Volevo parlare del problema della critica della conoscenza, cioè di quell'ambito della filosofia, definibile come epistemologia, che si preoccupa di stabilire i principi e le condizioni fondanti la conoscenza scientifica. La mia opinione è che la possibilità di qualunque critica, di qualunque epistemologia, presupponga a sua volta un metalivello di conoscenza il cui riconoscimento dovrebbe portare a rifiutare certi modelli di conoscenza che presentino caratteristiche incompatibili con tale riconoscimento. Mi riferisco in particolare al paradigma empirisitico che, seppur riformulato con importanti varianti, ha pesantemente condizionato la gnoseologia kantiana con il suo rifiuto di una conoscenza razionale della metafisica (ridotta di fatto ad un'esigenza della morale). Per Kant il materiale di una conoscenza scientifica è sempre ricavato dall'esperienza sensibile, di una realtà spirituale o intellegibile come Dio o l'anima non possiamo, razionalmente, sapere nulla. Ora, la mia opinione è che queste tesi siano incompatibili con la possibilità di una critica della conoscenza stessa come prova a fare Kant, critica tesa a far emergere degli elementi della nostra mente che hanno un significato trascendentale, cioè indipendente dalla contingenza spaziotemporale della realtà sensibile, che rendano necessariamente possibile la conoscenza di tale realtà. In altre parole: come potrebbe Kant riconoscere la presenza di categorie trascendentali come "causalità", "tempo", "spazio" ecc. se poi sostiene che il materiale della conoscenza è solo sensibile e spazio-temporalmente delimitato? A mio avviso il tipo di conoscenza che rende possibile una critica della conoscenza, in cui possiamo parlare di concetti aventi valore universalistico come "tempo in sè", spazio in sè" "causalità in sè" non può essere dello stesso tipo di conoscenza che Kant vorrebbe fondata, quella conoscenza che esteticamente può solo ricevere materiale sensibile. E non basta per risolvere il problema dire che le categorie intelligibili sono solo "funzioni", mezzi che la mente usa per ordinare ai fini di una conoscenza scientifica il materiale dell'esperienza che è sempre sensibile. Non basta perchè, come è evidente, una cosa per "funzionare" non ha per forza bisogno di essere riconosciuta dal soggetto a cui le funzioni appartengono, potrebbe limitarsi a svolgere un "lavoro silenzioso". Nel momento in cui invece le condizioni a-priori della conoscenza divengono oggetti di un sapere, il sapere della critica, queste condizioni non sono più solo "funzioni" ma oggetti di una conoscenza (potremmo dire, una "metaconoscenza"), non sono più forme vuote da riempire con un materiale sensibile, ricavato dal mondo fisico, ma divengono esse stesse il MATERIALE della conoscenza, un materiale intelligibile, e bisogna dunque smentire l'idea che l'unico materiale sui cui l'esperienza umana può conoscere e giudicare sia sensibile. Così la possibilità della conoscenza che fonda la critica della conoscenza stessa riapre a mio avviso la strada per il riconoscimento di una conoscenza diretta della reltà intelligibile e dunque legittima il recupero di una metafisica e di un'ontologia razionale, presupposti necessari di qualunque critica della conoscenza, di ogni epistemologia
In fondo, è sempre stato questo il limite di ogni empirismo materialista affermante che tutto ciò che possiamo conoscere va appreso in modo sensibile e deve limitarsi alla realtà fisica delle cose che si manifestano nella contingenza e mutevolezza della conoscenza, mentre tutto ciò che va oltre la spazio-temporalità dovrebbe essere ridotto a dogmatismo e fideismo. Questa posizione si autocontraddice nel momento in cui usa la parolina "tutto", e si afferma così l'impossibilità assoluta di una conoscenza che vada oltre la realtà spazio temporale finendo con l' assumere un punto di vista a sua volta assoluto, che pretenda di valere al di là della limitatezza spazio temporale. Da dove si ricaverebbe l'idea di "tutto", di "totalità" in base a cui escludo la possibilità della conoscibilità di una realtà intelligibile indipendente dalla contingenza spazio-temporale? Non sarebbe questo ricavare a sua volta il frutto di una visione metafisica e sovrasensibile? Il concetto di totalità" è qualcosa di fisico e che sperimentiamo empiricamente in un certo tempo e luogo delimitato? Non credo proprio...
Il tema è ovviamente estremamente complesso e spero di aver realizzato un sintesi sufficientemente chiara... Buon ferragosto a tutti!
Galileo era un fisico ante litteram, che si è messo a scrivere di filosofia.
Cartesio era un matematico che si era messo a scrivere di filosofia.
Kant è un filosofo che vuole portare nell'alveo delle scienze la filosofia.
L'umanesimo è il progetto storico culturale in cui l'uomo viene posto al centro dell'attività conoscitiva, falsamente purtroppo, perchè la cultura giustamente come scrivi davintro, viene focalizzata sul sensibile.
Kant dice due cose fondamentali nei suoi scritti già nelle premesse.La sua intenzione è rendere scientifica la filosofia e quindi smette di discutere di metafisica. Riconosce che c'è qualcosa e si inventa il noumeno,come dire scrivo ? (punto interrogativo) e scriverà che saranno altri più bravi di lui a spiegarlo.
Lo spazio e il tempo Kant li argomenta così poco mentre la morale la fonda sull'esperienza, sulla storia, sullo "stato d'animo" .Il problema è che la morale diventa pratica e quindi indagato come un fenomeno, e lo sarà di più ancora dopo di lui nelle scienze moderne, ma non essendoci nulla di ontologico non c'è nessun primitivo fondativo per cui la morale diventa opinione, oppure non esiste, oppure è quella del "più forte".
Non sono un anti-scientifico, anzi, ma infastidisce l'arrogante visione "filosofica" delle scienze,il modello di approccio culturale.
Prendo, estraendolo dall'intero universo, un oggetto fenomenico, un essente filosoficamente, e penso che la sua essenza sia riducibile ad una sua esistenza in sè e per sè come se fosse avulso dal mondo intero.
Non c'è nulla che esiste in sè e per sè senza un sistema di relazione, sarebbe impossibile descriverlo.
Il tempo in sè e per sè cosa mi dice, cosa significa che senso ha senza predicazioni come eterno e divenire senza relazioni con oggetti.La categorizzazione diventa quella che ormai è diventata una mostruosa babele di inventari di oggetti fisici di cui è impossibile avere una totale conoscenza e relazionarla.La scienza è quantitativa, la filosofia è qualitativa. L'una vede il negativo, l'altro il positivo:entrambi possono servire se riunite.
Se gli essenti non vengono ricondotti all'essere anche il metafisico rischia anche inconsapevolmente di adottare il modello scientifico per spiegare la metafisica, diventa contraddizione della contraddizione.
Citazione di: davintro il 15 Agosto 2016, 18:26:43 PMConcordo con Kant che il materiale di una conoscenza scientifica è sempre ricavato dall'esperienza sensibile, e che di una realtà spirituale o intellegibile come Dio o l'anima -ammesso che esistano- non possiamo, razionalmente, sapere nulla.
L' empirismo "classico" (in particolare Locke, Berkeley, Hume), come anche Kant, non limitano le sensazioni a quelle esteriori-materiali (le quali, essendo misurabili tramite rapporti esprimibili da numeri, vanno ritenute scientificamente conoscibili, se se ne ammette anche l' intersoggettività; indimostrabile: Hume!); essi non ignorano (la realtà anche del-) le sensazioni interiori o mentali.
Sono casomai molti neuroscienziati e filosofi della mente monisti materialisti odierni che indebitamente lo fanno.
Gli empiristi possono correttamente riconoscere la presenza di categorie trascendentali come "causalità", "tempo", "spazio" ecc. (e razionalmente criìticarle) per il fatto che non limitano il "materiale della conoscenza" alle sole sensazioni materiali-esteriori ma ammettono anche la realtà di quelle interiori-mentali come le astrazioni (per gli empiristi -non per Kant, che infatti a mio parere le tratta in maniera inadeguata- queste sono le categorie di "causalità", "tempo", "spazio" ecc.).
Considerando con l' empirismo e contro Kant tali concetti non come "condizioni a-priori della conoscenza" ma come astrazioni a posteriori dai dati sensibili a mio parere si può benissimo fondare una corretta gnoseologia (o epistemologia, come è diventato più di moda dire).
Per me una pretesa "conoscenza diretta della realtà intelligibile che legittimerebbe il recupero di una metafisica e di un'ontologia razionale, presupposti necessari di qualunque critica della conoscenza, di ogni epistemologia" non supera il vaglio del dubbio metodico razionalistico cartesiano: può essere una credenza infondata, irrazionale, non una conoscenza criticamente, razionalmente fondata.
L' empirismo è una cosa, il materialismo è un' altra diversa cosa (per esempio Berkeley era empirista e idealista).
Ripeto che l' empirismo non limita affatto la conoscenza alla sola realtà fisica delle cose che si manifestano (cose fenomeniche: "esse est percipi"!) nel tempo e nello spazio, le cose materiali, ma la estende anche alle cose che si manifestano nel pensiero e dunque non nello spazio, alle cose mentali.
L'idea di "tutto", di "totalità" si "confeziona" mentalmente per astrazione: ovvio che non sia qualcosa di fisico -concreto- e che sperimentiamo empiricamente in un certo tempo e luogo delimitato, ma un concetto che astraiamo col pensiero da molteplici percezioni empiriche di oggetti particolari-concreti che sperimentiamo empiricamente in molteplici tempi e molteplici luoghi delimitati, particolari e concreti.
@ Pul11:
Per me Galileo era un filosofo che si è messo a coltivare soprattutto scienza fisica e Cartesio era un filosofo (ottimi entrambi!) che si è messo a coltivare (oltre a tantissimi altri interessantissimi campi del sapere) anche la matematica e la geometria.
Citazione di: sgiombo il 28 Agosto 2016, 22:02:45 PM
Citazione di: davintro il 15 Agosto 2016, 18:26:43 PMConcordo con Kant che il materiale di una conoscenza scientifica è sempre ricavato dall'esperienza sensibile, e che di una realtà spirituale o intellegibile come Dio o l'anima -ammesso che esistano- non possiamo, razionalmente, sapere nulla. L' empirismo "classico" (in particolare Locke, Berkeley, Hume), come anche Kant, non limitano le sensazioni a quelle esteriori-materiali (le quali, essendo misurabili tramite rapporti esprimibili da numeri, vanno ritenute scientificamente conoscibili, se se ne ammette anche l' intersoggettività; indimostrabile: Hume!); essi non ignorano (la realtà anche del-) le sensazioni interiori o mentali. Sono casomai molti neuroscienziati e filosofi della mente monisti materialisti odierni che indebitamente lo fanno. Gli empiristi possono correttamente riconoscere la presenza di categorie trascendentali come "causalità", "tempo", "spazio" ecc. (e razionalmente criìticarle) per il fatto che non limitano il "materiale della conoscenza" alle sole sensazioni materiali-esteriori ma ammettono anche la realtà di quelle interiori-mentali come le astrazioni (per gli empiristi -non per Kant, che infatti a mio parere le tratta in maniera inadeguata- queste sono le categorie di "causalità", "tempo", "spazio" ecc.). Considerando con l' empirismo e contro Kant tali concetti non come "condizioni a-priori della conoscenza" ma come astrazioni a posteriori dai dati sensibili a mio parere si può benissimo fondare una corretta gnoseologia (o epistemologia, come è diventato più di moda dire). Per me una pretesa "conoscenza diretta della realtà intelligibile che legittimerebbe il recupero di una metafisica e di un'ontologia razionale, presupposti necessari di qualunque critica della conoscenza, di ogni epistemologia" non supera il vaglio del dubbio metodico razionalistico cartesiano: può essere una credenza infondata, irrazionale, non una conoscenza criticamente, razionalmente fondata. L' empirismo è una cosa, il materialismo è un' altra diversa cosa (per esempio Berkeley era empirista e idealista). Ripeto che l' empirismo non limita affatto la conoscenza alla sola realtà fisica delle cose che si manifestano (cose fenomeniche: "esse est percipi"!) nel tempo e nello spazio, le cose materiali, ma la estende anche alle cose che si manifestano nel pensiero e dunque non nello spazio, alle cose mentali. L'idea di "tutto", di "totalità" si "confeziona" mentalmente per astrazione: ovvio che non sia qualcosa di fisico -concreto- e che sperimentiamo empiricamente in un certo tempo e luogo delimitato, ma un concetto che astraiamo col pensiero da molteplici percezioni empiriche di oggetti particolari-concreti che sperimentiamo empiricamente in molteplici tempi e molteplici luoghi delimitati, particolari e concreti. @ Pul11: Per me Galileo era un filosofo che si è messo a coltivare soprattutto scienza fisica e Cartesio era un filosofo (ottimi entrambi!) che si è messo a coltivare (oltre a tantissimi altri interessantissimi campi del sapere) anche la matematica e la geometria.
