite Ananda, il bhikkhu che manda a memoria ogni discorso del suo maestro, che da tanti anni lo aiuta e che adesso cerca di sollevare dall'umidità della notte trasudante dalla selva, agitando un'enorme ventaglio...Il maestro è vecchio ormai , e stanco...ma c'è ancora l'ellenico...ritto davanti a lui...in attesa...
E l'ellenico parla e chiede:"Perché mai allora, signore, non ammettete in termini del tutto espliciti la realtà dell'assoluto? Perché mi osservate in siffatto silenzio? Perché mi sento 'venir meno il mondo', ora?...Parlate alfine! Angosciosa è l'esistenza e l'autunno si porta via come ogni anno le nostre speranze...parlate per tutto ciò che vi è di caro e di valore "...
Ma che parole usare per qualcosa che è al di là di ogni parola? ...Cosa c'è di più vero, a questo punto della notte, che non il silenzio e un sorriso che rincuora ?...
Eccellente post Sari ;)
L'ellenico Apeiron ovviamente rimane a pensare tutta la notte contemplando quel sorriso accennato del Tathagatha e dei suoi discepoli e delle sue discepole. Questi "strani" personaggi che con estremo coraggio ed estrema dedizione hanno disciplinato la loro mente e sostengono di aver raggiunto "l'Isola". Dinanzi all'incessante mutare del samsara questi hanno tutti invece un costante sorriso accennato. E non perchè dormono o sognano in quanto la loro consapevolezza è del massimo grado. Hanno abbandonato tutto: possedimenti, attaccamenti, bramosie, avversioni, paura, dubbi, idee di "sé" e anche la speculazione scientifica e filosofica. Il loro utilizzo della dialettica è meramente al servizio altrui e serve per demolire ogni convinzione che allontana da quel sorriso pacifico. Al contempo sembrano persone con un senso "pragmatico" molto sviluppato, sanno muoversi nel mondo, lo conoscono - il Buddha in fin dei conti parla anche di come governare, di come essere discepoli laici ecc. Il Buddha se la prende proprio con coloro che però gli assomigliano di più, i philosophos. I philosophos infatti continuano a cercare e ragionare, continuano a prendere elementi di realtà e gli analizzano con la loro ragione e costruiscono modelli, ragionamenti molto più precisi di quanto può sognare l'uomo "di mondo". D'altronde i mathematikoi (qui inteso nella sua accezione matematica) sono catturati dalle forme e dalle regolarità della natura e dal logos che pare manifestarsi nella natura stessa. Gli eventi sono ordinati e non disordinati, per quanto molteplice il mondo possa essere i mathematikoi vedono il "kosmos" l'ordine, la regolarità che si intravede ad esempio nell'"uso" della natura della spirale: galassie, uragani, nautilus ecc. Oppure nella capacità degli insetti (!) di costruire alveari, magnifiche strutture costruite per semplice e inconsapevole istinto. I mathematikoi invece si dilettono a vedere l'immanenza del logos: quanto ci è difficile d'altronde fare una descrizione di cosa avviene quando versiamo l'acqua in un bicchiere se non ignoriamo molti dettagli - eppure sappiamo che una descrizione minuta c'è e in perfetta armonia la si può portare a ciò che vediamo nel nostro mondo macroscopico. La physike e la mathema d'altronde sono aspetti della philosophia, ossia semplicemente la volontà di apprendere. Ma il "philosophos" non è solo uno dei "mathematikoi", a lui interessa anche l'axiologia, lo studio dei valori. E utilizzando i concetti imparati nella matematica vede anche qui un ordine nei valori stessi e nota che siamo mossi di più verso ciò che ha più valore. E se c'è qualcosa che ha un valore massimo... questa cosa ci attirerà più di tutto il resto. Così da buon elleno si mette a inventarsi il concetto di Supremo Agathou (Bene). Ma cos'è? Cos'è? Non è forse necessario dunque utilizzare il logos che ci ha mostrato il kosmos (l'ordine) dei fenomeni più semplici anche per il "supremo bene"? Il rigore del logos d'altronde è proprio ciò che è fonte di garanzia. Eppure questo Risvegliato sembra dire che tutta questa ricerca è una sorta di "ostacolo" alla realizzazione vera del Bene. L'elleno però analizza gli insegnamenti di questo Risvegliato e ne ha un'impressione duplice. Da una parte una profonda stima e rispetto: come non stimare uno che ha rinunciato a tutto e ha sempre stampato sul viso quel sorriso beato, imperturbabile, radiante di "karuna" e pacifico? Ma l'elleno si accorge anche dell'incompletezza dell'insegnamento e di come esso sembra rivolto "a sbarazzarsi" del mondo e della natura - natura e mondo che hanno suscitato quella meraviglia che ha generato il philosophos. Questo al philosophos sembra quasi un "tradimento" - eppure anche lui nota un grandissimo "valore" negli insegnamenti del beato Asceta che ha davanti e non nega la possiblità che forse è davvero un Risvegliato. Sembra intuire la "pienezza" dietro alla "vacuità", la "positività" dietro la "negatività" dei suoi insegnamenti. Eppure il philosophos che per sua natura è skeptikos (cercatore di "evidenze", di prove...) vorrebbe una "teoria" anche "positiva" e non "meramente" negativa. E così l'elleno durante la notte diparte dal Tathagatha e dal Sangha lasciando perplesso soprattutto il mite Ananda. Il confuso elleno se ne va con le idee ancora più confuse di prime, con mille domande che Aharants e Tathagatha equiparano alle domande di un uomo che colpito da una freccia continua a rifiutare la cura prima di sapere chi è stato a scagliare la freccia, perchè (forse il colpevole è per una volta proprio la vittima ;D )... Il Dhamma rigoroso d'altronde è per chi ha risolutezza, non per gli skepticoi. Costoro se ne vanno nella notte accecati e turbati dal dubbio (pali: "vicikiccha"), dubbio nato però dalla contemplazione della regolarità del "kosmos". L'elleno dice: "E quesoto mi dice di rinunciare a logos e kosmos?". Perchè dovrei preferire la "vacuità" rispetto alla pienezza del "logos" che sembra evidente anche nel sasso che cade? Vorrebbe poi dimostrare l'esistenza dello stesso. Ma dall'altro lato vede il chiarore del viso di arhants e Buddhas che si godono la "vacuità" ;D
Eppure su una cosa philosophoi e il Buddha-Dhamma paiono essere d'accordo:
Vi è, monaci, un non-nato — un non-divenuto — un non-creato — un non-formato. Se non vi fosse quel non-nato — non-divenuto— non-creato — non-formato, non si potrebbe conoscere il processo di salvezza da ciò che è nato — divenuto — creato — formato. Ma poichè vi è un non-nato — un non-divenuto — un non-creato — un non-formato, si può conoscere il processo di salvezza da ciò che è nato — divenuto — creato — formato. (Udana 8.3)
Su questo l'accordo c'è. Forse per il philosophos non è ancora tempo di apprezzare fino in fondo l'insegnamento? Forse è tutto rimandato alla prossima vita quando si capirà cosa c'entra il Buddha-Dhamma con la relatività e la meccanica quantistica ::) Forse sì, forse no. Forse forse. Due "veicoli" di vita molto diversi che forse hanno tra di loro un mutuo rispetto ;)
Il "kosmos" (l'ordine) d'altronde è visto come un "io" o no? ;)
Forse il Buddha-Dhamma è il più grande enigma.
@Sari, ho una domanda. Altrove ho scritto questo: "Per esempio il buddhismo nega l'esistenza dell'io a livello di realtà ultima ma al contempo afferma il libero aribitrio, cosa che per me è fuori dalla mia comprensione (e credo che ciò lo facciano anche l'Advaita Vedanta, il daoismo ecc). Sinceramente io sono convinto che il libero arbitrio descriva qualcosa di "reale" e non solo "convenzionale" mentre sull'esistenza dell'"io individuale" a causa della mia attrazione ai vari sistemi filosofi buddhisti, vedanta ecc non so ancora esprimermi. Però ecco ritengo che il libero arbitirio (e quindi la responsabilità) si riferiscano a qualcosa di "reale"." Ossia nel caso del buddhismo le azioni umane siano "libere" pur non essendoci "qualcuno" che le faccia a livello di realtà ultima. Il che per me è completamente incomprensibile (ovviamente non sto dicendo che ciò falsifica il buddhismo). Anzi potrebbe essere la ragione per cui "profondo...è questo Dhamma, difficile da vedere, difficile da realizzare...oltre i limiti della ragione..deve essere sperimentato dal Saggio" (MN 72).
Confermi che nel buddhismo appunto esista il libero arbitrio? (ossia che esistano azioni "libere" ma non esista "in senso ultimo" anche "l'io". Altrimenti se così non fosse sarebbe "fatalismo" e non "buddhismo")
Però la "distorsione" che facciamo a causa di questo "libero arbitrio" è che ci sia un "io" reale a livello della realtà ultima a farlo. E quindi il "meccanismo" del samsara è mantenuto in essere proprio a causa di questa illusione per la quale un'azione in qualche modo "libera" sia causata da un "ente" (reale nel senso ultimo). Rinunciare dunque all'"io" significa anche di fatto rinunciare anche al "libero arbitrio", ossia rinunciare alla propria libertà, la quale in fin ci soddisferebbe solo se fosse "assoluta", cioè se potessimo scegliere senza alcuna influenza esterna, ossia se avessimo il controllo completo dell'esterno. Avendo noi solo un controllo incompleto (e condizionato) per "ottenere" la "vera libertà" dobbiamo alla fine rinunciare anche a questa libertà "relativa". In sostanza siamo per così dire "invitati" a scegliere di "rinunciare" al controllo incompleto/libertà relativa ma la possibilità di fare questa scelta è in fin dei conti data dall'esistenza di questa libertà relativa/controllo incompleto. L'unico modo per raggiungere quella "libertà incondizionata" che cerchiamo è paradossalmente quella di rinunciare alla libertà relativa stessa e all'io ;) devo dire che è un tema che ricorre molto nelle varie religioni seppur chiaramente in forme diverse.
E la "fortuna" di essere umani nel buddhismo è la seguente: grazie al fatto che possiamo capire questa cosa possiamo scegliere di rinunciare al nostro potere di controllare le cose e quindi in ultima analisi rinunciamo anche al libero arbitrio e il samsara cessa.
Credi che sia un'interpretazione corretta?
Ossia per così dire il Nibbana lo si "ottiene" quando si rinuncia a ciò che ci permette di scegliere di rinunciare. In sostanza posso scegliere di "lasciar andare" proprio quell'autonomia che mi permette di capire che la "perfetta liberazione" la trovo solo rinunciando all'autonomia (parziale) stessa. Certamente è un paradosso!
Però "le parole vere sembrano paradossali" (Dao-De-Jing, 78)
Citazione di: Apeiron il 24 Novembre 2017, 15:47:20 PM@Sari, ho una domanda. Altrove ho scritto questo: "Per esempio il buddhismo nega l'esistenza dell'io a livello di realtà ultima ma al contempo afferma il libero aribitrio, cosa che per me è fuori dalla mia comprensione (e credo che ciò lo facciano anche l'Advaita Vedanta, il daoismo ecc). Sinceramente io sono convinto che il libero arbitrio descriva qualcosa di "reale" e non solo "convenzionale" mentre sull'esistenza dell'"io individuale" a causa della mia attrazione ai vari sistemi filosofi buddhisti, vedanta ecc non so ancora esprimermi. Però ecco ritengo che il libero arbitirio (e quindi la responsabilità) si riferiscano a qualcosa di "reale"." Ossia nel caso del buddhismo le azioni umane siano "libere" pur non essendoci "qualcuno" che le faccia a livello di realtà ultima. Il che per me è completamente incomprensibile (ovviamente non sto dicendo che ciò falsifica il buddhismo). Anzi potrebbe essere la ragione per cui "profondo...è questo Dhamma, difficile da vedere, difficile da realizzare...oltre i limiti della ragione..deve essere sperimentato dal Saggio" (MN 72). Confermi che nel buddhismo appunto esista il libero arbitrio? (ossia che esistano azioni "libere" ma non esista "in senso ultimo" anche "l'io". Altrimenti se così non fosse sarebbe "fatalismo" e non "buddhismo")
Qual'è lo spazio di libertà di scelta per l'uomo, mi chiedi? Cosa intende il buddhismo con 'libero arbitrio'? Come sai nel Buddhismo non esiste questo concetto , nato nella teologia.Una volta ho sentito un monaco definire lo spazio di libertà dell'uomo come quello che ha una capra legata con la corda al recinto. Quindi un pò di libertà, ma condizionata. Ma quel "piccolo spazio" di libertà è fondamentale. Dov'è la nostra libertà? E' nella sensazione che proviamo nel contatto con il mondo da cui sorge nome e forma? E' possibile scegliere di non provare dolore mentre sperimentiamo una sensazione dolorosa? Chiaramente no. E' possibile scegliere di non provare piacere quando sperimentiamo una sensazione piacevole? Chiaramente no. E' possibile scegliere di non provare piacere o dolore mentre sperimentiamo una sensazione neutra? Chiaramente no. La nostra libertà sta tutta nel momento successivo all'esperienza. Sta nel come noi ci relazioniamo con l'esperienza che facciamo della vita. Questa libertà è molto più grande di quel che può sembrare. Perchè in questo momento di scelta se aggrapparci alla sensazione piacevole, dolorosa o neutra o non aggrapparci sta la possibilità della Liberazione. E il potere delle scelte che abbiamo rispetto alla percezione e alla reazione è enorme. Se reagiamo in un certo modo creiamo una causa di dolore, se reagiamo in un altro creiamo una causa di compassione, i cui effetti , per il Buddhismo, inevitabilmente si manifesteranno nella nostra e nell'altrui esistenza.Quindi si potrebbe dire che, per il Dhamma, la libertà dell'uomo è un problema di relazione tra la coscienza/vinnana e le sensazioni di cui fa esperienza. Non è possibile evitare di provare sensazioni , emozioni, pensieri, desideri, ecc. ( e in questo siamo come la capra...), ma possiamo scegliere se attaccarci o meno a queste sensazioni, emozioni, pensieri, desideri, ecc. ( e questo è per il Buddhismo lo spazio di libertà dell'uomo...).Tutto il resto è "teoria"... :) Quindi la risposta alla tua domanda è: Sì, per il Buddhismo l'uomo è libero se salire o no sulla zattera che lo traghetta all'"altra riva" e tanto più lo diventa, libero,coltivando il non-attaccamento, attraverso innumerevoli esistenze dolorose, generando frutti di libertà dal conosciuto ( quindi Kamma positivo...Kamma che, nella visione buddhista è generato dall'intenzione che motiva una scelta rispetto ad un'altra e non dall'azione in sè...), financo a liberarsi dall'attaccamento al non-attaccamento, dimorando alfine nel Nibbana, che è libero per definizione... ;D Spero che sia abbastanza capibile... :( In questi giorni non sto molto bene e prajna sonnecchia parecchio... :D :D
AMORE (Metta)
Siccome leggo spesso che il buddhismo viene ritenuto da molti una religione/filosofia nichilista riporto un brano molto illuminante, a mio parere ( e proprio proveniente dall'austera tradizione theravada...) che può far ben giudicare come infondate queste interpretazioni. Può essere inteso anche come meditazione su uno dei "quattro stati sublimi" ( gli altri sono compassione/karuna, gioia altruistica/mudita ed equanimità/upekkha )
L'amore non ha il desiderio di possedere, sapendo bene che in senso ultimo non c'è né ciò che è posseduto né chi possiede: questo è l'amore più grande.
L'amore non parla di un ' io ' e non lo concepisce, sapendo bene che questo cosiddetto ' io ' è solo un'illusione.
L'amore non fa scelte né esclusioni, sapendo bene che l'agire così crea ciò che è l'opposto dell'amore: l'antipatia, l'avversione e l'odio.
L'amore abbraccia tutti gli esseri grandi e piccoli, vicini e lontani,della terra, dell'acqua o dell'aria.
L'amore include imparzialmente tutti gli esseri viventi, e non solo quelli che ci sono utili, che ci piacciono o ci divertono.
L'amore abbraccia tutti gli esseri, di animo nobile o ignobile, buoni o malvagi. Coloro che sono buoni e di animo nobile perché l'amore fluisce verso di loro spontaneamente. Coloro che sono malvagi o di animo ignobile sono inclusi perchè sono quelli che hanno più bisogno d'amore. In molti di essi il seme della bontà può essere morto perché è mancato il calore necessario per la sua crescita, per il gelo di un mondo senza amore.
L'amore abbraccia tutti gli esseri, sapendo che noi siamo tutti pellegrini nel ciclo dell'esistenza, che siamo tutti soggetti alla medesima legge della sofferenza.
L'amore non è il fuoco sensuale che brucia, scotta e tortura, che infligge ferite invece che curarle, che ora arde e il momento dopo è estinto, lasciando più freddezza e solitudine di prima.
Invece l' amore accarezza con mano dolce ma ferma gli esseri sofferenti, sempre immutato nella sua compassione, incrollabile, indifferente alle reazioni che suscita. L' amore è il sollievo che rinfresca coloro che bruciano nel fuoco della sofferenza e della passione; è il tepore che ridà la vita a coloro che sono perduti nel freddo deserto della solitudine, che rabbrividiscono per il gelo di un mondo senza amore; a coloro il cui cuore è desolato e arido per le ripetute richieste di aiuto, per la più profonda disperazione.
L' amore è la sublime nobiltà del cuore e dell'intelletto che sa, capisce ed è pronto ad aiutare.
L' amore che è forza e che dà forza è l' amore più grande.
( tratto da "La Visione del Dhamma" di N. Thera)
Sì sulla questione della libertà sei stato molto comprensibile ;) anche perchè hai evidenziato che la parola "libertà" ha significati diversi e ciò causa confusione. Essendo il buddhismo "non fatalista" dice che la nostra libertà d'agire è "condizionata" dall'"ambiente esterno". Per esempio non posso scegliere di volare, viaggiare nel tempo o di teletrasportarmi su Andromeda. Però non è neanche vero che siamo "schiavi del fato" (il sistema di Schopenhauer crolla proprio qui: accettando lui il fatalismo di fatto è "impossibile" liberarsi se non si è già "destinati" ad essere liberati - quindi la sua "via d'uscita" in realtà è una mera descrizione - se ti va puoi leggere la discussione https://www.riflessioni.it/logos/tematiche-filosofiche-5/siamo-responsabili-delle-nostre-azioni/90/, più precisamente il mio pensiero lo trovi nelle (mie) risposte a pagina 6 e pagina 7...). Però in realtà anche se siamo in questo senso liberi siamo soggetti a sofferenza, "cattiveria" nostra e altrui, avversioni, attaccamenti ecc quindi in realtà questa "libertà condizionata" non ci soddisfa in quanto appunto non siamo veramente "liberi" - ossia non troviamo la "pace" che cerchiamo. Quindi in sostanza il buddhismo ci dice che appunto possiamo avere la (vera) libertà che cerchiamo - l'incondizionato Nibbana - che però otteniamo quando "lasciamo andare", ossia in ultima analisi quando "lasciamo andare" le pretese che nascono dalla nostra "libertà condizionata".
Riguardo alla questione del nichilismo. Sì concordo con te che il buddhismo con testi come quello che hai citato di N(yaponika?) Thera non può essere accusato di nichilismo, anzi. Il problema però è che agli occhi degli occidentali (in particolare, ma non solo) "spogliare" la realtà ultima di tutti i concetti fa in modo che parole come "rifugio, incondizionato" ecc sembrino solo "adornamenti del nulla". Ormai sono completamente convinto (grazie Sari ;) ) che il Nirvana è una "Realtà trascendente" perchè infatti il "nulla" sarebbe condizionato dal "sentiero buddhista" e non "incondizionato". Però a partire dall'ottocento si è cominciato a virare verso la negazione della trascendenza e di conseguenza anche le religioni e e le filosofie orientali sono state interpretate in questo modo (d'altronde l'equazione Nibbana=Nulla fu forse sostenuta solo nell'antichita dalla scuola buddhista Sautrantika ma ormai ne dubito e credo che sia un'invenzione "moderna" che piace a chi non ammette l'esistenza di realtà "oltre i nostri limiti investigativi"). Schopenhauer invece - bisogna dargli questo merito - fu uno dei pochi a capire che dietro alla "povertà" concettuale in realtà si "nascondeva" una Realtà Ultima.
Il buddhismo più che altro ha un problema logico tra "etica" e "non-sé" (anatta): per esempio se mi convinco che gli "esseri" a livello di realtà ultima "non esistono" potrei cadere nel nichilismo (rischio in realtà condiviso da tutte quelle scuole di pensiero che non ammettono l'esistenza in senso ultimo dell' "individuo", quindi di fatto è un rischio presente anche tra i monisti). Inoltre "rimuovendo" anche la possibilità di identificarsi "col tutto" il buddhismo dà l'impressione - a livello dottrinale - di essere una sorta di "fuga". Però, secondo me, già il fatto che si dia un'importanza così forte a "karuna" e a "metta" (compassione e amore) fa in modo che il buddhismo non sia nichilista né a livello del "nibbana" né a livello dell'etica. Ammetto che anche per me è incomprensibile l'esistenza dell'azione libera senza l'esistenza di qualche "centro" che controlla le azioni. Quindi sull'(in)esistenza dell'individuo "a livello di realtà ultima" ho ancora forti dubbi anche se la "metafisica" (e non solo, anche la "fisica") suggerisce proprio questo.
D'altronde è anche vero che "profondo...è questo Dhamma, difficile da vedere, difficile da realizzare...oltre i limiti della ragione..deve essere sperimentato dal Saggio" (MN 72). "Oltre i limiti della ragione"... Credo che la "fede" nel buddhismo inizi proprio dal capire che è "oltre i limiti della ragione" e dall'accettazione che questi inevitabili dubbi verranno col tempo e (tanta :-[ ) pratica superati. Quindi la parola "nichilismo" per il buddhismo è completamente fuori luogo avendo esso un'etica della "compassione universale" (compassione rivolta a tutti gli esseri senzienti ::) ) e una Realtà Ultima (il Nibbana). Di certo però è una dottrina che rischia più di un'altra di essere scambiata per "nichilismo".
P.S. Buona guarigione Sari!
@Apeiron, il giovane filosofo, scrive:
Il buddhismo più che altro ha un problema logico tra "etica" e "non-sé" (anatta): per esempio se mi convinco che gli "esseri" a livello di realtà ultima "non esistono" potrei cadere nel nichilismo (rischio in realtà condiviso da tutte quelle scuole di pensiero che non ammettono l'esistenza in senso ultimo dell' "individuo", quindi di fatto è un rischio presente anche tra i monisti). Inoltre "rimuovendo" anche la possibilità di identificarsi "col tutto" il buddhismo dà l'impressione - a livello dottrinale - di essere una sorta di "fuga". Però, secondo me, già il fatto che si dia un'importanza così forte a "karuna" e a "metta" (compassione e amore) fa in modo che il buddhismo non sia nichilista né a livello del "nibbana" né a livello dell'etica. Ammetto che anche per me è incomprensibile l'esistenza dell'azione libera senza l'esistenza di qualche "centro" che controlla le azioni. Quindi sull'(in)esistenza dell'individuo "a livello di realtà ultima" ho ancora forti dubbi anche se la "metafisica" (e non solo, anche la "fisica") suggerisce proprio questo.
Ah, l'anatta (anatman in sanscrito)!...Croce e delizia di tutti quelli che si avvicinano al Dhamma dell'antico Asceta. Che diavolo vuol dire che non c'è l' ' io ' ? Lo stesso Siddhartha davanti da un asceta che lo interrogava rimase in silenzio e poi spiegò ad Ananda che, se avesse detto che l'io/mio esiste avrebbe significato abbracciare le teorie degli 'eternalisti', e se invece avesse detto che 'non esiste' il povero interrogante se ne sarebbe andato confuso dicendo a se stesso: "Come è possibile? Prima avevo l'io e adesso non c'è più!". Più o meno è così se non ricordo male...
Ora bisogna capire che la psicologia del Buddhismo antico , analizzando la personalità umana, la divise in cinque fattori, i famosi 'mucchi di raccolta' (panc'upadanakkhandha):
rupa, 'forma' ma qui inteso come 'corpo'
vedana, 'sensazione' e 'sentimento'
sanna. 'ideazione', che comprende anche la 'percezione'
sankhara, 'atti creativi'
vinnana, 'coscienza'
Se confrontiamo l'analisi della personalità secondo la concezione occidentale con la visione buddhista, troviamo somiglianze ma anche differenze. Per esempio, nel buddhismo delle origini, non c'è un termine indicante la 'memoria', in quanto la sua sede viene inclusa in vinnana (coscienza). Il pensiero e l'immaginazione rappresentano delle forme di sanna (processo di ideazione..), ma i loro termini più specifici ( vitakka e papanca) non sono compresi nei khandha...
Secondo la concezione occidentale la personalità umana è un' "unità organizzata di caratteristiche e processi" (R.Johansson). La concezione buddhista non è molto diversa , ma il carattere di 'processo', le funzioni delle 'parti' e la mancanza di effettiva 'unità' vengono marcatamente sottolineate. Per fare un esempio in un brano (Samyutta N.IV) si racconta di un re che sente per la prima volta la musica melodiosa di una vina ** e ne prova una così grande soddisfazione che vuole vedere lo strumento. Gli viene mostrato , ma...lui vuole vedere la musica e si arrabbia come una bestia perché nessuno gliela fa 'vedere'. I servi (poveracci...) tentano di spiegargli che la vina "parla" perché è composta di varie parti, ma il re non si dà per vinto e smonta in tanti pezzi la vina e poi, imbufalito, la fa bruciare...ma non trova la musica (ovviamente)!
Nello stesso modo un bhikkhu indaga sul corpo, sulla sensazione, sull'ideazione,sui processi creativi, sulla coscienza ( ossia sui 'mucchi di raccolta'...), ma non trova ni-ente di simile a un ' io ' o a un ' mio ' o a un ' io sono '.
La vina rappresenta un'unità funzionale. Senza che le parti siano collegate correttamente e organizzate, non si può avere nessuna musica.
La personalità umana, afferma il buddhismo delle origini, è come la musica , ammettendo l'importanza dell'organizzazione delle parti che la compongono (rupa, vedana, sanna,sankhara e vinnana), ma mettendo l'accento però sulle parti. La musica non si può trovare da nessuna parte: non si ammette perciò nessuna unità reale (permanente) come un'anima, ossia niente con cui ci si posso identificare.
Notiamo però che la 'musica' esiste , anche se la sua esistenza è un prodotto della corretta combinazione e configurazione delle sue parti. Similmente la personalità umana ( io empirico) esiste, ma sempre e solo come prodotto dell'unità funzionale delle parti mentali che la compongono. C'è l'albero, ma non c'è qualcosa di permanente che potremmo definire "essenza dell'albero", e questa è quella che viene definita come 'vacuità' dell'albero o l''anatta' dell'albero...
In ultima analisi, per il buddhismo, la personalità è un 'processo creativo' ossia sankhara...Lo stesso concetto si trova espresso nella frase: "Il corpo creato è da lui correttamente conosciuto come creato".
Per il buddhismo originario il fattore 'percezione' è fondamentale per la costruzione del 'mondo', una sua parte essenziale. La percezione 'crea' il nostro mondo, quello dove 'dimora' la nostra mente condizionata, creandosi persino l'immagine del proprio corpo.
Tra i vari fattori della personalità che erroneamente chiamiamo 'io/mio' la parte più importante è quella della 'coscienza' (vinnana) perché è questo il fattore che, secondo il buddhismo, riveste il ruole principale in quell'altro processo chiamato 'ri-nascita' ( come un processo che non sorge dal nulla e che sparisce nel nulla [nichilismo] il buddhismo concepisce solo un 'impermanente trasformazione dei processi vuoti di esistenza intrinseca...un "flusso" di vinnana condizionata, definizione mia ...).
"Mentre egli, osservando la soddisfazione, si attacca, si lega e si infatua, i cinque fattori della personalità continuano l'accumulazione per il futuro" ( Majjhima nikaya III )
Per il buddhismo non abbiamo 'entità' ma 'processi'. La personalità è un 'processo' di accumulazione, ma quell'accumulazione è di 'quel' processo e di nessun altro, anche se il processo viene condizionato da altri processi. Tutti i processi, per il buddhismo, possono essere scissi in più atti (sankhara), di carattere psicofisico, dinamico e personale e caratterizzati da un aspetto morale ( questi sankhara assumono il nome famoso ormai di kamma/karma quando si sottolinea il loro aspetto morale). Siccome la coscienza/vinnana è anch'essa un processo dinamico e condizionato, la sua esistenza non sarebbe possibile senza i sankhara. Quindi l'aspetto morale/karmico dei sankhara condiziona il processo morale della coscienza. Con questa costituzione della mente umana è possibile avere, secondo la psicologia buddhista antica, impressioni, fare esperienza di sensazioni e sentimenti (vedana) e soprattutto ( molto importante questo punto, a parer mio...) "provare forti desideri" ( la famosa tanha , ossia la "sete di esistere" , di soddisfazione, di brama egoistica...).
Con questo 'materiale' viene edificata una determinata personalità (bhava) che fa esperienza di dukkha (sofferenza), la caratteristica principale della vita secondo il Dhamma .
Portatrice di tutti questi 'processi' è la mente (citta). Citta però non ha "sostanza intrinseca" neppure lei e nemmeno costituisce un ' io ', nemmeno come 'Vero sé' o "Sè purificato" o in qualunque altro modo lo si voglia definire...la mente è la mente e basta... :)
**Il vina è considerato uno dei più antichi strumenti musicali indiani , padre del sitar.
Grazie della risposta Sari ;)
Il punto è che un "ignorante uomo mondano" come me quando direziona "metta" o "karuna" a qualcuno non ha in mente che quel "qualcuno" è un "processo" ma "metta" e "karuna" funzionano proprio perchè - a livello dell'uomo mondano - si pensa che ci sia un "tu" reale. Se invece davanti a un "essere" contemplo la sua inesistenza intrinseca - se sono un ignorante uomo mondano - riesco a direzionare verso di "esso" una buona azione? Probabilmente un "arahat" (o forse anche un "vincitore della corrente") sì ma uno che sente per la prima volta che gli esseri sono "vuoti" ha certamente un po' di perplessità in proposito, motivo per cui anche tu dicevi che "anatta" è la fine del percorso e non l'inizio. Concordo comunque con te sul fatto che dal punto di vista "ontologico" siamo "processi" più che "cose".
Nota personale: personalmene quando contemplo la mia inessenzialità do meno importanza a parole come "sii un'isola per te stesso" o ad altri insegnamenti "etici". E anche la meditazione sul fatto che "il corpo non è mio, non è il mio sé, non sono io...la mia coscienza non è mia, non è il mio sé, non sono io" ecc in genere mi da l'effetto di "dissociarmi" dalla realtà. Credo che il "vero sé" che circola nel buddhismo mahayana sia un insegnamento che serve proprio a questo. Altrimenti in fin dei conti Sam Harris, Bathcelor, i buddhisti secolari ecc non hanno tutti i torti quando affermano che le neuro-scienze hanno "confermato" la teoria del Buddha e che il Buddha era una sorta di "materialista" che è stato, per così dire, frainteso per millenni.
Comunque la mia lettura personale non vede il buddhismo come nichilismo. Infatti non credo che "Nirvana=nulla" e che l'insegnamento etico è tanto importante come quello "filosofico" (se non di più), visto che quello filosofico se "gestito male" può dare molti problemi.
Ergo: nuovamente l'unico modo per uscire da questo empasse secondo me è capire che alcune cose non si possono capire ;) anche se per un "logico" è una cosa tremendamente difficile da accettare (e in effetti non l'ho ancora fatto ;))
P.S. Ho modificato il post perchè in esso c'era troppa "avversione". Ogni tanto ci casco ancora: finisco per dire cose in cui ho l'illusione di sapere quando invece non so. Chiedo perdono.
Una domanda è d'obbligo sulla questione del nichilismo. Non credo che in realtà sia stata toccata in questo topic.
Qual è la vera (o "principale") motivazione per cui una persona cerca il Nibbana?
Vuole solo liberare sé e gli altri dalla sofferenza? Ossia l'obbiettivo è estinguere la sofferenza (in generale)?
O è valorizzare l'esistenza?
La risposta dà luce sulla questione buddhismo-nichilismo ;)
Credo che sia importante la seguente riflessione.
https://www.canonepali.net/2015/06/snp-1-8-karaniya-metta-sutta-lamore-universale/ Metta sutta... qui non c'è nessuna traccia di nichilismo e mi pare che si valorizzi sia l'esistenza e si dice che anche la sofferenza (dukkha) può avere valore. Quindi no, per me buddhismo non è nichilismo. Quello che non mi convince però è questo completa ricerca della cessazione della sofferenza prima di ogni cosa. Mi sembra che contraddica anche la "Metta Sutta".
Con buona volontà (metta) per il cosmo intero,
si coltivi un cuore illimitato:
Senza odio.
Per un essere così c'è importanza dunque di estinguere la propria sofferenza? Per il cosmo intero... Bodhisattva?
Davvero è così importante stabilire se si è vero "atta" o "anatta" per un essere del genere?
"Metta" dà valore all'esistenza.
https://www.canonepali.net/2015/06/an-11-16-metta-sutta-lamore-universale/. Secondo questa sutta:
"Monaci, per colui che coltiva, sviluppa, insegue, prende per base, stabilizza, consolida ed intraprende bene la liberazione della coscienza attraverso l'amore universale, può aspettarsi undici benefici. Quali undici?
Dorme placidamente si sveglia placidamente, non vi sono incubi nel suo sonno. È caro agli esseri umani, caro agli esseri sovrumani. I deva lo proteggono. Né fuoco né veleno né armi possono toccarlo. La sua mente si concentra velocemente. Il suo colorito è chiaro. Muore senza paura o confusione e – non raggiunge il Nibbana – rinasce sempre nei mondi di Brahma.
Ecco gli undici benefici per colui che coltiva, sviluppa, insegue, prende per base, stabilizza, consolida ed intraprende bene la liberazione della coscienza attraverso l'amore universale, può aspettarsi undici benefici."
"Non raggiunge il Nibbana..." E cosa gli interessa se ama il cosmo intero?? A volte in queste frasi mi sembra incontrare contraddizioni. Metta/karuna vorrebbero il bene per tutti. Il rigido monachesimo e la pratica personale impongono che si cerchi la liberazione personale.
A me sembra di vedere un contrasto. Forse i Mahayana con la loro dottrina del Bodhisattva e la natura di Buddha hanno appunto cercato di conciliare le due cose.
Mah è uno dei grandi misteri del buddhismo.
Ad ogni modo "è davvero umanamente possibile avere una buona volontà per il cosmo intero?"
Risposta: uno stato del genere è impossibile da tenere per sempre quindi è meglio non desiderarlo.
O forse Buddha ha un messaggio ancora più "strabiliante": anche una "vita eterna" in un reame "deva" non ci soddisferebbe per tutta l'eternità. (Ovviamente non tutto ciò che eterno è per forza piacevole. Un'eterno mal di testa non è il massimo, per esempio. Quindi "anicca" - impermanenza - non è l'unica causa di "dukkha", la sofferenza)
Quindi il Nibbana è meglio di ogni esistenza individuale. Tuttavia a differenza del Sari trovo la posizione buddhista molto ambigua. Mi pare che in fin dei conti sono possibili le seguenti interpretazioni: nirvana=nulla, nirvana="cosa" incondizionata fuori dal samsara, nirvana= samsara "vissuto" in modo diverso, nirvana= mente eterna...
Il che confonde e mi pare una cosa assurda che sia tutto così fumoso. Eppure agli antichi indiani bastava ascoltare un discorso ed era fatta. Perchè? Forse solo un contemporaneo del Buddha poteva capirlo? Mah, possibile.
@Apeiron scrive:
l'insegnamento etico è tanto importante come quello "filosofico" (se non di più), visto che quello filosofico se "gestito male" può dare molti problemi.
Il Dhamma buddhista senza fondamento in sila ( moralità) e volto esclusivamente alla speculazione filosofica può portare a tutti quei problemi che giustamente evidenzi. Pratica e riflessione sono come due gambe che permettono una corretta andatura. Se togli una delle due iniziano le difficoltà ( e , in ogni caso è preferibile azzoppare la gamba 'filosofica', rispetto a quella 'etica'. Una persona con una buona condotta morale, ma tardo nella riflessione filosofica sul Dhamma, procede più speditamente verso l'altra riva che non una persona malvagia ma dotta nella filosofia buddhista...).
Ergo: nuovamente l'unico modo per uscire da questo empasse secondo me è capire che alcune cose non si possono capire.
Se intendi 'capire' intellettualmente il Nibbana direi che...no! Non si può capire. Ma si può sperimentare come uno stato reale...parlare 'intorno al Nibbana' è sempre quel famoso dito che indica la luna...e aggiungo: per fortuna che è così. Che cosa "misera" sarebbe il NIbbana se potessimo 'racchiuderlo' in una formula, una frase, un pensiero...
Ogni tanto ci casco ancora: finisco per dire cose in cui ho l'illusione di sapere quando invece non so.
Non ti preoccupare, capita sempre anche a me... :) Ma con gli anni si ottiene una specie di 'faccia di bronzo' :-[ . E' il famoso problema della presunzione ( di sapere di più, uguale o di meno degli altri...) che ci attanaglia un pò tutti, chi più chi meno...
alcune cose non si possono capire , anche se per un "logico" è una cosa tremendamente difficile.
Io la vedo così: se studi il funzionamento dell'universo usa la logica fino in fondo, usala tutta. Se pratichi il Dhamma usa la logica fino al punto in cui il tuo 'cuore' ti dirà che puoi dimenticartene ( per un pò... ;D ).
Non vedo contrapposizione tra le due cose. Si può usare la logica dove serve e praticare il Dhamma dove serve ...non ci sono due praticanti uguali su questa terra. Non penso che il Dhamma sia semplicemente credere alle parole di un asceta morto 2.500 anni fa. Spesso facciamo questo errore, ma in realtà l'ispirazione, la volontà e la pratica fanno sì che il Dhamma diventi una cosa 'nostra'. E' la 'nostra' medicina, non quella di qualcun altro. E come la storia stessa del Buddhismo ci insegna, si può essere altamente 'creativi' nel renderlo 'carne nostra'...con 'frutti' meravigliosi, a volte.
Qual è la vera (o "principale") motivazione per cui una persona cerca il Nibbana?
E' troppo semplicistico dire:" Per la liberazione dalla sofferenza". E' il voler vedere e capire qualcosa che è più profondo della sofferenza stessa, qualcosa che la genera e che ci 'imprigiona'. Vista la radice della sofferenza la si recide per essere liberi, per uscire dalla gabbia. Volere il Nibbana è voler realizzare la vera natura della nostra mente, liberata dalla gabbia. Una mente che trova 'dimora' in prajna ( saggezza,visione intuitiva, ecc.) e in metta/karuna ( amore, compassione, ecc.).
Vuole solo liberare sé e gli altri dalla sofferenza? Ossia l'obbiettivo è estinguere la sofferenza (in generale)?
O è valorizzare l'esistenza?
Le due cose vanno insieme. E' proprio perché cerco di estinguere la sofferenza in me e negli altri che valorizzo la mia e l'altrui esistenza. Si tratta di 'togliere' per 'far risplendere'. Non è un 'togliere' ( la sofferenza...) fine a se stesso. Se una pietra preziosa è coperta di fango non può essere vista la sua bellezza...
Metta sutta... qui non c'è nessuna traccia di nichilismo e mi pare che si valorizzi sia l'esistenza e si dice che anche la sofferenza (dukkha) può avere valore.
La sofferenza può aver valore perché ci 'pungola', ci interroga e perché, osservando dukkha, spesso un moto spontaneo di compassione fa breccia attraverso la brama , l'odio e l'illusione, dandoci come una 'scintilla' di Nibbana...questa scintilla può accendere il desiderio positivo di sconfiggere la trama e l'ordito delle tre robuste radici del male che soffocano il nostro 'cuore'...
Tutte le grandi personalità spirituali sono partite nel loro cammino quando si sono trovate faccia a faccia con la sofferenza (Siddhartha e Francesco d'Assisi, solo per citare due nomi conosciuti da tutti...).
Anche il mio personale interesse per il Buddhismo è nato dall'esperienza della sofferenza.
Per un essere così c'è importanza dunque di estinguere la propria sofferenza? Per il cosmo intero... Bodhisattva?
Davvero è così importante stabilire se si è vero "atta" o "anatta" per un essere del genere?
"Metta" dà valore all'esistenza.
Direi che l'importanza di estinguere in se stessi la sofferenza è proprio un veicolo per poter poi indicare la strada anche ad altri. E' impossibile per un cieco indicare la giusta via da percorrere a chi gli chiede un'indicazione per giungere in un certo luogo. Se tolgo l'illusorio io/mio dove sta la mia sofferenza? Non è forse semplicemente parte di una sofferenza condivisa, molto più ampia, che ci tiene illusoriamente separati?
Se sperimentiamo 'metta' è cosa salutare/bene, ma nel Buddhismo non si intende la sofferenza come nell'interpretazione cristiana per cui riveste un valore in quanto ci fa partecipi della sofferenza del Cristo nella Sua opera di redenzione. Sperimentare dukkha per il Buddhismo è insano/male e bisogna liberarsi da questo 'fango' e aiutare tutti gli esseri senzienti a farlo ( se lo vogliono ovviamente... :) ).
Prajna/panna e metta/karuna possiamo intenderli come qualcosa di positivo che si oppone a qualcosa di negativo (avidya e tanha).
I primi ci liberano, i secondi ci incatenano...Oppure, se si preferisce: i primi fanno risplendere, i secondi oscurano.