Quando mi riferivo all'empirismo che avrebbe condizionato pesantemente la critica kantiana avevo in mente il paradigma della mente "tabula rasa" che può essere riempita solo da informazioni provenienti dal contatto corporeo con il mondo esterno. Essendo il mondo esterno costituito da oggetti fisici che entrano in contatto fisico con il nostro corpo mi sembra che, inteso così, l'empirismo scada necessariamente nel materialismo. Non avevo in mente la posizione di Berkeley, che riconducendo l' "essere" alla percezione di fatto toglie al reale qualunque fisicità trascendente e dunque di fatto giunge a una sorta di immaterialismo estremo con evidenti venature teologiche, nel quale Dio viene chiamato in causa come necessarrio soggetto percepiente sostiene l'essere delle cose anche quando queste smettessero di essere percepite dagli uomini. Tutto l'opposto del materialismo direi! (ne avevamo già parlato)
Dissento dall'idea che la presenza alla nostra mente dell'idea di totalità sia il prodotto dell'astrazione. Al contrario ritengo sia l'opposto, sia l'astrazione che presuppone per la sua possibilità di porsi in atto l'apprensione originaria e innata dell'idea di universalità. Provo a spiegarmi meglio. Se per astrazione intendiamo un processo mentale per cui si osserva una serie limitata di oggetti individuali (preferisco qui non parlare di "concretezza) finchè non si scorgono degli elementi comuni che poi vengono sintetizzati in un concetto generale (il concetto di cavallo, di casa...) mi sembra che tutto ciò determini il CONTENUTO di tali concetti. Il concetto di cavallo, di casa è riempito da delle caratteristiche osservate nell'esperienza dei singoli cavalli e delle singole case, dunque l'astrazione è per l'uomo una condizione necessaria della concettualizzazione. Non ne è però condizione sufficiente, perchè non può determinare la FORMA, il modo d'essere in cui rendo questi concetti significanti, il carattere di universalità. Il concetto di "casa" non è solo l'insieme delle caratteristiche sensibili che ho appreso osservando nel tempo singole case, ma ha un riferimento all'universalità che fà sì che il concetto di casa abbia per me un significato che vale per tutte le case, comprese, questo è il punto fondamentale, quelle che non ho ancora mai concretamente percepito e che però rientrano nel concetto di "casa" allo stesso modo di quelle da me realmente percepite. Ora, come potrebbe l'astrazione produrre un concetto universale di "casa" comprendente nel suo significato anche case finora mai percepite se essa è un'operazione limitata dall'esperienza spazio-temporale di alcune case da cui astrae? Dove troverebbe l'astrazione l'esperienza di tutte le case, comprese quelle su cui non ha ancora applicato la sua opera e che pure rientrano a pieno titolo nel concetto? Dove coglie il carattere universale del concetto se il materiale a cui si applica è solo empiricamente delimitato? Un'astrazione che operasse senza ammettere come indipendente da essa la nozione di universalità dovrebbe limitarsi a rilevare mnemonicamente somiglianze e associazioni tra alcune qualità negli oggetti percepiti, ma non potrebbe mai arrivare a creare concetti universali, valenti anche per oggetti particolari non ancora percepiti, perchè l'universalità, per definizione, è un concetto che si contrappone a "particolare" o "empirico" ed è assurdo che sia proprio l'esperienza dei particolari a farmela riconoscere, a offrirla come materiale per l'astrazione, quest'ultima è limitata dalla contingenza dagli oggetti verso cui si rivolge (è vero che ogni nuova esperienza del particolare modifica il CONTENUTO dei concetti, la determinazione qualitativa con cui riempio il mio concetto di "casa" può mutare in base a nuove esperienze di singole case, ma la FORMA del concetto, il suo riferimento universalistico resta costante, in ogni momento il concetto di casa che provvisoriamente ho lo intenziono come valente per tutte le case possibili). L'astrazione più che con la conoscenza in senso stretto ha a che fare con la convenzionalità e arbitrarietà del linguaggio. i concetti che riempio con l'astrazione divengono definizioni, unità linguistiche necessarie per comunicare, e le definizioni, il linguaggio mutano storicamente e geograficamente, ma proprio questa mutevolezza sta a significare la sua insufficienza nel giustificare il riferimento mentale all'idea di "universalità", l'idea che indica semanticamente qualcosa di eterno e immutabile
Secondo me l'"astrazione formale" è semplicemente un'operazione logica: ciò che si astrae è proprio la forma, per cui quando vedo due mele, due alberi o due persone, astraggo il concetto formale di "coppia", che potrà essere poi applicato (o "suscitato") anche a coppie che non avevo mai visto prima, proprio in quanto astratto e formalizzato (una volta astratta la forma logica dell'esser-due di qualcosa, posso riconoscerla anche altrove...).
Come è possibile astrarre allora l'universalità, che in quanto tale non è esperibile? Tramite la cosiddetta "astrazione negativa": individuo (o congetturo) in qualcosa l'assenza di una astrazione pertinente che ho già formalizzato... ad esempio, se ho il concetto astratto (e formale) di "bellezza", guardando qualcosa di brutto non lo potrò assimilare alla bellezza, allora lo considererò non-bello (brutto, appunto), così come, avendo il concetto formale di finito, per astrazione negativa potrò concepire la possibilità del non-finito (infinito); lo stesso dicasi per particolare/universale, umano/divino(o meglio, non-umano), materiale/immateriale, etc... una volta astratta la forma logica di un dato, se ne ottiene un'altra (più o meno legittima) semplicemente usando la negazione.
Citazione di: davintro il 29 Agosto 2016, 18:21:45 PM
Quando mi riferivo all'empirismo che avrebbe condizionato pesantemente la critica kantiana avevo in mente il paradigma della mente "tabula rasa" che può essere riempita solo da informazioni provenienti dal contatto corporeo con il mondo esterno. Essendo il mondo esterno costituito da oggetti fisici che entrano in contatto fisico con il nostro corpo mi sembra che, inteso così, l'empirismo scada necessariamente nel materialismo. Non avevo in mente la posizione di Berkeley, che riconducendo l' "essere" alla percezione di fatto toglie al reale qualunque fisicità trascendente e dunque di fatto giunge a una sorta di immaterialismo estremo con evidenti venature teologiche, nel quale Dio viene chiamato in causa come necessarrio soggetto percepiente sostiene l'essere delle cose anche quando queste smettessero di essere percepite dagli uomini. Tutto l'opposto del materialismo direi! (ne avevamo già parlato)
Dissento dall'idea che la presenza alla nostra mente dell'idea di totalità sia il prodotto dell'astrazione. Al contrario ritengo sia l'opposto, sia l'astrazione che presuppone per la sua possibilità di porsi in atto l'apprensione originaria e innata dell'idea di universalità. Provo a spiegarmi meglio. Se per astrazione intendiamo un processo mentale per cui si osserva una serie limitata di oggetti individuali (preferisco qui non parlare di "concretezza) finchè non si scorgono degli elementi comuni che poi vengono sintetizzati in un concetto generale (il concetto di cavallo, di casa...) mi sembra che tutto ciò determini il CONTENUTO di tali concetti. Il concetto di cavallo, di casa è riempito da delle caratteristiche osservate nell'esperienza dei singoli cavalli e delle singole case, dunque l'astrazione è per l'uomo una condizione necessaria della concettualizzazione. Non ne è però condizione sufficiente, perchè non può determinare la FORMA, il modo d'essere in cui rendo questi concetti significanti, il carattere di universalità. Il concetto di "casa" non è solo l'insieme delle caratteristiche sensibili che ho appreso osservando nel tempo singole case, ma ha un riferimento all'universalità che fà sì che il concetto di casa abbia per me un significato che vale per tutte le case, comprese, questo è il punto fondamentale, quelle che non ho ancora mai concretamente percepito e che però rientrano nel concetto di "casa" allo stesso modo di quelle da me realmente percepite. Ora, come potrebbe l'astrazione produrre un concetto universale di "casa" comprendente nel suo significato anche case finora mai percepite se essa è un'operazione limitata dall'esperienza spazio-temporale di alcune case da cui astrae? Dove troverebbe l'astrazione l'esperienza di tutte le case, comprese quelle su cui non ha ancora applicato la sua opera e che pure rientrano a pieno titolo nel concetto? Dove coglie il carattere universale del concetto se il materiale a cui si applica è solo empiricamente delimitato? Un'astrazione che operasse senza ammettere come indipendente da essa la nozione di universalità dovrebbe limitarsi a rilevare mnemonicamente somiglianze e associazioni tra alcune qualità negli oggetti percepiti, ma non potrebbe mai arrivare a creare concetti universali, valenti anche per oggetti particolari non ancora percepiti, perchè l'universalità, per definizione, è un concetto che si contrappone a "particolare" o "empirico" ed è assurdo che sia proprio l'esperienza dei particolari a farmela riconoscere, a offrirla come materiale per l'astrazione, quest'ultima è limitata dalla contingenza dagli oggetti verso cui si rivolge (è vero che ogni nuova esperienza del particolare modifica il CONTENUTO dei concetti, la determinazione qualitativa con cui riempio il mio concetto di "casa" può mutare in base a nuove esperienze di singole case, ma la FORMA del concetto, il suo riferimento universalistico resta costante, in ogni momento il concetto di casa che provvisoriamente ho lo intenziono come valente per tutte le case possibili). L'astrazione più che con la conoscenza in senso stretto ha a che fare con la convenzionalità e arbitrarietà del linguaggio. i concetti che riempio con l'astrazione divengono definizioni, unità linguistiche necessarie per comunicare, e le definizioni, il linguaggio mutano storicamente e geograficamente, ma proprio questa mutevolezza sta a significare la sua insufficienza nel giustificare il riferimento mentale all'idea di "universalità", l'idea che indica semanticamente qualcosa di eterno e immutabile
Citazione
Concordo che Il concetto di "casa" [ovviamente inteso qui come esempio di qualsiasi concetto astratto] non è solo l'insieme delle caratteristiche sensibili che sono state apprese osservando nel tempo singole case, ma ha un "riferimento all'universalità (anche potenziale)" che fà sì che il concetto di casa abbia un significato che vale per tutte le case, comprese, questo è il punto fondamentale, quelle che non sono ancora state mai di fatto concretamente percepite e che però rientrano nel concetto di "casa" allo stesso modo di quelle realmente percepite.
E' una nozione (percepita interiormente, mentalmente allorché la si pensa, cosa sempre in linea di principio potenzialmente realizzabile una volta che si sia definito il concetto; e a ben vedere "potenzialmente" anche prima, anche di quei concetti astratti che mai saranno di fatto, "attualmente" definiti).
E tuttavia, secondo le mie convinzioni, è una nozione che necessariamente, inevitabilmente di fatto nasce (anche: non limitandosi ad essa, ma "applicandovi considerazioni teoriche ulteriori") dalla distinzione (dalla "considerazione separata", per così dire) "a posteriori" di ciò che è comune da ciò che è singolare (o comunque "non così tanto comune"; anche solo meno generalmente astratto, e che potrà dar luogo ad altri concetti relativamente meno generali) nell' ambito di più esperienze sensibili particolari concrete effettivamente avvertite (anche interiori o mentali: concetto di "sentimento" dai singoli concreti, particolari sentimenti -di letizia, paura, soddisfazione, amore, odio, ecc.- di fatto provati).
Le considerazioni teoriche ulteriori che è necessario applicare all' astrazione sono però per me mere "potenzialità comportamentali creativamente applicabili a posteriori dal pensiero alle percezioni": niente di innato in quanto nozione, cioè niente di "già saputo prima delle esperienze sensibili", ma qualcosa di innato solo in quanto mera potenzialità, tendenza comportamentale (conseguente l' evoluzione biologica): si può paragonare, per restare nella metafora degli empiristi, alle "caratteristiche fisiche della tabula rasa" (come il fatto che sia più o meno liscia, dura, scalfibile con uno scalpello oppure solo ricopribile da un certo tipo di vernice o da un certo tipo di inchiostro e non da altri tipi, o che sia più o meno grande e di una forma piuttosto che di un' altra) "preesistenti alla scrittura su di essa", e tali da potervi scrivere solo in certi modi e non in altri, entro certi limiti (quantitativi e qualitativi), da potervi imporre certe "iscrizioni" e non altre, ecc.; oppure –sempre nella metafora- potrebbero essere paragonate a scalpelli, inchiostri, ecc. usati per scrivere sulla tavola; o forse piuttosto alla "creatività dello scrivente".
(Mi rendo perfettamente conto e devo tranquillamente ammettere che l' abuso delle virgolette è un indice della complessità della questione e anche della difficoltà di trattarla da parte mia; ma altro modo di farlo correttamente da questo "empiristico" non vedo).
Dunque l' astrazione "a posteriori" dall' esperienza (dalle sensazioni particolari concrete) non è sufficiente ma comunque necessaria (una conditio sine qua non) della formulazione di concetti e nozioni generali astratte.
E perfino la nozione di "universalità" stessa (come ogni altro concetto astratto) nasce anch' essa "a posteriori" da queste operazioni di astrazione ed ulteriori considerazioni teoriche (che non sono propriamente "nozioni innate a priori" -nessuno "le sa" o "le conosce" prima di fare esperienza del mondo, se stesso compreso- ma solo potenzialità o tendenze comportamentali del pensiero): astrazione dalle varie "universalità relative" o "relativamente concrete": ciò che è comune al concetto di "casa" a quello di "animale", a quelli di "montagna", di "mare", a quello di "sentimento", ecc. e non ai concetti particolari concreti di certe singole case, certi singoli animali, ecc.); processi di astrazione ed ulteriori considerazioni teoriche che possono procedere fino alle astrazioni "ultime" o "non ulteriormente sottoponibili ad astrazione", come i concetti di "tutto", di "essere" o di "realtà".
Concordo che "L'astrazione più che con la conoscenza in senso stretto ha a che fare con la convenzionalità e arbitrarietà del linguaggio. i concetti che riempio con l'astrazione divengono definizioni, unità linguistiche necessarie per comunicare, e le definizioni, il linguaggio mutano storicamente e geograficamente"; e che questa mutevolezza sta a significare la sua insufficienza [della sola astrazione, senza ulteriori considerazioni od operazioni teoriche] nel giustificare il riferimento mentale all'idea di "universalità", l'idea che indica semanticamente qualcosa di eterno e immutabile [in quanto arbitrariamente stabilito per definizione].
(Ti ringrazio sentitamente per avermi costretto a rielaborare, emendare, completare, cercare di affinare le mie convinzioni empiristiche!).
Rispondo a Phil
mmmhhh non mi convince l'idea di riportare l'idea di universalità al rilevamento di un'assenza, della negazione del concetto ad essa opposto, così come la bruttezza potrebbe essere ricavata dalla negazione di "bellezza" e l' "infinito" dalla negazione di "finito". Questo perchè il concetto di universalità si fa presente alla mente non solo come oggetto di un sapere che riflette su esso, ma anche, come scritto prima, nella stessa forma di qualunque concetto, anche il concetto della cosa più banale. In qualunque concetto, in quanto tale, si annida l'idea di universalità, perchè ogni concetto vale per tutti gli individui possibili in ogni tempo e luogo della specie indicata nel concetto. Quindi non è possibile che il concetto di "universalità" sia la derivazione secondaria della negazione del concetto di finitezza o particolarità. Perchè già nel formare il concetto di "finitezza" o "particolarità" è già implicito il riferirsi della nostra mente all'universalità, la "finitezza" vale per TUTTI i finiti, la "particolarità" vale per TUTTI gli oggetti particolari. L'apprensione dell'idea di "universalità" o "totalità" è una struttura trascendentale e innata della nostra mente, non può essere la derivazione di alcun concetto, perchè ogni concettualizzazione la presuppone. Del resto credo che l'accezione formale di universalità sia quella comune alla maggior parte dell'umanità, i non-filosofi, che senza bisogno di mettersi a riflettere sull'universalità comunque utilizzano nella loro quotidianità, nei loro pensieri, nel loro linguaggio, concetti e categorie a cui attribuiscono un significato universale, mentre l'accezione materiale, per la quale l'universalità diviene non solo forma ma oggetto di una specifica riflessione e attenzione è riservata prevalentemente ai filosofi, o comunque a chi pensa filosoficamente, direi un'elite... Ciò non toglie che l'individuazione del sapere che permette all'uomo di accedere alla conoscenza dell'universalità, come il sapere che sta alla base di ogni gnoseologia, come la critica kantiana, sia un problema filosoficamente fondamentale
Rispondo a Sgiombo
La "potenzialità" fintanto che resta tale, non produce alcun effetto sulla realtà e quindi non può essere considerata come una spiegazione sufficiente per un fenomeno. Dire che la nostra mente è predisposta potenzialmente a dare un significato universalistico ai concetti sposta il problema ma non lo risolve: potremmo chiederci, perchè la mente è predisposta in questo modo e non in un altro. La potenzialità di qualcosa è sempre la conseguenza di una causalità attuale che rende la cosa potenziale per qualcosa e non per altro. Deve esserci dunque un'attualità nella mente che rende possibile a questa l'apprensione dell'idea di universalità. E da cosa deriverebbe questa attualità? Dall'astrazione a-posteriori degli oggetti individuali? Ma se questa non è autosufficiente per realizzarsi (come tu stesso mi sembra in qualche modo abbia riconosciuto) ma necessita di un fattore ulteriore come il modo d'essere soggettivo di una mente predisposta allora cadiamo in un impasse argomentativo, un circolo vizioso in cui ciò che si cerca di giustificare, l'astrazione, diviene anche ciò che renderebbe ragione di ciò che la renderebbe possibile. Ecco perchè trovo per ora più convincente ammettere due distinti tipi di intuizioni. un'intuizione sensibile, adeguata a cogliere l'oggetto individuale in un'esperienza spazio-temporalmente delimitata, e un'intuizione intellettuale innata, assolutamente non meno concreta e attuale della prima, con cui apprendiamo la nozione di universalità, totalità che poi usiamo anche (ma non solo) come forma dei concetti a cui l'intuizione sensibile dà un contenuto. E dalla collaborazione tra queste due diverse modalità di apprensione nasce la la concettualizzazione del mondo sensibile.
Non ho ben capito il concetto di "universalità relative". In cosa consisterebbero? A prima vista mi sembrerebbe un'ossimoro... relativizzare vuol dire per me sempre particolarizzare, dunque perdere di vista l'universalità in quanto tale. Ecco perchè la nozione di universalità non può essere un' "astrazione ultima", per il semplice motivo che un'astrazione in quanto tale non potrà mai essere "ultima", la realtà a cui si rivolge è il contingente, ciò che in qualunque momento può offrire nuovi oggetti all'osservazione costringendo l'astrazione a non poter mai essere definitiva e ultima
Citazione di: davintro il 01 Settembre 2016, 02:17:23 AM
Rispondo a Sgiombo
La "potenzialità" fintanto che resta tale, non produce alcun effetto sulla realtà e quindi non può essere considerata come una spiegazione sufficiente per un fenomeno. Dire che la nostra mente è predisposta potenzialmente a dare un significato universalistico ai concetti sposta il problema ma non lo risolve: potremmo chiederci, perchè la mente è predisposta in questo modo e non in un altro. La potenzialità di qualcosa è sempre la conseguenza di una causalità attuale che rende la cosa potenziale per qualcosa e non per altro. Deve esserci dunque un'attualità nella mente che rende possibile a questa l'apprensione dell'idea di universalità. E da cosa deriverebbe questa attualità? Dall'astrazione a-posteriori degli oggetti individuali? Ma se questa non è autosufficiente per realizzarsi (come tu stesso mi sembra in qualche modo abbia riconosciuto) ma necessita di un fattore ulteriore come il modo d'essere soggettivo di una mente predisposta allora cadiamo in un impasse argomentativo, un circolo vizioso in cui ciò che si cerca di giustificare, l'astrazione, diviene anche ciò che renderebbe ragione di ciò che la renderebbe possibile. Ecco perchè trovo per ora più convincente ammettere due distinti tipi di intuizioni. un'intuizione sensibile, adeguata a cogliere l'oggetto individuale in un'esperienza spazio-temporalmente delimitata, e un'intuizione intellettuale innata, assolutamente non meno concreta e attuale della prima, con cui apprendiamo la nozione di universalità, totalità che poi usiamo anche (ma non solo) come forma dei concetti a cui l'intuizione sensibile dà un contenuto. E dalla collaborazione tra queste due diverse modalità di apprensione nasce la la concettualizzazione del mondo sensibile.
Non ho ben capito il concetto di "universalità relative". In cosa consisterebbero? A prima vista mi sembrerebbe un'ossimoro... relativizzare vuol dire per me sempre particolarizzare, dunque perdere di vista l'universalità in quanto tale. Ecco perchè la nozione di universalità non può essere un' "astrazione ultima", per il semplice motivo che un'astrazione in quanto tale non potrà mai essere "ultima", la realtà a cui si rivolge è il contingente, ciò che in qualunque momento può offrire nuovi oggetti all'osservazione costringendo l'astrazione a non poter mai essere definitiva e ultima
CitazioneDissento completamente.
La potenzialità ha la caratteristica (per definzione) di non rimanete necessariamente tale, ma invece di attuarsi (se se ne danno le condizioni), e dunque di tradursi in accadimento reale in grado di "produrre effetti sulla realtà".
Dire che la nostra mente è "predisposta" (é in grado) potenzialmente a (di) stabilire concetti universali per astrazione da sensazioni particolari concrete e ulteriori considerazioni teriche (definizioni di nozioni) non sposta affatto il problema ma lo risolve: questa é a spiegazione del perché e come si definiscono concetti astratti a partire da osservazioni particolari concrete (non ce li si trova in mente di già belli e fatti a priori come conoscenze innate: pretesa spiegazione sbagliatissima!).
Potremmo chiederci perchè la mente è predisposta in questo modo e non in un altro oppure non chiedercelo, ma il fatto che sia predisposta a (in grado di) fare queste operazioni teoriche) non cambia, resta un dato di fatto; fra l' altro se esiste una corrisondenza necessaria fra operazioni coscienti ed eventi neurofisiologici cerebali (cosa dimostrata dalla neurofisiologia), allora per lo meno questi ultimi (gli eventi neurofisiologici cerebali) sono spiegati egregiamente dalla teoria scientifica dell' evoluzione biologica.
L' astrazione a posteriori dalle esperienze particolari concrete, pur non essendo sufficiente in assenza di un' ulteriore elaborazione mentale, onde "confezionare" concetti universali astratti, é comunque necessaria (é una conditio sine qua non): nessuno conosce a priori, prima di compiere molteplici esperienze sensibili particolari concrete, alcun concetto astratto (men che meno quello "astrattissimo" di "universalità"): li si elabora solo a posteriori alla condizione necessaria di averne avuto sensazioni di occorrenze particolari concrete (oppure li si apprende, sempre a posteriori, da altri; magari tramite un semplice vocabolario).
In questo modo non si cade in alcun impasse argomentativo o circolo vizioso in cui ciò che si cerca di giustificare, l'astrazione, diviene anche ciò che renderebbe ragione di ciò che la renderebbe possibile: l' astrazione giustifica l' acquisizione di concetti universali astratti (contrariamente a una presunta -irreale- conoscenza di essi a priori), anche se deve essere integrata (non affatto circolarmente!) dall' elaborazione autonoma (a posteriori) d ulteriori nozioni (come quella per la quale essi non sono semplicemente "ciò che di comune c' era solo in molteplici oggetti percepiti nel passato" ma anche -induttivamente- "ci potrà essere in un indefinito numero di ulteriori oggetti nel futuro").
Senza ottemperare alla conditio sine qua non di avere avuto moleplici esperienze particolari concrete non può aversi nessun "intuizione intellettuale innata" (men che meno "assolutamente non meno concreta e attuale" di essi) di concetti universali astratti: si tratta semplicemente del fatto di essere dotati di un' attitudine comportamentale, una "dote o capacità operativa", per l' appunto una mera potenzialità che non si attua se non a posteriori, alla condizione necessaria (anche se non sufficiente) di aver vissuto molteplici esperienze particolari concrete (a cui applicare le nostre capacità -o potenzialità- teoriche).
Il concetto di "universalità relative" é molto semplice: il concetto di "felino" é relativamente meno universale e astratto di quello di "mammifero"; questo lo é meno di quello di "vertebrato"; questo lo é meno di quello di "appartenete al regno animale"; questo lo é meno di quello di "metazoo"; questo lo é meno di quello di "vivente", ecc. (ciascuno é universale, ma relativamente meno universale del successivo).
Si possono fare sempre nuove osservazioni contingenti, ma proprio per il fatto che un concetto universale non si limita alla mera astrazione da osservazioni particolari concrete passate ma le "proietta induttivamente nel futuro (potenziale)", per così dire, da concetti come "totalità" o "essere" non é possibile per definizione astrarre concetti relativamente (ultriormente) più universali che li comprendano come particolari, per quante nuove osservazioni contingenti si facciano.
Citazione di: davintro il 01 Settembre 2016, 02:17:23 AM
mmmhhh non mi convince l'idea di riportare l'idea di universalità al rilevamento di un'assenza, della negazione del concetto ad essa opposto, così come la bruttezza potrebbe essere ricavata dalla negazione di "bellezza" e l' "infinito" dalla negazione di "finito". Questo perchè il concetto di universalità si fa presente alla mente non solo come oggetto di un sapere che riflette su esso, ma anche, come scritto prima, nella stessa forma di qualunque concetto, anche il concetto della cosa più banale. In qualunque concetto, in quanto tale, si annida l'idea di universalità, perchè ogni concetto vale per tutti gli individui possibili in ogni tempo e luogo della specie indicata nel concetto. Quindi non è possibile che il concetto di "universalità" sia la derivazione secondaria della negazione del concetto di finitezza o particolarità. Perchè già nel formare il concetto di "finitezza" o "particolarità" è già implicito il riferirsi della nostra mente all'universalità, la "finitezza" vale per TUTTI i finiti, la "particolarità" vale per TUTTI gli oggetti particolari. L'apprensione dell'idea di "universalità" o "totalità" è una struttura trascendentale e innata della nostra mente, non può essere la derivazione di alcun concetto, perchè ogni concettualizzazione la presuppone. Del resto credo che l'accezione formale di universalità sia quella comune alla maggior parte dell'umanità, i non-filosofi, che senza bisogno di mettersi a riflettere sull'universalità comunque utilizzano nella loro quotidianità, nei loro pensieri, nel loro linguaggio, concetti e categorie a cui attribuiscono un significato universale, mentre l'accezione materiale, per la quale l'universalità diviene non solo forma ma oggetto di una specifica riflessione e attenzione è riservata prevalentemente ai filosofi, o comunque a chi pensa filosoficamente, direi un'elite... Ciò non toglie che l'individuazione del sapere che permette all'uomo di accedere alla conoscenza dell'universalità, come il sapere che sta alla base di ogni gnoseologia, come la critica kantiana, sia un problema filosoficamente fondamentale
Citazione"Omnis determinatio est negatio" (Spinoza): Ogni concetto si definisce inevitabilmente in relazione ad altri concetti: non potremmo avere nozione di "bene" senza avere necessariamente anche nozione di "male", non di "belleza" senza quella di "bruttezza", di "universale" senza "particolare", ecc.