"Non raggiunge il Nibbana..." E cosa gli interessa se ama il cosmo intero?? A volte in queste frasi mi sembra incontrare contraddizioni. Metta/karuna vorrebbero il bene per tutti. Il rigido monachesimo e la pratica personale impongono che si cerchi la liberazione personale.
A me sembra di vedere un contrasto. Forse i Mahayana con la loro dottrina del Bodhisattva e la natura di Buddha hanno appunto cercato di conciliare le due cose.
Anche noi siamo bisognosi di metta e karuna verso noi stessi. Vogliamo il nostro bene forse? Bene che non è certo volere la soddisfazione dell'io/mio, magari a scapito del bene altrui. Metta e karuna sono così 'potenti' che la loro pratica meditativa può portare all'accesso dei jhana, in praticanti in cui la 'nobiltà' di questi sentimenti è molto sviluppata. Ad alcuni basta la visualizzazione di un essere immerso nella sofferenza per realizzare il primo jhana. Allora sparisce ogni senso di separazione e karuna fluisce spontaneamente.
Ecco, o monaci, un discepolo che fissa l'attenzione nel pervadere una direzione con il suo cuore colmo di compassione, e similmente la seconda, la terza e la quarta direzione; lo stesso per ciò che è sopra, per ciò che è sotto e per ciò che sta attorno; egli fissa l'attenzione nel pervadere il mondo intero, ovunque e imparzialmente, con il cuore colmo di compassione, che trabocca, che è divenuto enorme, immenso, libero dall'inimicizia e libero dalla pena. (Digha Nikaya 13)
Grazie Sari, le risposte sono in verità molto chiare :)
A Savatthi. Un bramano cosmologo si recò dal Benedetto e,ivi giunto, lo salutò con rispetto. Dopo averlo salutato, si sedette accanto. Appena seduto, disse al Benedetto: "Allora, Maestro Gotama, tutto esiste? "
"'Tutto esiste' è la forma più alta della cosmologia, bramano."
"Allora, Maestro Gotama, niente esiste? "
"'Niente esiste' è la seconda forma della cosmologia, bramano."
"Allora tutto è Unicità? "
"'Tutto è Unicità' è la terza forma della cosmologia, bramano."
"Allora, tutto è Molteplice? "
"'Tutto è Molteplice' è la quarta forma della cosmologia, bramano. Evitando questi due estremi, il Tathagata insegna la via di mezzo del Dhamma"
https://www.canonepali.net/2015/05/sn-12-48-lokayatika-sutta-il-cosmologo/
Certe volte non capisco se l'ontologia buddhista sia semplicemente il "senso comune" (e quindi in sostanza la filosofia è l'errore del mondo per un buddhista) o se in realtà ci sia qualcosa di più. "Un albero è un albero". Lo dice anche uno che non ha mai meditato, non ha mai studiato e non gli interessa nulla di questi temi. Ma dunque supponiamo che il Buddha avesse un'ontologia. Certe volte comunque non riesco a capire alcune risposte del Buddha. "Evitando questi due estremi, il Tathagata insegna la via di mezzo del Dhamma" - cosa vuol dire? ;D
Ad esempio l'insieme dei 31 piano dell'esistenza: esistono o non esistono? Risposta: "evitando i due estremi, il Tathagatha insegna la via di mezzo" LOL
Non esiste un "sostrato" ontologico, né esistenza né non-esistenza...
Certe affermazioni mi sembrano complete assurdità. Non ci posso fare niente.
"profondo...è questo Dhamma, difficile da vedere, difficile da realizzare...oltre i limiti della ragione..deve essere sperimentato dal Saggio" (MN 72)
Sì però è anche vero che il non-senso ha esattamente in comune con "l'incomprensibile" il fatto che la ragione non ci può arrivare.
Quindi:
Se intendi 'capire' intellettualmente il Nibbana direi che...no! Non si può capire. Ma si può sperimentare come uno stato reale...parlare 'intorno al Nibbana' è sempre quel famoso dito che indica la luna...e aggiungo: per fortuna che è così. Che cosa "misera" sarebbe il NIbbana se potessimo 'racchiuderlo' in una formula, una frase, un pensiero...
Posso capire che ad esempio il "drago che vola sopra Padova" (menzionato un anno fa circa) non esiste. Ovviamente non cerco una comprensione completa del "Dhamma" e del "Nibbana". Cerco però una comprensione parziale di esso, così come ad esempio non comprendo cos'è un tumore senza studiare (molti anni) medicina, però lo comprendo in parte se una persona me lo spiega. "Nascondersi" dietro a "evitando i due estremi..." non significa nulla a livello di ragione. Perchè in fin dei conti un albero "esiste" finché non cade - non c'è nulla di problematico ad usare l'estremo dell'esistenza, certamente davanti ad un albero nella mia mente di "uomo mondano" non vedo un'esistenza eterna o permanente. Ad ogni modo stando alla descrizione del Nibbana:
"Nibbana è felicità...precisamente dove non ci sono sensazioni è felicità."
La ragione ci dice una cosa chiara ed inequivocabile se non si ammette l'esistenza di una "sostanza", un'"essenza" alla base dei fenomeni: se tolti i condizionamenti non c'è un "sostrato", una "cosa", che normalmente viene "rivestita" dai condizionamenti. Il messaggio è chiaro e non ci sono ambiguità, visto che in fin dei conti anatta significa proprio che "non esistono "sostanze"". Ossia che linterpretazione "nichilista" è l'unica logicamente impeccabile. Non c'è davvero niente nei discorsi che possa contraddirla, visto che appunto "tutti gli aggregati sono impermanenti" - "non c'è alcun sé né negli aggregati né fuori da essi". Quindi sì - bisogna infine riconoscerlo - l'analisi dei testi fatta con razionalità la dice lunga: il nirvana è la non-esistenza.
A questo punto ritengo che il filosofo "buddhista" o ammette dunque questo oppure è costretto a dire che la ragione è completamente inutile nei riguardi della comprensione anche solo parziale del Nibbana, ossia del scopo ultimo della sua religione/filosofia. Quindi rimangono due alternative.
1) Il nirvana è la non-esistenza. Perfettamente logica e coerente: in fin dei conti l'esistenza è sofferenza. Quindi la non-esistenza non è la sofferenza. In fin dei conti la non-esistenza è preferibile alla tortura anche per un non-buddhista. E il buddhismo è estremamente chiaro nel dire che qualsiasi tipo di vita è "sofferenza". Il nirvana in fin dei conti è la "cessazione dell'esistenza": tolte le cause dell'esistenza (che è sofferenza), l'esistenza cessa. Termina. Fine.
2)il nirvana "esiste" ma è "ineffabile". Illogico. Passaggi come questo: "profondo...è questo Dhamma, difficile da vedere, difficile da realizzare...oltre i limiti della ragione..deve essere sperimentato dal Saggio" (MN 72). Ad ogni modo personalmente non ho alcuna difficoltà a comprendere la "coproduzione condizionata" (Y è causato da X, tolto X cade Y), il perno della filosofia buddhista. Non mi sembra nemmeno così "oltre i limiti della ragione". Ovviamente rimane comunque la possibilità che dietro ci sia "qualcosa". Ad ogni modo si può ammettere che qualcosa "sfugga". Ma a questo punto la filosofia è completamente inutile. Si può al massimo prendere come assioma che "il nirvana è ineffabile".
Non vedo un'alternativa tra queste due. Quindi:
"Io la vedo così: se studi il funzionamento dell'universo usa la logica fino in fondo, usala tutta. Se pratichi il Dhamma usa la logica fino al punto in cui il tuo 'cuore' ti dirà che puoi dimenticartene ( per un pò... (https://www.riflessioni.it/logos/Smileys/default/grin.gif) ).
Non vedo contrapposizione tra le due cose. Si può usare la logica dove serve e praticare il Dhamma dove serve ...non ci sono due praticanti uguali su questa terra. Non penso che il Dhamma sia semplicemente credere alle parole di un asceta morto 2.500 anni fa."
Da un punto di vista "umano" è un ottimo consiglio, di cui ti ringrazio. Non credo che personalmente riuscirò a metterlo in pratica (almeno in questa vita ;D ) ma il lettore interessato può certamente utilizzarlo.
Ma ahimé devo dire che la logica al massimo stabilisce solo che "il Nibbana è la liberazione dalla sofferenza". Niente di più. E a rigore di logica l'unica vita "nobile", proposta dal buddhismo, è cercare la "liberazione della sofferenza". Quindi capisco il mio collega fisico Ajahn Brahm, in fin dei conti. Ovviamente è immorale lasciar soffrire anche sé stessi indefinitivamente. L'esistenza ciclica è una successione di esperienze che in senso ultimo non soddisfano ed è un "male" continuarle. La fisica e la filosofia non danno una "vera felciità", la quale non esiste. Ergo: siccome l'esistenza è sofferenza (e quindi è "male") bisogna fare di tutto per liberarsene. La liberazione avviene quando non si vuole più niente, quindi la "cessazione dell'esistenza" è in fin dei conti un obbiettivo coerente con chi ritiene che l'esistenza è sofferenza. Lo stesso pensare che il nirvana non sia il nulla in fin dei conti è teorizzare, impegnare la mente di concetti. Ergo per un "liberato" "esistere" o "non esistere" è completamente indifferente.
Se il nirvana è invece "ineffabile", come suggeriscono alcuni testi... Beh allora comunque la logica, che causa solo dubbi e distoglie dal percorso (l'entrata nella corrente richiede che il dubbio venga abbandonato...), è un male. Quindi in fin dei conti è inutile studiare approfonditamente i discorsi, visto che:
[Upasiva:]
Colui che si estingue:
non esiste,
o eternamente
è libero dal dolore?
Ti prego, saggio, spiegami
come questo fenomeno è stato da te ben compreso.
[Il Buddha:]
Colui che si estingue
non ha più forma
ciò che dicono gli altri —
per lui non esiste.
Quando tutti i fenomeni sono fatti distrutti
ogni loro significato
è stato anch'esso distrutto.
https://www.canonepali.net/2015/06/snp-5-6-upasiva-manava-puccha-le-domande-di-upasiva/
Quindi probabilmente queste mie perplessità sono semplicemente una perdita di tempo (e ahimé quanto ne ho perso!) ;D apparentemente i dibattiti sul "fine ultimo" del buddhismo sono totalmente inutili. Personalmente protendo per l'alternativa dell'ineffabilità, però purtroppo l'alta alternativa è coerente con i testi canonici, secondo me e con la motivazione dell'estinzione della sofferenza.
Forse è stato anche voluta questa ambiguità per due motivi.
1) in questo modo vengono attrati sia gli "eternalisti" che i "nichilisti", visto che in fondo i testi hanno questa ambiguità.
2) in realtà si riconosce l'ineffabilità della realtà ultima proprio col "Nobile Silenzio", ossia non dicendo niente ma confutando solamente le altre prospettive. In questo modo si spiegano affermazioni per le quali il "Tathagatha" non può essere misurato.
@Apeiron
Qual'è il punto di arrivo di tutto questo studio attorno al Dhamma? E c'è un punto d'arrivo? Ci sarà mai una fine? Sono domande legittime ma che riguardano lo studio 'esteriore' delle scritture e non lo studio interiore. Lo studio interiore richiede di studiare questo corpo e questa mente, perché è in questo corpo e in questa mente che nascono le nostre brame egoistiche, le nostre invincibili avversioni e le nostre illusioni di trovare nelle cose una soddisfazione duratura. Questo è per il buddhismo il vero studio, la retta pratica del Dhamma...
Studiare i testi senza praticare sila e samadhi ci porta solamente ad essere una specie di mestolo in una zuppiera.: sta dentro la zuppiera tutto il giorno ma non conosce il sapore della minestra.
Senza la pratica del non attaccamento, della rinuncia, lo studio filosofico dei sutra, del Canone, ecc. non serve a molto. Possiamo avere una buona conoscenza teorica, conoscere la psicologia buddhista, la sua logica, ecc. ma tutto questo rischia di non produrre alcun risultato. Buddha stesso invita a studiare il Dhamma ma poi a rinunciare ad agire male con il corpo, la parola e la mente; a coltivare invece atti benevoli, parole benevoli e pensieri benevoli... Achaan Chah soleva ripetere che l' Ottuplice Sentiero si compone di otto fattori e che questi fattori non sono altro che il nostro corpo: due occhi, due orecchi, due narici, una lingua e un corpo. Questo è il Sentiero, e chi segue il Sentiero è la mente. Per questo sia lo studio che la pratica si trovano nel nostro corpo, nella nostra parola e nella nostra mente.
Visto così il Sentiero, termini come nichilismo o eternalismo perdono la loro capacità di irretire il nostro pensiero che tende sempre a contrapporre concetti.
L'insegnamento meno compreso è quello del 'lasciar andare', detto anche 'lavorare con una mente vuota'. Questo è un linguaggio tipicamente budhista. Se lo interpretiamo secondo il senso comune andiamo fuori strada e pensiamo veramente che possiamo fare quel che ci pare. Invece dovremmo figurarcelo come se stessimo portando sulle spalle un macigno e dopo un pò cominciassimo a sentirne il peso...ma non ci risolviamo a posarlo. Quindi continuiamo a sopportare il peso. Se viene qualcunoa dirci di gettarlo via ci impauriamo ed esclamiamo:" Ma se lo getto via, non mi resta nulla!". Anche se quell'altro ci elencasse tutti i vantaggi del posarlo continueremmo a pensare e a dubitare: "Se lo butto, veramente non mi resta niente !". E così passiamo la vita...
In realtà se , per caso prendendo sul serio l'Insegnamento , lo posiamo, immediatamente ci sentiamo meglio, incredibilmente più leggeri e ci diciamo:"Quanto stupido sono stato a portare per tanto tempo sulle spalle un simile macigno?"...
Uno può venirci a dire di posare il peso, ma se non ci crediamo, se dubitiamo e siamo finanche 'innamorati' del peso, non ne vediamo proprio lo scopo. Tutto ci sembra assurdo. In fin dei conti la vita è proprio portare pesi, ci diciamo...lo fanno tutti, perchè no?...E restiamo aggrappati al peso che ci piega...
Capire che è inutile portarsi dietro dei pesi e che 'lasciar andare' produce sollievo e libertà è un esempio di conoscenza di sé.
Anche i sutra buddhisti possono diventare un grosso peso da portare. Questa non è la pratica corretta... :)
Citazione di: Sariputra il 28 Novembre 2017, 01:03:04 AM@Apeiron Qual'è il punto di arrivo di tutto questo studio attorno al Dhamma? E c'è un punto d'arrivo? Ci sarà mai una fine? Sono domande legittime ma che riguardano lo studio 'esteriore' delle scritture e non lo studio interiore. Lo studio interiore richiede di studiare questo corpo e questa mente, perché è in questo corpo e in questa mente che nascono le nostre brame egoistiche, le nostre invincibili avversioni e le nostre illusioni di trovare nelle cose una soddisfazione duratura. Questo è per il buddhismo il vero studio, la retta pratica del Dhamma... Studiare i testi senza praticare sila e samadhi ci porta solamente ad essere una specie di mestolo in una zuppiera.: sta dentro la zuppiera tutto il giorno ma non conosce il sapore della minestra. Senza la pratica del non attaccamento, della rinuncia, lo studio filosofico dei sutra, del Canone, ecc. non serve a molto. Possiamo avere una buona conoscenza teorica, conoscere la psicologia buddhista, la sua logica, ecc. ma tutto questo rischia di non produrre alcun risultato. Buddha stesso invita a studiare il Dhamma ma poi a rinunciare ad agire male con il corpo, la parola e la mente; a coltivare invece atti benevoli, parole benevoli e pensieri benevoli... Achaan Chah soleva ripetere che l' Ottuplice Sentiero si compone di otto fattori e che questi fattori non sono altro che il nostro corpo: due occhi, due orecchi, due narici, una lingua e un corpo. Questo è il Sentiero, e chi segue il Sentiero è la mente. Per questo sia lo studio che la pratica si trovano nel nostro corpo, nella nostra parola e nella nostra mente. Visto così il Sentiero, termini come nichilismo o eternalismo perdono la loro capacità di irretire il nostro pensiero che tende sempre a contrapporre concetti. L'insegnamento meno compreso è quello del 'lasciar andare', detto anche 'lavorare con una mente vuota'. Questo è un linguaggio tipicamente budhista. Se lo interpretiamo secondo il senso comune andiamo fuori strada e pensiamo veramente che possiamo fare quel che ci pare. Invece dovremmo figurarcelo come se stessimo portando sulle spalle un macigno e dopo un pò cominciassimo a sentirne il peso...ma non ci risolviamo a posarlo. Quindi continuiamo a sopportare il peso. Se viene qualcunoa dirci di gettarlo via ci impauriamo ed esclamiamo:" Ma se lo getto via, non mi resta nulla!". Anche se quell'altro ci elencasse tutti i vantaggi del posarlo continueremmo a pensare e a dubitare: "Se lo butto, veramente non mi resta niente !". E così passiamo la vita... In realtà se , per caso prendendo sul serio l'Insegnamento , lo posiamo, immediatamente ci sentiamo meglio, incredibilmente più leggeri e ci diciamo:"Quanto stupido sono stato a portare per tanto tempo sulle spalle un simile macigno?"... Uno può venirci a dire di posare il peso, ma se non ci crediamo, se dubitiamo e siamo finanche 'innamorati' del peso, non ne vediamo proprio lo scopo. Tutto ci sembra assurdo. In fin dei conti la vita è proprio portare pesi, ci diciamo...lo fanno tutti, perchè no?...E restiamo aggrappati al peso che ci piega... Capire che è inutile portarsi dietro dei pesi e che 'lasciar andare' produce sollievo e libertà è un esempio di conoscenza di sé. Anche i sutra buddhisti possono diventare un grosso peso da portare. Questa non è la pratica corretta... :)
Concordo. O più precisamente: è proprio il fatto che la conoscenza è infinita che impone il "lasciarsi andare al mistero", all'Ineffabile in qualche sua forma. Quindi sì in un certo senso questa infinità di domande è per così dire la "prova" che ad un certo punto bisogna "cessare" di farsele. Mi può andare bene che da questo punto di vista uno "rinunci" alla ricerca concettuale, alla logica ecc e accetti dunque di smettere di ricercare. In fin dei conti anche una ricerca infinita di conoscenza è "dukkha" perchè in un certo senso non ha alcun scopo che continuare a cercare conoscenza.
Però questo è un ragionamento che può fare chiunque. Uno può "fregarsene" di cercare con questa "scusa". E sinceramente non sono in grado di "condannare" tale scelta. Ci mancherebbe: anzi a vedere "all'atto pratico" come sono i buddhisti seri - fossimo tutti così ;) dal punto di vista etico, tanto di cappello. Dal punto di vista di conoscenza della mente umana idem.
Dal punto di vista filosofico c'è a mio giudizio una grossa incompletezza. Non è possibile ricavare dalla lettura della dottrina (i suttas) secondo me una dottrina
completa (o coerente). O più precisamente se è coerente allora è nichilismo (che in realtà ad alcuni può anche andare bene, d'altronde l'essere completamente nichilisti a livello di verità ultima non condiziona alcun modo l'avere una buona etica. In fin dei conti se si vede che tutti gli esseri sono imprigionati nasce la compassione. Inoltre la non-esistenza è certamente migliore di un'infinita esistenza che non ha alcun senso (samsara)). Se invece non è nichilismo allora è incoerente (e ciò in fin dei conti non toglie alcun "merito" alla dottrina buddhista) così com'è. Nel caso induista invece se la liberazione è vista come unione con Brahman probabilmente c'è incoerenza, però mi lascia un senso di completezza ben diverso (dato dal postulato dell'esistenza di una "cosa"). Sinceramente arte, filosofia, scienza ecc mi suggeriscono peersonalmente che il Summum Bonum sia un "ente", qualcosa, una realtà, una "sostanza" e non meramente la non-esistenza, il riconoscere che tutto è senza sostanza, senza significato ecc Capisco però che
santi (con questa parola intendo persone di impeccabile morale) possono in fin dei conti fregarsene di queste "speculazioni", però in fin dei conti Schopenhauer scrisse: "
non è necessario per un filosofo essere un santo che per un santo essere un filosofo: così come una persona molto bella non necessariamente è uno scultore e uno scultore non è necessariamente una persona molto bella". Quindi il solo fatto che il Buddha abbia sbagliato nella sua filosofia non deve assolutamente togliere la stima nei suoi confronti, anche nel caso in cui il buddhismo è nichilismo. Su questo voglio essere estremamente chiaro. Ma a livello personale l'analisi testuale mi suggerisce appunto che il buddhismo è una religione per "santi nichilisti". Una religione che se praticata con la massima serietà e in completo accordo con i principi del Dhamma dà questo risultato: si diventa santi (si pratica in fin dei conti l'amore universale) e al contempo ci si "libera". Solo queste due cose per un buddhista, contano. Personalmente ritengo che tale scelta di vita sia coerente, possibile e ammirevole (chi in fin dei conti non può ammirare Buddha, Sariputta, Ananda, Khema, Uppalavanna ecc ?). In fin dei conti che il nirvana sia o meno coincidente con il nulla o sia semplicemente un modo diverso per affermare il fatto che "tutte le cose nascono e periscono", che sia o meno coincidente con l'affermare che "non esiste a livello ultimo niente di sostanziale" in effetti è una questione di mero interesse speculativo o di analisi testuale. Forse, anzi, i migliori buddhisti non si fanno questi "problemi", intuiscono in modo corretto la "dottrina", hanno un'etica impeccabile e si avvicineranno alla liberazione da questa ciclo di trasmigrazioni. Anzi, forse, a differenza di (quasi) tutti gli altri religiosi del mondo sono veramente "senza sé" perchè in fin dei conti ritenere che sia importante che esista un "assoluto" (o che la realtà sia "completa" e che questo "assoluto" non sia una mera finzione, punto sul quale la dottrina buddhista in fin dei conti pare essere d'accordo con il materialismo moderno) è una mera pretesa, un ostacolo alla perfezione.
Quindi forse i maestri Zen con la loro trascendenza rispetto al linguaggio non hanno tutti i torti ;) o forse semplicemente le pieghe del tempo hanno fatto il resto... oppure non ci sono mai stati "esseri perfetti". Oppure... in fin dei conti "il problema è la scelta" (citazione dalla trilogia Matrix ;) ).
P.S. Tutto questo per dire che da quando è iniziato il topic sulla questione "ultima" del buddhismo, ossia su cosa sia il
vero obbiettivo della filosofia buddhista, se ci sia qualche cosa di positivo dietro alla fin troppo chiara negatività, in realtà non ho fatto
alcun progresso. Di certo ho capito i dettagli, ho capito l'importanza dell'etica, la santità come fine della pratica, ma curiosamente sul
fine di tutta questa tradizione ho solo visto molta confusione. Forse in realtà non c'è nemmeno confusione - la filosofia riduzionista di Wittgenstein vede la filosofia come qualcosa che "lascia tutto com'è". Quindi forse la confusione esiste solo tra chi, per così dire, "pretende troppo" - quando la brama è vista come la causa della sofferenza. Mi si lasci però, per comodità, citare la Metta Sutta, che forse al lettore interesserà molto di più dei dubbi di chi cerca "una sostanza", perdendo tempo ;) Di seguito da https://www.piandeiciliegi.it/it/testi-e-documenti/52-metta-sutta ecco la Metta Sutta:
Questo dovrebbe fare chi pratica il bene
e conosce il sentiero della pace:
essere abile e retto,
chiaro nel parlare,
gentile e non vanitoso,
contento e facilmente appagato;
non oppresso da impegni e di modi frugali,
calmo e discreto, non altero o esigente;
incapace di fare
ciò che il saggio poi disapprova.Che tutti gli esseri
vivano felici e sicuri:
tutti, chiunque essi siano,
deboli o forti,
grandi o possenti,
alti, medi o bassi,
visibili e non visibili,
vicini e lontani,
nati o non nati.Che tutti gli esseri vivano felici!
Che nessuno inganni l'altro,
né lo disprezzi
né, con odio o ira,
desideri il suo male:Come una madre
protegge con la sua vita
suo figlio, il suo unico figlio
così, con cuore aperto,
si abbia cura di ogni essere,
irradiando amore
sull'universo intero;
in alto verso il cielo,
in basso verso gli abissi,
in ogni luogo, senza limitazioni,
liberi da odio e rancore. Fermi o camminando,
seduti o distesi,
esenti da torpore,
sostenendo la pratica di Metta;
questa è la sublime dimora.Il puro di cuore,
non legato ad opinioni,
dotato di chiara visione,
liberato da brame sensuali,
non tornerà a nascere in questo mondo. (Karaniya Metta Sutta - Sutta Nipata, 1.8 )
Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere (l'unica cosa forse che si deve imparare...)
@Apeiron scrive:
Concordo. O più precisamente: è proprio il fatto che la conoscenza è infinita che impone il "lasciarsi andare al mistero", all'Ineffabile in qualche sua forma. Quindi sì in un certo senso questa infinità di domande è per così dire la "prova" che ad un certo punto bisogna "cessare" di farsele. Mi può andare bene che da questo punto di vista uno "rinunci" alla ricerca concettuale, alla logica ecc e accetti dunque di smettere di ricercare. In fin dei conti anche una ricerca infinita di conoscenza è "dukkha" perchè in un certo senso non ha alcun scopo che continuare a cercare conoscenza.
Però questo è un ragionamento che può fare chiunque. Uno può "fregarsene" di cercare con questa "scusa". E sinceramente non sono in grado di "condannare" tale scelta. Ci mancherebbe: anzi a vedere "all'atto pratico" come sono i buddhisti seri - fossimo tutti così (https://www.riflessioni.it/logos/Smileys/default/wink.gif) dal punto di vista etico, tanto di cappello.
Dal punto di vista filosofico c'è a mio giudizio una grossa incompletezza. Non è possibile ricavare dalla lettura della dottrina (i suttas) secondo me una dottrina coerente. Quindi forse i maestri Zen con la loro trascendenza rispetto al linguaggio non hanno tutti i torti (https://www.riflessioni.it/logos/Smileys/default/wink.gif)
Non direi che è una "scusa" ma piuttosto una consapevolezza, e questa consapevolezza è posta alla fine di un cammino, non all'inizio. Ricordiamoci che stiamo parlando di un percorso spirituale, in cui l'elemento dottrinale deve calarsi nella pratica, perché solo nella pratica trova la sua verifica.
Se pensiamo che dalla lettura dei testi sacri sorgono sempre innumerevoli interpretazioni ( pensiamo solo alla Bibbia o al Corano, che in più vengono considerati addirittura ispirati o dettati dalla divinità stessa che si adora...), che spesso generano divisioni e conflitti, ci rendiamo conto che la sola lettura e interpretazione di un testo, in cui il significato di moltissimi termini si è praticamente perduto nei secoli che sono passati, e il 'brodo culturale' in cui è sorto è totalmente diverso dal nostro attuale, abbiamo ben evidente davanti a noi la difficoltà...
La pratica però ha la capacità di svelarci alcune cose che la sola lettura non può cogliere. A mio parere, tolta la melassa agiografica , in tutti i sutra buddhisti si respira la stessa aria. I fondamenti della dottrina sono comuni. Le sottolineature che ne hanno fatto attraverso i secoli persone diverse che se ne sono interessate non sono altro che le inevitabili differenze date dalla nostra diversità.
Se, dopo appena 150 anni, abbiamo già una marea di interpretazioni del pensiero di un filosofo come Nietzsche che, con tutto il rispetto, non è un Buddha... ;D
Più è complesso un pensiero, più genera inevitabilmente interpretazioni, a volte assai divergenti. Più è complessa una pratica da vivere e più ci sono inevitabili alzate di scudi...
Nel caso di un Sentiero spirituale non abbiamo solo la difficoltà di interpretare correttamente i testi ( e per me non ci sarà mai un'interpretazione accettata da tutti...come avviene d'altronde anche per la Bibbia e altri testi), ma c'è la difficoltà ancor maggiore ( molto maggiore, secondo me...) di metterli in pratica, sì da avere un'intima coerenza esistenziale, che è quello che divide la spiritualità dal semplice conoscere.
Citazione di: Sariputra il 28 Novembre 2017, 14:56:35 PMNon direi che è una "scusa" ma piuttosto una consapevolezza, e questa consapevolezza è posta alla fine di un cammino, non all'inizio. Ricordiamoci che stiamo parlando di un percorso spirituale, in cui l'elemento dottrinale deve calarsi nella pratica, perché solo nella pratica trova la sua verifica. Se pensiamo che dalla lettura dei testi sacri sorgono sempre innumerevoli interpretazioni ( pensiamo solo alla Bibbia o al Corano, che in più vengono considerati addirittura ispirati o dettati dalla divinità stessa che si adora...), che spesso generano divisioni e conflitti, ci rendiamo conto che la sola lettura e interpretazione di un testo, in cui il significato di moltissimi termini si è praticamente perduto nei secoli che sono passati, e il 'brodo culturale' in cui è sorto è totalmente diverso dal nostro attuale, abbiamo ben evidente davanti a noi la difficoltà... La pratica però ha la capacità di svelarci alcune cose che la sola lettura non può cogliere. A mio parere, tolta la melassa agiografica , in tutti i sutra buddhisti si respira la stessa aria. I fondamenti della dottrina sono comuni. Le sottolineature che ne hanno fatto attraverso i secoli persone diverse che se ne sono interessate non sono altro che le inevitabili differenze date dalla nostra diversità. Se, dopo appena 150 anni, abbiamo già una marea di interpretazioni del pensiero di un filosofo come Nietzsche che, con tutto il rispetto, non è un Buddha... ;D Più è complesso un pensiero, più genera inevitabilmente interpretazioni, a volte assai divergenti. Più è complessa una pratica da vivere e più ci sono inevitabili alzate di scudi... Nel caso di un Sentiero spirituale non abbiamo solo la difficoltà di interpretare correttamente i testi ( e per me non ci sarà mai un'interpretazione accettata da tutti...come avviene d'altronde anche per la Bibbia e altri testi), ma c'è la difficoltà ancor maggiore ( molto maggiore, secondo me...) di metterli in pratica, sì da avere un'intima coerenza esistenziale, che è quello che divide la spiritualità dal semplice conoscere.
Anzitutto ringrazio il Sari per la sua pazienza ;D
"
Vi è quella dimensione dove non c'è terra, né acqua, né fuoco, né vento; non vi è la dimensione dell'infinità dello spazio, né la dimensione dell'infinità della coscienza, né la dimensione del nulla, né la dimensione di 'né-percezione-né-non-percezione'; non vi è questo mondo, né un altro mondo, né sole, né luna. E lì, io dico, non vi è giungere, né andare, né rimanere; né scomparire né sorgere: non è fisso, né si evolve, senza sostegno (oggetti mentali). Questa, solo questa, è la fine della sofferenza." (Udana 8.1)
Dhammapada, 92: "
Come gli uccelli non lasciano orme nell'aria la sua mente non si aggrappa alle tentazioni che gli si offrono. La sua rotta
è lo stato di liberazione senza tracce invisibile agli altri."
Ci sono sicuramente passi che alludono a una "realtà ultima" come quelli sopra citati. Sono tutti allusivi e poetici... Forse dopotutto c'è qualcosa di "positivo" dietro alla negatività ::) ::) ::)
comunque sì... hai ragione è normale che ci siano interpretazioni conflittuali. Forse il buddhismo è l'"apofatismo" al suo estremo...
Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere (o si può parlare solo in modo allusivo?? ::) ::) ::))
Karuna e Prajna...
Cosa ci può essere più distante tra la "compassione" (karuna) e la "saggezza" (prajna)? Per l'"occidentale medio" karuna e prajna - intesa come conoscenza - sono due cose distinte. Uno può essere "sapiente" ma non compassionevole e viceversa uno può avere la compassione ma non essere "sapiente". Questa, almeno, è la "logica" occidentale.
La logica di molte filosofie cinesi e indiane invece ci dice essenzialmente che in realtà le due vanno a "braccetto". Non si può avere una senza l'altra. Perchè? Ebbene per il fatto che la filosofia indiana ha sempre visto la somiglianza nella differenza. Il mito della trasmigrazione, per esempio, ci fa capire che un animale deve essere rispettato perchè in fin dei conti anche io ero di quella specie in una vita precedente e quindi non sono né superiore né inferiore ad esso. Certamente oggi la mia forma è diversa, certamente oggi sono più intelligente, più astuto ecc ma in realtà la differenza tra noi due è meramente di forma e non "di essenza". Ma prajna e karuna in fin dei conti non sono presenti anche nella conoscenza occidentale?
La biologia ci mostra come noi esseri umani a dispetto delle differenze individuali siamo estremamente simili. Non uguali, vero ma simili. Abbiamo molto in comune e quindi se mettiamo più in risalto le somiglianze vediamo che l'altro non è diverso da noi e quindi così come io voglio essere rispettato, allo stesso modo lui vuole essere rispettato. Questa non è "compassione" bensì saggezza, prajna. Non è vero che "l'amore rende stupidi", come talvolta si sente, l'amore (metta, karuna...) in realtà parte dalla comprensione, dalla saggezza: questo è il grande equivoco dell'occidente ossia l'aver "creato" una distinzione tra sapienza e compassione - unione che per un indiano è ovvia. Anche per chi non crede nelle rinascite il mito della trasmigrazione può in fin dei conti ricordare l'evoluzione delle specie: le specie si trasformano le une nelle altre, quindi non sono in senso ultimo diverse tra di loro. Questa intuizione proprio dell'oriente ha avuto nel Neoplatonismo il "corrispettivo" occidentale. La realizzazione cioè che l'altro essere in realtà "non è diverso" da noi e da qui in fin dei conti giunge la compassione.
Dunque è proprio qui che noi occidentali sbagliamo. Crediamo che etica e metafisica siano qualcosa di distinto, due discipline che non comunicano. Crediamo che "conoscere noi stessi" porti solamente alla conoscenza, appunto, di noi stessi e non dell'altro. E qui in fin dei conti si vede la differenza tra la nostra idea di "progresso" e quella indiana di "ciclicità": per noi il nostro tempo è "migliore" mentre per gli indiani il nostro tempo non è essenzialmente diverso da quelli precedenti e quindi non ha nemmeno senso confrontarli.
Prajna: conosciamo noi stessi e vediamo che, per esempio, cerchiamo il bene. Per semplice istinto di sopravvivenza, ad esempio, cerchiamo di assetarci. Ma Prajna ci aiuta anche a vedere la non-differenza con "l'altro".
Karuna: dalla comprensione dunque arriva la compassione: perchè dunque vedo che entrambi (ad esempio) desideriamo il bene e quindi riconosco che è "giusto" comportarmi in un certo modo anziché in un altro.
Prajna e Karuna, pur essendo diversi, in realtà sono se presenti entrambe tendono a rafforzarsi l'una con l'altra. Perchè? Prajna eleva Karuna dal mero sentimentalismo dandole una "giustificazione" razionale, Karuna eleva Prajna dandole significato. E così uno che le possiede entrambe sarà capace di progredire nel cammino e continuerà a perfezionarsi, ovvero ad aumentarle entrambe. In fin dei conti una "karuna" che è giustificata da "prajna" tende meno ad essere legata allo stato emotivo passeggero mentre una "prajna" motivata da "karuna" prende "anima", ovvero non è più una sterile conoscenza. Prajna e Karuna formano una simbiosi.
E forse in fin dei conti è per questo motivo per cui chi tende a "diminuire l'egoismo" per così dire "abbraccia il cosmo". La sua identità comincia ad essere meno legata alla sua forma. La volontà di prevaricare diminuisce perchè karuna la spegne. Così chi "impoverisce" la propria identità, riconoscendo il fatto che "non è distinto", ossia chi dà meno importanza al suo "io" tende allo stesso tempo a essere compassionevole. Ergo ci si può immaginare che se uno comprende a fondo dunque la non-differenza estinguerà sempre di più il senso dell'io/mio - fino ad arrivare... all'anatta. D'altronde finché non mi accorgo di questa "non-differenza" in fin dei conti tendo a voler affermarmi. E "realizzo" questa "non-differenza" proprio in questo modo...
Quindi, per così dire, il punto di arrivo non è vedere che "tutto è vuoto", bensì vedere che "tutto è pieno (di valore)" - l'anatta non significa dunque il collasso dell'io come lo intendiamo normalmente, bensì la sua dissoluzione come quella di un pezzo di zucchero in un bicchiere d'acqua. Ma questa dissoluzione è invero un collasso. Ma questa pienezza in fin dei conti la si vede proprio nella vacuità: se ci fosse qualcosa, qualche distinzione vera nel senso ultimo allora non si potrebbe dire che "tutto è pieno"...
Aldilà delle differenze dottrinali mi sembra di vedere che questo messaggio è chiaro sia nel buddhismo theravada che in quello mahayana. E non solo nel buddhismo...
HOKYO ZANMAI
(Pao-ching san-mai)
Il samadhi dello specchio prezioso
Tozan (Tung-shan)
1. I Buddha e i patriarchi, tutti trasmisero
direttamente la verità fondamentale:
conservatela intatta; adesso è con voi, ciò basta.
2. Sul piatto d'argento fiocca la neve bianca;
il niveo airone nella luce della luna si nasconde.
Coppie vicine eppure non sovrapposte;
mescolandole insieme possiamo differenziare.
3. La mente suprema a parole non può essere espressa,
eppure, ad ogni vostro bisogno essa risponde.
Schiavi delle parole, avanzando, nel baratro cadete,
se ve ne allontanate, però, siete in un vicolo cieco.
E' come un'enorme palla di fuoco: mai
avvicinarsi troppo, nemmeno tenersi via.
4. Parole troppo brillanti rischiano di abbagliare:
di notte c'è chiarore, all'alba non c'è luce.
5. Ciò vale per gli esseri tutti, con ciò ci liberiamo
da sofferenza. Anche se non prodotta dall'ingegno,
è verità che trova strada nelle parole dei maestri.
E' come quando guardi nello specchio prezioso,
vedendo insieme ombra e sostanza; esso è te, tu non sei lui.
E' come per i neonati, che, pur avendo i cinque sensi,
non possono andare e neanche ritornare,
non possono alzare e neanche lasciar andare;
posseggono parole che non possono usare.
Tutto sommato, non afferri niente, non servono le parole.
6. Sei bastoncini ammucchiati, continuamente
stanno in mutua relazione: il centro e gli estremi.
Presi a tre, ritornano alla configurazione originale
dopo i cinque mutamenti:
come cinque sono i sapori dell'erba "chi"
come cinque sono i rami dello scettro adamantino.
7. L'essenza assoluta mantiene per sua natura
molteplici fenomeni in delicato equilibrio.
8. Quando lo studente chiede, il maestro
si fa incontro con la risposta;
per portarlo alla verità finale egli
sta usando i mezzi opportuni.
La verità finale desiderano i ricercatori,
i mezzi abili il maestro sta offrendo:
preso nella miscela giusta, ciò è buono.
9. Evita solo l'attaccamento, ciò è sufficiente.
La verità suprema è naturale e non si attacca
all'illusione, neppure all'illuminazione.
10. Con calma, si mostra chiaramente quando
son mature le condizioni tutte.
Quando è piccola, infinitesima diventa,
quando è grande, trascende lo spazio e le dimensioni:
anche un solo fremito può danneggiare il ritmo.
11. Si parla adesso dell'improvviso e del graduale
e si separano perciò le sette, creando pratiche,
dottrine, che diventano, in seguito, conformismi
che accettiamo nella condotta religiosa.
Anche penetrando queste pratiche, queste dottrine,
facendo poi fluire coscienza illusoria nell'eterna
verità, nessun progresso avremmo conseguito.
12. Se appariamo fuori tutti calmi
ma dentro rimaniamo disturbati,
siamo come il cavallo in pastoie,
siamo come il topo intrappolato.
13. Provando pena per questo stato,
i saggi d'una volta diffusero l'insegnamento.
essendo le menti degli studenti
sviate dalle illusioni,
i veri saggi lo adeguarono a loro,
usando mezzi così estremi da arrivar
persino a chiamare il nero bianco.
14. Abbandonare il pensiero illusorio
ti porterà soddisfazioni;
se instradarti vuoi nell'antica via
osserva gli esempi di una volta.
15. Per compiere l'ultimo passo
verso la vera illuminazione,
un precedente Buddha si addestrò
per dieci lunghi kalpa
fissando l'albero della bodhi.
Così ristretta, la libertà originaria è
come una tigre con le orecchie lacerate,
come un cavallo zoppicante.
16. Il saggio dirà allo studente
il quale si sente umile e inferiore,
che sulla sua testa brilla
un diadema ingioiellato e il suo corpo è avvolto
da ricche tuniche, i piedi morbidamente appoggiati.
E, se lo studente, sentendo ciò, prova stupore o dubbio,
il saggio lo assicura che anche fra i gatti o fra
le mucche bianche ci sono specie perfette come sono.
17. Il leggendario arciere Yi colpiva
a cento metri il bersaglio, essendo abile assai;
ma, far scontrare due frecce in aria,
va al di là di ogni abilità da uomo ordinario.
18. Nella suprema attività della non-mente
guarda: l'uomo di legno canta,
la fanciulla di pietra danza!
Tutto ciò è ben lontano dalla comune
coscienza, non si esprime con il pensiero.
19. Il cortigiano serve il suo signore
e il fanciullo ubbidisce al padre.
Senza obbedienza non c'è pietà filiale,
senza servizio non c'è consiglio.
20. Tali azioni, tali lavori non vistosi,
sembrano stupidi e non affascinanti
ma quelli che praticano così la Legge
per l'eternità saranno, in tutti i mondi,
chiamati signori dei signori.
(a cura di Theodor Entai Rosenberg e Teresa Maddi)
Evita solo l'attaccamento, ciò è sufficiente.