Esistono anche concetti particolri, oltre che generali, per esempio il concetto del mio particolare concreto gatto Attila oltre al concetto universale di "gatto".
Il concetto di "universalità" non può definirsi se non in relazione (di negazione) con quello di "particolarità" (per comprendere il significato di "universale" dobbiamo necessariamente comprendere anche quello di "partcolare").
E di fatto si acquisisce (a meno che non ce lo insegnino in quanto già acquisito da altri prima di noi) per astrazione e ulteriore elaborazione teorica in seguito all' esperienza (necessaria!) di più definizioni di "relativamente particolari" concetti generali, concetti "relativamente meno generali" (per esmpio di "gato", di "animale", di "pianta", eccetera: é ciò che questi concetti hanno in comune e potenzialmente altri concetti "relativamente particolari" in modo analogo" potranno avere in comune, ed é distinto (distinguibile) da altre caratteristiche non comuni, singolari-particolari o comunque relativamente meno comuni.
Ciò che ogni concettualizzazione presuppone non é la conoscenza innata del particolare concetto in questione, nè del concetto di "universale" (che si acquisiscono a posteriori, con l' esperienza; oppure ci vengono insegnati), bensì la mera capacità (potenzialità) innata di astrarre e definire concetti.
Ovviamente non c' é bisogno di essere filosofi per poter pensare astrattamente, per utilizzare nella propria quotidianità, nei propri pensieri, nel proprio linguaggio, concetti e categorie a cui si attribuisce un significato universale: basta essere uomini sani di mente!
Citazione di: davintro il 01 Settembre 2016, 02:17:23 AMIn qualunque concetto, in quanto tale, si annida l'idea di universalità, perchè ogni concetto vale per tutti gli individui possibili in ogni tempo e luogo della specie indicata nel concetto.
In ogni concetto si annida l'idea di "universalità" o di "astrazione"? Pongo questa domanda per intenderci meglio sulle parole chiave della questione... personalmente, direi che ogni concetto è astratto, ma non che ogni concetto è universale: ad esempio, il mio concetto di "giustizia" non solo è personale (limitato nello "spazio"), ma potrebbe essere stravolto domani (limitato nel "tempo"); quindi, quando lo penso, non lo penso "universale", ma solo utilmente "astratto", ovvero fruibile per valutare un'ipotetica
universalità dei casi, ma senza essere esso stesso universale (non è dunque il concetto in quanto tale ad essere
sempre e necessariamente universale, ma le sue
possibili applicazioni; non so se è questa l'ambiguità che porta al nostro disaccordo...).
Che significa "universalità dei casi"? In tutti i casi possibili. Come faccio ad estendere l'
applicazione di un concetto (non il concetto stesso) a tutti i casi possibili? Tramite l'astrazione (negativa) che lega il singolare/parziale al plurale/totale.
Citazione di: davintro il 01 Settembre 2016, 02:17:23 AMQuindi non è possibile che il concetto di "universalità" sia la derivazione secondaria della negazione del concetto di finitezza o particolarità. Perchè già nel formare il concetto di "finitezza" o "particolarità" è già implicito il riferirsi della nostra mente all'universalità, la "finitezza" vale per TUTTI i finiti, la "particolarità" vale per TUTTI gli oggetti particolari.
Questi "tutti" vengono semplicemente astratti dai rispettivi "uno"... e, come accennavo prima, non è la "finitezza" o la "particolarità" ad essere "universale", ma, asintoticamente, le loro possibili applicazioni...
Citazione di: davintro il 01 Settembre 2016, 02:17:23 AML'apprensione dell'idea di "universalità" o "totalità" è una struttura trascendentale e innata della nostra mente, non può essere la derivazione di alcun concetto, perchè ogni concettualizzazione la presuppone.
Se "totalità" e "universalità" sono una "struttura trascendentale innata" (ammesso e non concesso ;) ), non dovrebbero
logicamente appartenere alla stessa "struttura" anche "parzialità" e "singolarità"?Questa struttura innata non verrebbe comunque attivata dall'esperienza del singolare/parziale? La capacità d'astrazione non si sviluppa, nei primi anni (non sono pratico di infanzia!) proprio a partire dal vissuto del particolare? Questo sviluppo (se c'è...) conferma l'innatismo del concetto di universalità oppure conferma che l'universalità è frutto di un'astrazione (negativa)?
Per ora, concorderei con Sgiombo nel concludere che la condizione di possibilità della concettualizzazione è l'astrazione, non il concetto di universalità (a sua volta derivato da un'astrazione, secondo me...):
Citazione di: sgiombo il 01 Settembre 2016, 13:39:42 PMCiò che ogni concettualizzazione presuppone non é la conoscenza innata [...] del concetto di "universale" (che si acquisiscono a posteriori, con l' esperienza; oppure ci vengono insegnati), bensì la mera capacità (potenzialità) innata di astrarre e definire concetti.
P.s. Si possono astrarre concetti non universali? Se per concetto intendiamo "astrazione formale", direi di si: ognuno di noi ha i suoi individuali concetti riguardanti l'arte, la politica, la vita, etc. che non sono universalmente validi o accettati...
Mi viene da considerare quanto alla fine ci si ritrovi sempre qui, a ruotare intorno al vecchio problema irrisolvibile degli universali, ognuno con il suo punto di vista che riflette il suo modo di sentire e considerare le cose. Ed evidentemente il problema pone una questione linguistica, dato che ogni parola in ciò che tenta di definire non è che un segno sempre in qualche misura errato rispetto a ciò che intende indicare, rispetto alle cose in sé... eppure se non ci fossero quelle astrazioni generalizzanti che sono date dai nomi che designano erroneamente le cose che cosa mai potremmo cogliere di esse? La sensazione stessa in fondo non è che un'immagine impropria, a dispetto di qualsiasi empirismo con pretese assolute e non per niente l'empirismo filosofico coerentemente condotto non può che giungere a negare l'assoluto di se stesso, ritrovandosi così al punto di partenza nella questione sulla conoscenza (che cosa davvero si conosce?). La cosa in sé è inaccessibile non solo all'intelletto umano, ma pure alla sensazione che la trasforma in un'immagine (visiva, uditiva, tattile...), la cosa in sé è solo la relazione (sempre diversa e contingente) con chi la osserva e che talvolta più o meno si ripete, quindi non è mai in sé, né si può dire (pensare, sentire) cosa di per se stessa sia e delle cose che non si può dire è saggio tacere. Il linguaggio modella non solo il pensiero, ma anche il modo di sentire e intendere le cose e il linguaggio naturale, quello a cui facciamo sempre riferimento, non è che un tropo, una designazione impropria, una metafora, mentre quelli artificiali sono ancor peggio in merito alla verità, anche quando creano l'illusione di saper funzionare.
In fondo il noumeno kantiano mi pare che non faccia che riprendere la massima socratica: quello che si può giungere a sapere, il vertice della conoscenza, è solo sapere di non sapere e almeno così si evita la superstizione dell'oggetto senza correre il rischio di cadere in quella del soggetto che non ne è che l'immagine speculare. Non per nulla, con una simile idea in testa, Socrate fu condannato a morte dai governanti di Atene con l'accusa di traviare la gioventù.
A chi ritiene che la realtà sia data dall'esperienza dei particolari sensibili da cui l'intelletto astrae concetti generali di portata metafisica ideale (il bello dalle cose belle, il buono dalle cose buone, il due dall'una cosa e un'altra cosa) verrebbe da chiedere ma in che modo si può sentire che quelle cose nella loro diversità sono tutte belle o buone se non è già presente l'idea (o solo il sentimento) di una bellezza e di una bontà, in che modo si può concepire che uno e uno sia due, se già non c'è da qualche parte l'idea di una dualità? I giudizi sintetici a priori non sono forse questo? Come si possono mai negare affermando che tutti i giudizi sintetici non possono altro che essere a posteriori se non a mezzo di un giudizio sintetico che è ancora a priori?
Ma al contrario come potrebbe esistere l'idea del bello, del buono o della dualità se non vi fossero le cose ciascuna diversamente bella e buona, se non vi fosse una cosa e un'altra cosa, comunque sensibilmente diverse nel loro stare insieme nel segno del due?
Forse non è vero che il problema non ha soluzione, la mancanza di soluzione c'è solo nel ritenere che il modo di pensare concettualmente il generale sia causa o effetto del modo di pensare empirico i particolari tangibili, che uno venga prima dell'altro, mentre costantemente si implicano e si contraddicono reciprocamente nell'essere umano per quello che umanamente sogna di essere: simile agli dei spirituali o a quel mondo animale tangibile e materiale che parimenti immagina e, senz'altro poter sapere, sempre ugualmente antropomorfizza, soprattutto quando crede di descrivere le "cose in sé".
Citazione di: maral il 01 Settembre 2016, 20:05:24 PM
non per niente l'empirismo filosofico coerentemente condotto non può che giungere a negare l'assoluto di se stesso, ritrovandosi così al punto di partenza nella questione sulla conoscenza (che cosa davvero si conosce?).
CitazionePer definizione si conoscono con certezza le sensazioni fenomeniche (esteriori-materiali ed interiori-mentali), se esse si avvertono (accadono) e (si avvertono le sensazioni interiori o mentali costituenti il fatto che) si predica che accadono (definizione di conoscenza = predicazione conforme alla realtà, ovvero predicazione che accade realmente qualcosa accadendo realmente tale qualcosa, o che non accade realmente qualcosa non accadendo realmente tale qualcosa).
Qualunque altra possibile conoscenza, circa un' eventuale ulteriore realtà in sé (ulteriore rispetto alla realtà fenomenica delle sensazioni; compresi un eventuale soggetto ed eventuali oggetti delle sensazioni fenomeniche stesse, reali anche allorché queste non accadono), circa eventuali altre esperienze fenomeniche coscienti (oltre la "propria" immediatamente avvertita), circa l' eventuale divenire (intersoggettivo, nell' ambito delle diverse -se esistenti- esperienze fenomeniche coscienti e) ordinato secondo modalità universali e costanti della realtà fenomenica materiale (e dunque circa la conoscenza scientifica), ecc., ecc. non è certa ma dubitabile (o credibile arbitrariamente, indimostrabilmente né per constatazione empirica, letteralmente "per fede").
La cosa in sé è inaccessibile non solo all'intelletto umano, ma pure alla sensazione che la trasforma in un'immagine (visiva, uditiva, tattile...), la cosa in sé è solo la relazione (sempre diversa e contingente) con chi la osserva e che talvolta più o meno si ripete, quindi non è mai in sé, né si può dire (pensare, sentire) cosa di per se stessa sia e delle cose che non si può dire è saggio tacere.
CitazioneLa cosa in sé o noumeno (se c' è) per definizione non è accessibile alla sensazione, che per definizione è (e non può essere che) apparenza, fenomeno.
E' invece accessibile all' intelletto, che la, può pensare, ne può parlare (come di fatto qui si sta facendo), che essa esista realmente o meno)
A chi ritiene che la realtà sia data dall'esperienza dei particolari sensibili da cui l'intelletto astrae concetti generali di portata metafisica ideale (il bello dalle cose belle, il buono dalle cose buone, il due dall'una cosa e un'altra cosa) verrebbe da chiedere ma in che modo si può sentire che quelle cose nella loro diversità sono tutte belle o buone se non è già presente l'idea (o solo il sentimento) di una bellezza e di una bontà, in che modo si può concepire che uno e uno sia due, se già non c'è da qualche parte l'idea di una dualità? I giudizi sintetici a priori non sono forse questo? Come si possono mai negare affermando che tutti i giudizi sintetici non possono altro che essere a posteriori se non a mezzo di un giudizio sintetico che è ancora a priori?
CitazioneInnanzitutto faccio una domanda a mia volta: in che modo ci sarebbe già presente nella mente l' idea di una bellezza e di una bontà, prima di esperire cose belle e buone? C' é da qualche parte qualcuno (sano di mente) che ricorda di aver da sempre saputo cosa sia la bellezza anche prima di vedere qualcosa di concreto che gli ha fatto l' impressione della bellezza (che gli é parso bello)?
Secondariamente rispondo: senza con tutta evidenza avere una preesistente conoscenza dell' idea di bellezza (che nessuno ha prima di vedere cose belle) uno vede per esempio Liz Taylor (com' era cinquanta - sessant' anni fa) e avverte, un certo sentimento; poi vede la cupola di Santa Maria del Fiore del Brunelleschi e prova un certo altro sentimento che ha, un aspetto comune a quello di cui sopra (e altri aspetti diversi); poi sente il canone in re maggiore di Pachelbel, e prova un certo altro sentimento ancora che ha un aspetto comune a quelli di cui sopra (e altri aspetti diversi); poi vede il Cervino o il golfo di Napoli o il paesaggio intorno a Rio de Janeiro, e prova un certo altro sentimento ancora che ha un aspetto comune a quelli di cui sopra (e altri aspetti diversi), e così via...
Dopo un bel po' di tutte queste esperienze stabilisce di chiamare "esperienza della bellezza" quel certo carattere comune a tutti i sentimenti di cui sopra, e che potrebbe riproporsi indefinitamente di fronte ad altre donne, ad altre opere d' arte, ad altre musiche, ad altri paesaggi, ecc. (e non di fronte alla visione della giornalista Lucia Annunziata, a un opera di Renzo Piano, a un rap, a una discarica di rifiuti, ecc.).
Solo dopo che ha fatto un bel po' di esperienze simili a quelle sopra citate ("a posteriori", e non affatto prima di farle) sa cosa è "la bellezza", solo allora (e non affatto in maniera "innata") ha la conoscenza dell' idea di bellezza.
Citazione di: maral il 01 Settembre 2016, 20:05:24 PMA chi ritiene che la realtà sia data dall'esperienza dei particolari sensibili da cui l'intelletto astrae concetti generali di portata metafisica ideale (il bello dalle cose belle, il buono dalle cose buone, il due dall'una cosa e un'altra cosa) verrebbe da chiedere ma in che modo si può sentire che quelle cose nella loro diversità sono tutte belle o buone se non è già presente l'idea (o solo il sentimento) di una bellezza e di una bontà, in che modo si può concepire che uno e uno sia due, se già non c'è da qualche parte l'idea di una dualità? I giudizi sintetici a priori non sono forse questo? Come si possono mai negare affermando che tutti i giudizi sintetici non possono altro che essere a posteriori se non a mezzo di un giudizio sintetico che è ancora a priori?
Quando parlavo del ruolo dell'astrazione ho evitato volutamente l'insiodioso termine "realtà", così come l'altrettanto periglioso termine "idea": parole troppo ricche di tradizione e di metafisica, per non creare dispersione concettuale nel discorso.Dal mio punto di vista, il ruolo del linguaggio e della sua acquisizione viene spesso sottovalutato: se è vero che è il linguaggio a strutturare l'orizzonte di senso in cui ciascuno vive, le idee-ops!-astrazioni concettuali vengono prima apprese dalla cultura in cui si cresce (o costruite per "induzione linguistica" come suggerisce Sgiombo con l'esempio della bellezza), poi, esperendo e riflettendo, possono essere personalizzate... se riconosco e definisco qualcosa come "bello" o "duplice" o "astratto" è perché mi è stato precedentemente insegnato e spiegato cosa significa "bello" e "duplice" e "astratto", e come individuare queste caratteristiche nell'esperienza (oppure, in alternativa, creerò dei neologismi...).
L'astrazione per eccellenza è quella del linguaggio, e proprio il linguaggio (con la sua logica) è l'unico paradigma imprescindibile per il ragionamento (idealista o materialista che sia), ma già nel riconoscerne il funzionamento si ha qualche indizio per risolvere le sue apparenti aporie: se non mi fosse stato insegnato che esiste "il bello", o meglio, che si può parlare di un'esperienza/percezione come "bella", non mi si potrebbe porre la dialettica viziosa fra percezione-del-bello/criterio-della-bellezza.
Quindi, per me, tutto parte dal linguaggio, dall'acquisizione "eteronoma" delle sue parole-definizioni-concetti, per poi proseguire il laborioso tentativo di "calibrazione" del proprio vocabolario basandosi sull'esperienza.
P.s. In questa constatazione dell'egemonia della linguisticità, non scorgo traccia nè della metafisica, nè di paradossi...
L 'animale può relazionare fra lor oggetti naturali, ma non può astrarli, costruire un sistema relazionare in cui un oggetto naturale corrisponde ad un segno linguistico.. Nell'uomo la capacità è innata ,ma non sa inizialmente gestirla un bambino.Sicuramente riesce ad astrarre e astrarsi ma sbaglia ad esempio le collocazioni spazio/temporali, i sistemi di relazioni tipici della forma e delle relazioni. Non è più un animale, non è ancora razionale è più psichico.
Il passaggio, la corrrispondenza fra oggetto naturale e forma astratta implica il segno linguistico che intendo dal matematico al logico al predicativo e proposizionale . Noi impariamo alfabeto e numeri nella corrispndente applicazione fra forma e oggetto sostanziale del sensibile.
Ma l'uomo fa molto di più. Riesce ad isolare la forma astratta a costruire quindi oggetti formali e un vero e proprio sistema a sè con segni operazionali logico/matematici, con postulati paradigmatici che sostengono il sistema formale.
Il problema è doppio: quanto il sistema formale segnico corrisponde a quello naturale, e quanto il sistema formale in sè riesce a reggersi da solo estraniato dalla natura.
Dei sistemi formali autoreferenziali e le problematiche apportate da Godel, si sanno.
Del problema proposizionale del linguaggio e della sua ambiguità rispetto alle descrizioni e definizioni degli oggetti naturali se ne discute da più di secolo nella filosofia analitica.
L'utopia di riuscire a costruire un sistema formale esatto, certo, vero è esploso a cavallo fra fine Ottocento e inizi Novecento grazie alla fisica soprattutto. Il risultato è l'implosione della verità nei sistemi formali,esattamente l'opposto di quello che si voleva ottenere.Aporie, antinomie paradossi logici sono solo la punta dell'iceberg dell'ambiguità nel rapporto relazionale fra forma e sostanza e fra forme stesse.
Rispondo a Sgiombo
La potenzialità o predisposizione è ciò che non è ancora o non è più attuale, mentre le cause che producono un effetto come l'astrazione devono essere tutte attuali, cioè reali. Attuale deve essere la percezione sensibile che apprende il contenuto dell'oggetto individuale, attuale deve essere l'avvertimento della nozione di universalità per la quale ciò che si astrae dal particolare vale per tutti gli individui possibili. Cosa farebbe passare la potenzialità della nostra mente soggettiva all'attualità per la quale concretamente interviene nel processo di astrazione? Io posso essere fisicamente predisposto per svolgere con buon profitto una certa attività sportiva ma questo ancora non è sufficiente a determinare il fatto che io svolga realmente bene quello sport (magari per pigrizia mi alleno poco oppure per disinteresse non inizio nemmeno a praticarlo). Così l'apprensione dell'idea di universale necessaria almeno formalmente per ogni concetto per essere attuale nell'astrazione deve essere un'intuzione attuale e non solo una "predisposizione". Se un evento (l'astrazione) per realizzarsi ha bisogno del concorso del reale accadere causale di due fattori (la percezione sensibile del contenuto e l'intuizione dell'universalità che permette al concetto di comprendere tutti gli individui a prescindere dalla contingenza spaziotemporale nella quale posso farne esperienza), e uno dei due interviene attualmente e l'altro resta allo stato potenziale (di fatto un non-essere più o un non-essere ancora), l'evento non si realizza, fermo restando che, ovviamente la predispozione è fondamentale e necessaria.
è vero che il concetto di "universalità" porta in sè come implicita una relazione (oppositiva) con il concetto di "particolarità", ma questo non ha nulla a che fare con il problema della genesi della presenza dell'idea di universalità nella nostra mente. Un conto è una relazione sul piano logico-concettuale un altro una relazione di tipo reale-psicologico. Il fatto che concettualmente l'idea di universalità comprenda il fatto di essere opposta al concetto di particolarità non vuol dire che quest'ultimo sia la causa del formarsi reale del primo nella nostra mente. Altrimenti, sarebbe come dire che essendo il concetto di "madre" in necessaria relazione logica con quello di "figlio" ci sarebbe una dipendenza genetica reale della donna madre con il figlio (e viceversa), mentre dal punto di vista della causalità esistenziale la dipendenza è unilaterale. La madre è causa dell'esistenza del figlio e non viceversa a prescindere dal fatto che prima di generare il figlio non poteva definirsi madre. Occorre evitare la confusione tipica di un certo empirismo tra "sostanza" e "relazione". Il problema della genesi psicologica della realtà sostanziale dell'idea di universalità ( so che è un pò imbarazzante parlare di "realtà a proposito di un'idea, ma spero di riuscire a far capire che parlando di "realtà" considero la realtà psicologica della presenza dell'idea alla mente) dalle relazioni conseguenti alla sua natura. Tra l'altro se vale l'idea per cui la relazione determina una dipendenza il passaggio potrebbe essere tranquillamente percorso in senso inverso e determinare non la dipendenza dell'universale dal particolare, ma del particolare dall'universale e questo confermerebbe il carattere di anteriorità del concetto di quest'ultima
CitazioneInnanzitutto faccio una domanda a mia volta: in che modo ci sarebbe già presente nella mente l' idea di una bellezza e di una bontà, prima di esperire cose belle e buone? C' é da qualche parte qualcuno (sano di mente) che ricorda di aver da sempre saputo cosa sia la bellezza anche prima di vedere qualcosa di concreto che gli ha fatto l' impressione della bellezza (che gli é parso bello)?.......
...Solo dopo che ha fatto un bel po' di esperienze simili a quelle sopra citate ("a posteriori", e non affatto prima di farle) sa cosa è "la bellezza", solo allora (e non affatto in maniera "innata") ha la conoscenza dell' idea di bellezza.
secondo me un esempio che dimostrerebbe che il buono e il bello e' "preesistente" e percio gia innato in noi,lo si può riscontrare guardando il comportamento di tutti i neonati,sopratutto nei confronti della madre che lo ha generato...si può notare da come il piccolo si sente calmo e rassicurato rimanendoci a contatto,oppure nei momenti in cui la madre lo guarda e come questo provochi la reazione immediata di un suo sorriso.quindi penso che il bambino " sa' " già istintivamente cosa sia il buono e il bello e a mio avviso fa anche riflettere sul fatto che entrambi non possono essere disgiunti.
Citazione di: Phil il 01 Settembre 2016, 16:22:51 PM
Citazione di: davintro il 01 Settembre 2016, 02:17:23 AMIn qualunque concetto, in quanto tale, si annida l'idea di universalità, perchè ogni concetto vale per tutti gli individui possibili in ogni tempo e luogo della specie indicata nel concetto.
In ogni concetto si annida l'idea di "universalità" o di "astrazione"? Pongo questa domanda per intenderci meglio sulle parole chiave della questione... personalmente, direi che ogni concetto è astratto, ma non che ogni concetto è universale: ad esempio, il mio concetto di "giustizia" non solo è personale (limitato nello "spazio"), ma potrebbe essere stravolto domani (limitato nel "tempo"); quindi, quando lo penso, non lo penso "universale", ma solo utilmente "astratto", ovvero fruibile per valutare un'ipotetica universalità dei casi, ma senza essere esso stesso universale (non è dunque il concetto in quanto tale ad essere sempre e necessariamente universale, ma le sue possibili applicazioni; non so se è questa l'ambiguità che porta al nostro disaccordo...). Che significa "universalità dei casi"? In tutti i casi possibili. Come faccio ad estendere l'applicazione di un concetto (non il concetto stesso) a tutti i casi possibili? Tramite l'astrazione (negativa) che lega il singolare/parziale al plurale/totale.
Citazione di: davintro il 01 Settembre 2016, 02:17:23 AMQuindi non è possibile che il concetto di "universalità" sia la derivazione secondaria della negazione del concetto di finitezza o particolarità. Perchè già nel formare il concetto di "finitezza" o "particolarità" è già implicito il riferirsi della nostra mente all'universalità, la "finitezza" vale per TUTTI i finiti, la "particolarità" vale per TUTTI gli oggetti particolari.
Questi "tutti" vengono semplicemente astratti dai rispettivi "uno"... e, come accennavo prima, non è la "finitezza" o la "particolarità" ad essere "universale", ma, asintoticamente, le loro possibili applicazioni...
Citazione di: davintro il 01 Settembre 2016, 02:17:23 AML'apprensione dell'idea di "universalità" o "totalità" è una struttura trascendentale e innata della nostra mente, non può essere la derivazione di alcun concetto, perchè ogni concettualizzazione la presuppone.
Se "totalità" e "universalità" sono una "struttura trascendentale innata" (ammesso e non concesso ;) ), non dovrebbero logicamente appartenere alla stessa "struttura" anche "parzialità" e "singolarità"? Questa struttura innata non verrebbe comunque attivata dall'esperienza del singolare/parziale? La capacità d'astrazione non si sviluppa, nei primi anni (non sono pratico di infanzia!) proprio a partire dal vissuto del particolare? Questo sviluppo (se c'è...) conferma l'innatismo del concetto di universalità oppure conferma che l'universalità è frutto di un'astrazione (negativa)? Per ora, concorderei con Sgiombo nel concludere che la condizione di possibilità della concettualizzazione è l'astrazione, non il concetto di universalità (a sua volta derivato da un'astrazione, secondo me...):
Citazione di: sgiombo il 01 Settembre 2016, 13:39:42 PMCiò che ogni concettualizzazione presuppone non é la conoscenza innata [...] del concetto di "universale" (che si acquisiscono a posteriori, con l' esperienza; oppure ci vengono insegnati), bensì la mera capacità (potenzialità) innata di astrarre e definire concetti.