La verità suprema è naturale e non si attacca
all'illusione, neppure all'illuminazione.
Sabbe dhamma nalam abhinivesaya, "ni-ente a cui attaccarsi". :)
Per Sariputra : esiste nel buddhismo un argomento contro la "causa prima"? ovvero un argomento che intende dimostrare la non-esistenza della "causa prima"? O "semplicemente" il buddhismo dice che non è "dimostrabile"?
(da qui in poi il messaggio è tipo un "giochetto" che in realtà mostra come troppa speculazione è inutile ;) .... si può riassumere così: se il samsara non ha mai avuto inizio come è possibile che non abbiamo già raggiunto il nirvana? lo lascio come un giochetto divertente per mostrare i limiti della nostra capacità di tradurre i nostri pensieri in forma matematica... perchè ovviamente mi sembra piuttosto chiaro che è possibile nel caso di un samsara senza inizio non aver già raggiunto il nirvana)
Un divertente esempio di come un matematico può "divertirsi" con il concetto del samsara è il seguente "paradosso" (l'ho trovato in rete menzionato in alcuni siti, ad esempio https://dhammawheel.com/viewtopic.php?f=13&t=29829).
In sostanza il paradosso è quello dell'infinito: ovvero che in un tempo infinito una scimmia che digita in continuazione lettere su una macchina da scrivere dopo un tempo infinito riuscirà a scrivere la "Commedia" di Dante per semplice "fortuna" *. La versione "samsarica" di questo paradosso è questa: se il samsara esiste da un tempo infinito nel passato perchè non siamo tutti già "liberati" (ovviamente questo paradosso non è presente solo nel buddhismo ma in tutte le tradizioni che ammettono il samsara) ?
Come si legge in https://www.canonepali.net/2015/05/sn-15-3-assu-sutta-le-lacrime/ in realtà, per essere precisi, il Buddha (a differenza ad esempio dell'Advaita Vedanta) NON dice che il samsara è sempre esistito ma che c'è da un "inconoscibile inizio". Tuttavia se il samsara ha avuto un inizio il tutto è piuttosto assurdo visto che (da quanto ho capito - il Sari mi corregga) il buddhismo rifiuta la "causa prima". Dunque se viceversa il samsara esiste da sempre allora il paradosso di prima si applica. Qui però torna, curiosamente, la considerazione sulla "gerarchia degli infiniti", ovvero la posizione secondo la quale è possibile confrontare grandezze infinite tra di loro in un modo molto peculiare. In quanto segue però utilizzo un semplice ragionamento, ovvero quello del limite. Il Buddha ci tiene spesso a precisare che solo devas e uomini possono praticare il Dhamma (almeno così ho capito) e che la rinascita nel mondo umano e divino è estremamente rara. Incontrare il Dhamma poi è ancora un'altra eventualità "non ovvia". Ergo è possibile che a causa dei precisi "scherzi" del karma (il funzionamento preciso del karma è tuttavia "imponderabile") nelle mie prossime vite io non incontro più l'insegnamento buddhista per vari eoni. Però in un tempo infinito dovrei aver già incontrato l'insegnamento e forse l'ho anche praticato. Quindi... perchè sono qua a parlarne?
Ebbene questo paradosso in realtà è piuttosto facile da risolvere, con un semplice ragionamento di limite e, mi si perdoni l'introduzione delle formule. Chiamo ora "x" una grandezza e "x2" la stessa grandezza al quadrato. Chiaramente "x/(x2)=1/x". Ora se "prendo il limite" (https://it.wikipedia.org/wiki/Limite_(matematica)) per "x" che va all'infinito chiaramente sia "x" che "x2" vanno anch'essi all'infinito, ma "x2" "ci va più rapidamente" visto che se "x=10" "x2=100" e se "x=20" "x2=400" ecc. Dunque all'aumentare di x il rapporto "x/(x2)=1/x" tende a zero e prendendo x che va all'infinito ovviamente il risultato tende sempre più a zero (più precisamente il limite è zero). Ora se "x" è il tempo passato dall'inizio del samsara (se x è infinito ovviamente il samsara non ha mai avuto inizio) e invece "x2" ** è il tempo "medio" per il quale ottengo la possibilità di ottenere il nirvana per il semplice caso (intuitivamente, per ottenere il nirvana, l'eponente "2" potrebbe quasi essere sostituito direttamente con "x" in realtà visto che: la probabilità diincontrare il Dhamma è bassissima visto che devo rinascere uomo (o deva?), devo incontrare l'insegnamento e devo riuscire a "portarlo a termine"... ;D "xx" è una delle funzioni che va all'infinito più rapidamente 8) ) allora il rapporto "x/(x2)=1/x" che intuitivamente descrive la probabilità di essere nella la possibilità di poter ottenere nirvana a caso paradossalmente al passare del tempo diminuisce!!! (ovviamente matematicamente non è fondato questo ragionamento, vedi nota ** e anzi non credo che si possa fondare visto che non stiamo perlando né di un processo deterministico né di un processo random) e si annulla quando x tende all'infinito. Ergo è davvero un "miracolo" che si possa anche solo contemplare la possibilità del nirvana, figuriamoci di ottenerlo. ;D ;D e poi si dice (tra i buddhisti secolari) che nel buddhismo non sono contemplati i miracoli XD
*In realtà i due casi sono completamente diversi... le scimmie hanno un numero finito di lettere e che i tentativi siano tra di loro indipendenti https://it.wikipedia.org/wiki/Teorema_della_scimmia_instancabile. Mentre ovviamente ho personalmente assunto che nel caso "karma" sia un po' diverso... Karma a parte è la realtà che in genere è molto più complessa del paradosso della scimmia instancabile ;)
I matematici "puristi" sanno bene che quanto ho detto non è veramente corretto. Tuttavia il teorema della scimmia instancabile si basa sull'assioma che tutto avvenga completamente casualmente (nel senso di "random") e che ogni "tentativo" sia indipendente l'uno dall'altro. Cose che dal punto di vista "karmico" non sono vere, visto che il karma non agisce casualmente ;)
** Ovviamente qui sto utilizzando l'assunzione che più il tempo aumenta, più il tempo medio di "entrare in contatto" col Dhamma aumenta. Il che ovviamente non ha molto significato matematico. Tuttavia... se si pensa che la "decisione" di seguire il Dhamma non è casuale e che se uno si convince che basta il passaggio del tempo per ottenere la liberazione... beh più uno si convince di ciò, più per lui è difficile incontrare il Dhamma (perchè è più difficile eliminare una convinzione molto fondata di una che lo è meno). Ergo... ;D Chiedo perdono al buddhismo e alla matematica per il modellino ma volevo inserire in esso anche questa piccola "precisazione" LOL
Sapientemente il Buddha ha detto di non speculare su questo tipo di questioni, visto che non se ne esce ;D
@Apeiron
Non conosco argomentazioni specifiche contro una 'causa prima' nell'insegnamento buddhista. Ma neppure a favore... :)
Leggiamo nel Canone Pali di vari déi che vengono ad ascoltare le lezioni di Dhamma del Buddha ( Brahma stesso...). Questo direi che serve ad attestare la superiorità della condizione del risvegliato rispetto a quella della divinità stessa ( ed era anche probabilmente una necessità per affermare la superiorità dell'Insegnamento rispetto alle altre vie praticate dagli adepti e dai devoti vedici...). Il Buddhismo sostiene l'urgenza e la necessità di percorrere un sentiero di liberazione dalla sofferenza e che questo sforzo è facoltà dell'individuo, senza che nessuna divinità ci venga in soccorso o ci doni "poteri" o "grazie" particolari per raggiungere l'obiettivo. I valori spirituali sostenuti dal Buddhismo non sono finalizzati ad una nuova vita in qualche 'mondo' superiore, ma sono invece in vista di uno stato che trascende il mondo, cioè il Nibbana. Essi non separano nettamente l'al di là da ciò che è immediatamente presente nella nostra esistenza. Per questo la spiritualità buddhista è profondamente radicata nel mondo, perché la finalità della stessa è la massima realizzazione spirituale possibile nel presente della nostra vita.
Per il Buddhismo indagare su una causa prima indimostrabile e perdersi in un mare di teorie speculative ed opinioni (ditthi) è inutile, fuorviante, non necessario per ottenere la meta del Nibbana, non essendo il Nibbana uno stato di fusione o ricongiungimento con una divinità,
Nella visione buddhista le divinità stesse sono impermanenti, soggette al mutare e quindi preda della sofferenza e prive di esistenza intrinseca. E' il rifiuto dell'eternalismo considerato come una concezione errata della realtà. Ma la vacuità determinata dalla concezione dell'anicca, che porta al rifiuto delle visioni opposte eternalista e nichilista, non rende il mondo meno reale, ma piuttosto sembra dimostrare che il mondo è costituito solamente da azioni. Da nessuna parte c'è immobilità, stasi...da nessun parte c'è limitazione. Nulla, per il Buddhismo, esiste di per sé o in sé, separatamente dal resto. Non c'è nulla di costante; piuttosto, al posto di un universo fatto di cose morte, c'è una realtà vivente che trova la sua controparte in vinnana, ossia nella coscienza di ogni individuo cangiante...
Grazie Sari ;)
Certamente è un approccio molto pragmatico che ha moltissimi pregi. Mi era venuta questa perplessità considerando l'eventualità di un "inizio" del samsara però come ben dici tu farci una teoria sopra è "pura speculazione" ;)
Scusate ho perso un bel pò di testi.
Ho letto casualmente
https://www.riflessioni.it/logos/tematiche-filosofiche-5/buddhismo/180/?action=post;last_msg=17424#postmodify
in cui Apeiron chiede spigazioni ontologiche.
Il mio amato Zizek ne dà una sua, che a suo parere essendosi confrontato con colleghi fisici di tutto il mondo torna.
Ossia che TUTTO SIA MENO DI NIENTE, esattamente come la particella di DIO ha dimostrato.
Ossia la materia che possiamo intendere come l'oggetto ontologico di cui Apeiron da disperato bisogno, PROVIENE da stati di energia inferiori a quello minimo dell'oggetto che ne emerge.
E in effetti se considerato come l'ho intuito anch'io sono d'accordo col mio AMATO.
ossia che il buddismo l'aveva già detto.
ossia il vuoto è uguale alla negazione della negazione del tutto. vuoto samsara= NON (NON U) dove U è il TUTTO, l'Universale.
semplice no?
andiamo a riprendere i punti descritti, mi sembra che tornino.
lo faccio in diretta per non perdere tempo.
Un bramano disse al Benedetto: "Allora, Maestro Gotama, tutto esiste? "
"'Tutto esiste' è la forma più alta della cosmologia, bramano."
"Allora, Maestro Gotama, niente esiste? "
"'Niente esiste' è la seconda forma della cosmologia, bramano."
"Allora tutto è Unicità? "
"'Tutto è Unicità' è la terza forma della cosmologia, bramano."
"Allora, tutto è Molteplice? "
"'Tutto è Molteplice' è la quarta forma della cosmologia, bramano. Evitando questi due estremi, il Tathagata insegna la via di mezzo del Dhamma"
Anzitutto ci dobbiamo chiedere se i 4 punti sono ordinati.
Sembrerebbe di sì, perchè chiama i mediani come la via buddhista.
Dunque vi è un tutto esiste, ossia vi è un oggetto Universale.
E vi è anche un molteplice. Ossia esistono infiniti oggetti dentro quell'universo.
Questa è la metafisica classica, che troviamo anche in platone (come principio di non contraddizione) e in aristotele come Categorie e relativi Sillogismi).
Dove appunto viene studiata al relazione del molteplice all'interno dell'universale.
Diversa è però la questione buddista, che è una filosofia negativa.
non si interroga sulle relazione tra universale e particolare (la gigantesca questione tra nominalismo e realismo medioevale, che in questo forum, non è mai saltata fuori :-[ )
ma si interroga proprio sulla caratteristica esistenziale di come il parziale sia una emanazione, una parte del tutto.
ossia del processo stesso di individuazione, esattamente come la fisica contemporanea si è interrogata fino al riconoscimento dell'esistenza di questo salto energetico. Che è un campo.
Ossia un campo vuoto, è dal vuoto che nasce qualcosa, e non qualcosa esiste sempre come la vecchia tradizione diceva, o almeno alcuni suoi mentori.
il problema ora sarebbe unire quel vuoto con qualcosa. quindi vuol dire che ESISTE qualcosa PRIMA del NIENTE.
cioè QUALCOSA C'è PRIMA DEL NIENTE (ED è IL TUTTO, AUGURI AI FISICI PER QUESTO SUCCESSIVO PASSAGGIO DA DIMOSTRARE, ANCHE SE è OVVIO CHE è ENERGIA, ENERGHEIA COME DICEVANO ANCHE I GRECI).
dunque è come se i buddisti avessero riempito un gap, che la fisica solo oggi praticamente ha risolto.
Ed è quello che ho intuito con sicurezza pure io.
voglio dire se il nulla è tutto, allora il nulla è qualcosa, che noi possiamo però in quanto parte vedere solo come NULLA, non possiamo vedere il tutto, perchè sennò la parte che noi siamo sarebbe il tutto.
geniale! è per questo che ritengo che debba esistere un testo esoterico che ne parli in questi termini filosofici.
eh sì. magari in periodi anche successivi, infatti anche in INDIA la filosofia CLASSICA paragonabile a quella occidentale è esistita anche se secoli dopo in quello che viene chiamato il medioevo indiano,
uno su tutti ovviamente ...non ricordo il nome lol ::) :P ;D
sempre che il buddismo non sia nato dopo ;D che ignorante che sono!
CHE NE DICI APEIRON????
ps scusate dimenticavo che per me UNICITA' è da tradurre come UGUAGLIANZA, come nella formula che ho proposto.
Citazione di: Apeiron il 20 Dicembre 2017, 09:58:44 AM
Grazie Sari ;)
Certamente è un approccio molto pragmatico che ha moltissimi pregi. Mi era venuta questa perplessità considerando l'eventualità di un "inizio" del samsara però come ben dici tu farci una teoria sopra è "pura speculazione" ;)
Direi invece di no.
Infatti a meno che non si intenda speculazione nel senso di un annoiato raccontarsi barzellette.
la speculazione sul vuoto, non può che portare a forme di avvicinamento al DIO.
poichè se il vuoto è ciò che a noi compare come DIO; allora vi è una strada speculare, il nobile silenzio, di attestazione di come noi siamo lo specchio, lo speculum, la speculazione di questo essere qualcosa che vuole tornare al niente, perchè sà di essere qualcosa.(sembra un paradosso, ma se uno ci medita o ci ragiona a fondo non lo è affatto, una volta vista l'orizzonte e la meta)
Vi è una immensa saggezza, che solo chi ha praticato meditazione come me, riesce a capire, abbastanza rapidamente. (gli altri si armino di pazienza).
Infatti cosa è la meditazione se non la riflessione sui metodi di de-sogettivazione, fino a raggiungere l'animus del MONDO, che si presenta come VUOTO.
Ho già spiegato che questa sensazione è terrificante. Perchè se lo fai con dedizione e ingenuità come ancora bambino feci, ti arrischi in territori pericolosi.
Per questo c'è bisogno del maestro, qualcuno che ti insegni a come prendersi cura di se stessi.
(è alle note della cronaca come alcuni santoni siano chiaramente invasati, e come altri invece abbiamo un carisma difficile da trovarsi in occidente.).
Certamente la via mediana, ossia mediata delle comunità buddiste, serve anche a quello.
Ma è come una via media ad una via media che però è in sè terribile.
Vi trovo molte assonanze con la mia esperienza induista. Grazie.
Caro Green, sollevi molti punti interessanti su cui anche io ho riflettuto parecchio in realtà. E sono giunto alla conclusione che in un certo senso la "Realtà Ultima" "pare" essere il Nulla... anzi usando la lingua inglese è "no-thing" (= non è una cosa) ma "it is not nothing" (non è il niente). C'è una sottile differenza tra le due, che a mio parere giustifica frasi come (da https://www.canonepali.net/2015/05/mn-72-aggi-vacchagotta-sutta-vacchagotto-2/):
"redento ad ogni attaccamento il Compiuto (Tathagatha) è quindi profondo, immensurabile, imperscrutabile, quasi come l'oceano. Dire 'risorge' quindi non va, 'non risorge' non va, 'non risorge né non risorge' non va.""
" Perciò Anuradha – quando non puoi conoscere, in questa esistenza, il Tathagata come realmente è – è retto fare queste affermazioni:'Amici, il Tathagata – il supremo, il magnifico, l'eccelso – viene descritto con queste quattro caratteristiche: il Tathagata esiste dopo la morte, non esiste dopo a morte, esiste e non esiste dopo la morte, né esiste né non esiste dopo la morte?'" (https://www.canonepali.net/2015/06/sn-22-86-anuradha-sutta-per-anuradha/)
"Questo è stato detto dal Beato, è stato detto dall'Arahant, e così ho sentito: "Vi è, monaci, un non-nato — non-divenuto — non-creato — non-formato. Se non ci fosse il non-nato — non-divenuto — non-creato — non-formato, non ci sarebbe alcuna conoscenza della liberazione da ciò che è nato— divenuto — creato — formato. Ma poiché vi è un non-nato — non-divenuto — non-creato — non-formato, vi è la conoscenza della liberazione da ciò che è nato— divenuto — creato — formato."
Ciò che è nato, divenuto, prodotto,
creato, formato, impermanente
composto da nascita e morte,
nido di malattie, soggetto a perire,
che dipende dal nutrimento
e la guida [cioè la brama] —
non può portare alla gioia.
L'unica salvezza
è
calma, permanente ("dhuva")
oltre il comune ragionare,
non-nata, non-prodotta,
priva di sofferenza, senza macchia,
la cessazione di tutte le sofferenze,
la felicità che
placa ogni coefficiente. ." (https://www.canonepali.net/2015/06/itivuttaka-la-sezione-delle-coppie/)
e potrei trovarne altre.
Nonostante ciò ti posso fare un esempio di un monaco buddhista che ha affermato di essere un Sotapanna* ("primo grado del risveglio") che ha affermato che termini come "non-nato" non sono referenziali, bensì significano "libertà dalla nascita" e così via. Ergo Nirvana=Non-Esistenza e non "il vuoto quantistico". E non è l'unico. Termini come "dhuva" vengono intesi come "irreversibile" e non "permanente". E così via. Ragionando con me stesso mi sono dunque chiesto: come può una persona interessata alla spiritualità pensarla in questo modo? Semplice: pensa di aver capito che è da "tempo immemore" che nasci, soffri e muori, rinasci, ri-soffri e ri-muori, a questo punto qualsiasi cosa che ti libera da questo "inferno" ti va bene. Un po' come Prometeo che è stato condannato da Zeus per l'eternità ad essere torturato da un'aquila che gli mangia il fegato (che ogni notte ricresce) certamente "preferirebbe" riuscire a "non-esistere". Allo stesso modo la compassione la si ha perchè l'altro soffre, non perchè l'altro ha "valore intrinseco" ecc. Le attività "nobili" del samsara non sono nobili, ma non hanno valore intrinseco. Ergo: siccome "tutto è vano" allora è meglio "la non-esistenza". Fai conto che questa "saggia" interpretazione si ben accorda con le metafore del "fuoco estinto", "ogni cosa è senza sostanza" ecc. Una interpretazione simile con ad esempio l'unione con Brahman non è possibile, in quanto per quanto "non sia una cosa" (no-thing) e per quanto "l'essere non è un essere (being is not a being)" comunque (nirguna) Brahman "è la Realtà".
Come la vedo io è ben diversa, invece. Non è che le cose del samsara siano solo "vane". Hanno anche un valore positivo. Però non sono il "Summum Bonum" ed ergo termini come "non-nato" sono referenziali, sono aggettivi. Ma questo significa attribuire al Nirvana una "realtà" molto simile a quella di "nirguna Brahman", Dao ecc. Solo così si viene salvati dal nichilismo, ovvero vedere anche nelle cose un valore "positivo" e non solo "negativo", in modo che "Nirvana" non sia la "mera estinzione". Anzi è la realtà più autentica e "reale" ma a differenza di Dao, Brahman, l'Uno platonico ecc non è in rapporto "causale" (in un certo senso) con le "cose" [e questo è un altro punto che mi disturba parecchio, personalmente ho capito che sono un "platonico" in un certo senso, peccato che l'Accademia è estina ecc ecc]. Inoltre anche la stessa dottrina dell'anatta mi da molte perplessità. Solitamente non capisco cosa è un animale realizzando che "ogni animale non è una pianta", capisco l'animale in quanto animale, non in quanto non essere pianta. Allo stesso modo "sabbe dhamma anatta" (ogni cosa è priva di sostanza) non mi dice "la natura della realtà". Ovviamente c'è anche qui un'interpretazione nobile, ovvero l'interpretazione apofatica ovvero che "la realtà trascende ogni concettualizzazione". Anche lo stesso fatto che il Nirvana non ha rapporto causale è molto interessante, anche se non mi convince. Come vedi il buddhismo mi affascina ma non mi convince, ho troppe questioni su cui non sono d'accordo. Ho un rapporto che non so nemmeno spiegare con il buddhismo.
Ma si può andare anche oltre e pensare alla Mente Luminosa (ad esempio: https://suttacentral.net/it/iti27). Ovvero che la nostra mente non è "nata nel peccato" bensì è di per sè "pura" e "luminosa". I Mahayana hanno sottolineato questo aspetto del buddhismo, ovvero che Prajna e Metta/Karuna si rafforzano l'una con l'altra e che la mente è naturalmente luminosa ma è "oscurata" dagli inquinanti. Tolti gli inquinanti la Mente diventa Luminosa, irradia compassione verso tutti gli esseri viventi (idea che in parte è presente nel Canone Pali, vedi citazione sopra). Il Nirvana stesso comincia a somigliare ad un "tipo" di questa mente luminosa: anzi la mente più pura in assolutamente. Il "fuoco estinto" in sostanza non ha smesso di esistere, ma è nel suo "stato naturale", per così dire. A questo punto però se il Nirvana è una forma di "mente" che differenza c'è con l'Atman/Atta induista? E in questo periodo è proprio questo aspetto della mente luminosa che mi attrae di più, credo che ciò sia dovuto al fatto che avendo io "studiato troppo" comincio a vedere che la conoscenza non è sufficiente se non c'è la "mente luminosa", ovvero la (giusta) relazione con l'altro, l'irradiamento di "metta" ecc.
Riguardo alla fisica. Anche qui c'è molta discussione su come interpretare il "vuoto quantistico". Alcuni ritengono che sia una "vuota" non esistenza. Altri invece ritengono che sia qualcosa di "reale". Le particelle sono "eccitazioni" dei campi e una volta "estinte" le particelle... ;D sono proprio questi "collegamenti" tra la filosofia indiana (e in minor parte greca e cinese) che mi sorprendono. Incredibile come idee che hanno avuto origine con l'introspezione tornano. E devo dire che a differenza di moltissimi altri fisici per me "il vuoto" è tutt'altro che la non-esistenza ;)
*Ci si può chiedere se un "sotapanna" abbia davvero la comprensione completa del Nirvana (sul fatto che i sotapanna possono abbiano o meno una conoscenza infallibile di "cosa sia" il nirvana chiedo lumi al Sari...). Anche perchè questa interpretazione negativistica non è condivisa, da quanto ho capito, nell'Abhidhamma e nei commentari per quanto riguarda la filosofia Theravada, nella filosofia Cittamatra e forse anche in quella Madhyamaka in quella Mahayana. Il monaco a cui mi riferisco è citato qui (https://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=22421) ovvero Nanavira, ex-ufficiale inglese che ha dichiarato di essere sotapanna. Nella sua visione nirvana e non-esistenza sono la stessa cosa - il che ci induce a chiederci su come questo monaco interpretava frasi come "redento ad ogni attaccamento il Compiuto (Tathagatha) è quindi profondo, immensurabile, imperscrutabile, quasi come l'oceano".
Citazione di: green demetr il 22 Dicembre 2017, 23:33:03 PM
Citazione di: Apeiron il 20 Dicembre 2017, 09:58:44 AMGrazie Sari ;) Certamente è un approccio molto pragmatico che ha moltissimi pregi. Mi era venuta questa perplessità considerando l'eventualità di un "inizio" del samsara però come ben dici tu farci una teoria sopra è "pura speculazione" ;)
Direi invece di no. Infatti a meno che non si intenda speculazione nel senso di un annoiato raccontarsi barzellette. la speculazione sul vuoto, non può che portare a forme di avvicinamento al DIO. poichè se il vuoto è ciò che a noi compare come DIO; allora vi è una strada speculare, il nobile silenzio, di attestazione di come noi siamo lo specchio, lo speculum, la speculazione di questo essere qualcosa che vuole tornare al niente, perchè sà di essere qualcosa.(sembra un paradosso, ma se uno ci medita o ci ragiona a fondo non lo è affatto, una volta vista l'orizzonte e la meta) Vi è una immensa saggezza, che solo chi ha praticato meditazione come me, riesce a capire, abbastanza rapidamente. (gli altri si armino di pazienza). Infatti cosa è la meditazione se non la riflessione sui metodi di de-sogettivazione, fino a raggiungere l'animus del MONDO, che si presenta come VUOTO. Ho già spiegato che questa sensazione è terrificante. Perchè se lo fai con dedizione e ingenuità come ancora bambino feci, ti arrischi in territori pericolosi. Per questo c'è bisogno del maestro, qualcuno che ti insegni a come prendersi cura di se stessi. (è alle note della cronaca come alcuni santoni siano chiaramente invasati, e come altri invece abbiamo un carisma difficile da trovarsi in occidente.). Certamente la via mediana, ossia mediata delle comunità buddiste, serve anche a quello. Ma è come una via media ad una via media che però è in sè terribile. Vi trovo molte assonanze con la mia esperienza induista. Grazie.
Nella filosofia Cittamatra (Yogacara) e secondi molti maestri della Tradizione della Foresta Thailandese - per quanto ho capito - il Nirvana
è una mente "luminosa" che ha trasceso il "soggetto" e l'"oggetto". In un certo senso è una sorte di "morte" perchè il soggetto non esiste più, però non è il nulla ("nothing"), quanto non è una cosa ("no-thing").
"Così se ci fosse una casa con un tetto o una sala con un tetto che abbia finestre a nord, a sud o ad est. Quando il sole sorge, ed un raggio entra dalla finestra, dove si stabilisce? "
"Sul muro di ponente, signore."
"E se non c'è muro di ponente, dove si stabilisce? "
"Sul pavimento, signore."
"E se non c'è pavimento, dove si stabilisce? "
"Sull'acqua, signore."
"E se non c'è acqua, dove si stabilisce? "
"Non si stabilisce, signore.""Allo stesso modo, dove non c'è desiderio per il nutrimento di cibo fisico, dove non c'è piacere, nessuna brama, allora la coscienza non si stabilisce e non cresce. Dove la coscienza non si stabilisce, il nome e la forma non si sviluppano. Dove il nome e la forma non si sviluppano, non c'è nessuna crescita delle predisposizioni karmiche. Dove non c'è crescita delle predisposizioni karmiche, non si genera il divenire per una nuova rinascita. Dove non si genera il divenire per una nuova rinascita, non c'è nascita , vecchiaia e morte. Quindi, vi dico, nessun dolore, afflizione o disperazione." (https://www.canonepali.net/2015/05/sn-12-64-atthi-raga-sutta-dove-ce-avidita/)
Qui la mente è paragonata ad un raggio di luce ("mente luminosa"...). Quando ha attaccamenti e avversioni è come il raggio di luce che si stabilisce su una superficie. Viceversa quando non ha attaccamenti (attenzione: "non-attaccamento" non significa non amare ma anzi è vista come la forma più pura e autentica di amare) e avversioni è come il raggio di luce che non si stabilisce, libero. Chiaramente il raggio di luce "esiste". Quindi sì ci sono ovvie somiglianze con l'induismo.
Riguardo al punto di vista esperienziale concordo che in genere la spiritualità è sia positiva che terrificante. Infatti è legata al senso del "numinoso" (ad esempio come diceva Otto) che è simile al "sublime" di Schopenhauer. La spiritualità, Dio, il Nirvana, la dissoluzione dell'io non sono solo piacevoli ma fanno anche paura. E cercare essi - con pazienza e dedizione - è un rischio oltre che un motivo di isolamento. E il "fallimento" è possibile, purtroppo. Ad ogni modo l'interpretazione apofatica del buddhismo e aggiungo l'interpretazione "non orotodossa" (?) del Nirvana come un tipo speciale di "discernimento (vijnana) senza alcun oggetto", ovvero come una mente senza oggetto né soggetto rendono molto simile il buddhismo alle tradizioni non-duali dell'induismo, del daoismo e in parte anche alla filosofia platonica (anzi il buddhismo Mahayana è esplicitamente non-duale...). Di certo visto che l'idea torna, secondo me è un chiaro segno che la realtà è "oggettivamente" così.
Comunque quelle che ho espresso sono solo una parte delle mie perplessità sul buddhismo (e alcune di esse si possono anche applicare all'induismo e ad altre tradizioni). Però non c'entrerebbero molto con questa discussione sul "vuoto" ;)
Anzi in tutto questo vorrei far notare che nel cristianesimo "giovanneo" (ovvero Vangelo secondo Giovanni e prima lettera di Giovanni, ad esempio), "luce" e "agape" sono molto connessi. E si arriva a dire "Dio è agape", che Gesù porta la luce ecc. CI deve essere qualcosa di vero in tutto questo, che non dipende dal condizionamento sociale, a differenza di quanto il "relativismo culturale" afferma ;)
P.S. [Off-topic per Green] Platone non è per nulla dogmatico... d'altronde il successore alla guida dell'Accademia Platonica, Speupippo ha rifiutato l'identificazione tra la Realtà Suprema e il Bene e anche molte caratteristiche dell Forme attribuite da Platone stesso. Era un ambiente molto vivace in cui si discuteva della filosofia e si rifiutavano spesso le opinioni del maestro ecc. Il contrario del dogmatismo, insomma ;) [lo scrivo qui e non nel topic che hai aperto sulla orizzontalità e verticalità perchè in quel topic ho poche cose da dire (per ora) e non volevo fare un post inutile su una frase che hai scritto. Secondo me la nostra convinzione che Platone e Aristotele fossero "chiusi" nasce dal fatto che in troppi li hanno presi come tali. Tant'è che Platone ha scritto solo dialoghi e lettere, ovvero le cose meno sistematiche che si possono scrivere. Segno, secondo me, di apertura al dialogo e alla dialettica. Di certo il Socrate (ma anche molti altri personaggi) dei dialoghi platonici non mi sembra uno che "predica" bensì uno che indaga sulla realtà con i suoi interlocutori. Viceversa per esempio un Buddha sa già la realtà delle cose e le spiega agli altri... non è una ricerca fatta assieme, ma un maestro che ceerca di "dire la sua verità". Sinceramente in nessuno dei dialoghi platonici vedo una chiusura alle obiezioni, alle correzioni delle teorie ecc vedo semmai una sforzo condiviso per raggiungere la comprensione delle cose ;) anzi e molto spesso l'idea che ho avuto è che molte "dottrine" siano considerate "ipotesi" sulla realtà. Ergo: non confondiamo la chiusura dei "seguaci" (tra l'altro nati secoli o millenni dopo) con il comportamento dei "maestri" ;) ]
@Apeiron scrive:
Riguardo alla fisica. Anche qui c'è molta discussione su come interpretare il "vuoto quantistico". Alcuni ritengono che sia una "vuota" non esistenza. Altri invece ritengono che sia qualcosa di "reale". Le particelle sono "eccitazioni" dei campi e una volta "estinte" le particelle... (https://www.riflessioni.it/logos/Smileys/default/grin.gif) sono proprio questi "collegamenti" tra la filosofia indiana (e in minor parte greca e cinese) che mi sorprendono. Incredibile come idee che hanno avuto origine con l'introspezione tornano. E devo dire che a differenza di moltissimi altri fisici per me "il vuoto" è tutt'altro che la non-esistenza (https://www.riflessioni.it/logos/Smileys/default/wink.gif)
"Il vuoto è l'assenza del pieno?", chiese un monaco.
"Non precisamente" disse Joshu. "Il vuoto è una doppia assenza".
"Che vuoi dire?".
"L'assenza del vuoto è l'assenza dell'assenza", disse Joshu. **
Ragionando con me stesso mi sono dunque chiesto: come può una persona interessata alla spiritualità pensarla in questo modo? Semplice: pensa di aver capito che è da "tempo immemore" che nasci, soffri e muori, rinasci, ri-soffri e ri-muori, a questo punto qualsiasi cosa che ti libera da questo "inferno" ti va bene. Un po' come Prometeo che è stato condannato da Zeus per l'eternità ad essere torturato da un'aquila che gli mangia il fegato (che ogni notte ricresce) certamente "preferirebbe" riuscire a "non-esistere".
Un monaco chiese: "Quante vite mi sono rimaste?".
"Tu non hai molte vite", disse Joshu, "tu sei molte vite".
"Questo significa che non le ho perdute?".
"Non puoi perdere quel che sei", disse Joshu.
@Green demetr scrive:
Infatti cosa è la meditazione se non la riflessione sui metodi di de-sogettivazione, fino a raggiungere l'animus del MONDO, che si presenta come VUOTO.
Ho già spiegato che questa sensazione è terrificante. Perchè se lo fai con dedizione e ingenuità come ancora bambino feci, ti arrischi in territori pericolosi.
@Apeiron commenta:
Riguardo al punto di vista esperienziale concordo che in genere la spiritualità è sia positiva che terrificante. Infatti è legata al senso del "numinoso" (ad esempio come diceva Otto) che è simile al "sublime" di Schopenhauer. La spiritualità, Dio, il Nirvana, la dissoluzione dell'io non sono solo piacevoli ma fanno anche paura.
Un praticante chiese a Joshu:
"Dimmi, maestro, perché mi sento così solo la notte? Ho la sensazione che solo la morte mi guardi":
E Joshu: "Tu non sei solo, tu sei nel cuore del mondo".
"Ma sono nel cuore del mondo, come dici tu" fece quello, "proprio perché sono solo, e questo è terribile".
"Tu non ami le cose terribili?" , disse Joshu. **
@Green demetr scrive:
(è alle note della cronaca come alcuni santoni siano chiaramente invasati, e come altri invece abbiamo un carisma difficile da trovarsi in occidente.).
Come è vero! :( :)
@Apeiron chiede al Sari:
Ci si può chiedere se un "sotapanna" abbia davvero la comprensione completa del Nirvana (sul fatto che i sotapanna possono abbiano o meno una conoscenza infallibile di "cosa sia" il nirvana chiedo lumi al Sari...).
"Quando potrò comprendere che cos'è il Nirvana?", chiese un monaco.
"Quando cesserai di essere nel Samsara ", disse Joshu.
"Ma allora sarò già per questo nel Nirvana?", proseguì il monaco.
"No, sarai ancora nel Samsara ", disse Joshu.
"Ma tu hai detto che dovrò cessare di essere nel Samsara per comprendere il Nirvana?", insistette quello.
"Infatti". **
Buon Natale a tutti !... :)
** tratto da "Pensare il Buddha" di F. Masini.
@Sari, il fatto che da un punto di vista buddhista chi ha ottenuto la "corrente" non è "inerrante" nella sua comprensione della dottrina è qualcosa di molto liberante, ovvero lascia la possibilità che scuole buddhiste diverse (poniamo ad esempio Theravada e Dzogchen per esempio) riescono a condurre al risveglio anche se le dottrine sono chiaramente diverse. Così posso pensare che Nanavira abbia veramente ottenuto lo stadio di Sotapanna anche se magari il suo rifiuto dell'Abhidhamma, del Milindapanha e del Visuddhimaggha erano basati su un errore di comprensione. O viceversa se Nanavira nella sua interpretazione "nichilista" ha fatto giusto ciò non toglie che per esempio un buddhista che crede nella "Natura di Buddha" non possa arrivare ad "entrare nella corrente". Personalmente se il buddhismo è "vero" sono più propenso a considerare che differenti interpretazioni conducano alla "meta". Altrimenti il buddhismo diventa una sorta di "gnosticismo" in cui solo chi ha una particolare interpretazione "vince". Se, poniamo, Nanavira ha descritto l'unica "visione giusta" allora possiamo cestinare tutta la letteratura dei commentari Theravada e i Mahayana dovrebbero essere "cestinati". Oppure se l'unica letteratura giusta è quella, poniamo, Zen allora dovremmo "cestinare" il Milindapanha ecc. Questo del settarianismo è un problema che va avanti da millenni e pensare che solo un gruppo strettissimo di persone ha "la chiave della salvezza" mi rende molto perplesso. Una cosa simile la insegnavano a loro tempo gli gnostici. Personalmente una visione "nichilista" del Dhamma mi pare completamente fuori luogo anche se "compatibile con i suttas", ma - se il buddhismo è "vero" - di certo non mi metto a dire che chi la "possiede" non possa dare insegnamenti importanti e illuminanti (in realtà alcune cose di Nanavira le ho lette con interesse, per esempio). Però una tale visione mi dà un'immagine simile alla situazione di Prometeo che dicevo. E personalmente non ritengo che solo chi ritiene che "tutto ciò che esiste è futile e la non-esistenza è la cosa migliore di tutte" abbia capito veramente la realtà, anche se ammetto che anche uno che la pensa così possa avere una spiritualità molto sviluppata. Anzi per me è ovvio che questi si siano presi un "granchio" ma è anche vero che noto sempre di più che ciò che per me è ovvio non lo è per molti e viceversa ;D [e ovviamente la mia mente di scimmia potrebbe non aver capito una "cippa" né di Nanavira né del Buddha-Dhamma e nemmeno della fisica ;D ]. Ad ogni modo so che anche tu non hai una visione "gnostica" del buddhismo - ovvero non credi che solo una interpretazione conduce al "progresso spirituale".
Comunque bellissime le tue citazioni, davvero :)
Riguardo alla questione dei "guru" indiani concordo con voi due (i.e. Sari e Green). Ed è la riprova che conoscenza e pratica senza la "bontà d'animo" non portano a nulla di buono!
Riguardo al vuoto quantistico... il motivo per cui non credo che il vuoto quantistico sia la non-esistenza è perchè credo che le leggi delle fisica e i campi quantistici descrivano qualcosa di tanto reale quanto la sedia su cui adesso sono seduto. Una realtà diversa che molti non riconoscono, ma pur sempre una realtà :)
Comunque Buon Natale a tutti anche da parte mia :)
Metta _/\_
Citazione di: Apeiron il 23 Dicembre 2017, 18:31:52 PM@Sari, il fatto che da un punto di vista buddhista chi ha ottenuto la "corrente" non è "inerrante" nella sua comprensione della dottrina è qualcosa di molto liberante, ovvero lascia la possibilità che scuole buddhiste diverse (poniamo ad esempio Theravada e Dzogchen per esempio) riescono a condurre al risveglio anche se le dottrine sono chiaramente diverse. Così posso pensare che Nanavira abbia veramente ottenuto lo stadio di Sotapanna anche se magari il suo rifiuto dell'Abhidhamma, del Milindapanha e del Visuddhimaggha erano basati su un errore di comprensione. O viceversa se Nanavira nella sua interpretazione "nichilista" ha fatto giusto ciò non toglie che per esempio un buddhista che crede nella "Natura di Buddha" non possa arrivare ad "entrare nella corrente". Personalmente se il buddhismo è "vero" sono più propenso a considerare che differenti interpretazioni conducano alla "meta". Altrimenti il buddhismo diventa una sorta di "gnosticismo" in cui solo chi ha una particolare interpretazione "vince". Se, poniamo, Nanavira ha descritto l'unica "visione giusta" allora possiamo cestinare tutta la letteratura dei commentari Theravada e i Mahayana dovrebbero essere "cestinati". Oppure se l'unica letteratura giusta è quella, poniamo, Zen allora dovremmo "cestinare" il Milindapanha ecc. Questo del settarianismo è un problema che va avanti da millenni e pensare che solo un gruppo strettissimo di persone ha "la chiave della salvezza" mi rende molto perplesso. Una cosa simile la insegnavano a loro tempo gli gnostici. Personalmente una visione "nichilista" del Dhamma mi pare completamente fuori luogo anche se "compatibile con i suttas", ma - se il buddhismo è "vero" - di certo non mi metto a dire che chi la "possiede" non possa dare insegnamenti importanti e illuminanti (in realtà alcune cose di Nanavira le ho lette con interesse, per esempio). Però una tale visione mi dà un'immagine simile alla situazione di Prometeo che dicevo. E personalmente non ritengo che solo chi ritiene che "tutto ciò che esiste è futile e la non-esistenza è la cosa migliore di tutte" abbia capito veramente la realtà, anche se ammetto che anche uno che la pensa così possa avere una spiritualità molto sviluppata. Anzi per me è ovvio che questi si siano presi un "granchio" ma è anche vero che noto sempre di più che ciò che per me è ovvio non lo è per molti e viceversa ;D [e ovviamente la mia mente di scimmia potrebbe non aver capito una "cippa" né di Nanavira né del Buddha-Dhamma e nemmeno della fisica ;D ]. Ad ogni modo so che anche tu non hai una visione "gnostica" del buddhismo - ovvero non credi che solo una interpretazione conduce al "progresso spirituale". Comunque bellissime le tue citazioni, davvero :) Riguardo alla questione dei "guru" indiani concordo con voi due (i.e. Sari e Green). Ed è la riprova che conoscenza e pratica senza la "bontà d'animo" non portano a nulla di buono! Riguardo al vuoto quantistico... il motivo per cui non credo che il vuoto quantistico sia la non-esistenza è perchè credo che le leggi delle fisica e i campi quantistici descrivano qualcosa di tanto reale quanto la sedia su cui adesso sono seduto. Una realtà diversa che molti non riconoscono, ma pur sempre una realtà :) Comunque Buon Natale a tutti anche da parte mia :) Metta _/\_
Concordo. Per questo bisogna "andare a vedere" personalmente e non dipendere dall'autorità di un maestro, né da quella di chi dice di sapere. Possiamo leggere infinite etichette incollate sulla bottiglia, che ci descrivono le qualità del vino contenuto...ma se poi non lo assaggiamo come facciamo a sapere quanto è "buono"?... ;D
cit sari "cit masini "pensare il buddha" :"L'assenza del vuoto è l'assenza dell'assenza", disse Joshu.""