P.s. Si possono astrarre concetti non universali? Se per concetto intendiamo "astrazione formale", direi di si: ognuno di noi ha i suoi individuali concetti riguardanti l'arte, la politica, la vita, etc. che non sono universalmente validi o accettati...
è certamente vero che la mia idea di giustizia può cambiare col tempo ma questo non smentisce il carattere universalistico del concetto. L'uomo è un essere imperfetto, mutevole, condizionato da ciò che è altro da sè, quindi cambiano le sue idee, il contenuto dei suoi concetti, delle sue definizioni... ma come scritto più volte l' "annidarsi" dell'universale nei concetti non riguarda il contenuto dei concetti (a meno che non si parli del concetto stesso di "universalità" ed in fondo avevo aperto la discussione proprio riguardo questo tema, come potrebbe una critica della conoscenza,tesa a stabilire i principi universali della conoscienza scientifica, giustificare la riduzione dell'esperienza all'esperienza sensibile), che può essere sensibile nel caso di concetti di oggetti materiali come case o cavalli, o intelligibili come "libertà" o "giustizia". Rigurda il modo d'essere formale dei concetti. Sia che si parli di concetti contenutisticamente sensibili o intelligibili, ogni concetto viene intenzionato come valido a prescindere dalla contingenza spaziotemporale dei singoli oggetti a cui il concetto si riferisce, dunque ogni concetto, preso in questo senso, è universale. E questa valenza universalistica permette ai concetti di essere elementi dei nostri giudizi, potendo essere utilizzati come criteri regolativi trascendentali. Quando formulo il giudizio "di fronte a me c'è un albero" il concetto albero vale per tutti gli alberi possibili immaginabili, anche per tutti quelli che non ho ancora osservato, da cui non ho potuto effettuare alcuna astrazione, altrimenti non potrei applicarlo a quel singolo albero che mi sta di fronte. L'universalità formale del concetto "albero" permette di dare al giudizio un'intenzionalità oggettiva, un tendere verso il riferirimento ad uno stato di cose oggettive, che non ha nulla a che fare con il fatto che potrei sbagliarmi, qui ciò che conta è l'intenzione. Se il concetto "albero" non fosse universale non potrei porlo come criterio regolativo per un giudizio che intende essere oggettivo, perchè altrimenti il criterio potrebbe essere smentito da altri criteri she sfuggono al recinto semantico del concetto "albero", che in quanto non più universale, sarebbe limitato da tale recinto e non ponibile più come criterio assoluto (ripeto, assoluto come intenzionalità, nel momento in cui lo utilizzo, non "assoluto" nel senso che IN UN MOMENTO SUCCESSIVO non potrei modificarlo), andrebbe persa, non la reale oggettività del sapere scientifico, ma qualunque carattere tetico dei nostri giudizi, qualunque spinta intenzionale che li porti a rivolgersi alla rappresentazione dell'oggettività del reale, perchè ogni concetto non potrebbe essere considerato di volta in volta come universalmente valido a livello formale
in generale lo "sviluppo" non è mai una creazione dal nulla, ma il potenziamento, l'approfondimento di qualcosa che già c'è, un certo nucleo preesistente. Dunque affermare che l'astrazione sarebbe il risultato di uno sviluppo non esclude di per sè che tale sviluppo non sia un processo che interessa degli elementi originariamente o innatamente presenti nella nostra mente. Inoltre in base a ciò che ho scritto non avrei alcun bisogno di negare che l'astrazione si realizzi non innatamente ma a partire dall'esperienza percettiva a-posteriori di oggetti particolari! Ciò che sostengo come innata (ma forse preferirei parlare di "originarietà" o "trascendentalità") non è l'astrazione nel complesso della sua struttura ma l'apprensione della nozione di "universalità", che sostengo sia elemento necessario ma non sufficiente dell'astrazione. Questa ha bisogno di una molteplicità di percezioni sensibili e di un riferimento universalistico che dia ai concetti che forma una valenza che li permetta di applicarli a oggetti in qualunque condizione empirica. Sintesi di forma e contenuto e se il contenuto non è innato non ha senso affermare l'innatezza del processo in generale!
L'universalità formale dei concetti non ha nulla che fare con il loro eventualmente essere "universalmente validi e accettati". L'universalità, come del resto l'oggettività del vero, non c'entra con il consenso intersoggettivo. Perchè i miei concetti delle cose siano posti come universali non ho alcun bisogno che siano condivisi nel loro contenuto da altri. Possiamo riempire di un contenuto diverso ciò che intendiamo come "giustizia" e libertà", ma ciascuno di noi come singolo porrà formalmente il suo concetto personale di "giustizia" o "libertà" come valido per ogni determinazione particolare di azioni giusti o soggetti liberi. Se così non fosse non esisterebbe alcuna lotta o conflitto nella storia tra persone e popoli che sostengono differenti interpretazioni delle stesse categorie. I conflitti e le incomprensioni accadono per la mancanza dell'universalità del contenuto delle categorie (contenuto condizionato, anche si tratta di concetti intelligibili, dal carattere di finitezza empirico dell'uomo), ma al tempo stesso accadono perchè ciascuno pone come universale il significato delle sue categorie, cioè il modo d'essere formale con cui strutturiamo i concetti. Infatti l'universalià formale che considero è l'universalità intesa come intenzione soggettiva di chi utilizza il concetto. I concetti delle cose particolari non sono universali, ma sono posti come tali dai soggetti, e questo "porsi" è il fondamentale atto che il pone in essere. Quindi in un certo senso proprio il conflitto interpretativo tra i significati che differenti uomini e comunità danno degli stessi concetti presuppone da parte di ciascuno l'intenzione universalistica con cui tali concetti vengono formati.
L'universalità , totalità e unicità è il concetto deduttivo a cui tendono tutte le filosofie(compreso teologie) e le scienze contemporanee del metodo sperimentale. La particolarità, multiformità è tipico nel mond odell'esperienza e del vissuto nella percezione sensoriale.
Non saprei dire se esiste un innatismo per cui l'uomo tende a pensare alla sintesi, ma sicuramente nel momento in cui lo sviluppo e l'esperienza del pensiero sono in grado di razionalizzare ,tutte le teorie ,ribadisco tutte, tendono all'origine.
la matematica inizia dal 1 e non dal 100, la cosmologia inizio dall'unicità energetica e materiale da cui poi temporalmente emergono forze e corpi astrofisici, i teoremi poggiano su postulati semplici.
Tutta la struttura del pensiero tende ad avere il "mattoncino lego", ovvero il modulo base che a sua volta modella la rappresentazione, lo faceva la scienza antica lo fa la scienza contemporanea.
Tutte le grandi teorie scientifiche dall'evoluzione biologica e fisica iniziano da un "atomos" che dal semplice va verso il cpmplesso,
la cellula che evolve, il primo animale che si differenzia. Quindi tutto il movimento della conoscenza se esperisce nella multiformità e complessità dal movimento induttivo dell'analisi si passa alla sintesi e categorizzazione gerarchica con le tassonomie. lo schema è quello dell'albero che dal punto originario tende a ramificarsi sempre più alla base.
Per arrivare a questo la conoscenza passa dal movimento induttivo delle analisi alle sintesi dedudttive, è come se la percezione/ragione esperisce nel mondo e il ritorno alla ragione che riflette se stessa cerca i minimi comuni multipli i massimi comun divisori nei segni, simboli significati. Quindi l'uomo tende a costruire un ORDINE nelle sintesi tassonomiche delle categorie
Citazione di: davintro il 02 Settembre 2016, 01:18:25 AM
Rispondo a Sgiombo
La potenzialità o predisposizione è ciò che non è ancora o non è più attuale, mentre le cause che producono un effetto come l'astrazione devono essere tutte attuali, cioè reali. Attuale deve essere la percezione sensibile che apprende il contenuto dell'oggetto individuale, attuale deve essere l'avvertimento della nozione di universalità per la quale ciò che si astrae dal particolare vale per tutti gli individui possibili. Cosa farebbe passare la potenzialità della nostra mente soggettiva all'attualità per la quale concretamente interviene nel processo di astrazione?
CitazioneLe ripetute esperienze di enti o eventi particolari concreti accomunate dalle caratteristiche che per l' appunto il pensiero distingue dalle altre individuali o comunque relativamente meno universali e astrae.
Senza che esista prima dell' astrazione stessa nessuna avvertibile nozione di universalità, che si acquisisce a posteriori, per l' appunto in seguito all' astrazione.
Io posso essere fisicamente predisposto per svolgere con buon profitto una certa attività sportiva ma questo ancora non è sufficiente a determinare il fatto che io svolga realmente bene quello sport (magari per pigrizia mi alleno poco oppure per disinteresse non inizio nemmeno a praticarlo). Così l'apprensione dell'idea di universale necessaria almeno formalmente per ogni concetto per essere attuale nell'astrazione deve essere un'intuzione attuale e non solo una "predisposizione".
CitazioneEsattamente come mettendomi a correre e allenandomi (in seguito a concrete esperienze che mi inducono a farlo) traduco in atto quelle che altrimenti rimarrebbero solo le mie mere potenzialità atletiche (mera potenzialità di correre velocemente, e non capacità attualmente reale, già innata in quanto tale, di correre velocemente), così pensando, stabilendo, definendo un concetto universale astratto (in seguito a concrete esperienze di casi particolari che lo esemplificano le quali mi inducono a farlo) traduco in atto quelle che altrimenti rimarrebbero solo le mie mere potenzialità gnoseologiche, teoriche (mera capacità di conoscere idee universali e non conoscenza attualmente reale, già innata in quanto tale, di idee universali).
Se un evento (l'astrazione) per realizzarsi ha bisogno del concorso del reale accadere causale di due fattori (la percezione sensibile del contenuto e l'intuizione dell'universalità che permette al concetto di comprendere tutti gli individui a prescindere dalla contingenza spaziotemporale nella quale posso farne esperienza), e uno dei due interviene attualmente e l'altro resta allo stato potenziale (di fatto un non-essere più o un non-essere ancora), l'evento non si realizza, fermo restando che, ovviamente la predispozione è fondamentale e necessaria.
Citazione
L' astrazione per realizzarsi ha bisogno del concorso del reale accadere causale delle percezioni sensibili (tante) del suo "contenuto" e della capacità (in assenza di tali percezioni sensibili meramente potenziale) di astrarre e di definire il concetto astratto: non c' è alcuna "intuizione" (sensazione? Conoscenza?) "dell'universalità" prima di questo processo mentale!
è vero che il concetto di "universalità" porta in sè come implicita una relazione (oppositiva) con il concetto di "particolarità", ma questo non ha nulla a che fare con il problema della genesi della presenza dell'idea di universalità nella nostra mente. Un conto è una relazione sul piano logico-concettuale un altro una relazione di tipo reale-psicologico. Il fatto che concettualmente l'idea di universalità comprenda il fatto di essere opposta al concetto di particolarità non vuol dire che quest'ultimo sia la causa del formarsi reale del primo nella nostra mente. Altrimenti, sarebbe come dire che essendo il concetto di "madre" in necessaria relazione logica con quello di "figlio" ci sarebbe una dipendenza genetica reale della donna madre con il figlio (e viceversa), mentre dal punto di vista della causalità esistenziale la dipendenza è unilaterale. La madre è causa dell'esistenza del figlio e non viceversa a prescindere dal fatto che prima di generare il figlio non poteva definirsi madre.
CitazioneNon ho mai sostenuto quanto qui giustamente neghi.
Occorre evitare la confusione tipica di un certo empirismo tra "sostanza" e "relazione". Il problema della genesi psicologica della realtà sostanziale dell'idea di universalità ( so che è un pò imbarazzante parlare di "realtà a proposito di un'idea, ma spero di riuscire a far capire che parlando di "realtà" considero la realtà psicologica della presenza dell'idea alla mente) dalle relazioni conseguenti alla sua natura. Tra l'altro se vale l'idea per cui la relazione determina una dipendenza il passaggio potrebbe essere tranquillamente percorso in senso inverso e determinare non la dipendenza dell'universale dal particolare, ma del particolare dall'universale e questo confermerebbe il carattere di anteriorità del concetto di quest'ultima
CitazioneIn che senso "occorre evitare la confusione tipica di un certo empirismo tra 'sostanza" e "relazione' "?
Il periodo che segue queste parole mi é incomprensibile (non trovo un verbo della proposizione principale).
Comunque non ho mai sostenuto che esistano fra i significati dei concetti (in particolare fra i significati dei concetti particolari e di quelli universali; mi scuso per il gioco di parole) soltanto, unicamente, "universalmente" relazioni di dipendenza causale.
Casomai esistono necessariamente relazioni di interdipendenza (reciprocità, complementarità) logica e semantica.
Relazioni causali esistono necessariamente solo nel processo (reale) di "confezionamento" di concetti universali da concetti particolari (singolari o comunque relativamente meno universali).