Lo sapevo! Ci doveva per forza essere!! Ora deve recuperare chi sia questo Joshu.
Passaggi selezionati con grande intelligenza Sari, mi sono piaciuti tantissimo.
E' come se facessero eco a quello che stiamo dicendo.
cit apeiron
"Nonostante ciò ti posso fare un esempio di un monaco buddhista che ha affermato di essere un Sotapanna* ("primo grado del risveglio") che ha affermato che termini come "non-nato" non sono referenziali, bensì significano "libertà dalla nascita" e così via. Ergo Nirvana=Non-Esistenza e non "il vuoto quantistico". E non è l'unico. Termini come "dhuva" vengono intesi come "irreversibile" e non "permanente".
Ma il nirvana samsara non è il samsara tutto.
Mi sembra che stai facendo un errore banalissimo.
E' la modalità mediana ricordi????
E' ciò che viene prima dell'esistenza! quindi è esente dalla nascita, perchè la nascita è parte della vita come appunto "una parte del tutto".
In questo caso certo possiamo intendere anche che Nirvana è "non esistenza", ma nel senso di qualcosa che non è qualcosa, appunto un campo (non ho idea di cosa sia il vuoto quantistico, io nelle conferenze ho sempre sentito parlare di campo. Nell'eccezione generale della fisica).
Che appunto tu intenda quel campo o vuoto quantistico come qualcosa secondo me è un intuizione corretta. :D (o almeno lo è se cerchiamo un modo di unire quello che scaturisce dalla meditazione, o dalla riflessione, tra i rapporti tra pensiero antico e moderno).
Sulla questione di dhuva devo riflettere. E sopratutto informarmi. ;)
ps.
Ma non volevo certo scagliarmi contro Platone in toto, volevo far un pò di polemica goffa, rispetto all'amico Kobayashi.
Volevo semplicemente far notare che manca il pensiero sulla contemporaneità.
Ecco.
Tranquillo non sono uno che grida di bruciare i libri! ;=)
Auguri di buon natale a tutti. :)
@Sari, sì e in questo senso il buddhismo è fantastico. Perfino nel buddhismo tibetano (tantrico o meno) ,che ho scoperto che in realtà da molta importanza alle speculazioni e ai dibattiti filosofici, dove la figura del "guru" è centrale, lo studente è obbligato a praticare lo scetticismo! Ovvero lo studente deve mettere in discussione ciò che gli viene detto.
@Green, sì posso ammettere che il Nirvana e il Tutto non coincidano e in tal caso posso anche ammettere che il nirvana sia la "non-esistenza". Ma c'è da dire che l'interpretazione "classica" Theravada - quella dei commentari canonici e post-canonici - sembra essere che "il nirvana è una realtà esistente", incondizionata, eterna (=dhuva), permanente (=nicca), priva di nascita e morte (ajati e amata). Inoltre in un certo senso è "pace", tranquillità, calma, felicità, rifugio ecc questa interpretazione è secondo me molto più attinente ai testi (vedi ad esempio: https://www.canonepali.net/2015/06/udana-8-1-nibbana-sutta-la-completa-liberazione-1/). L'interpretazione nichilistica invece non era presente in nessuna scuola antica, eccetto forse i Sautrantika. Credo che sia una innovazione moderna e non molto buona, in realtà nata in particolar modo dall'influenza "nichilistica" della nostra cultura. Se fosse "vera" non si spiega perchè non era "dominante" nell'antichità (eccetto forse in una sola scuola). Riguardo poi alla parola "dhuva" ho provato a cercare vari dizionari della lingua Pali online e le traduzioni sono "eterno", "permanente", "sicuro", "stabile" (non so come salti fuori "irreversibile", forse facendo violenza al testo ;D ). Ma è anche vero che nei tempi moderni in cui si è dato molto interesse allo studio delle suttas sono uscite molte interpretazioni che confliggono sia con i commentari Theravada. Precisamente è uscita l'interpretazione:
1) nichilistica, già discussa - ovvero che "tutto l'esistenza è "negativa", priva di significato e la massima aspirazione è la non-esistenza";
2) una conferma dell'ortodossia theravada;
3) l'interpretazione di Nagarjuna ovvero che la distinzione tra samsara e nirvana, tra "questo" e "quello" è meramente mentale. Ma a differenza dell'induismo questa rimande una "non-dualità" e non una "unità". Il Thatagatha è "profondo" perchè non è possibile in alcun modo "misurarlo". Ovvero i concetti di "esiste (= traduzione forse impropria di "bhava")", "non esiste", "esiste e non esiste", "non esiste e non non esiste" non si applicano. (https://suttacentral.net/it/snp5.6). Il Tathagatha non lascia alcuna traccia, non lo può trovare perfino la Morte (Mara). Non lascia più tracce come gli uccelli nel cielo (Dhammapada 92,93). In sostanza ogni concettualizzazione non cattura il Tathagatha (quindi in un certo senso è una "realtà" ed "esiste" ma è incomprensibile a noi "uomini mortali" ;D )...;
4) un'interepretazione molto suggestiva tipica (credo) della filosofia Yogacara/Cittamatra e della tradizione della Foresta thailandese per cui il nirvana è una radicale "trasformazione" della coscienza: una coscienza senza "supporto", libera come il raggio di luce di pochi messaggi fa. Una coscienza (vijnana) che non è "fissata" su nulla, senza oggetto e soggetto. Inoltre è luminosa (=irradia "metta" ovunque) ecc questa interpretazione secondo me è quella più affascinante di tutte anche perchè ultimamente sto vedendo che prajna (= saggezza) e metta (=buona volontà/amore)/karuna (=compassione) vanno in realtà a braccetto e che la saggezza autentica è accompagnata dalla "buona volontà" e viceversa. Questa convinzione esposta anche da Sariputra un po' di messaggi fa mi sta aiutando moltissimo.
Comunque per dire quanto induismo e buddhismo (soprattutto mahayana) a volte si somigliano... Nel buddhismo mahayana a volte il nirvana viene visto come la "non-esistenza" ma solo finché si rimane nella mente discriminatoria. Il "realizzato" "sa" che l'unica vera realtà è il Dharmakaya e il Buddha storico stesso è una sua "manifestazione". Un po' come gli avatar insomma ;)
Comunque sulla questione della non-esistenza credo d'essere d'accordo con te, in realtà. Ad ogni modo perfino Anassimandro in modo simile aveva intuito che la vera realtà è oltre ogni discriminazione ("apeiron" (https://www.riflessioni.it/logos/Smileys/default/grin.gif))...
Ultima cosa: su Platone ho ritenuto "necesario" puntualizzare ciò perchè secondo me oggi tendiamo a vedere Platone e Aristotele dogmatici anche per merito del trattamento fatto da Nietzsche. Immaginavo infatti che tu non la pensavi così su loro due. Comunque vale la frase: "Amicus Plato — amicus Aristoteles — magis amica veritas" (Platone è un amico - Aristotele è un amico - la verità è una amica migliore) (https://www.riflessioni.it/logos/Smileys/default/grin.gif)
@Green demetr scrive:
Lo sapevo! Ci doveva per forza essere!! Ora deve recuperare chi sia questo Joshu.
Maestro Joshu è il maestro buddhista ch'an Chao Chou ( Ts'ung Shen, 778-897).
Grazie Sari. Cercherò subito dopo la risposta, informazioni in rete.
Non voglio perdere l'intuizione.
Ciò detto l'enorme ammasso di informazioni che state mettendo a disposizione è insieme interessante, e per un neofita come, improntato ormai alle distinzioni della filosofia piuttosto confuso.
Ho bisogno di formarmi una corretta genealogia delle fonti.
(cosa che sto facendo anche per l'induismo).
Proviamoci lo stesso.
Allora Apeiron tu dici che praticamente nella tradizione theravada (quella socialista mi pare, quella del carro maggiore, ma potrei sbagliare.)
Il Nulla (come lo avevi definito) non sia affatto una via mediana di manifestazione dell'ente.
Ma un ente in sè e per sè (utilizzando la terminologia aristotelico-tomista, una "causa sui").
Perciò parli di via nichilista.
Riportiamo il canone pali cit
Un bramano disse al Benedetto: "Allora, Maestro Gotama, tutto esiste? "
"'Tutto esiste' è la forma più alta della cosmologia, bramano."
"Allora, Maestro Gotama, niente esiste? "
"'Niente esiste' è la seconda forma della cosmologia, bramano."
"Allora tutto è Unicità? "
"'Tutto è Unicità' è la terza forma della cosmologia, bramano."
"Allora, tutto è Molteplice? "
"'Tutto è Molteplice' è la quarta forma della cosmologia, bramano. Evitando questi due estremi, il Tathagata insegna la via di mezzo del Dhamma"
Allora ragioniamo: sì può essere benissimo che sia così, anche se non so a quale periodo o scuola appartenga l'illuminante dialogo riportato in incipit.
(NR: Ho controllato, il canone pali è usato dal theravada, quindi la tua distinzione è quantomeno strana. Critichi un testo theravada, dicendo che non è theravada in sostanza! non cambia comunque quando vado sotto esponendo ;-) ).
Il maestro infatti dice che il buddismo ignora gli estremi, e si concentra sulla via mediana.
Ossia appunto fa partire l'ontologia non dal tutto, ma dal nulla in sè.
"Nulla" ontologico esistente, e non "niente" come assenza ontologica, come negazione, come mi par di capire avevi voluto sottolineare anche tu nel primo intervento.
Infatti proseguendo citi il Nirvana è esistente.
E su questo se ho capito bene dunque entrambi siamo d'accordo.
(non siamo d'accordo semmai sulla genealogia di questa ontologia.Che tu leggi in maniera problematica, se non contradditoria, e che invece a me sembra chiara.Infatti sono discorsi diversi, uno vuole essere di carattere generale, e inevitabilmente si rifà alla tradizione indù, ma l'altro è invece peculiare. E quindi peculiarmente sceglie una via ARGOMENTATIVA, simbolica, diversa.
Simbologia che noi da bravi filosofi chiamiamo ontologia.Ma immagino Sari è lì sull'uscio di villa Sari ad aspettarci per tirarci le orecchie.
incondizionata (ovviamente una causa sui non può essere condizionata, questo è solo un corollario, una ripetizione).
eterna (=dhuva) dunque eterno e non irreversibile, se fosse irreversibile vorrebbe dire che accetta l'idea di tempo.
Ma come sappiamo non esiste il tempo, in questo senso eterno credo.
permanente (=nicca) è il corollario di dhuva, se non diviene dunque permane.
priva di nascita e morte (ajati e amata) altro corollario nel senso che non può avere in sè il concetto stesso di nascita e morte.
Se lo avesse non sarebbe eterna, e ben più grave, non sarebbe causa sui.
Che è poi l'argomentazione evidentemente più importante per un filosofo occidentale (Che crede nel divenire).
cit Apeiron
Inoltre in un certo senso è "pace", tranquillità, calma, felicità, rifugio ecc questa interpretazione è secondo me molto più attinente ai testi.
Invece per me è problematico, perchè se avesse tali connotati, allora sarebbe condizionabile da essi.
Ma ovviamente quella buddista, non è una ontologia pura.
Qua secondo me perdiamo le cordinate, se non introduciamo invece la componente letteraria, e i suoi scopi. La telelogia del testo, e non della teoria.
Sempre considerando che il testo che tu citi caro Apeiron non contiene niente di quella che hai citato.
citx
Nibbana Sutta - Vi è quella dimensione dove non c'è terra, né acqua, né fuoco, né vento; non vi è la dimensione dell'infinità dello spazio, né la dimensione dell'infinità della coscienza, né la dimensione del nulla, né la dimensione di 'né-percezione-né-non-percezione'; non vi è questo mondo, né un altro mondo, né sole, né luna. E lì, io dico, non vi è giungere, né andare, né rimanere; né scomparire né sorgere: non è fisso, né si evolve, senza sostegno (oggetti mentali). Questa, solo questa, è la fine della sofferenza."
Che invece mi pare complementare alla idea ontologica che abbiamo insieme condiviso.
Intanto probabilmente un errore di traduzione: ..."la dimensione del nulla".
Non può essere il nulla visto che parliamo del nulla, la traduzione di qualcuno un pò più attento dovrebbe essere "non vi è la dimensione del niente".
Sottolinerei anche la raffinatezza di negare anche la dimensione dell'infinito, che per noi occidentali è invece imprescindibile della causa sui.
E che condivido, se qualcosa è permanente e fuori dal tempo, non può essere infinito.
Infinito vuol dire che è non finitezza, ma in sè, il nulla non ha la dimensione del niente. NON-finito = Insieme complementare del finito.E questone è impossibile.
Non a caso gli indiani sono geni matematici. Ossia non vi è complementarità nel nulla.(ed è quello che Buddha cerca di comunicare!) (nessun complementare in fin dei conti è negazione di qualsiasi dualità, e come dicevi tu Apeiron, è peculiare del buddhismo, nella mia scuola invece il dualismo è importantissimo).
cit Apeiron
L'interpretazione nichilistica invece non era presente in nessuna scuola antica, eccetto forse i Sautrantika. Credo che sia una innovazione moderna e non molto buona, in realtà nata in particolar modo dall'influenza "nichilistica" della nostra cultura. Se fosse "vera" non si spiega perchè non era "dominante" nell'antichità (eccetto forse in una sola scuola)
Ascolta Apeiron, proprio perchè il Nulla non è il Niente, ossia non è negazione, e sei il primo a ipotizzarlo, poi perchè chiami il Nulla come "Nichilistico alla occidentale", ossia comprendente il concetto di Niente, di non, di negazione, che tu per primo avevi escluso?
cit Apeiron
"con i commentari Theravada "
Abbi pazienza come dicevo all'incipit, non ho ancora questa visione d'insieme.
Seguo comunque i tuoi passi
cit apeiron
"1) nichilistica, già discussa - ovvero che "tutto l'esistenza è "negativa", priva di significato e la massima aspirazione è la non-esistenza";"
Qua bisogna vedere se tu hai capito,o hai, come mi sembra travisato.
Di certo hai portato alla discussione due temi centrali anche per me.
Il significato, che per me è anche il senso. Seguendo le citazioni fatte finora, effettivamente non si ha ancora riempito di significati, di connotati direbbe Peirce, la grammatica senza la semantica, che dovrebbe collegarsi alla "causa sui" del Nulla. Insomma la sua giustificazione.
La non-esistenza, ossia il non vivere, che è poi la cosa più disturbante non solo del Buddhismo (ammesso che sia così) ma anche e sicuramente dell'induismo.
Ma allora perchè si dice Buddhismo sociale????
cit Apeiron
2) una conferma dell'ortodossia theravada;
vabbè dai non è solo un problema buddista, ma di qualsiasi religione che diviene istituzione.
3) l'interpretazione di Nagarjuna ovvero che la distinzione tra samsara e nirvana, tra "questo" e "quello" è meramente mentale.
Non so chi sia Nagarjuna, mi sembra una interpretazione abbastanza difficile da condividere.
La traduzione poi è sospetta a dir poco, mentale non so nemmeno se esista nella tradizione Induista.
cit apeiron
Ma a differenza dell'induismo questa rimande una "non-dualità" e non una "unità".
Hai colto perfettamente.
cit Sutta Nipāta da Upasiva-manava-puccha
[Upasiva:]
Se rimane in quella dimensione, Onniveggente,
sereno per molti anni,
rettamente
sarà sereno e liberato?
Avrà una simile coscienza?
[Il Buddha:]
Come una fiamma spenta dalla forza del vento
si estingue
e non può più essere identificata,
così il saggio libero dal nome
estinguendosi
non può più essere identificato.
cit apeiron
Il Tathagatha non lascia alcuna traccia, non lo può trovare perfino la Morte (Mara). Non lascia più tracce come gli uccelli nel cielo (Dhammapada 92,93). In sostanza ogni concettualizzazione non cattura il Tathagatha (quindi in un certo senso è una "realtà" ed "esiste" ma è incomprensibile a noi "uomini mortali" ;D )...;
Ma è proprio nel sutta da te citato che vi sono passaggi (che ahimè ho provato).
Ossia la distruzione del sè. (le tecniche meditative per arrivarvi.
Quindi non è vero che non possiamo comprenderla, semplicemente la sua comprensione coincide con la nostra dissoluzione.
Non so cosa sia il Tathagatha, immagino sia sempre il Nulla.
cit Sutta Nipāta da Upasiva-manava-puccha
Concentrato con presenza mentale sulla vacuità, [la dimensione della vacuità, uno dei quattro livelli di assorbimento mentale (jhana), dopo la dimensione dell'infinità della coscienza, concentrandosi sulla percezione del nulla.]
Anzitutto le correzioni grammatiche.
Ci si concentra sul propria presenza astenendosi dalle percezioni sensoriali esterne. Ossia si allena propriamente il soggetto, a riconoscersi come tale.
Non esiste meditazione senza che il soggetto si riconosca come tale.
Ossia come Coscienza (di mentale non vi è proprio niente, perchè si potrebbe pensare come fa la scemo-scienza che esistano proprietà alla cosidetta mente.
e quindi che la dimensione del vacuo equivalga a qualche confusione dei due cerebri, ipotesi già avanzata NDR da qualcuno)
Ossia che vi è qualcosa d'altro, oltre al sè sensibile.(l'io nella tradizione filosofica occidentale).
Questo qualcosa d'altro qui lo chiamano dimensione, come in India lo chiamano piano dell'esistente (e a volte anche MONDO, PIANETA).
Una volta entrati nella meditazione ci si percepisce esattamente come infiniti.
Infatti il cervello comincia ad entrare in fase oscillante. E mentalmente (ammesso di chiamare mente, il piano della coscienza) ci si attiva in quel modo.
Io stesso l'ho provato letteralmente centinaia di volte.
Io la chiamo come fase dell'ascolto. Si ascolta. E' propriamente la dimensione degli orizzonti, delle fantasie, e delle storie sapienziali. (come letto da una tesi tempo fa, è anche precisamente la via che Platone ha magistralmente descritto, non la dimensione del visibile, ma la dimensione dell'accoglimento, e della trasformazione, platonismo ermetico probabilmente).
E' lì il danno :( che quando ci si libera dalla dimensione per così dire simbolica, ed è un passaggio sottolineato anche nell'induismo, si entra nella dimensione del vuoto. Ossia quando il soggetto ha scelto di non essere più tale.
Per quanto possa parere strano, io posso solo dire che non è via mortifera.
Anzi percepisci direttamente Dio come tale, ossia come voce oltre l'assenza.
Ma :( per accogliere quella voce, o meglio quello che sembra una voce, ma ovviamente non lo è, perchè quella sensazione è un tentativo disperato del soggetto, che sta andando verso una dissoluzione voluta.
A quel punto molti cadono, io compreso, perchè se non si ha abbastanza fede, allora quella voce, declina in maniera repentina come Pulsione di morte. E il soggetto per un processo naturale di vitalità, ossia di sopravvivenza, si defila, e si ripercuote anche sul fisico, a me con giramenti di testa, ma ho sentito di gente che è proprio uscita di testa. A essere cinici, c'è persino da chiedersi se questi santoni siano stati veramente in grado di entrare in quella dimensione ulteriore.
E come mai non descrivano come hanno fatto ritorno.
In questo senso, se è quello che ipotizzi, allora sono d'accordo, che anche il buddismo, almeno seguendo questo sutta, che copia spudoratamente dallo yoga, sia una religione pericolosamente nichilista. Di certo nega la vita.
E questo è difficile negarlo.
cit apeiron
4)4) un'interepretazione molto suggestiva tipica (credo) della filosofia Yogacara/Cittamatra e della tradizione della Foresta thailandese per cui il nirvana è una radicale "trasformazione" della coscienza: una coscienza senza "supporto", libera come il raggio di luce di pochi messaggi fa. Una coscienza (vijnana) che non è "fissata" su nulla, senza oggetto e soggetto. Inoltre è luminosa (=irradia "metta" ovunque) ecc questa interpretazione secondo me è quella più affascinante di tutte anche perchè ultimamente sto vedendo che prajna (= saggezza) e metta (=buona volontà/amore)/karuna (=compassione) vanno in realtà a braccetto e che la saggezza autentica è accompagnata dalla "buona volontà" e viceversa. Questa convinzione esposta anche da Sariputra un po' di messaggi fa mi sta aiutando moltissimo.
Non credo che il Nirvana, proprio per tutto quello che abbiamo detto sopra sia la trasformazione, ma di certo, la via che porta ad esso, porta a quella forma particolare di sapienza chiamata illuminazione.
A proposito giusto ieri ho ri-scoperto questo simbolo interessante. Il mandala degli 8 sentieri. (clicca per ingrandire, sul sentiero buddista c'è scritto "illuminazione" :D (bravo Apeiron e bravo Sari che l'avete intuito).
(https://4.bp.blogspot.com/-4kcBauYAOUc/WA62c7Aru4I/AAAAAAAADZU/7yJ-2_cOqdYs2TnU5qVUw0IVX-wQ8fqcQCLcB/s1600/14194495_10208087987490826_1573240387_n.jpg)
ideato da Anthony Elenjimittam. (mi sono imbattuto su di lui cercando le novità di filosofia nel catalogo mursia. ;D)
Come dire in fin dei conti credo che la dimensione più arricchente per la vita, sia proprio quella che compete alla vita, al simbolo, al soggetto. E anche su quello, se ho almeno vagamente inteso le tue aspirazioni, siamo d'accordo.
vabbè mi sembra di aver divagato abbastanza alla prossima.
ndr scusate il mandala originale è questo. (i traduttori italiani hanno fatto casino come al solito). Infatti non c'è la questione dell'illuminazione, che mi pare dal poco visto centrale comunque nel buddismo),
(https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/b/bf/8_Mandala_P_Anthony.tif/lossy-page1-800px-8_Mandala_P_Anthony.tif.jpg)
Green ti rispondo in molto incompleto stasera (hai messo un sacco di informazione in questo tuo ultimo post... ti risponderò con calma su tutto in questi giorni). Anzitutto "Theravada" è la scuola degli "anziani" e quindi quella che in genere è pensata più "conservatrice" mentre la Mahayana è più "progressista" e del "carro maggiore". La prospettiva Mahayana in genere è simile alle posizioni "3" e "4". Classicamente la Theravada è la "2" dove il Nibbana (Nirvana) è vista come una realtà incondizionata. La "1", la "3" e la "4" sembra che siano entrate solo modernamente nella Theravada. La "1" era (forse) la posizione di una scuola ad oggi estinta, i Sautrantika.
Personalmente l'interpretazione "4" secondo me è abbastanza "terrificante". Voglio dire è comunque una "morte" dell'io: una "coscienza" senza né soggetto né oggetto... una coscienza senza "oggetto"? sinceramente a pensarci seriamente mi manca la terra sotto i piedi!
Riguardo alla (1) e la (2) non ho travisato. Su questa puoi leggere questi topic del sito Dhammawheel https://dhammawheel.com/viewtopic.php?f=13&t=22409&start=1960 (in particolare il quinto post dall'alto - lo vedi che è lungo ;) ), https://dhammawheel.com/viewtopic.php?f=13&t=25336&p=364997&hilit=Unconditioned#p364885. Per Nanavira in particolare https://www.stephenbatchelor.org/index.php/en/existence-enlightenment-and-suicide "Nanavira firmly challenges the idea that the Buddha's Teaching is in any way life-affirming. ... For "Schweizer's philosophy is 'Reverence for Life', whereas the Buddha has said that just as even the smallest piece of excrement has a foul smell so even the smallest piece of existence is not to be commended." " (preferisco sinceramente non tradurre ;D anche perchè Nanavira, che si è auto-dichiarato "vincitore della corrente", sinceramente credo che abbia male interpretato i suttas ) http://www.nanavira.org/notes-on-dhamma/shorter-notes/nibbana (dove si vede che lui diceva che la "mera estinzione" è il Summum Bonum - sorprendentemente non è l'unico "Thera" a sostenere ciò. Mi pare sinceramente che sia più vicino alla visione dell'estinta scuola Sautrantika visto che....)
Visto che la scuola Theravada Classica (Abhidhamma con o senza commentari post-canonici) afferma che il Nirvana è l'unica "realtà incondizionata" (come si legge nel secondo link del sito "Dhammawheel"). Le altre due recentemente sono entrate anche nella scuola Theravada ma sono in realtà più tipiche dei Mahayana: in particolare la "3" dei Madhyamaka (Nagarjuna) e la "4" Yogacara/Cittamatra.
Ad ogni modo la sutta di Upasiva è tradotta male dall'inglese all'italiano. La risposta conclusiva in realtà recita:
Inglese: "There is no measure of the one who has come to rest, Upasīva," said the Gracious One,
"there is nothing by which they can speak of him,
when everything has been completely removed,
all the pathways for speech are also completely removed.""
Traduzione mia "Non c'è acuna misura per uno che si è estinto, Upasiva
non c'è niente che gli altri possano dire di lui,
quando ogni realtà è stata rimossa da lui,
tutte vie per parlarne sono completamente rimosse"
Ergo mi sembra chiaro che il Buddha qui non dice che il Realizzato semplicemente "muore" così come semplicemente non "muore" il fuoco spento (a differenza di come noi comprendiamo la metafora a causa del contesto culturale nostro). Semplicemente una mente che non ha più alcun attaccamento non può più essere nemmeno definita (se ci pensi ha anche senso). Non a caso le etichette come "bravo ragazzo", "lavoratore" ecc in fin dei conti tendono a "definire" l'uomo e quando uno ha rimosso ogni attaccamento e ogni avversione non è più definibile (c'è una sottile differenza rispetto a dire che "non esiste". Non a caso il "Thatagata è profondo, incommensurabile"). In modo simile considera questo passo:
["Do you see, bhikkhus, that cloud of smoke, that swirl of darkness, moving to the east, then to the west, to the north, to the south, upwards, downwards, and to the intermediate quarters?"
"Yes, venerable sir."
"That, bhikkhus, is Mara the Evil One searching for the consciousness of the clansman Godhika, wondering: 'Where now has the consciousness of the clansman Godhika been established?' However, bhikkhus, with consciousness unestablished, the clansman Godhika has attained final Nibbāna."]
Traduzione: ["Vedete monaci quella nuvola di fumo, quel vortice di oscurità, che si muove verso est, poi verso ovest, verso nord, verso sud, verso l'alto e verso il basso e verso le direzioni intremedie?"
Imonaci "sì, signore"
"Quello è Mara, il Maligno, che cerca la coscienza di Godhika, pensando "dove si è stabilita ora la coscienza di Godhika?" Tuttavia monaci, Godhika, con la coscienza che non si è stabilita da nessuna parte [traduzione di "unestabilished", lett. non-stabilita] ha ottenuto l'esitinzione finale"]
Vedi... a volte sembra proprio che lasci intendere che un tipo di "coscienza" rimane. Per certi versi chiaramente sia la fiamma che la "persona" sono estinte. Però mi pare chiaro che i testi qui lascino intendere che alla morte del "realizzato" non rimanga la sola non-esistenza. Quindi è scorretto dire che "il Tathagata non esiste" così come strettamente parlando non va bene nemmeno dire "il Tathagata esiste". Però per non sprfondare nel nichilismo ritengo più corretto pensare che il "Tathagata" esiste in un modo "indefinito" (e non bisogna poi confondere l'individuo con nirvana, nel senso che anche se si ammette l'esistenza del nirvana come "una realtà incondizionata" ciò non significa che il tathagata sia "immortale" ma anche in questo caso il suo status è "indefinito"... non chiedermi di spiegarti cosa significa ;D credo che vige il "nobile silenzio")
Riguardo a Nagarjuna e alla posizione "3" se ci fai caso è semplicemente la "non-dualità che rimande non-duale e non diventa "uno"". Ovvero è "non-duale" e "non-uno". Ovvero appunto tutte le concettualizzazione alla realtà ultima sono "trascese". Curiosamente la scuola Theravada in genere opta per distinguere il Nirvana dal Samsara dicendo che il Nirvana è "una realtà permanente (dhuva)".
Sul resto ti risponderò il prima possibile
(Ovviamente se ho sparato cavolate se leggerà il Sari mi affido alla sua saggezza di correggermi...)
Sul termine "nichilista". Se intendi col termine "nichilismo" l'assenza di una Realtà Ultima, di un Summum Bonum (contrapposto ai "beni relativi") allora secondo me né Yoga né buddhismo lo sono (eccetto forse quello della posizione "1" a meno che non abbia veramente travisato). Se per "nichilismo" intendi invece la "negazione della storia" in questo caso direi invece "sì" visto che in entrambi i casi l'obbiettivo è di "svincolarsi"/"trascendere". In ambo i casi non vedo in genere una "condanna" della realtà ciclica, quanto semmai una "consapevolezza" dell'esistenza del "dukkha", dell'insoddisfazione "di fondo". Comunque devo dire che sia le filosofie indiane che la cristianità non hanno una concezione molto "positiva" (Schopenhauer e Nietzsche avevano in realtà ragione secondo me a vedere analogie) dell'esistenza mondana: addirittura per secoli si è ritenuto in Europa che i bambini non battezzati finivano al Limbo o addirittura all'inferno - la filosofia indiana a confronto è "ottimisitica". A differenza ad esempio del taoismo le religioni/filosofie indiane e il cristianesimo mi pare che dicano che siamo in una situazione "non buona". Anzi sinceramente non so quale tradizione manda il messaggio più "terrificante"... personalmente già la possibilità della rinascita se uno ci pensa seriamente non è molto "rassicurante"... anzi mi sembra che le spiritualità più complete abbiano anche all'interno di esse un elemento molto "terrificante" pur non negando a volte che il mondo "materiale" contiene anche "del bene".
Provo a risponderti sul resto...
GREEN DEMETR
Il maestro infatti dice che il buddismo ignora gli estremi, e si concentra sulla via mediana.
Ossia appunto fa partire l'ontologia non dal tutto, ma dal nulla in sè.
"Nulla" ontologico esistente, e non "niente" come assenza ontologica, come negazione, come mi par di capire avevi voluto sottolineare anche tu nel primo intervento.
Infatti proseguendo citi il Nirvana è esistente.
E su questo se ho capito bene dunque entrambi siamo d'accordo.
(non siamo d'accordo semmai sulla genealogia di questa ontologia.Che tu leggi in maniera problematica, se non contradditoria, e che invece a me sembra chiara.Infatti sono discorsi diversi, uno vuole essere di carattere generale, e inevitabilmente si rifà alla tradizione indù, ma l'altro è invece peculiare. E quindi peculiarmente sceglie una via ARGOMENTATIVA, simbolica, diversa.
Simbologia che noi da bravi filosofi chiamiamo ontologia.Ma immagino Sari è lì sull'uscio di villa Sari ad aspettarci per tirarci le orecchie.
APEIRON
Il fatto che il Buddha continua ad affermare la Via di Mezzo mi fa pensare che in un certo senso la "3" (madhyamaka) e la "4" siano delle buonissime interpretazioni (con la "3" ancora più "coerente" della "4"). D'altronde sappiamo che il Buddha ha rifiutato "tutto è uno", "tutto è molti", "tutto è", "tutto non è". Inoltre ha anche dato un'importanza centrale al principio della Coproduzione Condizionata, ovvero "quando [non c'è] c'è questo, [non c'è] c'è quello. Dal [cessare] sorgere di questo [cessa] cessa quello". In fin dei conti se togliamo l'alimentazione al fuoco, questo cessa. Tuttavia non possiamo dire che il fuoco non esista, visto che in fin dei conti toccarlo non è piacevole. Nagarjuna dice che questa "legge" è universale, ovvero che ogni fenomeno non si può dire che esista o che non esista e questa è la "vacuità". In fin dei conti dire che qualcosa "non esiste" è come affermare che possa esistere "in potenza" e quindi è ancora attaccarsi "ad un sé". Da qui la concezione del Nirvana per Nagarjuna come, in fin dei conti, un modo diverso di intendere il Samsara (da qui "non c'è la minima distinzione tra samsara e nirvana e viceversa"). Interpretazione molto affascinante, che ha "vinto" anche i "pragmatici cinesi". Motivo per cui a livello ultimo secondo la scuola Madhyamaka (quella di N.) in fin dei conti non nasce nulla e non perisce mai nulla (ergo: non-due e non-uno). Curiosamente però l'ortodossia della scuola Theravada pare dire altro...Io spero che il Sari ci dia una bella lezione se "spariamo" cavolate ;)
Comunque il mio problema con questa ontologia non è tanto la sua coerenza (che lo è) tanto invece che mi pare che "manchi" qualcosa, ma questa potrebbe essere semplicemente la polvere nei miei occhi.
GREEN
incondizionata (ovviamente una causa sui non può essere condizionata, questo è solo un corollario, una ripetizione).
eterna (=dhuva) dunque eterno e non irreversibile, se fosse irreversibile vorrebbe dire che accetta l'idea di tempo.
Ma come sappiamo non esiste il tempo, in questo senso eterno credo.
permanente (=nicca) è il corollario di dhuva, se non diviene dunque permane.
priva di nascita e morte (ajati e amata) altro corollario nel senso che non può avere in sè il concetto stesso di nascita e morte.
Se lo avesse non sarebbe eterna, e ben più grave, non sarebbe causa sui.
Che è poi l'argomentazione evidentemente più importante per un filosofo occidentale (Che crede nel divenire).
APEIRON
Ecco questo è la versione "classica" Theravada, ovvero che il Nibbana è una "realtà incondizionata" (Abhidhamma - se sbaglio conto sul Sari). Questa interpretazione tende a rifiutare la versione della "mera cessazione" proprio perchè in tal caso il Nirvana non sarebbe incondizionato. Ma chi propone invece la versione "nichilistica" invece propende per leggere "ajati" come "a-jati", ossia "priva di nascita". Concordo con i classici che una tale interpretazione è in fin dei conti un sofismo. Fai conto che per i Theravada "ortodossi" il Nirvana però non è semplicemente un modo diverso di vedere il samsara (come per la Madhyamaka) ma proprio una "realtà" altra.
GREEN DEMETR
citx
Nibbana Sutta - Vi è quella dimensione dove non c'è terra, né acqua, né fuoco, né vento; non vi è la dimensione dell'infinità dello spazio, né la dimensione dell'infinità della coscienza, né la dimensione del nulla, né la dimensione di 'né-percezione-né-non-percezione'; non vi è questo mondo, né un altro mondo, né sole, né luna. E lì, io dico, non vi è giungere, né andare, né rimanere; né scomparire né sorgere: non è fisso, né si evolve, senza sostegno (oggetti mentali). Questa, solo questa, è la fine della sofferenza."
Che invece mi pare complementare alla idea ontologica che abbiamo insieme condiviso.
Intanto probabilmente un errore di traduzione: ..."la dimensione del nulla".
Non può essere il nulla visto che parliamo del nulla, la traduzione di qualcuno un pò più attento dovrebbe essere "non vi è la dimensione del niente".
Sottolinerei anche la raffinatezza di negare anche la dimensione dell'infinito, che per noi occidentali è invece imprescindibile della causa sui.
E che condivido, se qualcosa è permanente e fuori dal tempo, non può essere infinito.
Infinito vuol dire che è non finitezza, ma in sè, il nulla non ha la dimensione del niente. NON-finito = Insieme complementare del finito.E questone è impossibile.
Non a caso gli indiani sono geni matematici. Ossia non vi è complementarità nel nulla.(ed è quello che Buddha cerca di comunicare!) (nessun complementare in fin dei conti è negazione di qualsiasi dualità, e come dicevi tu Apeiron, è peculiare del buddhismo, nella mia scuola invece il dualismo è importantissimo).
APEIRON
Precisazione "la dimensione del Nulla" è un'esperienza meditativa condizionata, non è il "Nulla" di ci parliamo da un po' di tempo. Ciò causa confusione lo so ;D qui lasciami però dirti due cosette. Per la versione Madhyamaka sì, la tua interpretazione è corretta, nel senso che si nega ogni concettualizzazione. Il problema è che se non erro il Nirvana stesso è definito come "ananta" - senza "fine", ovvero "senza confini" (apeiron ;D ) - ergo puoi vederlo come un altro tipo di "infinito". Il problema infatti delle altre "dimensioni" è che c'è ancora il senso dell'io/mio, molto subdolo in verità. Come il caso del raggio di luce di prima... la differenza è che questo "infinito" non ha alcun "supporto", ovvero è infinito proprio perchè non si "identifica" con nulla. Qui vorrei farti notare come la "2", la "3" e la "4" (quella della "coscienza che non si stabilisce" e non che "si stabilisce dovunque" - due infiniti diversi) vanno però tutte bene col passo che hai citato, o almeno credo. Curiosamente anche la "1" volendo ci può stare, visto che mentre le altre esperienze meditative terminano, la completa e irreversibile "nullità" è anch'essa incondizionata, nel senso che è libera dai condizionamenti e non si può tornare indietro. Però concordo che parrebbe un mero sofismo.
GREEN DEMETR
Una volta entrati nella meditazione ci si percepisce esattamente come infiniti.
Infatti il cervello comincia ad entrare in fase oscillante. E mentalmente (ammesso di chiamare mente, il piano della coscienza) ci si attiva in quel modo.
Io stesso l'ho provato letteralmente centinaia di volte.
Io la chiamo come fase dell'ascolto. Si ascolta. E' propriamente la dimensione degli orizzonti, delle fantasie, e delle storie sapienziali. (come letto da una tesi tempo fa, è anche precisamente la via che Platone ha magistralmente descritto, non la dimensione del visibile, ma la dimensione dell'accoglimento, e della trasformazione, platonismo ermetico probabilmente).
E' lì il danno (https://www.riflessioni.it/logos/Smileys/default/sad.gif) che quando ci si libera dalla dimensione per così dire simbolica, ed è un passaggio sottolineato anche nell'induismo, si entra nella dimensione del vuoto. Ossia quando il soggetto ha scelto di non essere più tale.
Per quanto possa parere strano, io posso solo dire che non è via mortifera.
Anzi percepisci direttamente Dio come tale, ossia come voce oltre l'assenza.
Ma (https://www.riflessioni.it/logos/Smileys/default/sad.gif) per accogliere quella voce, o meglio quello che sembra una voce, ma ovviamente non lo è, perchè quella sensazione è un tentativo disperato del soggetto, che sta andando verso una dissoluzione voluta.
A quel punto molti cadono, io compreso, perchè se non si ha abbastanza fede, allora quella voce, declina in maniera repentina come Pulsione di morte. E il soggetto per un processo naturale di vitalità, ossia di sopravvivenza, si defila, e si ripercuote anche sul fisico, a me con giramenti di testa, ma ho sentito di gente che è proprio uscita di testa. A essere cinici, c'è persino da chiedersi se questi santoni siano stati veramente in grado di entrare in quella dimensione ulteriore.
E come mai non descrivano come hanno fatto ritorno.
In questo senso, se è quello che ipotizzi, allora sono d'accordo, che anche il buddismo, almeno seguendo questo sutta, che copia spudoratamente dallo yoga, sia una religione pericolosamente nichilista. Di certo nega la vita.
E questo è difficile negarlo.
APEIRON
Ebbene io personalmente non mi considero un "mistico" nel senso che a parte certi momenti di pura "contemplazione" ("estetica" più che altro) non ho mai avuto esperienze come le descrivi tu*. Tuttavia siccome sono profondamente convinto che la realtà sia qualcosa di molto più complesso di quanto mi suggeriscono i mei sensi e le mie convinzioni... beh ecco sono convinto che ci siano effettivamente altri "reami" della realtà che possiamo in qualche modo percepire (la nostra situazione è come quella descritta da San Paolo (e prima di lui, curiosamente, Platone), ovvero che noi vediamo le cose in modo distorto, come attraverso uno specchio...). Ergo credo che il "misticismo" contenga qualcosa di reale, pur personalmente non avendo mai avuto esperienze di questo tipo. Platone in realtà è molto simile alla filosofia Vedanta e anzi usa spesso analogie estremamente simili (Sole e carro per esempio...) tuttavia curiosamente a differenza degli indiani non usa la meta-fisica come un pretesto per "abbandonare" la fisica, ma anzi nella Repubblica (per esempio) dice espressamente che i filosofi devono "tornare" nel mondo materiale e amministrarlo (almeno, dove idealmente i "concittadini" sono propensi ad accoglierli...). In questo senso buddhismo e induismo a differenza di Platone e curiosamente la filosofia daoista del DaoDeJing che invece non negano la necessità che il contemplativo "ritorni" a "guidare" il "popolo" (nel caso del DaoDeJing il popolo non deve nemmeno accorgersi dell'esistenza del governante, idealmente ;)). Tuttavia anche la filosofia indiana può essere vista in termini meno negativi, ovverosia che in realtà non nega che il mondo di maya contenga del bene, tuttavia non contiene IL BENE, il quale è l'unica cosa che ci "completa". In questo senso non è in realtà poi così "nichilista" (a meno che il Bene non sia semplicemente la "morte" intesa come la banale non-esistenza dell'interpretazione "1" di cui sopra). Comunque curiosamente il buddhismo sociale Mahayana pare essere cosciente di ciò con l'idea per cui dovremmo impegnarci con tutte le nostre forze a salvare anche gli altri...
Per il resto...
Riguardo alla "4" una volta che "cessazione" la interpreti non come distruzione ma come "stop" allora vedrai che l'idea di una coscienza "trasformata" non è poi così "incompatibile" con un linguaggio negativo.
Infine per quanto riguarda i grafici della filosofia "perenne" che hai portato... sono in parte d'accordo, ovvero ritengo che le religioni siano espressioni della relazione dell'uomo con l'Assoluto... però non nego che una religione possa averci visto "meglio" di un'altra. Ovvero dire che tutte le religioni vedono l'Assoluto da diverse angolazioni secondo me è un po' fuorviante...
Spero di essere stato chiaro e completo...
*Tuttavia sono molto attratto dalle religioni nelle loro esperienze più profonde e autentiche. Non so se già questo mi renda un "mistico", può darsi. O forse il mio è un "misticismo" diverso, nel senso che in genere quando si manifesta è più una contemplazione dell'Ordine dell'universo, ovvero come la contemplazione estetica di quando si guarda una architettura estremamente ben fatta, dove tutto è "in ordine" (non a caso ho anche una forte propensione all'ossessione per la simmetria, per la sicurezza ecc - non posso farci niente.). Comunque mi ritrovo nelle parole del monologo che c'è fino al minuto 2 di questo video tratto dal film Wittgenstein (di Derek Jarman) https://www.youtube.com/watch?v=cnhBR1Uj-T0. Personalmente però questa è una "critica" alla "fascinazione del ghiaccio" che aveva Wittgenstein, mentre nel mio caso il monologo sarebbe stato, per così dire di approvazione. Forse è anche per questo che "in fondo" preferisco un sistema come il platonismo (e mi sento molto vicino anche al "misticismo euclideo" di Spinoza) rispetto al buddhismo, i.e. per mera causa psicologica.
**Per la filosofia buddhista di Vasubandhu ho trovato questo: https://discorsidelbuddha.wordpress.com/2017/09/30/trenta-versi-di-vasubandhu/
E' sempre molto ostico addentrarsi nei vari confronti tra le diverse interpretazioni filosofiche dell'Insegnamento di Siddhartha che si sono manifestate tra i suoi seguaci nel corso dei secoli . La scuola Cittamatra o Vijnanavada che dir si voglia venne confutata da Chandrakirti , esponente del Madhyamika, in particolare nel sesto capitolo del Madhyamakavatara. Questo confronto tra le due scuole, che facevano entrambe parte del Grande Veicolo bisogna precisare, culminò, secondo la storia, nel celebre dibattito tra Chandrakirti stesso e Chandragomin, esponente Vijnanavada, all'università di Nalanda, che durò sette anni, senza che nessuno dei due, a quel che si racconta, prevalesse. Da quel che ne ho capito direi che la discussione tra le due parti si basasse su questo: Chandrakirti obiettava ai Cittamatra che sostanziando la coscienza/vinnana si andava contro l'insegnamento del Buddha sull' anatta o vacuità di esistenza intrinseca che riguarda ogni cosa, compresa la coscienza ed anche la coscienza/non soggettiva postulata dal Cittamatra. Chandragomin e i Cittamatra invece sostenevano che il Madhyamika, ponendo il Dhamma stesso nella vacuità, manifestavano pericolose tendenze nichiliste. Ambedue le scuole hanno poi avuto grande influenza negli sviluppi posteriori del Mahayana, in particolare al di fuori dell'India. Già in tenera età, "a naso" e senza troppo approfondire invero, percepivo qualcosa 'che non tornava' ( buddhisticamente parlando... ;D ) nelle teorie di Vasubandhu e del fratello Asanga. Vasubandhu era un monaco di scuola Sarvastivada ( quindi Hinayana o Piccolo veicolo..) che venne 'convertito' alla scuola Cittamatra dal fratello. Nella pratica meditativa si fa esperienza di svariati stati di coscienza, ma non è possibile far esperienza di uno stato di coscienza senza oggetto di coscienza. E su questo punto verte la critica Madhyamika al Vijnanavada infatti, che sosteneva l'esistenza di una coscienza di-per-sé, priva dell'oggetto ( la coscienza veniva considerata originatrice dei vari contenuti dei suoi stati grazie alla sua potenzialità intrinseca (svasakti) , era auto-determinante e governata dalle proprie leggi di sviluppo; creava l'oggetto. Era inoltre considerata auto-luminosa e auto-conosciuta, come una lampada).
Chandrakirti e Santideva ribaltano questa posizione. La critica principale è che la coscienza conoscitrice senza l'oggetto non può funzionare; se l'oggetto è irreale, cosa si può conoscere? La mente (citta) è vuota, e non può conoscere se stessa. Deve 'lavorare' su qualcosa: "Neppure la spada più affilata può tagliare se stessa. Le punte delle dita non possono essere toccate dalle stesse punte delle dita. La mente non conosce se stessa." Come può qualcosa essere allo stesso tempo il conoscitore e il conosciuto, senza dividersi in due? Chiede il Madhyamika al Cittamatrin...Se è conosciuto da un altro atto di conoscenza, quest'ultima sarà conosciuta da un'altra e così via, cosa che ovviamente conduce ad un regresso all'infinito.
Per il Madhyamika il fatto che alcuni testi parlino della realtà unica della coscienza è dovuto agli abili mezzi d'insegnamento del Risvegliato, come passo di prepazione alla dottrina della sunyata ( vacuità ), senza spaventare inutilmente chi ha una mente 'debole' (critica implicita ai seguaci del Cittamatra... ;)). Essi perciò vanno intesi come neyartha ( secondari) e non nitartha (l'insegnamento finale).
Il Cittamatra, sostiene Chandrakirti, accetta l'esistenza di qualcosa ( la coscienza) e nega l'esistenza di altri ( gli oggetti), e non può quindi esser considerato come negazione dei punti di vista dell' 'è' e del 'non è' che è la vera posizione di mezzo del Buddha (madhyama-pratipad). Ovviamente Chandrakirti e Santideva affermano che questo, cioè porsi lontano da ogni estremo, è compiuto solamente dal Madhyamika... :)
Nonostante le critiche che si sono rivolte, credo che le due scuole si siano sempre considerate come 'buddhiste'...
Sul Samsara e Nirvana è interessante la spiegazione che ne dà Buddhadasa, che introduce il concetto di corpo-mente come agente creatore e conoscitore dei due. Il nostro corpo-mente è composto di elementi naturali che, in termini di pura esistenza ontologica non sono né samsara nè nibbana, ma divengono il terreno per l'uno o per l'altro in presenza di un "agente di disturbo". Se il corpo-mente, sotto l'influsso dell'ignoranza, entra in agitazione in presenza di un agente di disturbo, si trasforma nel samsara, nell'incarnazione della sofferenza. In caso contrario, se si sottrae all'influsso dell'ignoranza e mantiene il normale stato di equilibrio, mantiene le qualità del nibbana. E' legittimo riportare il tutto alla mente, dato che il corpo viene condizionato dalla mente. Quando la mente è agitata, è il samsara; quando si mantiene nella pace originaria, è il nibbana. Citando il Buddha:" La mente è cristallina; solo l'insorgere delle contaminazioni la oscura". Se la mente accoglie e si aggrappa alle contaminazioni, si agita. Viceversa, se le rigetta e se ne distacca, mantiene la 'trasparenza' e chiarezza orginarie ( quella chiarezza che si manifesta con evidenza nei jhana...).
"Quando le condizioni si sciolgono si scioglie anche il samsara, fino alla prossima reazione di ignoranza a uno dei tanti stimoli sensoriali che ci bombardano durante la giornata. Il processo di costruzione ricomincia e il samsara è nuovamente evocato. Possiamo dire così: quando la mente costruisce sensazioni, desideri e opinioni, sperimenta il processo di co-originazione delle cose o paticcasamuppada, un giro della ruota del samsara. Se abbiamo una scarsa conoscenza del Dhamma, saremo ossessionati dal processo di costruzione e incontreremo il samsara in ogni situazione, compresi i sogni. Se reagiamo senza consapevolezza a uno stimolo sensoriale, immediatamente diamo origine a un momento di agitazione samsarica. Se gli effetti sono positivi, saranno chiamati meriti o azioni virtuose; se negativi, demeriti o colpe, Entrambi sono costruzioni, entrambi sono samsara, ciascuno è, a suo modo, sofferenza".
Buddhadasa, "Il Nibbana è nel Samsara".
@Sariputra... concordo con te che il concetto di "mente senza oggetto" sembra contraddittorio perchè è come dire "soggetto senza oggetto" ovvero "pretendere" di eliminare un elemento di una dualità inscindibile. Però se interpreto termini come "cessazione dei condizionamenti", "cessazione della sofferenza", "cessazione delle discriminazione" non come la distruzione della mente ma come, appunto, la "cessazione" (un po' come quando il mare si calma, quello che viene distrutto non è il mare ma l'agitazione del mare) allora ecco che "coscienza che non si stabilisce", "cessazione della coscienza", "cessazione dell'esistenza/divenire" ecc cominciano ad essere interpretati in un modo diverso dalla distruzione della mente. La trovo una interpretazione plausibile.
Anzi la citazione di Buddhadhasa ne è quasi una prova di questa interpretazione "mentale". In fin dei conti si parla di "chiarezza originaria" ecc. Un po' come quando il mare smette di essere agitato a causa delle tempeste (= cause esterne). Quello che rimane è una "mente" pacificata, ferma, "inattiva" ecc che non costruisce e non distrugge più nulla, che non si attacca e non è avversa a niente, che non ha più la limitazione dell'io e quindi "vuota". Posso concordare che è "strano" chiamarla mente ma in fin dei conti. Una mente che non costruisce e non distrugge più nulla ecc - perfetta calma.
Un vero problema potrebbe sorgere: qual è la differenza ultima tra ciò e l'Atman di alcune scuole indù? A cui posso rispondere: dobbiamo per forza trovare una differenza così "netta" tra quei "tipi" di atman e la mente libera buddhista?
Citazione di: Apeiron il 29 Dicembre 2017, 18:25:58 PM@Sariputra... concordo con te che il concetto di "mente senza oggetto" sembra contraddittorio perchè è come dire "soggetto senza oggetto" ovvero "pretendere" di eliminare un elemento di una dualità inscindibile. Però se interpreto termini come "cessazione dei condizionamenti", "cessazione della sofferenza", "cessazione delle discriminazione" non come la distruzione della mente ma come, appunto, la "cessazione" (un po' come quando il mare si calma, quello che viene distrutto non è il mare ma l'agitazione del mare) allora ecco che "coscienza che non si stabilisce", "cessazione della coscienza", "cessazione dell'esistenza/divenire" ecc cominciano ad essere interpretati in un modo diverso dalla distruzione della mente. La trovo una interpretazione plausibile. Anzi la citazione di Buddhadhasa ne è quasi una prova di questa interpretazione "mentale". In fin dei conti si parla di "chiarezza originaria" ecc. Un po' come quando il mare smette di essere agitato a causa delle tempeste (= cause esterne). Quello che rimane è una "mente" pacificata, ferma, "inattiva" ecc che non costruisce e non distrugge più nulla, che non si attacca e non è avversa a niente, che non ha più la limitazione dell'io e quindi "vuota". Posso concordare che è "strano" chiamarla mente ma in fin dei conti. Una mente che non costruisce e non distrugge più nulla ecc - perfetta calma. Un vero problema potrebbe sorgere: qual è la differenza ultima tra ciò e l'Atman di alcune scuole indù? A cui posso rispondere: dobbiamo per forza trovare una differenza così "netta" tra quei "tipi" di atman e la mente libera buddhista?
Una differenza importante sta proprio, a mio parere, nel sostanziare quella mente. Alla domanda:"Dove sta la mente?" un hindu forse risponderebbe:" In Brahman"; un buddhista invece:" In nessun luogo". L'atman 'è' , non ci sono dubbi per il rishi. Invece il buddhista non stabilisce in alcun luogo la mente, né in 'è' né in 'non è'. La 'mente' per il buddhista è vuota, galleggia in una grande vacuità, non viene da nessun luogo e non va in nessun luogo, è inafferrabile...non lascia tracce che si possano seguire, proprio " come un uccello in volo".E' l'interpretazione stessa dell'esperienza meditativa che porta a divergere le due strade. Nel samadhi il devoto hindu ritiene di realizzare l'unione con l'anima del Tutto, con l'eterno Brahman. Ishvara dimora nel cuore e nella sfera di luce che appare tra i due occhi: "Tu sei Quello". Dove Tu e Quello sono un'unica cosa, si realizza l'unione in satchitananda, nell' oceano di saggezza e beatitudine che trascende ogni dualità. Nel buddhismo samadhi non è altro che un cancello, non è la meta, bisogna ancora andare oltre, fino al sorgere di prajna, la visione profonda ...Il rishi invece afferma:Solo il Sè superiore (Atman) conosce il Sè superiore. Esso, Conoscenza assoluta, non può essere realizzato che da Lui stesso, Conoscenza assoluta.L'anima differenziata, fintanto che resta differenziata e vive sui piani inferiori, non può, come tale, realizzare l'Assoluto Divino.Soltanto il non-differenziato realizza il non-differenziato.E ciò spiega il vero senso dell'espressione:" Dio è ignoto e inconoscibile". (Ramakrshna-La realizzazione del Divino)Un giorno venne chiesto proprio a Sri Ramakrshna se Buddha era ateo e lui rispose: "Il Buddha non era ateo, ma non potè spiegare le sue realizzazioni. Sapete cosa vuol dire Buddha? Significa diventare una cosa sola con bodha , l'Intelligenza suprema, divenire la pura Intelligenza stessa, mediante una intensa meditazione. Un tale stato di realizzazione di sé sta fra asti e nasti, essere e non essere. L'essere e il non essere sono modifiche di Prakriti. La realtà li supera entrambi.".Notare che , nel Vedanta, Prakriti indica la natura, l'energia attiva ed in esecuzione, che si oppone al Purusha che osserva e sostiene senza prender parte all'azione. Elementi attivi e passivi del Reale, materia e spirito, caldo e freddo, oggetto di coscienza e coscienza passiva, ecc...qui R. sembra intendere che la realizzazione della 'buddhità' è di grado relativo rispetto al Brahmajnana, in quanto ancora all'interno di Prakriti, mentra la realtà del Brahman supera questa posizione tra "asti e nasti"...ma è proprio nello stare in questa "vacuità di posizione" che si manifesta il tratto caratteristico di ogni forma seria di Buddhismo, che non sostanzia, che non giunge a concludere:" Ma Dio trascende anche la vacuità"...perché questo lo farebbe ricadere nella posizione "atta", nell' "è", nell'essere che il Buddha ha definito come una concezione erronea della realtà...dibattito infinito tra Vedanta e Buddhismo, che per moltissimi aspetti, come Apeiron giustamente sottolinea, si rassomigliano...ma a me personalmente appare piuttosta chiara la diversità, che si fonda proprio nella concezione dell'anatta, il vero tratto che distingue il buddhismo da ogni altra forma religioso/filosofica, il 'cuore stesso del Dhamma' di Gotama Siddhattha...non c'è alcun atman risponderebbe con un sorriso il Buddha a Ramakrshna, sei ancora gabbato da Mara...ma il confronto continua... :)
Citazione di: Sariputra il 30 Dicembre 2017, 10:22:10 AM
Citazione di: Apeiron il 29 Dicembre 2017, 18:25:58 PM@Sariputra... concordo con te che il concetto di "mente senza oggetto" sembra contraddittorio perchè è come dire "soggetto senza oggetto" ovvero "pretendere" di eliminare un elemento di una dualità inscindibile. Però se interpreto termini come "cessazione dei condizionamenti", "cessazione della sofferenza", "cessazione delle discriminazione" non come la distruzione della mente ma come, appunto, la "cessazione" (un po' come quando il mare si calma, quello che viene distrutto non è il mare ma l'agitazione del mare) allora ecco che "coscienza che non si stabilisce", "cessazione della coscienza", "cessazione dell'esistenza/divenire" ecc cominciano ad essere interpretati in un modo diverso dalla distruzione della mente. La trovo una interpretazione plausibile. Anzi la citazione di Buddhadhasa ne è quasi una prova di questa interpretazione "mentale". In fin dei conti si parla di "chiarezza originaria" ecc. Un po' come quando il mare smette di essere agitato a causa delle tempeste (= cause esterne). Quello che rimane è una "mente" pacificata, ferma, "inattiva" ecc che non costruisce e non distrugge più nulla, che non si attacca e non è avversa a niente, che non ha più la limitazione dell'io e quindi "vuota". Posso concordare che è "strano" chiamarla mente ma in fin dei conti. Una mente che non costruisce e non distrugge più nulla ecc - perfetta calma. Un vero problema potrebbe sorgere: qual è la differenza ultima tra ciò e l'Atman di alcune scuole indù? A cui posso rispondere: dobbiamo per forza trovare una differenza così "netta" tra quei "tipi" di atman e la mente libera buddhista?
Una differenza importante sta proprio, a mio parere, nel sostanziare quella mente. Alla domanda:"Dove sta la mente?" un hindu forse risponderebbe:" In Brahman"; un buddhista invece:" In nessun luogo". L'atman 'è' , non ci sono dubbi per il rishi. Invece il buddhista non stabilisce in alcun luogo la mente, né in 'è' né in 'non è'. La 'mente' per il buddhista è vuota, galleggia in una grande vacuità, non viene da nessun luogo e non va in nessun luogo, è inafferrabile...non lascia tracce che si possano seguire, proprio " come un uccello in volo". E' l'interpretazione stessa dell'esperienza meditativa che porta a divergere le due strade. Nel samadhi il devoto hindu ritiene di realizzare l'unione con l'anima del Tutto, con l'eterno Brahman. Ishvara dimora nel cuore e nella sfera di luce che appare tra i due occhi: "Tu sei Quello". Dove Tu e Quello sono un'unica cosa, si realizza l'unione in satchitananda, nell' oceano di saggezza e beatitudine che trascende ogni dualità. Nel buddhismo samadhi non è altro che un cancello, non è la meta, bisogna ancora andare oltre, fino al sorgere di prajna, la visione profonda ... Il rishi invece afferma: Solo il Sè superiore (Atman) conosce il Sè superiore. Esso, Conoscenza assoluta, non può essere realizzato che da Lui stesso, Conoscenza assoluta. L'anima differenziata, fintanto che resta differenziata e vive sui piani inferiori, non può, come tale, realizzare l'Assoluto Divino. Soltanto il non-differenziato realizza il non-differenziato. E ciò spiega il vero senso dell'espressione:" Dio è ignoto e inconoscibile". (Ramakrshna-La realizzazione del Divino) Un giorno venne chiesto proprio a Sri Ramakrshna se Buddha era ateo e lui rispose: "Il Buddha non era ateo, ma non potè spiegare le sue realizzazioni. Sapete cosa vuol dire Buddha? Significa diventare una cosa sola con bodha , l'Intelligenza suprema, divenire la pura Intelligenza stessa, mediante una intensa meditazione. Un tale stato di realizzazione di sé sta fra asti e nasti, essere e non essere. L'essere e il non essere sono modifiche di Prakriti. La realtà li supera entrambi.". Notare che , nel Vedanta, Prakriti indica la natura, l'energia attiva ed in esecuzione, che si oppone al Purusha che osserva e sostiene senza prender parte all'azione. Elementi attivi e passivi del Reale, materia e spirito, caldo e freddo, oggetto di coscienza e coscienza passiva, ecc...qui R. sembra intendere che la realizzazione della 'buddhità' è di grado relativo rispetto al Brahmajnana, in quanto ancora all'interno di Prakriti, mentra la realtà del Brahman supera questa posizione tra "asti e nasti"...ma è proprio nello stare in questa "vacuità di posizione" che si manifesta il tratto caratteristico di ogni forma seria di Buddhismo, che non sostanzia, che non giunge a concludere:" Ma Dio trascende anche la vacuità"...perché questo lo farebbe ricadere nella posizione "atta", nell' "è", nell'essere che il Buddha ha definito come una concezione erronea della realtà...dibattito infinito tra Vedanta e Buddhismo, che per moltissimi aspetti, come Apeiron giustamente sottolinea, si rassomigliano...ma a me personalmente appare piuttosta chiara la diversità, che si fonda proprio nella concezione dell'anatta, il vero tratto che distingue il buddhismo da ogni altra forma religioso/filosofica, il 'cuore stesso del Dhamma' di Gotama Siddhattha...non c'è alcun atman risponderebbe con un sorriso il Buddha a Ramakrshna, sei ancora gabbato da Mara...ma il confronto continua... :)
Concordo la differenza c'è ed è (in un certo senso, purtroppo) molto netta pur essendo molto sottile e le parole di Ramarkrishna (e il commentario di Sariputra) mostrano molto chiaramente la differenza.
D'altronde c'è una sottigliezza tra una mente dire che "la mente non sta da nessuna parte" e dire che la mente "sta in Brahman (che potrebbe essere "in nessun luogo")". Per un buddhista la posizione di Ramarkrishna è ancora una "prigione", un vincolo alla mente che ostacola la piena libertà. Viceversa per un vedantino la posizione buddhista è incompleta. Sottile differenza ma innegabile. E non c'è alcun modo (a parte, forse, la pratica spirituale) per verificare chi ha ragione.
C'è poi un'altra differenza più esplicita: Brahman è visto come il Sole del mondo (ovvero la "causa" analogalmente alla filosofia di Platone) mentre il Nibbana, anche quando è descritto come una "realtà incondizionata" non ha alcun legame causale col mondo.
P.S. 15 pagine di topic sul buddhismo... è un buon traguardo ;)
Ciao Apeiron e ciao Sari.
Avete aggiunto un sacco di informazioni, e ok, comincio a fare fatica a stare addietro al tutto. ;)
Comincio col dire che se mai vi fu una fase mistica (ma non la chiamerei così) quella è confinata agli anni dell'infanzia e della prima adoloscenza. Dell'induismo mi piaceva, mi piace tutt'ora sopratutto l'elemento metafisico.
(motivo per cui ho deciso di ri-aprire all'India).
Ovviamente la metafisica occidentale è molto più vicina al mio modo di sentire, perchè si cala nel mio tempo storico, nel mio ora e qui.
Ora non immagino niente di più lontano che la sensibilità di chi vive un mondo radicalmente diverso dal nostro.
E ciò nonostante come dicevo il carisma dei maestri orientali ci raggiunge comunque.
Ma andiamo alla nostra chiaccherata/discussione.
Riprendendo da qui per Apeiron
cit
"in modo che "Nirvana" non sia la "mera estinzione". Anzi è la realtà più autentica
e "reale" ma a differenza di Dao, Brahman, l'Uno platonico ecc non è in rapporto
"causale" (in un certo senso) con le "cose" [e questo è un altro punto che mi
disturba parecchio, personalmente ho capito che sono un "platonico" in un certo
senso, peccato che l'Accademia è estina ecc ecc]"
Certamente che il mondo ideale sia un tutt'uno con il mondo reale, è stato il grande sforzo platonico.
Sforzo occidentale se ce n'è uno.
Ma anche per l'induista (termine che ha senso solo per noi occidentali tra l'altro) come per il Buddhista, la realtà è maya, velo, magia.
E' vero che l'atman coincide con "tu sei quello". Ma andando a leggere i testi della madukya upanishad, e dello yoga classico di Patanjali (perenni favoriti sia da noi che da loro) notiamo che quella affermazione non è centrale.
Direi piuttosto che è periferica. E'solo uno stato dell'energia cosmica, o prana.
Come già detto vi è un oltre a "tu sei quello". E coincide nel Samadhi.
Ovvero l'annullamento del tu, a favore del cosmo. Processo irreversibile, comandato dal karma e dalle sue ruote dell'incarnazione perenne.
Ovvero il Nirvana.
La meditazione del Buddha è però peculiare, ossia originale, personale.
A mio modo di vedere egli fonde la tecnica, le tecniche di spersonalizzazione, con una fede in un mondo che si rivela come nulla.
Bizzarra questa cosa.
Nondimeno anche dalle aggiunte complesse di cui ha parlato Sari, ne è nata una corrente di pensiero, che dura tutt'oggi, anzi mi pare che il buddhismo sia in netta crescita e diffusione nel mondo. (pur rimanendo minoranza,
se non sbaglio, e con infinite rotture interne.)
Ma insomma a me sorge il sospetto che si confonda la tecnica con il fine.
La tecnica di spersonalizzazione, che si basa sulla rinuncia del sè, porta alla
paura del niente. Dunque oltre il sè c'è la mia paura, ossia c'è il niente.
Come altro intendere questo niente?
Probabilmente nel suo contrario, appunto come qualcosa.
Alla fine questo niente per sedurre comincia ad essere ornato di parole.
E queste parole rimandano a tutt'altra cosa, che la cosa in sè.
Ossia non rimandano al niente (che sarebbe la cosa in sè).
Rimandano a qualcosa che anzitutto è sottoteso al niente (dunque un qualcosa).
Ecco che forse allora si apre l'orizzonte in cui ricomprendere in cosa consista il buddismo.
Se di illuminazione si parla, qualcosa si deve pur vedere, qualcosa va illuminato.
A me interessa moltissimo la questione della vacuità, perchè se c'è un vacuo, è perchè è venuto meno, e dunque prima c'era, un qualcosa.
Dunque c'è una catena causale. Mi pare strano non ammetterla.
Altra cosa, è come raggiungere quel qualcosa, e come intendere quella catena.
Che a mio avviso è appunto la riflessione peculiarmente filosofica, filosofia speculativa, al suo massimo grado di astrazione.
Intendere il Nulla come qualcosa.
A questo punto dopo questa lunga premessa, che però spero faccia capire come la vedo io al riguardo, e ponendovi la domanda se vi trovate punti di intersezione o di futuro dialogo in queste premesse. Passiamo alla discussione rispetto ai vostri scritti.
Che farò domani. ;) insieme agli auguri per il buon anno ovvio.
e prosit!
@Green, anzitutto dico che in linea di massima concordo con te: la "pienezza" e la "vacuità" sono opposti inscindibili. In fin dei conti se uno è un completo egoista la sua vita sarà vuota, viceversa se uno è "senza-sé" (anatta) la sua vita paradossalmente sarà "piena" (da qui il messaggio di Zhuangzi: "dimentica gli anni, dimentica le distinzioni. Salta nell'infinito e rendilo la tua dimora" (capitolo 2)...). Curiosamente sto apprezzando molto di più anche il cristianesimo dopo aver studiato i testi buddhisti...
Secondo me bisogna anche considerare il contesto in cui Buddha ha insegnato. Come dicevo tempo fa a Pierini allora andava di moda la ricerca del nettare (amrita, ambrosia...) e l'idea era che si beveva tale "succo" trovandosi la cosa giusta con cui identificarsi. Buddha capì che questa strada era ancora in fin dei conti "egoistica" e quindi per "salvare" ha messo in risalto la "vacuità" e ha lasciato "implicita" la pienezza ("Il Tathagata è profondo...", "non riesci a capire il Tathagata nemmeno ora in questa vita", "non c'è alcun modo di misurare colui che è risvegliato", "monaci c'è un non-nato, non-formato"...). Il problema è che dire all'uomo occidentale moderno "il Buddhismo nega Dio e l'anima" fanno capire all'occidentale che il buddhismo è un'antica forma di epicureismo, cosa falsa. Ergo secondo me forse se Buddha esistesse ora probabilmente direbbe le stesse cose ma rimarcando di più l'aspetto positivo.
Un altro pensiero. Buddha non ha mai negato esplicitamente l'esistenza dell'Io anche se ha detto "ogni cosa è senza Sé" (l'unica volta che gli è stato chiesto perchè non lo ha negato esplicitamente ha detto che la posizione "l'Io non esiste" suggeriva un "annichilazionismo"). Non lo ha fatto per un motivo preciso secondo me: in fin dei conti è proprio la domanda "cosa sono io" quella che fa iniziare la ricerca spirituale e dire "l'Io non esiste" avrebbe stroncato sul nascere il cammino (più o meno è l'obiezione che ho fatto a Cannata nel topic aperto da viator su anima e spirito). Ergo secondo me e mi compiaccio di vedere che tu la vedi allo stesso mio modo la "positività" è semplicemente "implicita". In fin dei conti l'idea è che la meditazione e il graduale "impoverimento" dell'io renda la mente "luminosa" (mal che vada secondo i testi buddhisti uno con la "mente luminosa" rinasce come "deva" - essere "luminoso"). In sostanza si potrebbe quasi dire che chi rinuncia a tutto paradossalmente "vince su tutto".
La catena casuale: https://www.canonepali.net/2015/05/sn-12-2-paticca-samuppada-vibhanga-sutta-analisi-delle-coproduzioni/.
Unica cosa: la vacuità non dice che prima c'era qualcosa e ora c'è la vacuità. La vacuità dice che ciò che per il Risvegliato non c'è più è avidya ed è "cessato" il processo che si basava su avidya. Anzi è proprio il fatto che avidya è una realtà condizionata "il filo di Arianna" (espressione usata da Schopenhauer) per uscire dall'esistenza ciclica.
Riguardo al discorso della filosofia indiana vs occidentale. Sì concordo con te ed è un altro motivo per cui non riesco ad abbracciare in pieno la filosofia indiana. Nella Repubblica si richiede al "filosofo" addirittura di tornare indietro nella Caverna ad amministrare la politica (per certi versi ciò è simile al cristianesimo "bisogna essere nel mondo ma non del mondo"...). Una cosa simile difficilmente verrebbe in mente ad un indiano (non a caso indù e buddhisti vogliono uscire dal "ciclo" il prima possibile col "parinirvana") - però è anche vero che il buddhismo mahayana (e il daoismo...) sono più vicini alla posizione per cui bisogna rimanere nel mondo ma non essere "del mondo". Sinceramente questi parallelismi fanno riflettere. "Meravigliano"... ovvero inducono a riflettere ;D
P.S. Se non erro https://www.canonepali.net/2015/06/udana-1-10-bahiya-sutta-bahiya/ contiene un parallellismo con un passo biblico:
"Dove acqua, terra, fuoco ed aria non trovano appoggio:
[le stelle non splendono]*
il sole non è visibile,
la luna non appare,
l'oscurità non si trova."
Mi pare che nella Bibbia si dica che nel Regno dei Cieli anche in assenza di Sole e Luna l'oscurità non si trova...
*nelle versioni inglesi è presente la frase "le stelle non splendono"
Preso da uno delle mie demoniache intuizioni mi chiedevo:
"Dunque c'è una catena causale. Mi pare strano non ammetterla."
Che voleva dire, che non ammetto il nulla, ma che invece ,mi aspetto qualcosa dal Buddismo, nelle sue correnti più filosofiche, che sia una vera rivelazione, una vera illuminazione, ossia cosa viene illuminato? il dito punta alla luna, o punta a se stesso?
La coproduzione causale.
Un tema che mi ha lanciato apeiron.
Di nuovo mi ritrovo a seguire questo sentiero nel labirinto filosofico.
A Savatthi... "Monaci, vi descriverò e vi analizzerò le coproduzioni condizionate.
"E cos'è una coproduzione condizionata? Dall'ignoranza come condizione derivano le predisposizioni karmiche. Dalle predisposizioni karmiche come condizione deriva la coscienza. Dalla coscienza come condizione derivano il nome e la forma. Dal nome e dalla forma come condizione derivano i sei sensi. Dai sei sensi come condizione deriva il contatto. Dal contatto come condizione derivano le sensazioni. Dalle sensazioni come condizione deriva la brama. Dalla brama come condizione deriva l'attaccamento. Dall'attaccamento come condizione deriva il divenire. Dal divenire come condizione deriva la nascita. Dalla nascita come condizione si producono l'invecchiamento e la morte, il dolore, i lamenti, l'angoscia e la disperazione. Tale è l'origine di questa massa intera di dolore e sofferenza.
Intanto la parola co-produzione a me non piace, infatti benchè esista una coscienza (e non una mente) essa non è co-producente.
La produzione, termine centrale su cui sto meditando da mesi, non è che del soggetto, e di nessun altro.
Se la produzione è insieme a qualcuno, allora è produzione comunitaria (ed è quello a cui ambisco).
Ma la produzione non è insieme a Dio, per intenderci.
I miei demoni mi suggeriscono di partire al contrario, perciò...ossia dal soggetto sensibile.
Per quel che posso vedere e ricordare il bambino prende atto del suo esistere, sensibile, solo in concomitanza di una paura primordiale, difficilmente spiegabile (gli scienziati parlando di memoria genetica, possibile spiegazione, seppure immaginifica).
Dunque è subito la paura di non esserci: frattanto un altra intuizione mi è sorta sul momento.
Poiche il testo parla di angoscia, è proprio di quell'angoscia, studiata da Freud, l'umwelt (il principale apporto di freud a mio parere), ossia quel non sentirsi a casa propria, pur essendo a casa propria.
La mia intuizione è proprio la sintesi tra queste 3 riflessioni, ossia che il soggetto si instaura praticamente da subito come minaccia di estinzione, ossia il soggetto ha paura radicalmente, originariamente.
Solo dopo arrivano i lamenti, il dolore e infine la morte, ossia l'apertura sull'abisso, la massima riflessione umana, è già nell'infanzia. Non è difficile trovare nel testo, la stessa identica funzione di riconoscimento, là chiamata "nascita".
Il divenire non mi pare possibile legato alla nascita, infatti come la morte è un tema che si può comprendere solo dopo.
Sono quindi estremamente critico su questo passaggio, che è chiaramente inferenzialmente errato.
(e già di per sè inficerebbe la dottrina che lo presenta, che infatti crede che esista questo divenire: non esiste alcun divenire, esiste solo un soggetto e la sua destinalità.)
A questo punto passiamo all'attaccamento, questa volta mi sembra molto forte come premessa, è abbastanza facile credo ravvisarlo.
L'infante comincia ad essere attaccato, a credere nel suo soggetto sensibile.
Certamente il sensibile è legato alla sua disperazione di non essere più, e perciò è legato come la filosofia occidentale ci insegna al proprio oggetto.
Ma andando più a fondo, e cioè insieme a Hegel, l'unico finora che lo dice esplicitamente, si unisce con l'oggetto che ha il terrore di perdere, tramite il nome. Si comincia a famigliarizzare con il linguaggio e cioè il soggetto sensibile sta per fare quel grande salto che lo distingue nel soggetto vero e proprio, ossia quello trascendentale. Ossia il soggetto sensibile entra nel regno del linguaggio, tramite il regno del nome. Quindi mi aspetterei da questi geni dell'intuizione profonda che sono gli indiani, che il prossimo passo sia il nome.
E invece rileggendo vedo che il nome è più in alto nella catena.
Questa scuola introduce il desiderio, la brama nella traduzione.
Accolgo volentieri questa proposta, in quanto rientra nella mia triade di interesse (soggetto-desiderio-oggetto).
La accolgo come in fin dei conti essa si deve essere presentata al bambino, la voglia di rivedere la medesima cosa.
(lo posso osservare facilmente). Non mi va a genio che si appiattisca solo a questo, ma è evidente, che è una riflessione non sul linguaggio, ma sull'origine. Sulla nascita.
A questo punto prima della senzazione, mettono il nome. Errore pacchiano, come può esserci nome senza sensazione?
E a questo punto la scuola si sfilaccia senza più rimedio, perchè credono che il nome e le forme, non siano dunque l'esito delle sensazione ma della coscienza. Dunque la coscienza è un oggetto, e come tale è dunque mente. Questa scuola non fa i conti con l'intero panorama filosofico occidentale. In paricolare ovviamente Cartesio: la mente come si concilia con l'oggetto? tramite Dio? tramite un genio maligno?
Siamo forse un cervello nella vasca??? etc...etc...io detesto la filosofia analitica e i loro falsi problemi.
C'è un grado superiore alla coscienza-mente, ed è quello karmico. Che poi sarebbe il cervello nella vasca versione orientale.
Dunque la diagnosi della proposta fattami da Apeiron è assolutamente negativa, non si indica la luna, l'illuminazione, ma si indica il dito, ossia che possa esistere questa fantomatica mente. E che quindi dietro la mente, c'è la mente. Uno di quei mortiferi A=A che non volgiono dire niente. Ahimè!
Più in fondo a esplicitare ancora meglio dove sia l'errore:
""E cos'è la coscienza? Questi sono i sei i tipi di coscienza: coscienza visiva, uditiva, olfattiva, gustativa, fisica e mentale. Questo stato è chiamato coscienza."
Coscienza è coscienza dei sensi. Dunque è mentale.
Interessante il "dunque" della questione filosofica, se il dolore è mentale, allora bisogna bloccare la mente.
Ossia diventa una questione scientifica. E infatti la psicologia del profondo di matrice olandese, transumana mi sembra, sta riscuotendo un grande successo nella cura paliativa ai malati di cancro.
Con la meditazione profonda è possibile bloccare i sintomi del dolore. (io c'ho provato con il mal di denti: non ha funzionato)
Ovviamente Apeiron ha sbagliato a propormi questo autore del pali, mi attendo ancora grandi cose dal pensiero medievale indiano.
Citazione di: Apeiron il 03 Gennaio 2018, 19:01:59 PM
@Green, anzitutto dico che in linea di massima concordo con te: la "pienezza" e la "vacuità" sono opposti inscindibili. In fin dei conti se uno è un completo egoista la sua vita sarà vuota, viceversa se uno è "senza-sé" (anatta) la sua vita paradossalmente sarà "piena" (da qui il messaggio di Zhuangzi: "dimentica gli anni, dimentica le distinzioni. Salta nell'infinito e rendilo la tua dimora" (capitolo 2)...). Curiosamente sto apprezzando molto di più anche il cristianesimo dopo aver studiato i testi buddhisti...
Secondo me bisogna anche considerare il contesto in cui Buddha ha insegnato. Come dicevo tempo fa a Pierini allora andava di moda la ricerca del nettare (amrita, ambrosia...) e l'idea era che si beveva tale "succo" trovandosi la cosa giusta con cui identificarsi. Buddha capì che questa strada era ancora in fin dei conti "egoistica" e quindi per "salvare" ha messo in risalto la "vacuità" e ha lasciato "implicita" la pienezza ("Il Tathagata è profondo...", "non riesci a capire il Tathagata nemmeno ora in questa vita", "non c'è alcun modo di misurare colui che è risvegliato", "monaci c'è un non-nato, non-formato"...). Il problema è che dire all'uomo occidentale moderno "il Buddhismo nega Dio e l'anima" fanno capire all'occidentale che il buddhismo è un'antica forma di epicureismo, cosa falsa. Ergo secondo me forse se Buddha esistesse ora probabilmente direbbe le stesse cose ma rimarcando di più l'aspetto positivo.
Un altro pensiero. Buddha non ha mai negato esplicitamente l'esistenza dell'Io anche se ha detto "ogni cosa è senza Sé" (l'unica volta che gli è stato chiesto perchè non lo ha negato esplicitamente ha detto che la posizione "l'Io non esiste" suggeriva un "annichilazionismo"). Non lo ha fatto per un motivo preciso secondo me: in fin dei conti è proprio la domanda "cosa sono io" quella che fa iniziare la ricerca spirituale e dire "l'Io non esiste" avrebbe stroncato sul nascere il cammino (più o meno è l'obiezione che ho fatto a Cannata nel topic aperto da viator su anima e spirito). Ergo secondo me e mi compiaccio di vedere che tu la vedi allo stesso mio modo la "positività" è semplicemente "implicita". In fin dei conti l'idea è che la meditazione e il graduale "impoverimento" dell'io renda la mente "luminosa" (mal che vada secondo i testi buddhisti uno con la "mente luminosa" rinasce come "deva" - essere "luminoso"). In sostanza si potrebbe quasi dire che chi rinuncia a tutto paradossalmente "vince su tutto".
La catena casuale: https://www.canonepali.net/2015/05/sn-12-2-paticca-samuppada-vibhanga-sutta-analisi-delle-coproduzioni/.
Unica cosa: la vacuità non dice che prima c'era qualcosa e ora c'è la vacuità. La vacuità dice che ciò che per il Risvegliato non c'è più è avidya ed è "cessato" il processo che si basava su avidya. Anzi è proprio il fatto che avidya è una realtà condizionata "il filo di Arianna" (espressione usata da Schopenhauer) per uscire dall'esistenza ciclica.
Riguardo al discorso della filosofia indiana vs occidentale. Sì concordo con te ed è un altro motivo per cui non riesco ad abbracciare in pieno la filosofia indiana. Nella Repubblica si richiede al "filosofo" addirittura di tornare indietro nella Caverna ad amministrare la politica (per certi versi ciò è simile al cristianesimo "bisogna essere nel mondo ma non del mondo"...). Una cosa simile difficilmente verrebbe in mente ad un indiano (non a caso indù e buddhisti vogliono uscire dal "ciclo" il prima possibile col "parinirvana") - però è anche vero che il buddhismo mahayana (e il daoismo...) sono più vicini alla posizione per cui bisogna rimanere nel mondo ma non essere "del mondo". Sinceramente questi parallelismi fanno riflettere. "Meravigliano"... ovvero inducono a riflettere ;D
P.S. Se non erro https://www.canonepali.net/2015/06/udana-1-10-bahiya-sutta-bahiya/ contiene un parallellismo con un passo biblico:
"Dove acqua, terra, fuoco ed aria non trovano appoggio:
[le stelle non splendono]*
il sole non è visibile,
la luna non appare,
l'oscurità non si trova."
Mi pare che nella Bibbia si dica che nel Regno dei Cieli anche in assenza di Sole e Luna l'oscurità non si trova...
*nelle versioni inglesi è presente la frase "le stelle non splendono"
Ciao Apeiron,
Sì infatti anch'io (forse per altre ragione dalle tue) cerco la positività del buddhismo, così come la cerco nell'induismo. :)
Penso che però per come stanno le cose, quel voler introdurre il nulla, il niente con la soppressione delle predisposizione mentale sia veramente un rischiare di non dire nulla di sensato (cioè di positivo).
Certamente cercare di fuggire dal dolore ha senso in sè.