Citazione di: acquario69 il 02 Settembre 2016, 02:35:09 AM
CitazioneInnanzitutto faccio una domanda a mia volta: in che modo ci sarebbe già presente nella mente l' idea di una bellezza e di una bontà, prima di esperire cose belle e buone? C' é da qualche parte qualcuno (sano di mente) che ricorda di aver da sempre saputo cosa sia la bellezza anche prima di vedere qualcosa di concreto che gli ha fatto l' impressione della bellezza (che gli é parso bello)?.......
...Solo dopo che ha fatto un bel po' di esperienze simili a quelle sopra citate ("a posteriori", e non affatto prima di farle) sa cosa è "la bellezza", solo allora (e non affatto in maniera "innata") ha la conoscenza dell' idea di bellezza.
secondo me un esempio che dimostrerebbe che il buono e il bello e' "preesistente" e percio gia innato in noi,lo si può riscontrare guardando il comportamento di tutti i neonati,sopratutto nei confronti della madre che lo ha generato...si può notare da come il piccolo si sente calmo e rassicurato rimanendoci a contatto,oppure nei momenti in cui la madre lo guarda e come questo provochi la reazione immediata di un suo sorriso.
quindi penso che il bambino " sa' " già istintivamente cosa sia il buono e il bello e a mio avviso fa anche riflettere sul fatto che entrambi non possono essere disgiunti.
CitazioneQuesto presunto "sapere" tra virgolette (metaforico!) è solo un comportarsi (fra l' altro a posteriori: dopo che vede la madre il neonato si sente calmo e rassicurato, dopo che si è accorto che la madre lo guarda sorride, l' attuazione di una mera tendenza comportamentale congenita, indotta da percezioni empiriche, e per niente "conoscenza a priori reale", effettiva (la metafora non va mai presa alla lettera e confusa con una pretesa realtà letterale di ciò che esprime).
Citazione di: paul11 il 02 Settembre 2016, 09:17:27 AM
L'universalità , totalità e unicità è il concetto deduttivo a cui tendono tutte le filosofie(compreso teologie) e le scienze contemporanee del metodo sperimentale. La particolarità, multiformità è tipico nel mond odell'esperienza e del vissuto nella percezione sensoriale.
Non saprei dire se esiste un innatismo per cui l'uomo tende a pensare alla sintesi, ma sicuramente nel momento in cui lo sviluppo e l'esperienza del pensiero sono in grado di razionalizzare ,tutte le teorie ,ribadisco tutte, tendono all'origine.
la matematica inizia dal 1 e non dal 100, la cosmologia inizio dall'unicità energetica e materiale da cui poi temporalmente emergono forze e corpi astrofisici, i teoremi poggiano su postulati semplici.
Tutta la struttura del pensiero tende ad avere il "mattoncino lego", ovvero il modulo base che a sua volta modella la rappresentazione, lo faceva la scienza antica lo fa la scienza contemporanea.
Tutte le grandi teorie scientifiche dall'evoluzione biologica e fisica iniziano da un "atomos" che dal semplice va verso il cpmplesso,
la cellula che evolve, il primo animale che si differenzia. Quindi tutto il movimento della conoscenza se esperisce nella multiformità e complessità dal movimento induttivo dell'analisi si passa alla sintesi e categorizzazione gerarchica con le tassonomie. lo schema è quello dell'albero che dal punto originario tende a ramificarsi sempre più alla base.
Per arrivare a questo la conoscenza passa dal movimento induttivo delle analisi alle sintesi dedudttive, è come se la percezione/ragione esperisce nel mondo e il ritorno alla ragione che riflette se stessa cerca i minimi comuni multipli i massimi comun divisori nei segni, simboli significati. Quindi l'uomo tende a costruire un ORDINE nelle sintesi tassonomiche delle categorie
infatti tutto ha un fondamento,tutto parte inesorabilmente da un principio. (si e' mai costruita una casa a cominciare dal tetto? non credo!)ma come mi piacciono le metafore!! :) il principio e' uno ed e' l'Essere stesso che si dispiega nella molteplicitaesattamente come dal numero uno seguono tutti gli altri numeri a seguireed inoltre questi li contiene tutti appunto in principio.infatti;1+1 = 21+1(2)+1 = 31+1+1(3)+1 = 4...e ci sarebbe anche da dire sullo 0 (zero) !Citazionesgiombo
Questo presunto "sapere" tra virgolette (metaforico!) è solo un comportarsi (fra l' altro a posteriori: dopo che vede la madre il neonato si sente calmo e rassicurato, dopo che si è accorto che la madre lo guarda sorride, l' attuazione di una mera tendenza comportamentale congenita, indotta da percezioni empiriche, e per niente "conoscenza a priori reale", effettiva (la metafora non va mai presa alla lettera e confusa con una pretesa realtà letterale di ciò che esprime).
ok la pensiamo in maniera molto diversa.
... e adesso il terzo post.
Perchè la scienza sperimentale utilizza gli strumenti formali logici, compie il momento conoscitivo induttivo nela multiformità, lo riduce nelle sintesi deduttive ai principi fisici, matematici.......e si ferma, si blocca?
Il filosofo va oltre, utilizza gli stessi strumenti logico formali e applica il momento conoscitivo razionale oltre il mondo empirico.
Ora perchè la cultura in generale da secoli teme il momento razionale della conoscenza deduttiva (la riflessione del pensiero che si pensa), se lei sessa lo applica accompagnando il fenomeno ed evento ? E' solo un problema di metodo sperimentale: non è vero.
Il problema è ideologico non è razionale, è una presa di posizione razionalmente contraddittoria, perchè il pensiero che si pensa ordina il sistema globale e si ripresenterebbe al mondo come cultura quindi di nuovo il deduttivo interagirebbe nell'induttivo, il metafisico presenta il suo ordine e lo applica all'empirico come visione culturale.
Questo è quello che teme l'attuale cultura.
Quindi non è tanto il problema della conoscenza, allorchè la sintesi diventa ordine e principi questi ritornano nel momento culturale che a sua volta condiziona i mondo sociale.
Il matematico che formalmente applica l asua scienza alle teorie dell'universo costruendo 12 dimensioni nel multiverso....... non gliene importa niente a nessuno, perchè il suo modello rappresentativo non "rompe" il modello culturale dilagante: è neutro.
Citazione di: acquario69 il 02 Settembre 2016, 10:14:35 AM
Citazionesgiombo
Questo presunto "sapere" tra virgolette (metaforico!) è solo un comportarsi (fra l' altro a posteriori: dopo che vede la madre il neonato si sente calmo e rassicurato, dopo che si è accorto che la madre lo guarda sorride, l' attuazione di una mera tendenza comportamentale congenita, indotta da percezioni empiriche, e per niente "conoscenza a priori reale", effettiva (la metafora non va mai presa alla lettera e confusa con una pretesa realtà letterale di ciò che esprime).
ok la pensiamo in maniera molto diversa.
CitazioneDirei come al solito ...ma va bene così: il mondo é bello perché é vario!
Ti saluto con simpatia.
Citazione di: davintro il 02 Settembre 2016, 02:53:27 AM
L'universalità formale del concetto "albero" permette di dare al giudizio un'intenzionalità oggettiva, un tendere verso il riferirimento ad uno stato di cose oggettive, che non ha nulla a che fare con il fatto che potrei sbagliarmi, qui ciò che conta è l'intenzione. Se il concetto "albero" non fosse universale non potrei porlo come criterio regolativo per un giudizio che intende essere oggettivo, perchè altrimenti il criterio potrebbe essere smentito da altri criteri she sfuggono al recinto semantico del concetto "albero", che in quanto non più universale, sarebbe limitato da tale recinto e non ponibile più come criterio assoluto (ripeto, assoluto come intenzionalità, nel momento in cui lo utilizzo, non "assoluto" nel senso che IN UN MOMENTO SUCCESSIVO non potrei modificarlo), andrebbe persa, non la reale oggettività del sapere scientifico, ma qualunque carattere tetico dei nostri giudizi, qualunque spinta intenzionale che li porti a rivolgersi alla rappresentazione dell'oggettività del reale, perchè ogni concetto non potrebbe essere considerato di volta in volta come universalmente valido a livello formale
CitazioneE l'universalità formale del concetto "ippogrifo" come può permettere di dare al giudizio un' intenzionalità oggettiva, un tendere verso il riferirimento ad uno stato di cose oggettive?
Anche il concetto di "Ippogrifo" é formalmente universale (non meno di quello di "albero"), ma dove starebbe la sua ogettività, il riferirimento ad uno stato di cose oggettive cui tenderebbe?
in generale lo "sviluppo" non è mai una creazione dal nulla, ma il potenziamento, l'approfondimento di qualcosa che già c'è, un certo nucleo preesistente. Dunque affermare che l'astrazione sarebbe il risultato di uno sviluppo non esclude di per sè che tale sviluppo non sia un processo che interessa degli elementi originariamente o innatamente presenti nella nostra mente. Inoltre in base a ciò che ho scritto non avrei alcun bisogno di negare che l'astrazione si realizzi non innatamente ma a partire dall'esperienza percettiva a-posteriori di oggetti particolari! Ciò che sostengo come innata (ma forse preferirei parlare di "originarietà" o "trascendentalità") non è l'astrazione nel complesso della sua struttura ma l'apprensione della nozione di "universalità", che sostengo sia elemento necessario ma non sufficiente dell'astrazione. Questa ha bisogno di una molteplicità di percezioni sensibili e di un riferimento universalistico che dia ai concetti che forma una valenza che li permetta di applicarli a oggetti in qualunque condizione empirica. Sintesi di forma e contenuto e se il contenuto non è innato non ha senso affermare l'innatezza del processo in generale!
CitazioneForse cominciamo un po' ad intenderci.
Ma l'apprensione della nozione di "universalità" come elemento necessario ma non sufficiente dell'astrazione in che senso può dirsi "innata"?
La nozione di "universalità" (a meno che, come di fatto solitamente avviene, non ci venga insegnata da altri che a loro volta l' hanno direttamente acquisita a posteriori oppure anch' essi indirettamente essendo stata anche a loro insegnata) si acquisisce a posteriori, in seguito ad esperienze, non la si sa (conosce) appena nati, prima di fare esperienze (allorché se ne ha solo la potenziale capacità di acquisirla).
Citazione di: sgiombo il 02 Settembre 2016, 09:54:58 AM
Citazione di: davintro il 02 Settembre 2016, 01:18:25 AMRispondo a Sgiombo La potenzialità o predisposizione è ciò che non è ancora o non è più attuale, mentre le cause che producono un effetto come l'astrazione devono essere tutte attuali, cioè reali. Attuale deve essere la percezione sensibile che apprende il contenuto dell'oggetto individuale, attuale deve essere l'avvertimento della nozione di universalità per la quale ciò che si astrae dal particolare vale per tutti gli individui possibili. Cosa farebbe passare la potenzialità della nostra mente soggettiva all'attualità per la quale concretamente interviene nel processo di astrazione?
CitazioneLe ripetute esperienze di enti o eventi particolari concreti accomunate dalle caratteristiche che per l' appunto il pensiero distingue dalle altre individuali o comunque relativamente meno universali e astrae. Senza che esista prima dell' astrazione stessa nessuna avvertibile nozione di universalità, che si acquisisce a posteriori, per l' appunto in seguito all' astrazione.
Io posso essere fisicamente predisposto per svolgere con buon profitto una certa attività sportiva ma questo ancora non è sufficiente a determinare il fatto che io svolga realmente bene quello sport (magari per pigrizia mi alleno poco oppure per disinteresse non inizio nemmeno a praticarlo). Così l'apprensione dell'idea di universale necessaria almeno formalmente per ogni concetto per essere attuale nell'astrazione deve essere un'intuzione attuale e non solo una "predisposizione".
CitazioneEsattamente come mettendomi a correre e allenandomi (in seguito a concrete esperienze che mi inducono a farlo) traduco in atto quelle che altrimenti rimarrebbero solo le mie mere potenzialità atletiche (mera potenzialità di correre velocemente, e non capacità attualmente reale, già innata in quanto tale, di correre velocemente), così pensando, stabilendo, definendo un concetto universale astratto (in seguito a concrete esperienze di casi particolari che lo esemplificano le quali mi inducono a farlo) traduco in atto quelle che altrimenti rimarrebbero solo le mie mere potenzialità gnoseologiche, teoriche (mera capacità di conoscere idee universali e non conoscenza attualmente reale, già innata in quanto tale, di idee universali).
Se un evento (l'astrazione) per realizzarsi ha bisogno del concorso del reale accadere causale di due fattori (la percezione sensibile del contenuto e l'intuizione dell'universalità che permette al concetto di comprendere tutti gli individui a prescindere dalla contingenza spaziotemporale nella quale posso farne esperienza), e uno dei due interviene attualmente e l'altro resta allo stato potenziale (di fatto un non-essere più o un non-essere ancora), l'evento non si realizza, fermo restando che, ovviamente la predispozione è fondamentale e necessaria.
CitazioneL' astrazione per realizzarsi ha bisogno del concorso del reale accadere causale delle percezioni sensibili (tante) del suo "contenuto" e della capacità (in assenza di tali percezioni sensibili meramente potenziale) di astrarre e di definire il concetto astratto: non c' è alcuna "intuizione" (sensazione? Conoscenza?) "dell'universalità" prima di questo processo mentale!