Nessuno di noi vuol soffrire, ma tant'è.
Il senso di sublime, come lo avevano chiamato i romantici, è sicuramente da ricercare nella solitudine, e nel silenzio. Mi sembra che il tuo entusiasmo derivi in gran misura da quello.
Non vedo come coniugarlo in chiave filosofico-buddhista. Tra l'altro potrebbe benissimo appartenere a qualsiasi visione religiosa.(ma su quello ti vedo molto aperto, e questo è un bene).
Insomma io voglio la luna (vedi post mio sopra), e da questi ultimi passaggi non mi pare di poterla evincere. :-[
Non sto intervenendo nel 3d di viator, proprio perchè mi sembra troppo generico.
Ho presente l'obiezione di Angelo, ossia se il soggetto sia poi così importante:
ma va da sè che mancandogli le basi filosofiche e le intuizioni che lo sorreggono non abbia in testa il problema vero.
Nel buddismo invece la questione viene presa di petto, e annichilita in maniera abbruttente e assolutamente anti-filosofica.
Apro una parentesi.
Ma c'è maestro e maestro. Nel medioevo indiano i pensatori che univano misticismo e filosofia sono parecchi. Per quel che ne sò il lavoro di riscoperta è agli albori.
Basta andare a vedere l'incredibile numero di testi scansionati dalle università.
Chissà quante perle, quante sorprese ci riserva questa culla delle civiltà e del pensiero!
Il problema contemporaneo è che non esiste ancora una filologia locale.
Di fatto i giovani indiani, stanno apprendendo il metodo di studio proprio da noi occidentali, stanno imparando e vogliono impegnarsi nella riscoperta del loro patrimonio nascosto.
Li attende un lavoro enorme, io sono rimasto un pò fuori, dovremmo guardare ovviamente alle pubblicazioni in inglese. Perchè da quando feci il mio corso di Sanscritto all'università (e no, non l'ho passato ;) ) saranno passati anche una ventina d'anni ;D . Mi auguro che nel frattempo qualcosa di meraviglioso sia uscito nel frattempo. A presto.
@Green, ti rispondo parzialmente sulla questione della coproduzione. Sì diciamo che è uno dei temi più "controversi". Qui l'idea è che ogni fenomeno - eccetto il Nirvana - "nasce" secondo condizioni e non appena il "nutrimento" finisce "cessa". La legge della coproduzione per un buddhista non è solo "mentale" ma è anche per la "materia" e non a caso gli esempi che Buddha (o chi per lui) porta sono anche fisici: il fuoco, la bolla d'acqua, il miraggio ecc. Nessuno di questi fenomeni è "permanente" proprio perchè non esiste senza alcune condizioni che lo "alimentano" e tolto il "nutrimento" cessa*. Riguardo all'idea della catena dei 12 elementi (ignoranza...) anche questi si danno "manforte" l'uno con l'altro ed è proprio questo il motivo per cui ci può essere la liberazione. Se uno di essi fosse incondizionato la salvezza non sarebbe possibile (cosa non capita, fra gli altri, da Schopenhauer che assolutizzò "tanha", la brama). Questa fu l'intuizione che ebbe sotto l'albero ovvero che "questo nasce perchè c'è quello... questo cessa perchè non c'è più quello". Ergo lo stesso vale anche per "soggetto" ed "oggetto": tolto l'attivo cessa anche il passsivo. Ma i condizionamenti sono ciò che mantengono in vita un fenomeno che è destinato, una volta mutate le condizioni, a perire. E questo non è un problema ovviamente per le entità inanimate (da qui credo la passione per la natura presente in ogni cultura) ma diventa causa di violenza, dolore, conflitto, competizione e prevaricazione tra gli esseri "senzienti". L'unico modo per "svincolarsi" è appunto quello di lasciar andare il "nutrimento" e ciò chiaramente porta alla "cessazione". Cosa rimane? altra questione spinosa. Alcuni dicono una Realtà Incondizionata (Abhidhamma, Theravada classica...), altri parlano di uno stato indefinibile (Nagarjuna), altri di una mente senza alcun supporto e altri ancora ritengono che non rimane proprio niente.
Qui si capisce che il buddhismo, ancor più dell'induismo, è assimilabile allo gnosticismo: in fin dei conti se il "nutrimento" è il male l'unica cosa sensata da fare è svincolarsi. Fortunatamente però questa tendenza gnostica è moderata dagli insegnamenti sull'amore, compassione, servizio, dono (dana), mente luminosa ecc. Però concordo con te, resto anche io perplesso da tutto questo. Dici che sono un romantico e che mi piace la gioia solitaria (vero). Ma mi piace moltissimo anche condividere la gioia, la mia esperienza e sentire quella altrui. Ma anche questa attività necessita in fin dei conti di un nutrimento :-[ ergo è impermanente... :-[
E se non si accetta questa tendenza buddhista-advaitin-spinozista sulla "rinuncia "incondizionata" a sé"... beh rimane poco altro: forse appunto la Comunione con altre "anime" e soprattutto col "Soggetto" con la "S" maiuscola. Solo un Dio dopotutto può trasformare il condizionato in incondizionato ecc. E col Dio cristiano il Buddha condivide "solo" l'infallibilità (non può mai mentire, mai fare una azione errata, può conoscere il karma di tutti ecc) ma non l'eternità o l'onnipotenza (né tantomeno la capacità di creare dal Nulla). Se non si accetta il cristianesimo si può accettare ad esempio sia la reincarnazione e la presenza di un Dio personale. Oppure... oppure qualcosa come il platonismo (teista o meno) dove la virtù si manifesta nella vita "concreta". Il mercato in realtà è pieno di "offerte" però secondo me ognuna ha i suoi aspetti problematici, purtroppo.
Di certo la sola filosofia però non ci porta alla Luna, purtroppo e spesso ci fa perdere di vista perfino il dito!
*Ritengo interessante che così come la coscienza "visiva" è chiamata così perchè si "nutre" della vista, lo stesso vale in quei testi per il fuoco - il nome viene dato al nutrimento. Quando il fuoco non ha più nutrimento cessa, quando la coscienza non ha più nutrimento cessa. Ma cosa voleva dire per un indiano del tempo "cessare"?
Completo la risposta appena posso ;)
Ciao Sari e Apeiron
Passo molto velocemente:
Dunque il paticca-samuppada-vibhanga è un testo molto importante. Viste le reazioni immediate ;)
Non ho ben capito perchè (sopratutto perchè sari ha minacciasto 200 pagine e passa di risposte...lol...fammelo leggere prima in toto allora) ma mi scuso subito.
Per carità, non vorrei fare l'elefante che entra nel negozio di cristalli.
alle prossime
Ciao Green risposta flash (se ti va di leggerla prima di imbarcarti nell'impresa ;D ),
direi che il paticca-samuppada è il "nucleo" del buddhismo (una sutta credo che faccia l'equazione Dhamma=paticca-samuppada). Ogni "fenomeno" è senza essenza perchè esiste a causa di condizioni ("nutrimento") e queste condizioni a loro volta esistono a causa di un nutrimento ulteriore, il quale a sua volta esiste se c'è nutrimento.... Se ci fosse un'essenza il nesso causale si bloccherebbe ad un certo punto (un po' come mettere un sasso in una corrente).
Mi ricorda Spinoza, anche se con le ovvie precisazioni. Secondo Spinoza (che però era determinista) da un lato c'era la catena di fenomeni ma dall'altro c'era la Sostanza che era la causa "ontologica" di questa catena.
Diverso è il discorso del buddhismo: similmente c'è la catena causale - questo dipende da quello, quello da quell'altro ecc ma non c'è un "principio ontologico" (senza il quale non esisterebbe nulla). La "liberazione" in fin dei conti è la "cessazione della catena". Quindi a questo punto la domanda è: cosa rimane?
Per Spinoza era semplice: la Sostanza stessa.
Per il buddhismo personalmente vedo un'ambiguità e non a caso ho parlato di 4 possibilità. 1) uno "stato indefinibile" "per il risvegliato non esiste alcuna misura ecc" 2) una "mente indefinibile"* 3) l'unica realtà incondizionata "esiste un non-nato..." 4) il nulla. La "4" secondo me nasce dall'utilizzo del riduzionismo: non siamo nient'altro che i condizionamenti.
Se il Sari ci porta 200 pagine di risposte... beh probabilmente farà azzittire la mia "mente di scimmia" ;D
*Qui si capisce lo zen quando dice "tu sei già risvegliato, te ne devi solo rendere conto ;D "
Ma secondo me con la metafora del fuoco il principio del patticca-samuppada è chiaro: la nostra "esistenza" (ovviamente parola da interpretare) è come una fiamma. Finché si nutre continua a bruciare, tolto il nutrimento si estingue. Ergo intuitivamente è chiaro: dove c'è la condizione del mantenimento del "divenire" (o "esistenza") questo continua, una volta tolta la condizione esso si estingue. Ovviamente una cosa è l'intuizione immediata, un'altra è l'interpretazione corretta (ovviamente la "4" volendo è la più intuitiva ma quella che è più sbagliata, secondo me ;) )
Buona ricerca!
Citazione di: Apeiron il 05 Gennaio 2018, 22:45:00 PM
Ciao Green risposta flash (se ti va di leggerla prima di imbarcarti nell'impresa ;D ),
direi che il paticca-samuppada è il "nucleo" del buddhismo (una sutta credo che faccia l'equazione Dhamma=paticca-samuppada). Ogni "fenomeno" è senza essenza perchè esiste a causa di condizioni ("nutrimento") e queste condizioni a loro volta esistono a causa di un nutrimento ulteriore, il quale a sua volta esiste se c'è nutrimento.... Se ci fosse un'essenza il nesso causale si bloccherebbe ad un certo punto (un po' come mettere un sasso in una corrente).
Mi ricorda Spinoza, anche se con le ovvie precisazioni. Secondo Spinoza (che però era determinista) da un lato c'era la catena di fenomeni ma dall'altro c'era la Sostanza che era la causa "ontologica" di questa catena.
Diverso è il discorso del buddhismo: similmente c'è la catena causale - questo dipende da quello, quello da quell'altro ecc ma non c'è un "principio ontologico" (senza il quale non esisterebbe nulla). La "liberazione" in fin dei conti è la "cessazione della catena". Quindi a questo punto la domanda è: cosa rimane?
Per Spinoza era semplice: la Sostanza stessa.
Per il buddhismo personalmente vedo un'ambiguità e non a caso ho parlato di 4 possibilità. 1) uno "stato indefinibile" "per il risvegliato non esiste alcuna misura ecc" 2) una "mente indefinibile"* 3) l'unica realtà incondizionata "esiste un non-nato..." 4) il nulla. La "4" secondo me nasce dall'utilizzo del riduzionismo: non siamo nient'altro che i condizionamenti.
Se il Sari ci porta 200 pagine di risposte... beh probabilmente farà azzittire la mia "mente di scimmia" ;D
*Qui si capisce lo zen quando dice "tu sei già risvegliato, te ne devi solo rendere conto ;D "
Ma secondo me con la metafora del fuoco il principio del patticca-samuppada è chiaro: la nostra "esistenza" (ovviamente parola da interpretare) è come una fiamma. Finché si nutre continua a bruciare, tolto il nutrimento si estingue. Ergo intuitivamente è chiaro: dove c'è la condizione del mantenimento del "divenire" (o "esistenza") questo continua, una volta tolta la condizione esso si estingue. Ovviamente una cosa è l'intuizione immediata, un'altra è l'interpretazione corretta (ovviamente la "4" volendo è la più intuitiva ma quella che è più sbagliata, secondo me ;) )
Buona ricerca!
Leggere i testi sacri senza aiuto lo trovo impossibile, quando leggo i veda, non leggo niente, ho bisogno dei maestri che mi spieghino cosa ci vedono loro.
In poche parole ho bisogno di parole illumiate, che indichino Dio.
Ora il testo principale del buddismo parte dicendo che vi è una predisposizione alla sensazione, ovvero alla possibilità della stessa prima di tutto.
Che sia questa la nutrizione? Per quel che ne sò, e anche dentro di me, il fuoco, l'agni originario della religione indiana, è distruzione.
Ora bisogna vedere come dentro di te, si sviluppa questa immagine, e come possiamo alchimicamente commutarla in concetto all'interno di questo orizzonte misterioso che viene prima.
Ma questo venire prima è una pre-comprensione? (spero vivamente che lo sia perchè così la sento).
O è una pre-determinazione? :(
Mi paiono domande tutte da sviluppare. Se prendiamo il testo alla lettera non mi convince, troppo sentenze e poca spiegazione.
(che ci sta in un libro che rivela antichi misteri, su cui l'umanità ha meditato, ma come già detto ho bisogno di maestri, perciò sebbene per via molto caotica, mi sto affidando anche a voi cari amici, per trovare questo maestro: non so se sia Nagarjuna come Sari mi ha consigliato. Ovviamente vi sarà sapere, solo per dire che questa lettura del canone pali non è nella mia lista principale, dove c'è già la bibbia, lo sarà invece quella del maestro/scuola che pazientemente aspetto si manifesterà)
Cerco ora di completare la risposta, visto che nei prossimi giorni non avrò molto tempo.
La questione dei maestri... beh è da un po' di tempo che ci penso anche io. In effetti l'idea della successione "apostolica", ovvero del fatto che la "verità" è tramandata da persona a persona è un tema ricorrente in moltissime tradizioni, buddhismo compreso. Nello zen c'è la questione dei patriarchi: lo zen si "auto-giustifica" facendo risalire i primi maestri zen da una catena di "maestri" (ovviamente, risvegliati) che culmina col Buddha stesso. Nel buddhismo tibetano pare che sia ancora più importante la presenza del "guru". Nel buddhismo theravada la presenza diretta del maestro è meno importante però chiaramente anche qui è presente l'idea che è "nella scuola" theravada che è contenuta la "verità" (da quanto ho capito in certe "sotto-scuole" c'è la figura del patriarca, ma potrei sbagliare). Quello che c'è da chiedersi è: quanta "conta" la differenza tra lo studio individuale e lo studio sotto un maestro (anche qui secondo quanto si sa della vita del Buddha, anche lui prima del risveglio ha "studiato" sotto vari maestri)? Personalmente - ma potrei sbagliarmi - non credo che in assenza di maestro la saggezza si interrompa, sarebbe un controsenso: di certo però la presenza del maestro aiuta nell'apprendimento (e di molto) però la scelta di un maestro in fin dei conti è una scelta che condiziona, è una scelta definitiva. Se, per esempio, scelgo di seguire il buddhismo insegnato da "x" allora mi affido a lui. Viceversa un approccio senza un maestro fisso rischia di essere superficiale. Ergo l'idea sarebbe quella di sceglierne uno ma restando "mentalmente aperti". Purtroppo è difficile conciliare le due tendenze e certamente la presenza di moltissime sotto-scuole della miriade di scuole esistenti con ciascuna che dichiara di contenere la "verità" non aiuta per niente. Ritengo interessante lo sviluppo del dialogo inter-religioso inziato (in particolare) il secolo scorso: probabilmente il numero di "tradizioni" calerà. Sinceramente lo spero visto che questa molteplicità genera un sacco di confusione (per esempio ormai anche dire di essere cristiano o buddhista significa dire poco vista la miriade di "sottoscuole".).
Riguardo al "sublime" sì è una cosa che mi interessa molto e ritengo "valida" per me una religione se riesce a darmi il senso del sublime, ovvero il senso di essere dinnanzi a qualcosa che posso riuscire ad ammirare. Il buddhismo per esempio mi lascia con un senso di "meraviglia"/ammirazione proprio quando parla dell'immisurabilità, della profondità, dell'incondizionalità ecc e anzi scoprire che questa "profondità" la si può "trovare" "purificando" noi stessi lo trovo estremamente interessante. Il platonismo invece mi piace per un motivo che può essere definito "opposto": ovvero dalla contemplazione non di questo potenziale bensì nell'ammirazione dell'ordine che si manifesta nel kosmos. Considerando che appunto il "kosmos" è un tema che non è trattato dai buddhisti (a meno che non si identifichi esso con la "coproduzione") e che lo studio della matematica (per esempio) è anche uno studio del "logos" e che in fin dei conti questi concetti hanno avuto l'acme proprio nella filosofia greca e platonica (curiosamente nella filosofia buddhista il concetto più vicino al logos è il Dhamma...)... beh comprendi che per me è difficile abbracciare il buddhismo, come invece ha fatto Sari. Ma tornando ai "maestri": il platonismo ben che vada lo leggo dagli scritti e le eventuali pratiche "dietro" di esse sono oggi estinte. Quindi capisco benissimo la tua perplessità nella mancanza che certamente si ha senza seguire una tradizione "viva".
Poi inoltre l'idea buddhista è che bisogna "svincolarsi" anche dalla coproduzione condizionata: non c'è certamente uno spirito "affermativo" della legge di causalità, come invece è presente in Spinoza (anche se per motivazione differenti, d'altronde Spinoza riteneva ogni evento inevitabile...). Quindi la tua triade "soggetto-oggetto-desiderio" dev'essere "abbandonata" nel buddhismo (la cosa interessante è,come dicevo, cosa significa questo "abbandonare"/svincolarsi). Ma anche qui il buddhismo non è un blocco unico e in fin dei conti Nagarjuna scrisse che tra samsara e nirvana non c'è la minima differenza.
Infine per quanto riguarda la "predisposizione": credo che l'idea sia che ci sia un "livello" della nostra coscienza attivo anche prima delle sensazioni. Questa se vogliamo è la "base" su cui si fonda tutto il nostro "bagaglio karmico", ovvero come percepiamo il mondo, le nostre predisposizioni: ovvero è il livello che di fatto è la base della nostra "personalità" - ovvero è quello ciò che fonda "l'io empirico" (se vuoi è alla base della differenza individuale ed è quello che mantiene in essere la stessa persona dalla nascita alla vecchiaia). Chiaramente un buddhista ti direbbe che devi "abbandonare" anche questa tua "identità".
Infine sul nutrimento e la distruzione... beh credo che entrambe le letture siano corrette per quanto riguarda l'esistenza condizionata: infatti il "divenire" non è altro che la continua creazione e distruzione di fenomeni momentanei e quindi in un certo senso il fuoco è l'esempio migliore - è un processo di creazione e di distruzione (una vera e propria sintesi di "opposti" e non a caso piaceva ad Eraclito ma mentre Eraclito voleva il fuoco sempre acceso, Buddha lo voleva estinguere...). L'idea - credo - è che finché si rimane nell'esistenza condizionata non si può avere una "creazione" libera dalla possibilità della "distruzione"*. La soluzione per i buddhisti? "Estinguere" il processo completamente ;)
*ogni esistenza condizionata in fin dei conti ha sempre il pericolo della distruzione. Infatti se le condizioni vengono meno vi è la distruzione. A rigore secondo me l'esistenza condizionata è contingente (nel senso che può essere distrutta - per definizione). L'affermazione che "tutta l'esistenza condizionata è impermanente" ovvero che l'esistenza condizionata prima o poi verrà distrutta è l'affermazione indimostrabile dalla semplice definizione di "condizionamento" su cui "devi avere fede" (e la fede è data in fin dei conti dalla fede nella Perfetta Saggezza/Inerranza del Buddha che non è "onniscienza" ma è qualcosa in fin dei conti di "simile"....)
P.S. Per dare un esempio di quanto poco sia ben definito il "buddhismo" oggi. Ho trovato questa citazione (http://www.friesian.com/undecd-1.htm in inglese) attribuita a Zhiyi, il fondatore del buddhismo Tendai (538-597 d.c.): "quello che uno può dire è che l'unica mente è tutte i fenomeni (dharmas) e che tutti i fenomeni sono l'unica mente... [la relazione tra l'unica mente e i fenomeni] è oscura, sottile ed estremamente profonda...". Ci sono tendenze "monistiche" innegabili anche nel buddhismo, specie in quello cinese.
PICCOLO ABC SEMISERIO DEL BUDDHISMO ( per aspiranti occidentali al Buddhadhamma).
Prima Parte
Partendo da una constatazione iniziale di cui abbiamo già parlato (la sofferenza) si sviluppa il 'sentiero' per il Nibbana (Nirvana in sanscrito):
[ dolore (dukkha) ] -----> [ fede (saddha) ]----> [ gioia (pamojja ]-----> [ estasi (piti) ] ----->[ serenità (passaddhi ) ] -----> [ felicità (sukha) ] -----> [ Samadhi ] -----> [ retta conoscenza ] ----->[ avversione (nibidda) ] ----->[ distacco (viraga) ]------>[ liberazione (vimutti) ] -----> [ conoscenza dell'estinzione (khaye nana) ].
Secondo la psicologia buddhista, tutti i processi hanno un carattere dinamico, sono cioè legati all'intenzionalità e sono creativi. E' una psicologia di carattere eminentemente pratico; questo significa che tutti i bisogni vengono valutati con riferimento al fine cui, per loro tramite, si perviene. Il Buddhismo riconosce, in linea di massima, tre grandi fini:
a) una migliore rinascita.
b) libertà dalla rinascita.
c) la felicità in questa vita.
Nell'Abhid. il Buddha afferma: " Io sono uno di quelli che vivono felici nel mondo" (ye ca pana loke sukham senti aham tesam annataro ti).
I punti a e bnon sono compatibili tra loro. Il c è compatibile sia con il primo che con il secondo.
Il fine 'a' è alla portata del laico buddhista che segue i cinque precetti e coltiva benevolenza e compassione verso ogni essere senziente.
il fine 'b' è specificamente l'obiettivo del monaco buddhista ( bhikkhu ) ma non è negato alle possibilità del praticante laico.
Il fine 'c' è realizzabile da ogni praticante buddhista, laico o monaco che sia.
Il laico segue cinque precetti, ma può estenderli a otto.
Il monaco molti di più (decine a seconda delle varie tradizioni e scuole).
I cinque precetti base seguiti da ogni buddhista sono:
-astenersi dall'uccidere o provocare danno agli esseri viventi.
-astenersi dal prendere ciò che non è stato dato.
-astenersi da una vita sessuale sregolata.
-astenersi dal mentire e dall'usare toni volgari e offensivi.
-astenersi dal prosecco ( sigh! :( ), dalle droghe e dalle sostanze che alterano la lucidità mentale.
A questi se ne aggiungono tre di facoltativi:
-astenersi dal mangiare dopo mezzogiorno e fino all'alba seguente.
-astenersi dal cantare, ballare , far casino , ecc. e dai gioielli, profumi costosi, trucchi cosmetici vari.
-astenersi dal riposare in letti troppo comodi e troppo grandi.
I monaci poi ne seguono un altro di importantissimo, per l'ordinato:
-astenersi dal ricevere denaro, oro, argenti, criptovalute, assegni postdatati, obbligazioni subordinate Tier I e Tier II, ecc.
Abbiamo un duplice sistema di valori, che si ricollega a tre tipi fondamentali di 'bisogni':
1) bisogni nocivi ( akusala) che non conducono a nessuno dei punti a-b-c- sopra descritti.
2) bisogni salutari ( kusala) che conducono ad una migliore rinascita ed almeno ad un certo grado di felicità in questa vita.
3) libertà dai bisogni, che conduce alla libertà dalla rinascita e alla felicità compiuta in questa vita.
La rinascita è un problema, non è cosa da augurarsi, per il buddhista. Ma se proprio dobbiamo rinascere è meglio un buona rinascita piuttosto che una pessima...e fin qua tutti si dicono d'accordo.
Il problema più importante , agli occhi del Buddha, riguardava i motivi che spingono alle azioni e ai pensieri nocivi. Egli riteneva che, il potersene liberare, era di per sè una motivazione per seguire la moralità ( sila) e creare così i presupposti per la realizzazione dei punti a-b-c.
Per il Buddhismo i fattori motivazionali dell'azione non sono innati né ereditati, quanto secondari, condizionati dalla percezione sensoriale.
Se ci si libera da questi motivi, apparirà "qualcosa" di simile ad una 'purezza' originaria della mente ( citta ): "Questa citta era luminosa ma venne corrotta da macchie provenienti dall'esterno" (Ab. I 10).
Il Buddhismo, generalmente, usa una terminologia negativa che però ha un valore emotivo positivo, così come si presenta nella letteratura buddhista.
Il Buddhismo delle origini era un metodo pratico, non una scienza e nemmeno una filosofia, pertanto è naturale che l'unica classificazione realistica del Sentiero risulti basata sui risultati dei bisogni.
Oltre alla classificazione in risultati buoni e risultati cattivi troviamo due ulteriori distinzioni:
-distinzione in relazione ai gradi di coscienza.
-distinzione in relazione ai gradi di pianificazione e premeditazione impliciti.
Se un essere immerso nei pensieri mondani vi chiede ( a voi aspiranti occidentali al buddhismo che avete letto fin qui e vi siete ormai convertiti... 8) ) "Cos'è il Buddhismo, o fuori di testa?"
Voi rispondete semplicemente: "Nulla a cui aggrapparsi".
Ma se il pedante interlocutore, insistendo , vi chiedesse ancora:" E cosa significa ? " accompagnando la domanda con uno sguardo di commiserazione...
Rispondete: "Astenersi dal male, praticare il bene, purificare la mente".
Se insiste maliziosamente: "E cos'è il male? Cosa il bene?" rivelandosi così il classico filosofo buontempone, voi con consapevolezza e con la mente ricolma di metta ( benevolenza-amorevolezza) assestategli un colpo deciso con un nodoso bastone tra la groppa e le reni che lo porterà all'immediata risalita di Kundalini lungo la spina dorsale... 8)
Di solito, un colpo così ben assestato, risolve al filosofo tutti i suoi dubbi al riguardo del bene e del male, realizzando così con immediatezza la profonda differenza tra i due... :o
Se volete poi far sfoggio della vostra erudizione del Dhamma buddhista potete aggiungere, mentre si massaggia la schiena dolorante: "Questo si chiama phassa che vuol dire 'contatto' , 'impressione sensoriale'...
Namaste :)
SARIPUTRA
I cinque precetti base seguiti da ogni buddhista sono:
-astenersi dall'uccidere o provocare danno agli esseri viventi.
-astenersi dal prendere ciò che non è stato dato.
-astenersi da una vita sessuale sregolata.
-astenersi dal mentire e dall'usare toni volgari e offensivi.
-astenersi dal prosecco ( sigh! (https://www.riflessioni.it/logos/Smileys/default/sad.gif) ), dalle droghe e dalle sostanze che alterano la lucidità mentale.
APEIRON
-astenersi dal mentire e dall'usare toni volgari e offensivi. (sigh! ahia non posso far polemiche ;D )
Tornando seri credo che già se si seguissero solo questi precetti, anche con la dovuta moderazione (mi riferisco alle sostanze che alterano la lucidità mentale ;D ) il mondo sarebbe veramente un posto migliore senza aggiungerci gli altri... Interessante! Ma ahimé l'uomo è "peccaminoso" ::)
SARIPUTRA
A questi se ne aggiungono tre di facoltativi:
-astenersi dal mangiare dopo mezzogiorno e fino all'alba seguente.
-astenersi dal cantare, ballare , far casino , ecc. e dai gioielli, profumi costosi, trucchi cosmetici vari.
-astenersi dal riposare in letti troppo comodi e troppo grandi.
APEIRON
Nooooooooooooooooooo che faccio col mio letto comodissimo su cui voglio giacere dopo una lunga giornata in cui ho provato a fare qualcosa di produttivo? Uffa e siamo solo ai primi 8 precetti :(
SARIPUTRA
I monaci poi ne seguono un altro di importantissimo, per l'ordinato:
-astenersi dal ricevere denaro, oro, argenti, criptovalute, assegni postdatati, obbligazioni subordinate Tier I e Tier II, ecc.
APEIRON
Questo è molto interssante... mi pare di aver visto che in alcune scuole Mahayana e tibetane (ah, ho scoperto che tibetano =/= vajrayana) ci sono monaci che possiedono qualcosa che appartiene a quanto stai dicendo. E da qui mi sorge la domanda (in realtà due non indipendenti): come fanno questi a praticare un "buddhismo" autentico? O inversamente: quanto di "settario" c'è nel Canone Pali? ::)
SARIPUTRA
[ dolore (dukkha) ] -----> [ fede (saddha) ]----> [ gioia (pamojja ]-----> [ estasi (piti) ] ----->[ serenità (passaddhi ) ] -----> [ felicità (sukha) ] -----> [ Samadhi ] -----> [ retta conoscenza ] ----->[ avversione (nibidda) ] ----->[ distacco (viraga) ]------>[ liberazione (vimutti) ] -----> [ conoscenza dell'estinzione (khaye nana) ].
APEIRON
Un po' di commenti. Ritengo molto interssante che è proprio "dukkha" il primo anello di questa catena (che tra l'altro ha 12 elementi, come l'altra che ci condanna a "declino e morte" :o ): come dire che ci vuole un certo grado di dukkha per veramente praticare il buddhismo. Il secondo poi è "saddha"... ovvero quando ormai sei messo male l'unica cosa che puoi fare è "ancorarti" al "rifugio". Poi è interessante che c'è una fase in cui "si sta bene" (fino al "samadhi")... ma poi c'è una fase di "avversione" (traduzione errata?) subito prima della "liberazione" e della "conoscenza dell'estinzione" (conoscenza di che?). Comunque mi chiedo se questa catena valga anche in altri contesti ::)
SARIPUTRA
Il Buddhismo riconosce, in linea di massima, tre grandi fini:
a) una migliore rinascita.
b) libertà dalla rinascita.
c) la felicità in questa vita.
Nell'Abhid. il Buddha afferma: " Io sono uno di quelli che vivono felici nel mondo" (ye ca pana loke sukham senti aham tesam annataro ti).
I punti a e bnon sono compatibili tra loro. Il c è compatibile sia con il primo che con il secondo.
Il fine 'a' è alla portata del laico buddhista che segue i cinque precetti e coltiva benevolenza e compassione verso ogni essere senziente.
il fine 'b' è specificamente l'obiettivo del monaco buddhista ( bhikkhu ) ma non è negato alle possibilità del praticante laico.
Il fine 'c' è realizzabile da ogni praticante buddhista, laico o monaco che sia.
APEIRON
E qui secondo me c'è qualcosa di molto curioso. Anzitutto il fatto che la migliore rinascita è visto come qualcosa di "rispettabile" e questo secondo me contrasta l'interpretazione per cui il Buddhismo significa "tutto fa schifo, meglio svincolarsi anche se ciò significa il Nulla". Riguardo al "c"... ecco credo che questo punto sia per così dire ciò che attrae al buddhismo molte persone: i risultati sono in questa vita, quindi tutti possono usare la saggezza buddhista per questo motivo. Il "b"... Sommum Bonum: bhavanirodha ("cessazione dell'esistenza" ovviamente tutto dipende da cosa significa "esistenza" :( )
Abbiamo un duplice sistema di valori, che si ricollega a tre tipi fondamentali di 'bisogni':
1) bisogni nocivi ( akusala) che non conducono a nessuno dei punti a-b-c- sopra descritti.
2) bisogni salutari ( kusala) che conducono ad una migliore rinascita ed almeno ad un certo grado di felicità in questa vita.
3) libertà dai bisogni, che conduce alla libertà dalla rinascita e alla felicità compiuta in questa vita.
SARIPUTRA
La rinascita è un problema, non è cosa da augurarsi, per il buddhista. Ma se proprio dobbiamo rinascere è meglio un buona rinascita piuttosto che una pessima...e fin qua tutti si dicono d'accordo.
Il problema più importante , agli occhi del Buddha, riguardava i motivi che spingono alle azioni e ai pensieri nocivi. Egli riteneva che, il potersene liberare, era di per sè una motivazione per seguire la moralità ( sila) e creare così i presupposti per la realizzazione dei punti a-b-c.
Per il Buddhismo i fattori motivazionali dell'azione non sono innati né ereditati, quanto secondari, condizionati dalla percezione sensoriale.
Se ci si libera da questi motivi, apparirà "qualcosa" di simile ad una 'purezza' originaria della mente ( citta ): "Questa citta era luminosa ma venne corrotta da macchie provenienti dall'esterno" (Ab. I 10).
Il Buddhismo, generalmente, usa una terminologia negativa che però ha un valore emotivo positivo, così come si presenta nella letteratura buddhista.
Il Buddhismo delle origini era un metodo pratico, non una scienza e nemmeno una filosofia, pertanto è naturale che l'unica classificazione realistica del Sentiero risulti basata sui risultati dei bisogni.
Oltre alla classificazione in risultati buoni e risultati cattivi troviamo due ulteriori distinzioni:
-distinzione in relazione ai gradi di coscienza.
-distinzione in relazione ai gradi di pianificazione e premeditazione impliciti.
Se un essere immerso nei pensieri mondani vi chiede ( a voi aspiranti occidentali al buddhismo che avete letto fin qui e vi siete ormai convertiti... (https://www.riflessioni.it/logos/Smileys/default/cool.gif) ) "Cos'è il Buddhismo, o fuori di testa?"
Voi rispondete semplicemente: "Nulla a cui aggrapparsi".
APEIRON
Quanto puntualizzi qua è molto interessante: noi occidentali che vediamo il buddhismo "da fuori" ci concentriamo immediatamente sul suo "Summum Bonum". Però come ben dici qui in realtà il "primo nemico" del buddhismo sono le azioni nocive e quindi lo sviluppo di sila. Ergo sila in sostanza è quella pratica per cui si "prepara" la mente per riuscire a liberarsi. Noi commentatori occidentali ce ne dimentichiamo e pensiamo che sia il "nirvana" il primo "obbiettivo": invece no, è sila. Si parte da lì, si comincia a "tirar fuori" la "luminosità", dopo si comincia con la meditazione ecc.
Il problema è che il mondo del 2018 (passa il tempo :( ormai è dal 2015 che mi informo sul buddhismo, sono passati tre anni e continuo a girare attorno ;D ) è ben diverso dal mondo di quei tempi... e questo è un problema perchè riuscire a "tradurre" il buddhismo delle origini "in questo mondo" è qualcosa di strano :(
Riguardo alla definizione "nulla a cui aggrapparsi"... beh in fin dei conti è un "motivo" ricorrente in molte tradizioni e filosofie. La "promessa" è che quando non ci si aggrappa a nulla, paradossalmente si ha il "massimo". La positività in fin dei conti è molto chiara in quasi tutte le tradizioni, nel buddhismo per qualche motivo si mette la "a" privativa ovunque: asankhata, amata (non-condizionato, non-morte ecc). Questo ahimé crea ambiguità.
Riguardo all'Abhidhamma... Ho letto da qualche parte che al posto di nirvana si usa "asankhata-dhatu", ovvero "elemento non-condizionato". E nuovamente si dice che non è questo, non è quello, non ha quelle caratteristiche ecc. Tutto molto "apofatico" ;) cosa si nasconde dietro a queste negazioni?
Per alcuni, come molto probabilmente per i Sautrantika, niente. Il nirvana è "la cessazione".
Per gli abhidharma (non solo theravada): una volta capita l'insostanzialità dell'esistenza condizionata si "prende conoscenza" dell'"asankhata dhatu", che è qualcosa che "esiste". Di certo non è la "mera assenza" dei cinque aggregati. Per l'abhidhamma theravada l'universo è composto da 4 elementi (ho letto da qualche parte): citta (mennte), cetasika (stati mentali), rupa (materia) e "asankhata dhatu" (o nirvana). I primi due sono "mente", il terzo è materia e l'ultimo non è materia e nemmeno "mente". Ad ogni modo in queste scuole è riconosciuto come un "qualcosa che esiste, un incondizionato" :)
Infine il Mahayana... Qui si parla di vacuità. Questo è vuoto, quello è vuoto, tutto è vuoto ecc. Ma "vacuità" significa potenzialità? Mi spiego: in una stanza vuota posso muovermi e posso vivere! Ovvero la vacuità è "pura potenzialità"? Se "la vacuità è materia, la materia è vacuità" (Sutra del Cuore), questo significa che il vuoto è la potenzialità per cui può esistere la forma? Anche perchè non è molto diverso dai Sautrantika, altrimenti. Se sparisce tutta l'esistenza condizionata non rimane nulla ;) e sappiamo che "sabbe sankhara anicca e dukkha" (tutta l'esistenza condizionata è impermanente e dolorosa). Ma questo come fa a non essere nichilismo? ::) vabbeh ormai è da anni che ci penso e non mi ha mai convinto veramente. Credo che sia una causa persa... o che sono una causa persa ;D
Per chi è attratto dal concetto di "vacuità" ma è allo stesso tempo respinto da tale concetto (come me) ritengo che sia interessante considerare questa cosa.
Nella Repubblica di Platone, Socrate dice che "La Forma de Bene" è la causa ontologica di tutto ciò che è conoscibile: ciò pone tale "Forma" oltre ogni cosa. Certamente sia in occidente che in oriente spesso l'Assoluto è stato posto oltre ciò che "è" e ciò "non è" (almeno in qualche senso della parola "essere"). In fin dei conti l'idea è che la causa contenga "in potenza" l'effetto - e che quindi l'effetto in qualche modo "pre-esista" nella causa: senza la causa l'effetto non esiste. Per esempio: il fuoco può accendersi dove è presente l'ossigeno. Quando questo viene meno viene meno la possibilità dell'accensione del fuoco: il fuoco cioè esiste come possibilità. Chiaramente tutto ciò che esiste è "possibile": se per esempio la gravità funzionasse in modo diverso pianeti, stelle, galassie ecc non potrebbero esistere. Il ragionamento dunque che Platone (e molti altri filosofi, in realtà spesso vicini all'eresia dell'ortodossia che è in voga in un dato momento storico ;D ) fa è il seguente: tutto ciò che "accade" se accade è anzitutto "possibile", ovvero il "programma" dell'universo ne permette l'esistenza! Ergo anche la distinzione potenza-atto di Aristotele: la pianta "pre-esiste" nel seme come "potenzialità". Il nostro stesso corpo "pre-esiste" nella materia come possibilità. L'attualizzazione però dipende da un certo numero di cause, senza le quali l'esistenza non avviene.
Quest'ultima parte del discorso è ciò che accomuna tutte le scuole buddhiste, in fin dei conti nel documento ecumenico buddhista citato da Sariputra:
"Accettiamo la legge universale di causa ed effetto insegnata nelpaticcasamuppada (origine interdipendente o genesi condizionata) e, in accordo con questo, affermiamo che tutto è relativo, interdipendente e interrelato e che niente nell'universo è assoluto, permanente e duraturo."
Tutto ciò che esiste grazie a determinate condizioni (o cause) è impermanente, condizionato e quindi in ultima analisi "incompleto". Questa è una verità che è in fin dei conti accettata da molte filosofie che ho citato sopra: ogni "cosa" in fin dei conti per esistere e non meramente essere possibile necessita di condizioni, tolte le quali "non esiste". La differenza del buddhismo è che secondo questa "filosofia" tutto ciò che "partecipa" a questa "legge universale di causa effetto" non ha l'assoluta priorità ontologica, ovvero non esiste alcuna "Causa Prima" in alcun senso di questa espressione. Qui si discosta pesantemente dal pensiero di Platone, Daodejing, delle Upanishads, di alcuni mistici cristiani ecc
Tuttavia come in questo passo dell'Itivukkata https://suttacentral.net/it/iti43:
"Questo è stato detto dal Beato, è stato detto dall'Arahant, e così ho sentito: "Vi è, monaci, un non-nato—non-divenuto—non-creato—non-formato. Se non ci fosse il non-nato—non-divenuto—non-creato—non-formato, non ci sarebbe alcuna conoscenza della liberazione da ciò che è nato—divenuto—creato—formato. Ma poiché vi è un non-nato—non-divenuto—non-creato—non-formato, vi è la conoscenza della liberazione da ciò che è nato—divenuto—creato—formato."... L'unica salvezza è calma, permanente oltre il comune ragionare, non-nata, non-prodotta, priva di sofferenza, senza macchia, la cessazione di tutte le sofferenze,"
E sempre nel documento ecumenico:
"Seguendo l'insegnamento del Buddha, riteniamo che tutte le cose condizionate (sankhara) siano impermanenti (anicca) e imperfette, e pertanto insoddisfacenti (dukkha) e che tutte le cose condizionate e non condizionate non abbiano un sé (anatta)."
Ma cosa sarà mai questo "incondizionato"? :) Sicuramente non un "primum ontologico", un Sole del Mondo che è causa (in qualche senso della parola) di tutto altrimenti sarebbe la stessa cosa in fin dei conti di Brahman, Dao ecc Ma cos'è?
Risposta breve e secca (sautrantika): la permanente cessazione della sofferenza. Ovvero la permanente cessazione dell'insorgere di fenomeni impermanenti prodotti da cause e condizioni.
Risposta alternativa (classica): un "qualcosa" che è fuori dall'universo (d'altronde è nell'"universo" che non si trova niente di permanente come afferma il documento ecumenico).
Altra risposta: è la "vacuità" (mahayana). La vera natura di tutte le cose: ovvero il non essere "cose". E nemmeno il "non essere cose" è una cosa. Come pensare questo? Una immagine che mi sono fatto io è la seguente: pensiamo ad esempio al cielo. Se ci sono le nuvole sembra che che ci siano "cose solide". Tuttavia a ben guardarle non sono "cose" (a differenza di ciò che dicono Platone &co). Nemmeno il cielo è una cosa. Ma è proprio grazie al fatto che "non sono cose solide" che anche nelle giornate nuvolose si ha comunque un po' di luce. Quindi la vacuità è anche "apertura", "luminosità", "trasparenza". "essere senza confini" ecc. Dire che l'incondizionato è qualcosa è sbagliato. Semplicemente la liberazione è questa "apertura". Ma che ne è di Platone & co?
In sostanza hanno "reificato" tutto, ovvero hanno "reso reali" dei concetti astratti. Certamente convenzionalmente ci sono rocce, esseri ecc ma a ben guardare (dicono i buddhisti) non ci sono rocce, esseri ecc a livello ultimo. E quindi non c'è bisogno di una "causa prima". In un certo senso paradossalmente mentre Platone &co dicevano che l'assoluto è "oltre l'esistenza e la non-esistenza" la vacuità dice: tutto, ogni cosa, in un certo senso è oltre esistenza e non-esistenza. In sostanza l'errore di Platone &co è stato confondere l'ontologia con l'epistemologia.
Abbiamo così liberato la mente dai dubbi e dalle perplessità? Forse ;D
Prima di fare alcune considerazioni sulle tue domande, vorrei sottolineare come , in questo topic sul Buddhismo, oltre a sviluppare e approfondire il significato di parte di questa complessa e antica dottrina, siamo riusciti a presentare pure i dubbi, le apparenti incongruenze, le difficoltà all'approccio date da un sistema culturale e filosofico profondamente diverso dal nostro, nel quale viviamo e siamo cresciuti; oltre alle difficoltà interpretative dovute alla traduzione di termini che non hanno un corrispettivo esatto nei nostri vocabolari. Questo trovo sia interessante per coloro che, magari, leggeranno o rileggeranno questi post che, almeno personalmente, propongo senza intenti missionari o di proselitismo.Probabilmente restano più utili a chi li scrive che non a chi li legge, visto che, del Buddhismo e sul Buddhismo, nel web si può trovare un'incredibile vastità di informazioni, impossibile solo da immaginare quand'ero giovane e mi avvicinavo con curiosità all'argomento.
cit.Apeiron:
Tornando seri credo che già se si seguissero solo questi precetti, anche con la dovuta moderazione (mi riferisco alle sostanze che alterano la lucidità mentale (https://www.riflessioni.it/logos/Smileys/default/grin.gif) ) il mondo sarebbe veramente un posto migliore senza aggiungerci gli altri... Interessante! Ma ahimé l'uomo è "peccaminoso" (https://www.riflessioni.it/logos/Smileys/default/rolleyes.gif)
E' così. Si potrebbe definire buddhisticamente, questa incapacità di seguire ciò che è salutare, come la "seduzione prodotta da ciò che è nocivo". A causa di questa "seduzione" restiamo incatenati al divenire.
Comprendiamo che sarebbe meglio coltivare ciò che è salutare, ma finiamo spesso per fare ciò che è nocivo.
Il Buddha ha indicato in avidya (ignoranza) e di conseguenza nei kilesa ( principalmente brama, odio e illusione) la causa del nostro 'precipitare' continuamente in ciò che è nocivo,,,
Se "brama, odio e illusione" sono le radici di ciò che è nocivo, quali sono le radici di ciò che è salutare, per il buddhista?
-assenza di brama è salutare
-assenza di odio è salutare
-assenza d'illusione è salutare
Si continua a presentare ciò che è positivo con una terminologia che è di negazione. Questo ricorre continuamente nei testi ed è una caratteristica tipica del Buddhismo, che a noi occidentali suona forse 'fastidiosa', visto che siamo gente che tende ad 'affermare'. Ma ovviamente ha pure il suo fascino... ;) e permette di evitare di cadere in definizioni forse troppo circoscritte e limitative, date dal linguaggio...
Così:
cit.Apeiron:
Riguardo all'Abhidhamma... Ho letto da qualche parte che al posto di nirvana si usa "asankhata-dhatu", ovvero "elemento non-condizionato". E nuovamente si dice che non è questo, non è quello, non ha quelle caratteristiche ecc. Tutto molto "apofatico" (https://www.riflessioni.it/logos/Smileys/default/wink.gif) cosa si nasconde dietro a queste negazioni?
Noi naturalmente vorremmo una chiara definizione e affermazione di cos'è questo stato e invece...si continua per negazioni:
L'elemento detto Nibbana è:
-estinzione della sofferenza
-assenza di ciò che è condizionato.
-estinzione del ciclo di nascita e morte.
-non-nato, non-divenuto, non-composto, ecc.
-cessazione della sofferenza.
Buddha Gotama è perfettamente consapevole dei pericoli di qualunque affermazione sull'elemento detto Nibbana/Nirvana. Qual'è un pericolo? Nel momento che lo si definisce in un concetto , immediatamente la mente lo pone 'esterno' ad essa. Una nuova cosa da investigare. Diventa un condizionamento, un nuovo kilesa. Siddhartha vuole indicare che il Nibbana non è un nuovo concetto da aggiungere alla propria collezione. Non si 'studia' il Nibbana, si realizza ( è più simile alla bastonata che alla rflessione su cos'è una bastonata... :) ). E' uno stato di liberazione esistenziale. Il 'cibo' va gustato, ecc.
E qui ritorna il problema della moralità (sila)...
cit.Apeiron:
Quanto puntualizzi qua è molto interessante: noi occidentali che vediamo il buddhismo "da fuori" ci concentriamo immediatamente sul suo "Summum Bonum". Però come ben dici qui in realtà il "primo nemico" del buddhismo sono le azioni nocive e quindi lo sviluppo di sila. Ergo sila in sostanza è quella pratica per cui si "prepara" la mente per riuscire a liberarsi. Noi commentatori occidentali ce ne dimentichiamo e pensiamo che sia il "nirvana" il primo "obbiettivo": invece no, è sila. Si parte da lì, si comincia a "tirar fuori" la "luminosità", dopo si comincia con la meditazione ecc.
Il problema è che il mondo del 2018 (passa il tempo (https://www.riflessioni.it/logos/Smileys/default/sad.gif) ormai è dal 2015 che mi informo sul buddhismo, sono passati tre anni e continuo a girare attorno (https://www.riflessioni.it/logos/Smileys/default/grin.gif) ) è ben diverso dal mondo di quei tempi... e questo è un problema perchè riuscire a "tradurre" il buddhismo delle origini "in questo mondo" è qualcosa di strano
Il fondamento della pratica è la moralità. Senza moralità non si ha meditazione fruttuosa. Senza meditazione fruttuosa non si ha saggezza (prajna) e quindi possibilità reale di liberazione dalla sofferenza e dal ciclo di nascita-morte. Perchè abbiamo visto e vediamo 'santoni' truffaldini, guru interessati vari,monaci buddhisti improponibili, occidentali che si buttano nella meditazione alternandola a sesso e droga senza cogliere alcuin frutto dalla pratica meditativa? Perchè non hanno alcuna intenzione di rinunciare a ciò che è nocivo. La moralità è un 'peso'. Si preferisce evitare questo punto...In nome della 'libertà dalla moralità' ci si incatena sempre più ai kilesa...
Da questo punto di vista la strada del Buddhismo autentico e quella del mondo del 2018 non possono essere più divergenti, pertanto...sì, suona strano ai nostri orecchi.
Attenzione però a intendere la moralità/virtù come qualcosa che ci viene 'imposto' dall'esterno, come siamo abituati a pensare avendo una formazione cristiana ( o abramitica nel complesso).
La ricerca dell'autentica moralità è lo stato naturale, per il Buddhismo, di una mente non irretita nei kilesa ( condizionamenti). Pertanto ogni agire libero dai kilesa è un agire 'virtuoso':
-l'assenza di brama è una condizione di generosità ( dana). Si ammetteranno i difetti presenti in un oggetto gradevole.
-l'assenza di odio è una condizione di virtù (sila). Si ammetteranno le virtù presenti in un oggetto sgradevole.
-l'assenza d'illusione è una condizione di visione non deformata da brama e odio della realtà. Si ammetterà la realtà dei fatti e si agirà di conseguenza.
Ovviamente sono solo esempi. Il discorso è vastissimo...
Infine:
cit.Apeiron:
Infine il Mahayana... Qui si parla di vacuità. Questo è vuoto, quello è vuoto, tutto è vuoto ecc. Ma "vacuità" significa potenzialità? Mi spiego: in una stanza vuota posso muovermi e posso vivere! Ovvero la vacuità è "pura potenzialità"? Se "la vacuità è materia, la materia è vacuità" (Sutra del Cuore), questo significa che il vuoto è la potenzialità per cui può esistere la forma? Anche perchè non è molto diverso dai Sautrantika, altrimenti. Se sparisce tutta l'esistenza condizionata non rimane nulla (https://www.riflessioni.it/logos/Smileys/default/wink.gif) e sappiamo che "sabbe sankhara anicca e dukkha" (tutta l'esistenza condizionata è impermanente e dolorosa). Ma questo come fa a non essere nichilismo? (https://www.riflessioni.it/logos/Smileys/default/rolleyes.gif) vabbeh ormai è da anni che ci penso e non mi ha mai convinto veramente. Credo che sia una causa persa... o che sono una causa persa (https://www.riflessioni.it/logos/Smileys/default/grin.gif)
Più che una causa persa sei una causa non a tiro del bastone nodoso che ho appoggiato sull'uscio...sai che grandinata!! ;D ;D ;D
P.S. Ho letto adesso il tuo ultimo post. Risponderò con calma...vedo che giri intorno al Nirvana come un leone attorno alla gazzella. Ma la gazzella è veloce e il leone è...'appesantito' ;D
Sul concetto filosofico di 'appesantito' lascio a te la riflessione,,,
Scherzo ovviamente e, a proposito di scherzi, una barzelletta buddhista:
Che cosa accade a uno studente buddhista completamente assorbito dal computer con cui sta lavorando?
Entra nel Nerdvana ! ;D
Grazie della sempre ottima risposta, ci "mediterò" sopra ;) risponderò con molta calma nei prossimi giorni! Lasciami fare due commenti:
SARIPUTRA
Prima di fare alcune considerazioni sulle tue domande, vorrei sottolineare come , in questo topic sul Buddhismo, oltre a sviluppare e approfondire il significato di parte di questa complessa e antica dottrina, siamo riusciti a presentare pure i dubbi, le apparenti incongruenze, le difficoltà all'approccio date da un sistema culturale e filosofico profondamente diverso dal nostro, nel quale viviamo e siamo cresciuti; oltre alle difficoltà interpretative dovute alla traduzione di termini che non hanno un corrispettivo esatto nei nostri vocabolari. Questo trovo sia interessante per coloro che, magari, leggeranno o rileggeranno questi post che, almeno personalmente, propongo senza intenti missionari o di proselitismo.Probabilmente restano più utili a chi li scrive che non a chi li legge, visto che, del Buddhismo e sul Buddhismo, nel web si può trovare un'incredibile vastità di informazioni, impossibile solo da immaginare quand'ero giovane e mi avvicinavo con curiosità all'argomento.
APEIRON
Sì esatto! Lo stesso vale per me sull'intenzione: mi considero un "mero" viandante... semplicemente mi piace esplorare. Tuttavia ritengo che questo tipo di discussione possa andar bene sia per chi è veramente interessato al buddhismo sia per chi ne vuole avere una conoscenza "superficiale": fa sempre bene ascoltare prospettive diverse sulla realtà, proprio per evitare il proselitismo di cui parli. Riguardo all'utilità per chi scrive: certamente, ritengo la scrittura un'aiuto per "riordinare" la mente e devo dire che il Forum è un ambiente che aiuta molto. Ma ritengo che anche chi legge può ricevere utilità: l'argomento in fin dei conti è molto complesso ed è facile perdersi nei "meandri" della rete. Se si cercano informazioni sul "nirvana" (per esempio) si trova un sacco di informazioni apparentemente contraddittorie dovute al diverso uso delle parole stesse. Banalmente essere consapevoli di ciò aiuta secondo me ;) ovviamente il sapere che c'erano 18 scuole buddhiste nei primi tempi e sapere le dottrine di ciascune non aiuta un granché a capire l'essenza di questa "religione" se non si pratica. Tuttavia aiuta ad avere una "prospettiva" d'insieme, a limitare la tendenza al "fondamentalismo" ecc. Direi che anche l'aver scritto ben 4 (!) interpretazioni del "nirvana" differenti, ad esempio, sia utile. Il rischio ovviamente è restare sulla superficie e vagare a vuoto ... oltre che un sovraccarico di informazioni completamente inutile (l'obesità intellettuale di cui parlavi). Ci vorrebbe una via di mezzo, credo.
SARIPUTRA
Più che una causa persa sei una causa non a tiro del bastone nodoso che ho appoggiato sull'uscio...sai che grandinata!! (https://www.riflessioni.it/logos/Smileys/default/grin.gif) (https://www.riflessioni.it/logos/Smileys/default/grin.gif) (https://www.riflessioni.it/logos/Smileys/default/grin.gif)
P.S. Ho letto adesso il tuo ultimo post. Risponderò con calma...vedo che giri intorno al Nirvana come un leone attorno alla gazzella. Ma la gazzella è veloce e il leone è...'appesantito' (https://www.riflessioni.it/logos/Smileys/default/grin.gif)
Sul concetto filosofico di 'appesantito' lascio a te la riflessione,,,
Scherzo ovviamente e, a proposito di scherzi, una barzelletta buddhista:
Che cosa accade a uno studente buddhista completamente assorbito dal computer con cui sta lavorando?
Entra nel Nerdvana ! (https://www.riflessioni.it/logos/Smileys/default/grin.gif)
APEIRON
In quel secondo messaggio effettivamente ho fatto un esercizio di ordine: semplicemente ho scritto una sorta di "sommario" (in esso non c'è nulla di nuovo) di quanto ho capito sul "nirvana" in questi mesi (manca l'interpretazione "mentalistica" a dire il vero ma è un "misto" tra la seconda e la terza che ho scritto...). Riguardo al mio rapporto col nirvana: l'analogia è molto buona... anzi a dire il vero questo "girare attorno" è anche rischioso: diventa quasi una "droga". Si prende gusto a farlo e allo stesso tempo è una cosa molto fastidiosa, magari ad un certo punto questo processo di "girare in tondo" cessa da sé una volta che mi ha completamente stufato ;D ... ma perchè lo faccio? è solo una mancanza di "fede" :-[ motivo per cui bisogna "praticare".
Riguardo al Nerdvana (battuta bellissima ;) ) purtroppo hai ragione. Sto lavorando alla tesi ed effettivamente sto 8-12 ore al PC al giorno... anche in questo senso ragionare ad esempio sul Dhamma è qualcosa che aiuta... ma come diceva un mio amico una volta: si vive con i piedi e non con la testa ::)
Per Sari e Apeiron:
Il mio pensiero trinitario (Soggetto-Oggetto-Desiderio) non può essere lasciato in nome di alcunchè.
Perchè è il frutto di un lungo doloroso processo di questioni filosofiche.
Dunque Induismo, Buddhismo, Ebraismo, Cabala, Ermetismo hanno potenzialità in me solo se riesco a rintracciarne i motivi che superino il metodo filosofico.
Se il Buddhismo è quella cosa naive presentatami da Sariputra allora è destinata a perire, come perì l'induismo all'epoca.
E' molto semplice, qualsiasi religione voglia reprimere la sessualità lo fa in nome del preteso Bene e Male.
Addirittura ci costruiscono su un sistema, vuoto e totalmente lontano da ciò che l'uomo è, a tutte le latitudini e longitudini, come lo studio antropologico ha ampiamente mostrato (pur quest'ultimo assumendo ancora cosa sia bene e male).
Chissà perchè le caste sacerdotali invece ne fanno sempre a meno.
E questo è storia.
Ma cosa è bene e cosa è male?
(la violenza non risolve un bel niente, o meglio risolve assoggettando l'altro, proprio ciò che non era da fare secondo i precetti di tutte le sedicenti, e perciò false, religioni del mondo, e intendo proprio tutte.)
Perchè bere prosecco porta all'infelicità?
Bizzarro, visto che i miti antichi invece lo assumevano addirittura a fondamento del loro vivere quotidiano.
Per mia esperienza personale, il vino non mi ha MAI portato infelicità.
Certo esiste il metron, se inizi a provare dolore per via del vino, ti moderi in proporzione: non lo metti come regola che tutti devono seguire.
In questo il pessimo Aristotele aveva ragione. Giustizia nel Medium.
Ossia alla diversità dei casi.
No per conto mio passo amici miei: riguardo i discorsi moralisti.
E invece io tornerei a bomba.
Ossia cosa è interessante proprio a livello filosofico.
Ossia cosa lo è a livello metafisico.
Dove risiede la trascendenza?
Tornando alle tradizione che maggiormente mi ha sempre convinto, quella filosofica appunto, distinguiamo dunque una Potenza e una Forma. (Platone, il pessimo Platone).
La cosa più interessante nel Buddismo è che per come ci sto ragionando per conto mio, e lontano dai testi: che la Forma è la Potenza del Vuoto.
Il che riformulato in altra maniera si pone come seconda mia personalissima pietra del paragone.
Ossia il primo punto che mi avete aiutato a risolvere era che:
1) Il vuoto è la forma del tutto.
E ora ancora più enigmatico è che:
2) Il reale(l'oggetto) è la forma del vuoto.
A proposito del dolore.
A mio parere è interessante che il buddista medio, si interroghi sul dolore.
E' mia convinzione da sempre che dal dolore nasce proprio il desiderio di salvezza, che poi è la questione oggi dimenticata per cui la filosofia è nata.
Certo ad oggi le domande più pregnanti sono quelle che riguardano la morte, e perciò la vita stessa in sè.
Ma ve ne era una ancora più originaria.
Sono tempi Buj.
Della religione for Dummies.
Io Sari eviterei di limitarti a solo quello.
Certo la filosofia è oggi parte dello stesso problema del perchè siamo in tempi buj.
Certo il filosofo oggi è oscuro e in mutande rispetto alla scienza.
E vogliamo dimenticarlo come figura al più presto.
Ma tutta quella tradizione, ridicola fino all'osceno, in realtà è vissuta a braccetto con le "sue" domande, che rimarranno vive per sempre (ovvero fin quando siamo vivi).
Le domande che sconfinano nella religione, sono quelle le cose che non dobbiamo MAI dimenticarci.
Altrimenti la religione stessa sarà vittima di se stessa, ossia dall'imponente numero di documenti istituzionali, aridi e puntualmente restringenti l'unica vera libertà dell'uomo: la libertà di pensare.
A presto.
@ Green Demetr
E per fortuna che avevo scritto "semiserio"... :)
Mah!...Direi che a te non interessa veramente nessuna forma religiosa, ma cerchi in esse qualche intuizione che magari corrobori un filo di riflessione filosofica che porti avanti; una forma di concettualizzazione filosofica del movente spirituale direi. Se è così, mi sembra limitativo, in quanto impedisce di andare in profondità nelle stesse, a parer mio. Infatti, per es. nella tua drastica chiusura, nel rifiuto di qualsiasi cosa metta in discussione la sessualità, non osservi nemmeno che il buddhismo non la reprime affatto ( a parte nei monaci che scelgono questa strada..) ma spinge sul fatto di non cadere nell'ossessione per il sesso ( la sregolatezza), che è un'altra cosa che non la libertà. Che significato ha all'interno della pratica buddhista? Una sessualità sregolata viene ritenuta una forte radice dell'attaccamento all'esistenza, attaccamento che è in primis l'obiettivo che il Dhamma buddhista si prefigge di scardinare. Se cerchiamo di ottenere una qualche forma di libertà dai bisogni, bisogna mettere in discussione anche il bisogno sessuale ( e qui per inciso ho una certa esperienza di 'sregolatezza' e , alla fine, per il disgusto che ne ho provato... :( )
Lo stesso vale per la virtù/moralità sempre intesa come azione che libera dall'attaccamento e quindi fruttuosa, mai fine a se stessa. C'è una logica in questo, inerente alla pratica meditativa stessa ...
Per questo concordavo con Apeiron quando diceva che significato ha per un occidentale del 2018, che non ritiene l'attaccamento alla vita una cosa negativa, una dottrina così antica, esotica e 'naif', anzi...si viene spinti continuamente ad attaccarcisi sempre di più, alla vita!.. ;)
Al Buddhismo non interessa 'salvare il mondo', la storia non ha alcun senso, l'uomo non va da nessuna parte....di questo ne abbiamo già ampiamente discusso. Difficile da accettare forse, ma è così , è la loro impronta ( tipicamente indiana...).
Le abramitiche invece ci hanno 'lavorato' in profondità. Anche chi ormai non crede più, crede in qualche forma di progresso, di qualcosa da raggiungere...non si sa cosa, ma intanto ci credo, dentro di me...
Il discorso esclusivamente filosofico è solo una parte di un percorso religioso,e forse, a parer mio, ma sicuramente tu come filosofo su questo dissenti completamente, nemmeno il più importante.
Tutto questo a te sembra naif, superficiale, folkloristico...
Viceversa io ritengo che il problema sia invece la posizione esclusivamente concettuale, che mette il pensiero innanzi ogni cosa ( che a volte rimprovero ad Apeiron...questo ossessionante bisogno di trovare una formula verbale per ogni cosa ... :)).
Limite perché, nella prospettiva che intendo, non permette di 'lasciar andare le cose'...è un crinale insidioso quello che sta tra la creduloneria e il dubbio paralizzante...un gioco d'equilibri, direi...
ed è un motivo che ritengo non mi permetterà mai, oltre ai miei limiti al riguardo, di abbracciare il solo 'metodo' filosofico...vabbè, siam diversi e cerchiamo cose diverse. :)
Infatti dici: "Induismo, Buddhismo, Ebraismo, Cabala, Ermetismo hanno potenzialità in me solo se riesco a rintracciarne i motivi che superino il metodo filosofico."
Ossia la spiritualità, per te, deve essere subordinata alla speculazione e alla metodologia filosofica, mi par di capire. Praticamente il contrario di quello che dice , per es., il Cristo: "Ti ringrazio Padre che hai rivelato questo cose ai piccoli e non ai sapienti"... ;)
Che poi il Buddhismo o altre forme di religiosità non possano sopravvivere è possibilissimo. Gli stessi buddhisti lo affermano da centinaia d'anni ormai. Tutti i buddhisti 'seri' sono ben consapevoli che il mondo non diventerà mai "buddhista". Questo non è Islam o Cristianesimo...
E' da vedere anche se la stessa filosofia ha possibilità di sopravvivenza nel mondo che verrà...forse i due saranno accomunati nello stesso infausto destino, presumo...:(
( tra l'altro, tra i due, quello che sembra godere di miglior salute al momento è proprio il buddhismo...in forte ripresa da cinquant'anni a questa parte)...
SARIPUTRA
Al Buddhismo non interessa 'salvare il mondo', la storia non ha alcun senso, l'uomo non va da nessuna parte....di questo ne abbiamo già ampiamente discusso. Difficile da accettare forse, ma è così , è la loro impronta ( tipicamente indiana...).
APEIRON
Unico appunto sulla tua risposta... non porrei strettamente parlando in questo modo. Concordo che essendo la Storia secondo queste tradizioni indiane ciclica non ha un senso ultimo, un fine. Però il senso del buddhismo è proprio quello di "salvare", ovvero il "bodhi", il Risveglio. Anzi già la pratica della morale fa vedere come il "senso" in un certo senso (scusa il pessimo gioco di parole ;D ) c'è. Anzi secondo l'India sembra che il senso della vita sia quello di "abbandonarsi", è il mondo in un certo senso che non capisce ciò (lo stesso vale, secondo me, per il daoismo) ;) di certo in queste tradizioni (e il daoismo) non c'è alcun progresso del mondo, è sempre il solito "gioco" con le sue regole (il karma) che però non danno una soddisfazione ultima. Il problema, stando a queste tradizioni, è che cerchiamo il Senso (con la "S" maiuscola) nel futuro dove non c'è. Ma non direi che non c'è il Senso :) concordo però che anche per chi in occidente è uscito dalle religioni abramitiche pensare che non ci sia progresso è molto deprimente :( in sostanza al buddhismo non interessa il "fine del mondo" ma ci vuole liberare dalla convinzione che ci sia un effettivo progresso ;)
Citazione di: Apeiron il 14 Gennaio 2018, 20:20:54 PMSARIPUTRA Al Buddhismo non interessa 'salvare il mondo', la storia non ha alcun senso, l'uomo non va da nessuna parte....di questo ne abbiamo già ampiamente discusso. Difficile da accettare forse, ma è così , è la loro impronta ( tipicamente indiana...). APEIRON Unico appunto sulla tua risposta... non porrei strettamente parlando in questo modo. Concordo che essendo la Storia secondo queste tradizioni indiane ciclica non ha un senso ultimo, un fine. Però il senso del buddhismo è proprio quello di "salvare", ovvero il "bodhi", il Risveglio. Anzi già la pratica della morale fa vedere come il "senso" in un certo senso (scusa il pessimo gioco di parole ;D ) c'è. Anzi secondo l'India sembra che il senso della vita sia quello di "abbandonarsi", è il mondo in un certo senso che non capisce ciò (lo stesso vale, secondo me, per il daoismo) ;) di certo in queste tradizioni (e il daoismo) non c'è alcun progresso del mondo, è sempre il solito "gioco" con le sue regole (il karma) che però non danno una soddisfazione ultima. Il problema, stando a queste tradizioni, è che cerchiamo il Senso (con la "S" maiuscola) nel futuro dove non c'è. Ma non direi che non c'è il Senso :) concordo però che anche per chi in occidente è uscito dalle religioni abramitiche pensare che non ci sia progresso è molto deprimente :( in sostanza al buddhismo non interessa il "fine del mondo" ma ci vuole liberare dalla convinzione che ci sia un effettivo progresso ;)
Sì, giusta osservazione. Allora possiamo dire che al Buddhismo interessa salvare gli esseri senzienti dalla sofferenza, ma non ha un fine escatologico, non ci sono 'cieli nuovi e terra nuova' all'orizzonte.
@Sari,
Sì direi che è una soteriologia senza escatologia...
Quando mi riferivo al "Senso" che è qui e ora mi riferivo al fatto che il Nirvana non è da ricercarsi nel futuro, ma il prima possibile. Addirittura anzi c'è anche adesso, "qui e ora"... il problema è che lo cerchiamo ;D "Vi è, monaci, un non-nato..." (si usa in fin dei conti il presente)
Stesse considerazioni si possono fare sicuramente sull'induismo: anche qui c'è samsara e il Senso non lo troveremo mai continuando nella "ruota".
Il daoismo forse è un po' diverso... però con la sua enfasi a "non-agire", "dimenticare" ecc si arriva alla spontaneità (cosa anche molto zen), ovvero ad agire senza scopo, senza "agenda" (ovvero senza piani) ecc. Siccome l'Escatologia in fin dei conti è un fine, un piano - direi che questo tipo di filosofie cercano di vedere il Senso Qui e Ora, non in un futuro lontano ma Adesso, in questo momento presente. Ed è proprio per questo che stanno avendo successo. Viceversa le religioni "escatologiche" stanno un po' perdendo, per così dire, la popolarità.
Personalmente non nego di avere l'illusione (?) del progresso e anzi non mi è facile accettare la sua assenza :( ancora più difficile mi è accettare che oltre al fatto che siamo "intrappolati" in questa ciclica esistenza la liberazione è raggiunta solo da pochissimi.
Ah la frase "Unico appunto sulla tua risposta... non porrei strettamente parlando in questo modo." Errata Corrige: "Unico appunto sulla tua risposta... non porrei [la questione,] strettamente parlando[,] in questo modo." ormai perdo le parole per strada :(
@Green,
se ti interessa la parte più "esoterica" delle religioni prova ad informarti sul Vajrayana (tantrismo). Su di esso so praticamente niente, però se è la parte "esoterica" che ti interessa credo che ti possa interessare ;) come poi dice il Sari il buddhismo non condanna la "mondanità": ci sono azioni buone, quelle che in sostanza "migliorano" il karma. Ergo anche i piaceri sensoriali non sono condannati di per sé. Il problema è che non danno la liberazione e la soddisfazione ultima, quella per cui appunto nasce la religione. Di per sé anzi da questo punto di vista in oriente con i piaceri sono molto più equilibrati e liberi da taboo che da noi. Però se uno ricerca il "sovramondano" ;D
Sul resto concordo col Sari, specialmente sull'eccesso della concettualizzazione... ad un certo punto bisogna "lasciar andare" anche quella ;)
@Sari,
comunque quando hai scritto: "Se "brama, odio e illusione" sono le radici di ciò che è nocivo, quali sono le radici di ciò che è salutare, per il buddhista?
-assenza di brama è salutare
-assenza di odio è salutare
-assenza d'illusione è salutare
Si continua a presentare ciò che è positivo con una terminologia che è di negazione. Questo ricorre continuamente nei testi ed è una caratteristica tipica del Buddhismo, che a noi occidentali suona forse 'fastidiosa', visto che siamo gente che tende ad 'affermare'. Ma ovviamente ha pure il suo fascino... (https://www.riflessioni.it/logos/Smileys/default/wink.gif) e permette di evitare di cadere in definizioni forse troppo circoscritte e limitative, date dal linguaggio...
Riguardo all'Abhidhamma... Ho letto da qualche parte che al posto di nirvana si usa "asankhata-dhatu", ovvero "elemento non-condizionato". E nuovamente si dice che non è questo, non è quello, non ha quelle caratteristiche ecc. Tutto molto "apofatico" (https://www.riflessioni.it/logos/Smileys/default/wink.gif) cosa si nasconde dietro a queste negazioni?
Noi naturalmente vorremmo una chiara definizione e affermazione di cos'è questo stato e invece...si continua per negazioni:
L'elemento detto Nibbana è:
-estinzione della sofferenza
-assenza di ciò che è condizionato.
-estinzione del ciclo di nascita e morte.
-non-nato, non-divenuto, non-composto, ecc.
-cessazione della sofferenza.
Buddha Gotama è perfettamente consapevole dei pericoli di qualunque affermazione sull'elemento detto Nibbana/Nirvana. Qual'è un pericolo? Nel momento che lo si definisce in un concetto , immediatamente la mente lo pone 'esterno' ad essa. Una nuova cosa da investigare. Diventa un condizionamento, un nuovo kilesa. Siddhartha vuole indicare che il Nibbana non è un nuovo concetto da aggiungere alla propria collezione. Non si 'studia' il Nibbana, si realizza ( è più simile alla bastonata che alla rflessione su cos'è una bastonata... (https://www.riflessioni.it/logos/Smileys/default/smiley.gif) ). E' uno stato di liberazione esistenziale. Il 'cibo' va gustato, ecc.
E qui ritorna il problema della moralità (sila)..."
Qui hai centrato in pieno la questione. Mi spiego: anche io sono "convinto" che dietro alle negazioni ci sia l'affermazione. Ovvero "assenza di brama = generosità" (o meglio: l'assenza di brama "rende libera" la generosità) come ben dici tu. Il problema è che "logicamente" per così dire "assenza di brama" è semplicemente "assenza di brama". Ovvero logicamente se si legge "Il Nibbana è l'assenza della sofferenza" oppure "il Nibbana è la cessazione dell'esistenza (= che a livello ultimo è sofferenza)" non si capisce la "positività". E l'interpretazione "negativistica" in fin dei conti dice: "il Nibbana è l'assenza della sofferenza". L'ambiguità per noi occidentali è proprio qui: per noi l'assenza di sofferenza è semplicemente "assenza di sofferenza", non è un qualcosa di "positivo". Allo stesso modo quando viene detto "Il Nibbana è la cessazione del samsara" non è "automatico" capire che dietro la negazione del samsara "c'è dell'altro". Ovviamente dire che "Il Nibbana è la cessazione del samsara e nient'altro" è diverso da dire che "il Nibbana è la cessazione del samsara". Però come chiaramente sono d'accordo con te: il Nibbana buddhista non è la "semplice cessazione" come alcuni buddhisti antichi e moderni pensano. Ma è come con la "generosità" e "l'assenza della brama": così come uno "diventa" generoso quando non ha brame, allo stesso modo il linguaggio negativo/apofatico non è definitivo ma rimanda ad altro. Ovvero "il Nibbana è la liberazione dai condizionamenti" significa: "il Nibbana è il non-condizionato" ovvero una "realtà" (ergo per seguire l'esempio della brama/generosità... "la realtà del Nibbana si "manifesta" con la cessazione del Samsara"). Il problema è la"reificazione": se uno si crea un concetto del Nibbana rischia di allontanarsi da esso, come giustamente dici ;) Certo in fin dei conti ci vuole fede e convinzione, bisogna per così dire esserne "convinti" ::)
P.S. Sul resto rispondi quando vuoi... tanto il problema è sempre quello di "avere fiducia" ;) personalmennte mi ci vuole un po' di "positività" anche nel linguaggio per essere convinto ma in fin dei conti non è certo un problema del buddhismo, ma è di Apeiron ;D direi anche che se ne è discusso abbastanza e credo che sia giunta l'ora di interrompere la discussione, per quanto mi riguarda (ovviamente Sari, la tua risposta la leggo :) )... al massimo scriverò un post in cui metto insieme le informazioni più interessanti che sono uscite in questa lunghissima discussione (dura da metà febbraio 2017 :o ) e risponderò a chiarimenti se qualcuno è interessato. Però direi che non credo di avere altro di nuovo o di necessario da condividere su questo argomento. Su questo tema quindi o si accetta che è "mera negatività" come fanno alcuni (cosa che personalmente non farei mai per "coscienza"), oppure si ha la fiducia che dietro al linguaggio negativo ci sia l'espressione della positività (fiducia, che si dà il caso, non ho ;D ). Credo che la sotto-discussione del buddhismo riguardante "cosa è il Nibbana?" abbia raggiunto il termine, andare avanti forse crea solo confusione.
Dunque è ora che questa discussione cessi... (dietro a queste parole c'è una battuta semi-seria ;D )
Ad ogni modo, dimentiavo, ringrazio tutti coloro che hanno partecipato alla discussione. Ma mi si lasci ringraziare in particolare il Sari per la sua chiarezza, disponibilità e pazienza ;)
@Sari,
Forse ho trovato una analogia interessante per la vacuità.
Per esempio si dice che "la forma è vacuità, le sensazioni sono vacuità..." (parafrasi Sutra del Cuore) ecc.
Analogamente l'energia (della fisica) "esiste" come "energia a riposo, energia cinetica, energia potenziale...". Tuttavia anche se puoi osservare tutte queste forme di "energia", non puoi osservare mai "l'energia in-sé" :D e questo permette all'energia di continuare a cambiare forma - e questo permette il cambiamento, che rihiede la conversione di una forma di energia nell'altra (per esempio "collisione di particella-antiparticella" -> "emissione di fotoni"). ;D ;D
Citazione di: Apeiron il 06 Febbraio 2018, 12:42:00 PM@Sari, Forse ho trovato una analogia interessante per la vacuità. Per esempio si dice che "la forma è vacuità, le sensazioni sono vacuità..." (parafrasi Sutra del Cuore) ecc. Analogamente l'energia (della fisica) "esiste" come "energia a riposo, energia cinetica, energia potenziale...". Tuttavia anche se puoi osservare tutte queste forme di "energia", non puoi osservare mai "l'energia in-sé" :D e questo permette all'energia di continuare a cambiare forma - e questo permette il cambiamento, che rihiede la conversione di una forma di energia nell'altra (per esempio "collisione di particella-antiparticella" -> "emissione di fotoni"). ;D ;D
Non ci capisco granché di fisica, ma mi sembra un'analogia interessante.A questo punto...hai già scritto al tuo collega fisico Achaan Brahm per raggiungerlo nel suo vihara a Perth, in Australia?... ;) ;D ;D A parte gli scherzi, la visione di una realtà totalmente 'dinamica' come quella propugnata dal Dhamma buddhista, credo possa "affascinare" e interessare anche un cultore di una disciplina scientifica com'è la fisica... :)
Citazione di: Apeiron il 15 Gennaio 2018, 00:19:50 AM
@Green,
se ti interessa la parte più "esoterica" delle religioni prova ad informarti sul Vajrayana (tantrismo). Su di esso so praticamente niente, però se è la parte "esoterica" che ti interessa credo che ti possa interessare ;) come poi dice il Sari il buddhismo non condanna la "mondanità": ci sono azioni buone, quelle che in sostanza "migliorano" il karma. Ergo anche i piaceri sensoriali non sono condannati di per sé. Il problema è che non danno la liberazione e la soddisfazione ultima, quella per cui appunto nasce la religione. Di per sé anzi da questo punto di vista in oriente con i piaceri sono molto più equilibrati e liberi da taboo che da noi. Però se uno ricerca il "sovramondano" ;D
Sul resto concordo col Sari, specialmente sull'eccesso della concettualizzazione... ad un certo punto bisogna "lasciar andare" anche quella ;)
Sto bazzicando da quelle parti, già da un pò, ma non perchè mi interessi, cerco solo se vi sono elementi utili alla mia indagine, che è la trascendenza. ( ossia il rapporto tra soggetto e domanda sull'originario, che spero tra una decina d'anni, avremo ancora l'occasione di poterne parlare).
Sì il tantrismo lo conosco (in maniera generale) e avevo iniziato Avhinagupta (o come si chiamo, presso i tipi dell'Adelphi).
Nel tantrismo e in generale nello gnosticismo, i piacere sessuali, non vengono considerati piaceri, ma pratiche di controllo dei sensi.
Il pubblico che consulta queste fesserie è rispetto alle questioni teologiche e filosofiche, ENORME.
Te lo dico subito: non c'è nessuna differenza, è sempre la solita solfa (così ci mettiamo anche un pà di ironia, visto che il minerale è adorato da quelli).
IN NOME DI QUALCOSA (di controllato, di dovuto) qualcuno di potente (ossia di riconosciuto) si profitta di qualcuno più debole.
C'è qualcosa che si salvi? No! come potrebbe essere? (le religioni sono tutte sessuofobiche, ossia barrano il desiderio, salvo poi usarlo nella logica predatore-predato).
Ma di queste cose è meglio tacere.
E io mi attengo al protocollo.
Ma torniamo a bomba, ossia alla questione del trascendente, o del reale trascendente come mi pare tu cerchi.
Sono d'accordo anzitutto con entrambi voi.
L'eccessiva concettualizzazione non ha senso.
Forse non ne ho ancora parlato, ma per me, la trascendenza, non nasce MAI dalla meditazione interiore, piuttosto dalla osservazione del reale.
Il principio per il quale, è solo nella memoria che si radunano i ricordi, ma là fuori tutto è in movimento.
Credo che sia proprio dal divenire che nasce la domanda sulla trascendenza. (e per questo ogni fisico in cuor suo ha aspirazioni trascendenti, almeno un fisico teorico).
Ossia cosa pulsa sotto la vita?
Questa domanda che ha serpeggiato per secoli nella filosofia, che nasce monolitica, perchè si credeva mitica, in grecia, evolve, progredisce, prende per caso questa strada, sotto le macerie di roma su, su fino alla fondazione del sacro impero, fino all'emergere degli stati nazione, ed oggi verso le forme di imperialismo geolocalizzato, dove ogni territorio e ogni rotta marittima diventano strategia politica.
Sotto le macerie della dissoluzione la PHISIS greca diventa la scienza protocollare, da mito diventa lotta politica a colpi di fascicolo protocollari.
Oggi come oggi, l'attenzione si sposta dagli Dei ai morti annegati nel mediterraneo.
Come spiega immensamente Nietzche sembra che il progresso sia possibile solo sotto la prospettiva di laghi di sangue.
Così L'India paese perennemente in guerra, perennemente invaso dagli stranieri, e sotto assedio anche fre le sue popolazioni. Tra il sud ricco e il nord povero, etc...etc...
Non poteva non nascere una religione che consolasse come quella buddhista fa.
Il fatto è che a me non mi interessa nè le loro pratiche ascetiche e le scemenze che ho sentito dai vari maestri tibetani che sono numerosi su internet! ( non vedo NESSUNA differenza con gli imbonitori e i preti nostrani, semplicemente dicono e chiedono di fare, in nome di pratiche diverse, le stesse cose.
E cioè il caro vecchio ORA ET LABORA, ossia stai zitto a capo chino e dammi i soldi e il tuo lavoro).
Nemmeno mi interessa il lato filosofico (che è parimenti imbonitore, e quindi ancora più idiota del semplice richiesta di sudditanza alla chiesa).
Mi interessa invece dove è arrivata la filosofia occindentale, immensamente più avanti.
Dicevamo della Fisica, a parte le demenze degli analitici, la filosofia era gloriosamente arrivata a capire finalmente che la realtà è fenomeno.
Mi interessa quindi una lettura fenomenologica del Buddhismo, e in generale delle religioni.
E' per questo che trovo interessante il lato più propriamente teologico del buddhismo.
Ossia la riflessione attorno al concetto di vuoto.
Perchè la fenomenologia non è proprio la LOGIA del FENOMENO?
Ossia ciò che lega, che raduna, che unisce ciò che appare(fenomeno).
Poichè se una cosa appare, è certamente in quanto appare, regolata dalle sue forme, ma siccome "ad - parum" e cioè ciò che mi viene incontro, è anche qualcosa d'altro che forma pura.
Il punto è che ciò che ci viene incontro NON APPARE in sè.
Appare a noi, cioè proviene da un luogo e va verso un altro (particella di moto a luogo) AD PARUM.
E questo altro luogo siamo noi.
Noi lo vediamo arrivato, ma non lo vediamo partire.
Per questo si dice che esiste un originario, l'originario è il luogo fantomatico da cui è partita.
Questa idea nasce dal fatto che ciò che appare sparisce.
Quando chiudiamo gli occhi l'albero sparisce. Quando ci giriamo l'albero svanisce.
Noi sappiamo che esiste solo perchè riappare, come lo vediamo, quando riapriamo gli occhi o ci ri-giriamo.
Ossia ci appare come forma che garantisce la sua sussistenza. E il deliro consiste nel credere che quella forma sia sostanza.
Ma niente ci garantisce che quella forma rimanga, anzi sappiamo per esperienza storica, che quella cosa cesserà prima o poi di apparire.
L'uomo ha creato i segni, per poter tramandare che quella forma non smetterà di apparire.
Ma in realtà scopre sempre di più che quella forma appare sempre in forme diverse, in base alle epoche, agli strumenti etc...
L'impero dei segni, è l'impero del delirio che qualcosa esista sotto una unica forma, appunto quella dei segni, che si sono scelti, dopo un bel bagno di sangue altrui.
Credere nelle forme in quanto in sè, è consegnarsi ad una prepotenza.
La storia lo dice e lo illustra in lungo e in largo, e chissà quanti altri secoli dovranno passare, prima di uscire da questa impasse ridicola.
Facendo finta quindi di passare oltre l'impasse, rimane il meglio che il buddismo ha da offrirmi, ossia in quanto metafisica, ossia in quanto oltre ciò che appare.
Bisogna distingure con attenzione fra la superstizione, ossia dalle prese di posizioni, tutte formidabilmente imbecilli dei maestri, e invece la discussione, la polemica, che ha fatto progredire le forme del pensiero su un tema centrale.
Come quello della verità oltre le apparenze. O almeno questo è il nome occidentale con cui solitamente ci siamo abituati a taggare per indicare l'argomento.
Il tema della verità della NON APPARENZA, come visione del NULLA, o della MANCANZA.
Il paradosso è evidente e chiede illustrazioni e presunzioni credibili, per questo mi riferivo alla ricerca di qualche intellettuale che anzitutto sappia ragionare, e questo visto la mia consocenza di Patanjali so che è avvenuto nel medioevo indiano.
Ovviamente il paradosso è che NULLA appaia come QUALCOSA, e che Ciò che MANCA compaia come sua COMPLEMENTARITA'.
Gli analitici e gli scienziati più beceri, hanno facile gioco a prenderci per i fondelli.
Non esiste questo NULLA e questa MANCANZA, proprio perchè esiste SOLO QUALCOSA, o i più temerari TUTTO, e che la complementarità del mancante, è il complementare stesso.
Ossia che la filosofia e la religione si occupino di problemi falsi, poichè logicamente mal posti.
Certamente il trend di non vederci oltre il limite del proprio naso, non è solo della gente comune, ma anche degli scienziati.
Rispolvero questo vecchio topic silente per aggiungere una brevissima riflessione sull'etica buddhista...
Gli studiosi della logica buddhista hanno messo in evidenza la netta differenza tra questa logica e quella aristotelica. L'elemento discriminante é proprio la mancanza del principio di non-contraddizione. La logica buddhista si fonda sul superamento del principio di non-contraddizione proprio in conseguenza di come questa dottrina concepisce il reale. Il reale é solo apparenza e rappresentazione, per giunta un'apparenza non definitiva, ma in continuo divenire. Così si nega che qualcosa sia, perché tutto é in divenire e si dissolve; ma, nello stesso tempo, non si può nemmeno dire che non sia, perché vi é un'apparenza con cui ci si deve confrontare. Non vi é la categoria dell'essere, ma non vi é nemmeno la categoria del non-essere. Così nel Buddhismo occorre evitare i quattro estremi considerati errati: dire che qualcosa sia, che qualcosa non sia, che qualcosa sia e non sia, che qualcosa né sia né non sia.
Il Buddhismo parla di "intenzione", riferendosi ad una volontà che deve spingere l'uomo a porsi in un rapporto di solidarietà, di benevolenza con tutti e con il tutto. Però questa intenzione alla benevolenza e alla compassione è diversa dall'agape cristiano per la presenza di due motivi inerenti al Dhamma buddhista stesso: la negatività del desiderio, che porta inevitabilmente all'attaccamento, e la negazione dell'individualità. Naturalmente un'intenzione deve basarsi su qualcuno che la scelga; quindi su una 'individualità'. Questa individualità nel Buddhismo è più simile ad una 'costruzione' fatta con mattoncini Lego mai stabili, sempre in divenire, impermanenti. Si può dire allora che l'intenzione ha il fine di rendere consapevole il buddhista che l'altro é se stesso, e quindi di far conoscere la dimensione di non-individualità . Mentre l'agape cristiano necessità di un 'altro' posto dinnazi a noi, sostanzialmente altro da noi, per poter amarlo, la religiosità buddhista è come riconoscere e accogliere nell'altro la propria immagine riflessa in uno specchio...
Perché dunque, non riconoscendo la sostanziale individualità degli esseri, l'etica buddhista insiste così tanto nello sforzo per coltivare benevolenza e compassione? Perché chi si é 'distaccato' dall'idea di un sé permanente e sostanziale non ha più nulla in sé che lo isoli dalle altre creature e lo eriga contro di esse ostile e nemico: nulla c'é più al mondo a cui essere unito gli sia particolarmente discaro (ma nemmeno nulla a cui essere unito gli sia particolarmente caro...a cui valga la pena di attaccarsi). La benevolenza del buddhista non distingue, non predilige, non s'inchina di qua più che di là: é indifferente e neutrale. Essa é sostanzialmente compassione e pietà per chi, ancora travolto dall'ignoranza, si dibatte tra le onde del `Samsara'. Ora, compatendo , benevolendo e praticando il distacco il buddista non entra veramente in rapporto con la risposta che riceve in cambio , gli è in fondo indifferente. Per questo il Buddismo può in pari tempo invitare a non commuoversi di nulla e di aver somma compassione di tutti...Perciò il Buddismo ha creato un ordine, non una chiesa...
Citazione di: Sariputra il 17 Dicembre 2018, 11:40:29 AM
Il Buddhismo parla di "intenzione", riferendosi ad una volontà che deve spingere l'uomo a porsi in un rapporto di solidarietà, di benevolenza con tutti e con il tutto. [...] presenza di due motivi inerenti al Dhamma buddhista stesso: la negatività del desiderio, che porta inevitabilmente all'attaccamento, e la negazione dell'individualità. [...] Perché dunque, non riconoscendo la sostanziale individualità degli esseri, l'etica buddhista insiste così tanto nello sforzo per coltivare benevolenza e compassione? [...] La benevolenza del buddhista non distingue, non predilige, non s'inchina di qua più che di là: é indifferente e neutrale. Essa é sostanzialmente compassione e pietà per chi, ancora travolto dall'ignoranza, si dibatte tra le onde del `Samsara'.
Qui forse c'è l'aporia a cui il buddismo si espone, se vuole proporsi in chiave etica ai popoli della terra: «indifferenza» e «neutralità« non sono facilmente compatibili con «compassione» e «pietà». Se anche la compassione-pietà per il prossimo non è imposta da un precetto, ma sboccia
spontaneamente dalla «retta visione», nel momento in cui la pratico
intenzionalmente, significa che il prossimo non mi è indifferente (mi rivolgo a lui) e io non gli sono neutrale (so che potrei/vorrei modificarlo).
Pur abbandonando l'identificazione di «io» e «prossimo», il mio rivolgermi a "lui"
in un certo modo (benevolo, o qualunque esso sia), dimostra non-indifferenza e non-neutralità (verso quella parte del tutto che chiamo «lui»). Se anche non premedito alcuna finalità, né nel prossimo («come fine e non come mezzo» diceva qualcuno) né nell'azione compassionevole che gli dedico, la mia bene-volenza non può che essere dettata dalla discriminazione bene/male: se fosse relazione gratuita e disinteressata, indifferente e neutrale, allora non distingueremmo (eppur lo facciamo) fra
benevolenza e
malevolenza, al punto che la non-compassione e non-pietà rientrerebbero nella visione del non-attaccamento e non-discriminazione. Queste due farebbero dunque legittimamente parte di quella «intenzione», che tratteggi, non a caso, come «volontà che
deve spingere l'uomo a porsi in un rapporto di solidarietà, di benevolenza con tutti e con il tutto» (corsivo mio) ed ecco il dovere morale inteso all'occidentale...
Certo, nel buddismo tale bene-volenza coincide con la volontà "illuminata", che non può non volere ciò che una discriminazione (pre-illuminazione) definirebbe come «bene»; tuttavia, proprio tale volere
compassionevole, in quanto tale, non è di fatto né indifferente né neutro.
Estinguere la propria sofferenza (dovuta all'attaccamento), non comporta estinguere anche l'attaccamento alla sofferenza altrui? A questo punto, illuminati e consapevoli della "ruota del
karma", perché la sofferenza altrui non ci potrebbe anche lasciare indifferenti e neutrali? Il voto di salvare tutti gli essere senzienti è una missione tutt'altro che indiscriminante e impersonale...
Se estinguiamo anche questo ulteriore attaccamento (alla sofferenza altrui), il mondo ci sarà indifferente e noi saremo indifferenziati dal mondo; l'etica sarà allora solo un "gioco di società" fra esseri senzienti e
differenzianti; gioco che ci lascerà... indifferenti :)
Non-attaccamento non è indifferenza o neutralità. E' vero che il Buddhismo tiene in massimo conto il fattore detto 'equanimità', ma questo non ha il significato di 'sterilizzare' la mente. La compassione e la benevolenza sbocciano spontaneamente da una mente che si è affrancata dalla brama, dall'avversione e dall'illusione ( di essere un'individualità distinta..). La mente non s' impone di provare compassione ( per seguire un precetto buddhista...), è la sua natura il provarlo quando è libera dalle radici nocive presenti in essa. Si parla infatti, in questo caso, di una mente praticante che "segue la legge della propria specie". Questa legge( "di specie") è la virtù (sila). Nel Buddhismo questo processo di distacco, di affrancamento non costituisce una sorta di 'violenza contro natura'; è un legittimo processo di crescita, di superamento di ciò che non è più oggetto di attaccamento, come un serpente che lascia la vecchia pelle consunta (Uraga Sutta). Pertanto non ha senso parlare di affrancarsi dall'attaccamento alla compassione verso l'altrui sofferenza in quanto non esiste una cosa simile. Può esistere l'attaccamento all'idea di essere una persona distinta che prova compassione per l'altro e pertanto di sentirsi 'speciali', autogratificando l'io illusorio e contribuendo al suo 'solidificarsi', ma questa non è autentica compassione. Quando il serpente si libera della vecchia pelle logora, si libera di un 'peso', così è per la mente quando si libera di tutte le cose riconosciute come 'estranee' e allora risplende nella sua purezza il diamante, che riflette quelli che nel Buddhismo sono definiti come i quattro stati mentali sublimi: l'amore o benevolenza, la compassione, la gioia altruistica e l'equanimità. Ed è proprio il fattore equanimità che preserva la mente dall'attaccamento alla risposta che può ricevere in cambio del suo 'dono', sia di accettazione che di rifiuto.
Questi quattro stati mentali, detti 'salutari', sono incompatibili con una mente in preda alla brama, all'odio e alla soddisfazione di sentirsi 'io' distinto dall'altro. Una mente 'risvegliata' dimora costantemente nei quattro stati salutari non provando alcun attaccamento verso di essi ma bensì lasciandoli fluire liberamente. E' la 'natura di Buddha' ...Se non c'è più l'"io barriera" che separa, la mente non è diminuita dal suo dare, e non diviene povera quando dona agli altri le ricchezze del suo cuore.
L'equanimità viene vista come il perfetto, incrollabile equilibrio della mente, naturalmente fondato sulla visione profonda. Questo non significa che l'equanimità, per rispondere alla tua domanda, se l'ho ben intesa, sia indifferente, fredda e 'senza cuore'. La sua perfezione non è dovuta ad un vuoto emotivo, ma ad una 'pienezza' di comprensione, nata dal vedere la sofferenza nella sua vastità, e al fatto che essa è completa in se stessa. La sua natura, con un esempio, non è quella della fredda pietra insensibile e senza vita, ma bensì la manifestazione della massima forza mentale. Infatti qualunque causa di 'ristagno' viene distrutta, ogni muro mentale abbattuto. Svaniscono i tumulti delle emozioni e le divagazioni intellettuali. Il 'flusso' della coscienza scorre senza impedimenti, come un placido e maestoso fiume, limpido e splendente. L' attenzione si armonizza con l'acume della saggezza; la volontà si rafforza nella calma mentale (samadhi)e la fede nell'Insegnamento trova continuo alimento. Queste 'forze interiori' emanano dalla mente libera dall'attaccamento e agiscono sul 'mondo', ma poco potrebbero senza la vigile costanza della presenza mentale...
Come un fiore emana la sua essenza, così la mente emana benevolenza, gioia e compassione quando sono rimossi gli ostacoli al dispiegarsi della sua 'natura'. Questo non impedisce ai pensieri e ai desideri di sorgere ( di tutti i tipi perché il kamma continua la sua azione anche se la mente perviene al distacco...) ma, visti ora con equanimità, si possono 'lasciar andare'...questo , con la pratica, diventa spontaneo. La presenza mentale è fondamentale. Non esiste seria pratica buddhista che possa fare a meno della coltivazione costante di essa. Non si può comprendere il Buddhismo leggendo solo i discorsi o i commentari filosofici. Questi vengono SEMPRE dopo la pratica. Alcuni maestri della tradizione della foresta arrivano a considerarli quasi accessori, irrilevanti...Io condivido la loro opinione.
Come certi riflessi spontanei proteggono il corpo automaticamente, così la mente necessita della protezione di una "difesa spirituale", chiamiamola così; quasi come una vacca scorticata che viene inesorabilmente attaccata da innumerevoli insetti e animali, senza una difesa. La presenza mentale è questa difesa. Fondamentale. In una mente impreparata i più nobili sentimenti vengono spesso assaliti dallo scoppio improvviso di passioni e di pregiudizi che li sotterrano sotto un cumulo di brama o di avversione. La pura attenzione aiuta a non farsi travolgere e 'condurre' da questi, spesso dove non vogliamo andare...
Sull' "intenzione " nel Buddhismo dobbiamo aiutarci con una bella , secondo me, definizione che si trova nel "Mistero del fiore d'oro" : "Raggiungere intenzionalmente l'assenza di intenzioni, ecco la giusta via". Questa affermazione è anche un famoso detto in Pali: Sasankharena asankharikam pattabbam, ossia "La spontaneità può essere ottenuta tramite uno sforzo intenzionale premeditato". La spontaneità della pennellata dell'artista arriva sempre dopo, molto dopo, l'intenzione di imparare a dipingere... :)
Mi sono dilungato un pò... :(
Namaste e Buon Avvento
Citazione di: Phil il 17 Dicembre 2018, 16:12:51 PM
... ecco il dovere morale inteso all'occidentale...
Certo, nel buddismo tale bene-volenza coincide con la volontà "illuminata", che non può non volere ciò che una discriminazione (pre-illuminazione) definirebbe come «bene»; tuttavia, proprio tale volere compassionevole, in quanto tale, non è di fatto né indifferente né neutro.
Estinguere la propria sofferenza (dovuta all'attaccamento), non comporta estinguere anche l'attaccamento alla sofferenza altrui? A questo punto, illuminati e consapevoli della "ruota del karma", perché la sofferenza altrui non ci potrebbe anche lasciare indifferenti e neutrali? Il voto di salvare tutti gli essere senzienti è una missione tutt'altro che indiscriminante e impersonale...
Se estinguiamo anche questo ulteriore attaccamento (alla sofferenza altrui), il mondo ci sarà indifferente e noi saremo indifferenziati dal mondo; l'etica sarà allora solo un "gioco di società" fra esseri senzienti e differenzianti; gioco che ci lascerà... indifferenti :)
Il "dovere morale inteso all'occidentale" non è univoco. Basti pensare alla teoria della
predestinazione fiorente in ambito protestante che "neutralizza" l'altrui malasorte introducendo un fondamento morale simile al karma.
In ambito giapponese (buddista-scintoista) l'altruismo va dosata per non porre in una vergognosa (
haji) condizione di obbligo (
on) il beneficiato. Il che sarebbe ancora peggio dell'indifferenza.
Mi pare che la posizione buddista descritta da Sari sia più realistica di quella evangelica che, anche in occidente, appartiene più alla teoria che alla prassi. Divaricazione che aprirebbe un vaso di Pandora sull'uso mistificante della teoria nel pensiero occidentale.
Citazione di: Sariputra il 18 Dicembre 2018, 21:28:44 PM
La mente non s' impone di provare compassione ( per seguire un precetto buddhista...), è la sua natura il provarlo quando è libera dalle radici nocive presenti in essa. Si parla infatti, in questo caso, di una mente praticante che "segue la legge della propria specie" [...]
con la pratica, diventa spontaneo. La presenza mentale è fondamentale. Non esiste seria pratica buddhista che possa fare a meno della coltivazione costante di essa. Non si può comprendere il Buddhismo leggendo solo i discorsi o i commentari filosofici. Questi vengono SEMPRE dopo la pratica. [...]
"Raggiungere intenzionalmente l'assenza di intenzioni, ecco la giusta via". Questa affermazione è anche un famoso detto in Pali: Sasankharena asankharikam pattabbam, ossia "La spontaneità può essere ottenuta tramite uno sforzo intenzionale premeditato". La spontaneità della pennellata dell'artista arriva sempre dopo, molto dopo, l'intenzione di imparare a dipingere... :)
L'aporia a cui accennavo, quella fra l'aspetto sociale e quello individuale del buddismo, è proprio il contrasto fra l'esigenza (e l'urgenza) di un'etica pre-illuminazione e lo svanire dell'etica nell'illuminazione (lasciando posto ad una benevola spontaneità "impersonale"). Se la pratica è fondamentale per raggiungere la consapevolezza adeguata (che ci renda compassionevoli), è anche vero che tale pratica sarà guidata da precetti e concetti (come tutti quelli che hai giustamente citato:
sila, 4 stati mentali salutari, etc.) che rendono l'etica buddista un'altra etica «all'occidentale» (
@Ipazia, ovviamente generalizzo per continenti), con regole e norme da seguire perché orientate al bene (che in questo caso è l'illuminazione che interiorizza tali norme al punto di renderle "istintive").
Se la via per l'illuminazione è lastricata di buone intenzioni, di regole e concetti
canonizzati, di fatto è questa l'etica che viene generalmente
praticata (fra una
sesshin e l'altra), e non accade per spontaneità, ma per applicazione e studio di un culto (che è il mio preferito, a scanso di equivoci :) ).
Se mi metto d'impegno ad imparare a dipingere, «dopo, molto dopo» (quasi tardi?) nella peggiore delle ipotesi, smetterò per insoddisfazione dei risultati o per eventi avversi; nella migliore delle ipotesi, acquisirò una pennellata spontanea... perché tale pennellata era da sempre "in me" (buona natura innata) o perché l'ho "costruita" io ("educazione" alla benevolenza)?
D'altronde, se invece mi metto d'impegno e d'intenzione a dare attente martellate al marmo, non potrò diventare pittore, semmai diverrò "spontaneo" scultore...
Secondo me, l'intenzione e l'applicazione plasmano più di quanto rivelino (pur partendo da una base minimamente compatibile).
P.s.
Prendendo per le corna il toro, anzi il bue (quello della parabola): i praticanti dell'etica buddista, la praticano in quanto etica indotta da cultura, lettura, etc. (il che non è un peccato) o in quanto spontaneo risultato dell'illuminazione?
Quando mi riferivo all'aporia del «proporsi in chiave etica ai popoli della terra» mi riferivo a questo; per pochi (quasi nessuno?) e non per tutti :)
P.p.s.
Sul non-attaccamento come indifferenza alla mondanità e alla socialità (e al prossimo, anche se suona male ;) ), forse sono eloquenti le scelte di alcuni maestri (illuminati?) di ritrarsi in solitudine, prendendo rifugio nella solitudine dei boschi più che nello
sangha. Sempre che non si tratti di leggende, non sono molto informato in merito.
Citazione di: Ipazia il 19 Dicembre 2018, 10:01:16 AM
Mi pare che la posizione buddista descritta da Sari sia più realistica di quella evangelica che, anche in occidente, appartiene più alla teoria che alla prassi.
Se parliamo di etica, l'aggettivo «realistico» mi pare in netto fuorigioco; se parliamo di quale dei due approcci sia più
facilmente comprensibile e
coerentemente praticabile dalle masse, l'evangelismo è in esiguo vantaggio (più semplice, leggermente meno incompatibile con inevitabili "inciuci" economico-politici della vita laica); se poi devo dirti a quale mi sento personalmente ed esistenzialmente più vicino, propendo per il personaggio che ha in croce solo le gambe sul grembo e dal sorriso enigmatico e insondabile tipo Gioconda :)
Citazione di: Phil il 19 Dicembre 2018, 12:11:57 PM
Se parliamo di etica, l'aggettivo «realistico» mi pare in netto fuorigioco; ...
Questa è la maledizione del pensiero occidentale. L'etica, per funzionare, deve incarnarsi. In tal senso il pensiero orientale è decisamente più "realistico", malgrado tutto la sua accentuazione sull'"apparenza". Col risultato che l'apparenza orientale dimostra all'atto pratico, nei comportamenti, una risposta sociale maggiore del "pragmatismo" occidentale, infarcito di ideologismi occultati e mascherati.
cit.Phil: L'aporia a cui accennavo, quella fra l'aspetto sociale e quello individuale del buddismo, è proprio il contrasto fra l'esigenza (e l'urgenza) di un'etica pre-illuminazione e lo svanire dell'etica nell'illuminazione (lasciando posto ad una benevola spontaneità "impersonale").
La spontaneità personale dell' "illuminato" è la manifestazione piena di un'etica che nella pre-illuminazione è solo un seme. Seme che, non coltivato dalla pratica di sila, non fiorisce, sommerso dall'attaccamento e dall'illusione/ignoranza della propria natura verso il 'mondo'...nell'"illuminazione" la pratica di una vita etica non è più qualcosa da coltivare o perseguire, diventa lo stato normale della mente.
Se la pratica è fondamentale per raggiungere la consapevolezza adeguata (che ci renda compassionevoli), è anche vero che tale pratica sarà guidata da precetti e concetti.
Infatti si parla di Dhamma, ossia di Insegnamento. Per ottenere un risultato bisogna esercitarsi (anche per imparare a scrivere bene, per esempio o per vendemmiare...infatti da piccolo mi veniva spontaneo staccare tutti gli acini dal grappolo, uno ad uno, e riporli nella cesta; poi qualcuno mi ha "fatto vedere"...). L'insegnamento è qualcosa di vivo, che passa 'da cuore a cuore'...non è una bella formuletta scritta in qualche famoso testo; quelle non funzionano e non sono convincenti, alla lunga...
Se la via per l'illuminazione è lastricata di buone intenzioni, di regole e concetti canonizzati, di fatto è questa l'etica che viene generalmente praticata (fra una sesshin e l'altra), e non accade per spontaneità, ma per applicazione e studio di un culto.
Dipende. Come in tutte le cose ci sono varie gradazioni. Ci sono individui che hanno bisogno di praticare poco e altri moltissimo ( e per molte vite, secondo il Buddhismo...). L' etica praticata per imposizione sociale e culturale non ha valenza simile all'etica che si nutre di consapevolezza e comprensione.
Se mi metto d'impegno ad imparare a dipingere, «dopo, molto dopo» (quasi tardi?) nella peggiore delle ipotesi, smetterò per insoddisfazione dei risultati o per eventi avversi...
Infatti moltissimi abbandonano e lasciano la pratica perché ritenuto troppo difficile...
...nella migliore delle ipotesi, acquisirò una pennellata spontanea... perché tale pennellata era da sempre "in me" (buona natura innata) o perché l'ho "costruita" io ("educazione" alla benevolenza)?
Era da sempre in me, il mio sforzo è stato solo quello di 'liberarla', ma per liberarla seguire un insegnamento è più semplice che far da sé...Se devo vangare l'orto sarà meglio che qualcuno mi insegni ad usare la vanga adatta o grattare la terra con le unghie?...Scavo anche con le unghie, ma mi stancherò prestissimo e 'mollerò' tutto, così l'orto resta incolto e pieno di erbacce... (l'orto è la 'mente' ovviamente...).
Secondo me, l'intenzione e l'applicazione plasmano più di quanto rivelino (pur partendo da una base minimamente compatibile).
L'importante è ciò che ottieni. Forse sarei arrivato da solo a staccare tutto il grappolo dalla vite, anche senza essere 'plasmato' dal nonno...ma così ho sicuramente imparato più in fretta. Insegnare non è negativo. Bisognerebbe riscoprire il grandissimo valore dell' Insegnamento ( volutamente con la I maiuscola ) , soprattutto in quest'epoca di stipendiati dell'insegnamento...
l' Insegnamento "fa vedere", non impone... (infatti adesso ho escogitato un sistema più rapido di quello insegnatomi dal nonno per vendemmiare...)
Prendendo per le corna il toro, anzi il bue (quello della parabola): i praticanti dell'etica buddista, la praticano in quanto etica indotta da cultura, lettura, etc. (il che non è un peccato) o in quanto spontaneo risultato dell'illuminazione?
Pensi ce ne siano tanti di "illuminati" ? Ce ne sono molti che dicono di esserlo forse...
Penso che , domande che investono il vissuto e le convinzione etiche delle persone, tendano sempre a generalizzare e a fare di tutta un'erba un fascio. C' è sicuramente un pò di tutto anche nei paesi influenzati dalla cultura buddhista: tutta la scala dei colori...
Quando mi riferivo all'aporia del «proporsi in chiave etica ai popoli della terra» mi riferivo a questo; per pochi (quasi nessuno?) e non per tutti
Si, ma consideriamo che l'intenzione buddhista non è carica di aspettiative che verranno inevitabilmente deluse dalla poca accoglienza nelle masse, le quali forse si accontenteranno di "seguire" senza convinzione profonda. Adesso siamo in periodo natalizio e le luci e lucette variopinte del 'mondo' attraggono gli orientali come gli occidentali...
Sul non-attaccamento come indifferenza alla mondanità e alla socialità (e al prossimo, anche se suona male ;) ), forse sono eloquenti le scelte di alcuni maestri (illuminati?) di ritrarsi in solitudine, prendendo rifugio nella solitudine dei boschi più che nello sangha. Sempre che non si tratti di leggende, non sono molto informato in merito.
Come fa un seguace del Dhamma ad essere indifferente al prossimo e alla sua sofferenza? Ricordo che l'imperatore Asoka, convertitosi al Buddhismo, faceva costruire ospedali lungo le vie carovaniere e persino luoghi per la cura degli animali (2.300 anni fa circa...).
È stato detto che «l'apporto teorico più originale prodotto dal Buddhismo consiste nella formulazione di una prospettiva che, in termini moderni, potremmo chiamare "modello a rete" (Pasqualotto). Il 'mondo' infatti non viene visto come un insieme di enti a sé stanti che entrano in relazione, ma come il frutto di un insieme di relazione sincroniche e di trasformazioni diacroniche che generano l'esistente momento per momento.
In siffatta visione l'affermazione dell'"assenza del sé" è proprio ciò che permette l'apertura all'empatia compassionevole con gli altri, venendo radicalmente superata la concezione dualistica che oppone un "io" ad un "tu" esterno a se stesso. La compassione buddhista nasce infatti dall'interazione e interdipendenza tra due "non sé- in sé" ( vedere sopra la logica buddhista, diversa da quella aristotelica...) i quali, avendo superato finalmente l'illusione di essere distinti, si possono 'incontrare' veramente ( e non artificiosamente , con maschere protettive...).
La ricerca della solitudine (relativa, perché l'interazione con la natura è potentissima e ci ha dato pagine di poesia incredibili, a parer mio...) nei boschi o in luoghi appartati è anche un bisogno di "essenzialità"...
cit.Ipazia:
In ambito giapponese (buddista-scintoista) l'altruismo va dosata per non porre in una vergognosa (haji) condizione di obbligo (on) il beneficiato. Il che sarebbe ancora peggio dell'indifferenza.
Trovo molto bello questo. E' una forma di rispetto che l'altruismo deve avere.
Namaste-Ciao-forse arriva la neve per Natale
Son sempre troppo 'lungo' vero? Portate pazienza , è tutto lungo qui a Villa sariputra... ;D
Non ti trovo affatto prolisso, anzi (mi) risulti chiaro e ben misurato (senza voler sminuire i lunghi corridoi e le lunghe notti, presto innevate, della Villa ;) ).
Tuttavia, proprio quello che
non hai commentato del mio post, è forse ciò che mi lascia più perplesso del rapporto fra Istruzione (buddista
, e non solo) ed Etica:Citazione di: Phil il 19 Dicembre 2018, 12:11:57 PMD'altronde, se invece mi metto d'impegno e d'intenzione a dare attente martellate al marmo, non potrò diventare pittore, semmai diverrò "spontaneo" scultore...
oppure, riprendendo la tua metafora dell'orto: se semino pomodori, non nascerà insalata... ovvero, almeno a quanto pare (guardandosi intorno), ogni culto-cultura può essere interiorizzato-a al punto da diventare "spontaneo-a" (anche quelli-e meno favorevoli al prossimo...).
P.s.
Nondimeno, ci siamo già spiegati in precedenza sulle rispettive differenti vedute sulla "naturale" indole umana; non voglio ripetere l'
impasse :)
Riporto uno stralcio da un'intervista a Claudio Naranjo, psichiatra, psicoterapeuta e antropologo cileno, uno dei massimi esponenti della terapia della Gestalt ( e grande conoscitore del Buddhismo, ma non solo...). Fondamentale, nel suo pensiero, è l'analisi critica della mente "patriarcale", che domina ancora la civiltà occidentale e ne limita l'evoluzione, producendo falsi valori che frenano il pieno sviluppo del potenziale umano, e una società malata, fondata sulla prepotenza, la forza, il dominio e l'aggressione. ...
...La mia visione è che tutto il mondo passionale o tutto il mondo della libido, non di eros bensì della libido, perché mi piace fare una distinzione tra queste parole, il mondo dei desideri quindi, è un mondo che si alimenta del vuoto. E' come se tutta la passionalità fosse stimolata dal desiderio di riempire il vuoto che resta a causa della perdita del senso dell'essere, voglio dire per la perdita dell'esperienza diretta dell'essere. Sebbene possiamo dire astrattamente "sono", filosoficamente non abbiamo l'esperienza dell'"Io sono", che si può dire sia ciò che appare come "il più divino" nell'essere umano. Solo la parte divina nell'essere umano può dire "sono quello che sono".
L'esperienza dell'essere è qualcosa che, paradossalmente, più la persona cerca, meno riesce a raggiungere e viceversa. L'esperienza dell'Io è un'esperienza molto fragile, quasi illusoria, è qualcosa che si vede con la coda dell'occhio e appena si guarda di fronte, scompare. Quanto più si cerca l'Io, tanto meno si trova. Dunque mi sembra che il lavoro sulla carenza in questo senso, non la carenza amorosa che studia la psicologia dinamica ma la carenza ontica, dia un'altra dimensione alla psicoterapia, una dimensione peraltro piena di speranza perché l'amore di vent'anni fa non si può ritrovare, però l'essere è sempre presente, solo che dobbiamo sviluppare la capacità di rimuovere il velo che ci separa da esso.
Una delle mie realizzazioni teoriche è stata la formulazione di una teoria della nevrosi e degli aspetti caratterologici che accompagnano gli stili nevrotici. Da questo punto di vista tutte le nevrosi sono una ricerca disperata dell'essere che "riposa" in una perdita dell'essere, e la perdita dell'essere si sostiene con la stessa ricerca dell'essere là dove non c'è.
Ho lavorato sistematicamente a partire dal carattere perché penso che la base della nevrosi sia caratterologica, non credo, come qualcuno ha proposto, che la nevrosi del carattere sia una complicazione della nevrosi, ma piuttosto che la nevrosi sintomatica sia una complicazione della nevrosi caratterologica di base.
D: Hai fatto cenno poco fa al deficit dell'essere definendolo come una carenza ontica, mi pare che in questo discorso rientri la tua ricerca nel Buddhismo e l'approfondimento dei suoi vari livelli.
R: E' vero, però mi piacerebbe dire al riguardo che esistono due "vocabolari" nel mondo delle tradizioni spirituali. L'attitudine del Buddhismo è trovare alla radice della vita un "vuoto fondamentale". Con questo si vuol dire qualcosa di trascendente, qualcosa che non si può definire concettualmente e che fuoriesce da tutte le categorie di pensiero. Questo modo di vedere esiste anche in altre tradizioni come ad esempio l'Induismo secondo il quale, al centro della persona, si trova un "self" un sé stesso. Una delle mie tesi, durante molti anni dalla pubblicazione di "The one quest", è stata che questa polemica religiosa, se la verità si trovi nel "self" o nel "non self", rifletta anche due stili di simboleggiare, il che non comporta una differenza fondamentale rispetto alle implicazioni pratiche. Tanto il meditare sul vuoto quanto il meditare sul self indirizzano la mente verso il centro di sé stessa o il meditare su Dio. La differenza non è così radicale come sembrerebbe. In tutti i casi è certo che nel Buddhismo si abitua la persona a svuotarsi di sé stessa, si abitua la persona a stare senza punti di riferimento, esiste una vera educazione a lasciar andare l'attaccamento a forme di comportamento o idee. Lo stesso si può dire del taoismo, il Tao è, nella sua essenza, vuoto e questa concezione di vuoto ispira il coltivare la fluidità.
D: Cosa puoi dire di più su questa idea di vuoto che spesso è difficile comprendere da chi non è dentro l'esperienza: in generale si teme che il vuoto sia un non esistere.
R: Nel Buddhismo si parla in due sensi di vuoto. La vacuità, la mancanza di significato del Samsara, la insostanzialità del Samsara, che è un'idea che si sviluppa quanto più la persona è risvegliata spiritualmente. Come diceva il sufi Bayasid Bistami, anche se stiamo parlando di Buddhismo, "quanto più vivo, meno mi interessa il mondo, più mi interessa Dio".
Si può dire che quando una persona matura spiritualmente gli interessano sempre meno le cose del mondo, cominciano cioè a sembrare superflue, come i giocattoli che un bambino lascia da parte, i piaceri sensoriali, i piaceri della vanità, i piaceri legati al potere, di fronte ad una soddisfazione più profonda che non può dare nessuna cosa al mondo.
Questa può essere una nozione di vuoto: è come svuotare il mondo di significato. Un altro senso è che il supremo, l'assoluto, quello che cerchiamo ben oltre il mondo, ha una natura di vuoto. In questo senso è qualcosa di cui non si può dire niente. Tutto quello che possiamo dire di qualsiasi cosa si trova dentro una polarità: di tutto si può dire il contrario. Allora il vuoto ha un senso di ineffabilità che non è un niente ma che non ha caratteristiche denominabili, specifiche.
Io credo che questi due tipi di vuoto non siano diversi come sembrano perché, se ci si permette di stare nell'indefinito, nel vuoto che lascia il mondo e le sue soddisfazioni, si crea un'apertura verso ciò che non è sullo stesso livello del concettuale, o dell'emozionale, o del volitivo.
Ci si può chiedere cosa sia il transpersonale se non è corpo, non è emozione, non è intelletto. Si può dire che è niente, però non un niente negativo, bensì un niente in cui è radicato l'essere.
Parlando in forma approssimativa si può dire che la visione risvegliata della vita è una visione nella quale tutte le cose che quotidianamente si dice "esistano", sono come ombre, sono derivate, sono riflessi dell'essere, sono come la caverna di Platone, un mondo che ha qualcosa della natura del sonno rispetto all'essere assoluto; ma in questo senso si può dire che solo il non-essere, è. Solo quello che dal nostro punto di vista ordinario sembra non essere, è quello nel quale può trovarsi l'esperienza dell'essere. E' un poco come dire che solo consegnandosi alla morte si può trovare la vera vita, mentre più ci aggrappiamo alla vita più ci distruggiamo, più ci inibiamo nel flusso della vita.
Per chi interessa e ha tempo consiglio la visione di questo video in cui Claudio parla di alcuni temi che stiamo dibattendo nel forum attualmente (crisi dell'"Impero"...)
https://www.youtube.com/watch?v=L6CNf59mk3o
Concordo pienamente con l'intervistato per la correlazione stretta che pone tra patriarcato e imperialismo. Rapporto dalla cui crisi profonda (molti, come Jerry, ancora non cadono solo perchè non si rendono conto di avere già oltrepassato il ciglio del burrone, ma prima o poi... :( ) egli propone di uscire ricostituendo il valore sull'unità trinitaria uomo-donna-bambino. Quindi con una forte accentuazione del divenire (il bambino) su cui si supera anche la usurata antropologia borghese-mercatista Io-Altro per approdare alla dimensione antropologica del Noi comunitario, sempre più vero avvicinandoci a condizioni di vita in cui la barca su cui navighiamo diventa una sola: il pianeta Terra.
Siamo soliti distinguere la coscienza dalla percezione. In realtà non vi è una coscienza senza un atto percettivo. Quindi dovremmo dire che ogni percezione è anche un atto di coscienza. Per questo penso sarebbe più opportuno parlare di "processo percettivo". La vita umana, nel suo aspetto "ordinario", è composta da un 'flusso' di processi dinamici che si muovono e interagiscono attraverso dodici canali, corrispondenti ai dodici elementi della formulazione standard del paticcasamuppada, la 'produzione condizionata'.. Troviamo un rapporto di dipendenza tra i vari canali: ogni processo viene condizionato da un altro processo.
Tutti questi processi possono essere scissi in più atti (sankhara). Questi atti sono di carattere dinamico, psicofisico e personale e, quando hanno valenza e aspetto morale, quando si vuole sottolineare questo , vengono chiamati karma (kamma).
Ogni processo dinamico è un atto della mente umana: esso è cosciente, rientra in varie categorie (nome-forma) e appartiene ad una o più delle sei modalità sensoriali.
Ecco quindi che non si possono avere modalità sensoriali in mancanza di una differenziazione cosciente, differenziazione che, a sua volta, non potrebbe sussistere in mancanza di una dimensione cosciente.
A sua volta, essendo questa dimensione cosciente un processo dinamico, ossia che la coscienza opera sotto forma di processi, la sua esistenza non sarebbe possibile in mancanza degli atti percettivi stessi.
Sulla base di questa 'costituzione' umana, è possibile ricevere impressioni, fare quindi esperienza di sensazioni, provare sentimenti verso queste sensazioni e così, alla fine del processo, provare desiderio (del ripetere o non ripetere le sensazioni sorte...).
La 'personalità' viene appunto costruita sul materiale ricevuto attraverso le percezioni sensoriali, viene edificata su queste sensazioni e desideri che seguono l'atto cosciente percettivo. Sono i 'mattoni' che usiamo per costruire l'illusoria casa della nostra 'personalità' (illusoria nel senso che è un edificio costruito e non qualcosa di 'sostanziale in sé, non c'è alcuna 'essenza' duratura in essa...personalità quindi come definizione convenzionale dela reazione abituale mentale agli atti percettivi coscienti...).
La frequenza degli atti percettivi coscienti (insorgere e cessare..) è così rapida che dà alla mente la sensazione di 'continuità', facendo sorgere in essa l'idea: "Io sono" . Questa è "ignoranza" (avidya-avijja): non consapevolezza dell'insorgere e cessare dei processi dinamici percettivi coscienti.
L'ignoranza è il costituente fondamentale degli asava (influssi/condizionamenti della mente..).
Questi condizionamenti sono quattro caratteristiche della 'personalità' così definita:
a- Inflazione di Irrealismo
b-Inflazione di sensualità
c- Inflazione di accrescimento
d-inflazione di teorie
Questi condizionamenti sono l'espressione della tendenza che ci appartiene ( a noi tutti...) di inflazionare la coscienza con quattro tipi di contenuti: valori irrealistici, sensualità, preparativi continui per il futuro (accrescimento..) e costruzioni teoriche.
Abbiamo quindi sempre la percezione come punto di partenza. Potremmo definire la percezione come la "sorgente" del 'mondo' insieme ai suoi costituenti: lo stimolo, l'organo di senso, la coscienza e il contatto.
Vediamo quindi che la percezione, non essendo una 'cosa in sé', ma bensì un processo , si presenta di solito insieme ad elementi di sensazione e di desiderio che la distorcono e aggiunte soggettive.
Naturalmente la mente ha pure un ricco arsenale di 'disposizioni latenti' che vengono attivate, nell'atto percettivo cosciente, dalle caratteristiche degli oggetti con cui viene a contatto. Disposizioni che determinano poi la ricerca di riprodurre il contatto piacevole e di evitare quello spiacevole...
Avviluppata in questo caos percettivo e pesantemente condizionata dalla propria 'ignoranza' dell'intero processo la mente finisce per smarrirsi facilmente, fino a sprofondare spesso in pensieri associativi oppure in sogni immaginativi (papanca)...
In mancanza di queste distorsioni che influenzano costantemente la nostra attività percettiva cosciente e che spesso ci trascinano in attività indesiderabili, prendendo ad oggetto la consapevolezza del processo, può sorgere comprensione (prajna). :)
Ciao @Sari,
Molto belli gli ultimi due interventi. Una domanda: a cosa ti riferisci con 'valori irrealistici'? :)
cit. Apeiron:"Molto belli gli ultimi due interventi. Una domanda: a cosa ti riferisci con 'valori irrealistici'? "
Ciao Apeiron
Ben ritrovato!
Il ritenere permanente, soddisfacente e sostanziale ciò che in realtà è impermanente, insoddisfacente e insostanziale.
Intendo in questo senso.
Esiste qualcosa che non sia parte di un processo ?
Citazione di: Ipazia il 13 Aprile 2019, 23:01:17 PMEsiste qualcosa che non sia parte di un processo ?
Nella concezione buddhista solo l'elemento chiamato 'Nirvana' (Nibbana in pali), che letteralmente significa 'estinzione', non fa parte di un processo impermanente.Ciao
Citazione di: Sariputra il 13 Aprile 2019, 23:58:40 PM
Citazione di: Ipazia il 13 Aprile 2019, 23:01:17 PMEsiste qualcosa che non sia parte di un processo ?
Nella concezione buddhista solo l'elemento chiamato 'Nirvana' (Nibbana in pali), che letteralmente significa 'estinzione', non fa parte di un processo impermanente.
Ciao
;)
ed e' lo stesso identico per il Vedanta (Liberazione)Per il cristianesimo (Resurrezione)