è vero che il concetto di "universalità" porta in sè come implicita una relazione (oppositiva) con il concetto di "particolarità", ma questo non ha nulla a che fare con il problema della genesi della presenza dell'idea di universalità nella nostra mente. Un conto è una relazione sul piano logico-concettuale un altro una relazione di tipo reale-psicologico. Il fatto che concettualmente l'idea di universalità comprenda il fatto di essere opposta al concetto di particolarità non vuol dire che quest'ultimo sia la causa del formarsi reale del primo nella nostra mente. Altrimenti, sarebbe come dire che essendo il concetto di "madre" in necessaria relazione logica con quello di "figlio" ci sarebbe una dipendenza genetica reale della donna madre con il figlio (e viceversa), mentre dal punto di vista della causalità esistenziale la dipendenza è unilaterale. La madre è causa dell'esistenza del figlio e non viceversa a prescindere dal fatto che prima di generare il figlio non poteva definirsi madre.
CitazioneNon ho mai sostenuto quanto qui giustamente neghi.
Occorre evitare la confusione tipica di un certo empirismo tra "sostanza" e "relazione". Il problema della genesi psicologica della realtà sostanziale dell'idea di universalità ( so che è un pò imbarazzante parlare di "realtà a proposito di un'idea, ma spero di riuscire a far capire che parlando di "realtà" considero la realtà psicologica della presenza dell'idea alla mente) dalle relazioni conseguenti alla sua natura. Tra l'altro se vale l'idea per cui la relazione determina una dipendenza il passaggio potrebbe essere tranquillamente percorso in senso inverso e determinare non la dipendenza dell'universale dal particolare, ma del particolare dall'universale e questo confermerebbe il carattere di anteriorità del concetto di quest'ultima
CitazioneIn che senso "occorre evitare la confusione tipica di un certo empirismo tra 'sostanza" e "relazione' "? Il periodo che segue queste parole mi é incomprensibile (non trovo un verbo della proposizione principale). Comunque non ho mai sostenuto che esistano fra i significati dei concetti (in particolare fra i significati dei concetti particolari e di quelli universali; mi scuso per il gioco di parole) soltanto, unicamente, "universalmente" relazioni di dipendenza causale. Casomai esistono necessariamente relazioni di interdipendenza (reciprocità, complementarità) logica e semantica. Relazioni causali esistono necessariamente solo nel processo (reale) di "confezionamento" di concetti universali da concetti particolari (singolari o comunque relativamente meno universali).
Chiedo scusa, in effetti ho dimenticato di inserire il verbo dopo la parentesi. Volevo scrivere che "Il problema della genesi psicologica della realtà sostanziale dell'idea di universalità (segue la parentesi) va distinto da quello delle relazioni conseguenti alla sua natura". Volevo dire che la realtà di un ente, compreso un ente ideale non si riduce al fatto di essere in relazione con altri enti, la relazione non è una realtà in sè, ma un modo d'essere di una realtà la cui ragione dell'esistenza non coincide necessariamente con la ragion d'essere delle sue relazioni, e a tal propostivo avevo fatto l'esempio della madre e del bambino. Mi è sembrato che sostenessi che la correlazione dell'idea di universalità e quella di particolarità dovesse portare a dedurre una dipendenza causale-psicologica della prima dalla seconda, mentre a mio avviso qualunque concetto in quanto tale, compreso quello di "particolarità", è posto dalla mente come avente valore universale, cosicchè l'universalità non può essere la conseguenza ma la condizione a-priori di ogni concetto. Per il resto provo a rispondere tra poco in un altro messaggio...
Citazione di: sgiombo il 02 Settembre 2016, 12:48:02 PM
Citazione di: davintro il 02 Settembre 2016, 02:53:27 AML'universalità formale del concetto "albero" permette di dare al giudizio un'intenzionalità oggettiva, un tendere verso il riferirimento ad uno stato di cose oggettive, che non ha nulla a che fare con il fatto che potrei sbagliarmi, qui ciò che conta è l'intenzione. Se il concetto "albero" non fosse universale non potrei porlo come criterio regolativo per un giudizio che intende essere oggettivo, perchè altrimenti il criterio potrebbe essere smentito da altri criteri she sfuggono al recinto semantico del concetto "albero", che in quanto non più universale, sarebbe limitato da tale recinto e non ponibile più come criterio assoluto (ripeto, assoluto come intenzionalità, nel momento in cui lo utilizzo, non "assoluto" nel senso che IN UN MOMENTO SUCCESSIVO non potrei modificarlo), andrebbe persa, non la reale oggettività del sapere scientifico, ma qualunque carattere tetico dei nostri giudizi, qualunque spinta intenzionale che li porti a rivolgersi alla rappresentazione dell'oggettività del reale, perchè ogni concetto non potrebbe essere considerato di volta in volta come universalmente valido a livello formale
CitazioneE l'universalità formale del concetto "ippogrifo" come può permettere di dare al giudizio un' intenzionalità oggettiva, un tendere verso il riferirimento ad uno stato di cose oggettive? Anche il concetto di "Ippogrifo" é formalmente universale (non meno di quello di "albero"), ma dove starebbe la sua ogettività, il riferirimento ad uno stato di cose oggettive cui tenderebbe?
in generale lo "sviluppo" non è mai una creazione dal nulla, ma il potenziamento, l'approfondimento di qualcosa che già c'è, un certo nucleo preesistente. Dunque affermare che l'astrazione sarebbe il risultato di uno sviluppo non esclude di per sè che tale sviluppo non sia un processo che interessa degli elementi originariamente o innatamente presenti nella nostra mente. Inoltre in base a ciò che ho scritto non avrei alcun bisogno di negare che l'astrazione si realizzi non innatamente ma a partire dall'esperienza percettiva a-posteriori di oggetti particolari! Ciò che sostengo come innata (ma forse preferirei parlare di "originarietà" o "trascendentalità") non è l'astrazione nel complesso della sua struttura ma l'apprensione della nozione di "universalità", che sostengo sia elemento necessario ma non sufficiente dell'astrazione. Questa ha bisogno di una molteplicità di percezioni sensibili e di un riferimento universalistico che dia ai concetti che forma una valenza che li permetta di applicarli a oggetti in qualunque condizione empirica. Sintesi di forma e contenuto e se il contenuto non è innato non ha senso affermare l'innatezza del processo in generale!
CitazioneForse cominciamo un po' ad intenderci. Ma l'apprensione della nozione di "universalità" come elemento necessario ma non sufficiente dell'astrazione in che senso può dirsi "innata"? La nozione di "universalità" (a meno che, come di fatto solitamente avviene, non ci venga insegnata da altri che a loro volta l' hanno direttamente acquisita a posteriori oppure anch' essi indirettamente essendo stata anche a loro insegnata) si acquisisce a posteriori, in seguito ad esperienze, non la si sa (conosce) appena nati, prima di fare esperienze (allorché se ne ha solo la potenziale capacità di acquisirla).
I giudizi esistenziali, per cui giudichiamo una tal cosa oggettivamente esistente o no, non sono i soli giudizi possibili. L'esistenza è solo uno dei tanti predicati potenzialmente attribuibili a un soggetto. Quindi l'universalità, sempre nell'accezione formale, del concetto di ippografo non è toccato dal fatto di sapere l'ippografo non esiste nella realtà. Il fatto che non sia un ente realmente oggettivo ma opera della fantasia soggettiva degli uomini non preclude affatto la possibilità di poter dare giudizi oggettivi su di esso, pena confondere il senso logico dell'idea di oggettività (il valore di verità oggettiva di un giudizio) con quello ontologico (l'essere realmente autonomo di qualcosa rispetto ad una mente soggettiva che lo pensa o lo immagina). L'universalità mi permette di porre il concetto di "ippografo" come modello ideale regolativo sulla base del quale poter emettere su un singolo ippogrifo dei giudizi aventi un'intenzionalità oggettiva. Posso dire che "l'immagine che ho di fronte ritrae un'ippogrifo" e posso giudicare oggettivamente vero tale enunciato, a prescindere dal fatto di sapere che l'immagine rppresenta un essere fantastico e non reale. Va confermata l'idea che l'universalità formale dei concetti permette a questi di comporre un giudizio intenzionato verso una realtà oggettiva, mentre la totale relativizzazione dei concetti condurrebbe anche al totale relativismo e scetticismo nelle nostre conoscenze, conoscenze che altro non sono che un complesso organico e oridnato di giudizi. Conoscere e giudicare. Su questo punto in particolare Kant ha perfettamente ragione: perchè si dia conoscenza scientifica occorre che tale conoscenza sia costiuita da giudizi, sì sintetici, ma a-priori.
Dire che la conoscenza è come tutti gli altri concetti un derivato a-posteriori dell'esperienza degli oggetti particolari porterebbe a smentire qualunque collegamento tra apparato concettuale della mente soggettiva e natura degli oggetti esperiti che devono essere adeguati a produrre nella nostra mente concetti che li comprendono. Si creerebbe un fossato così largo tra realtà e mente che dovrebbe portare all'annullamento di qualunque discorso razionale, empirista o innatista che sia. Certamente il concetto di casa è ricavato dall'esperienza di singole case reali, e il concetto di albero dall'esperienza di singoli alberi reali, perchè alberi e case sono realtà adeguate e corripondenti ai concetti di "casa" e "albero". Ma il concetto di "universalità" o "totalità" ? Da dove deriverebbe? A partire da quale esperienza a-posteriori di oggetti potrebbe essere ricavata l'idea di universalità? Perchè il principio di corrispondenza per cui il concetto di "albero" e "casa" sono ricavati da realtà che corrispondono al significato del concetto, cioè alberi e case, non varrebbe più per l'universalità che invece andrebbe ricava dall'esperienza di una realtà che universale non è, perchè contingente, mutevole e delimitata dallo spazio-tempo da cui ricaviamo a-posteriori l'esperienza? Non è piuttosto più coerente pensare che l'apprensione dell'universale sia qualcosa dipendente dall'esperienza di qualcosa di realmente universale, adeguato a produrre quel concetto, un "qualcosa" operante al di là della contingenza spaziotemporale e con cui dunque la nostra mente è da sempre in contatto, a prescindere che raggiunga un livello di autocoscienza tale da rendersi conto di questo essere in contatto?
Citazione di: davintro il 03 Settembre 2016, 16:29:14 PMPerchè il principio di corrispondenza per cui il concetto di "albero" e "casa" sono ricavati da realtà che corrispondono al significato del concetto, cioè alberi e case, non varrebbe più per l'universalità che invece andrebbe ricava dall'esperienza di una realtà che universale non è?
Credo che la risposta a questa domanda sia l'"astrazione negativa" a cui accennavo in precedenza (e che, per inciso, non è una mia invenzione!): alcuni concetti non appartengono a realtà esperibili, ma sono stati comunque derivati dalla negazione di ciò che è esperibile.
Come posso sapere cos'è l'"assenza", se sperimento solo presenze? E il concetto di "eternità"? E il "nulla"? Sono tutti concetti definiti (oltre che da una tradizione che ce li insegna e da un vocabolario che ce li spiega) logicamente dalla negazione di un'astrazione che possiamo basare sull'esperienza.
Per questo alcune astrazioni creano falsi problemi e paradossi che "concretamente" non sussistono (Zenone
docet!).
L'universalità (una volta acquisita per astrazione dalla particolarità), secondo me, è come l'"esponente" matematico, la "potenza" che moltiplica i risultati della singola astrazione; ad esempio: guardo una cavallo - astraggo alcune caratteristiche - ottengo la "forma astratta di quel cavallo" ("FC") - negando l'individualità (dell'esperienza conoscitiva di quel singolo cavallo), ottengo una non-individualità dell'esperienza, detta universalità (
n) - coniugo la "forma astratta" di cavallo (FC) con la congetturata universalità (
n) - inizio a pensare quella "forma astratta" valida per un numero infinito di cavalli (FC
n).
Salvo poi dover verificare se in quella forma ho considerato qualcosa che invece è solo una contingenza particolare di quel singolo cavallo...
Citazione di: davintro il 03 Settembre 2016, 16:29:14 PMNon è piuttosto più coerente pensare che l'apprensione dell'universale sia qualcosa dipendente dall'esperienza di qualcosa di realmente universale
[corsivo mio]
Se anche esperissimo qualcosa di universale non lo sapremmo mai con certezza, perché non potremmo verificarne l'universalità, quindi non potrebbe essere quella l'esperienza che fonda l'universale come concetto (salvo crederci per fede... ma tale credenza tuttavia presuppone già l'acquisizione del concetto di universalità da una tradizione o da un "vocabolario", per cui tale concetto di universalità sarebbe semplicemente "ricevuto" e presupposto...).
Citazione di: davintro il 03 Settembre 2016, 16:29:14 PM
I giudizi esistenziali, per cui giudichiamo una tal cosa oggettivamente esistente o no, non sono i soli giudizi possibili. L'esistenza è solo uno dei tanti predicati potenzialmente attribuibili a un soggetto. Quindi l'universalità, sempre nell'accezione formale, del concetto di ippografo non è toccato dal fatto di sapere l'ippografo non esiste nella realtà. Il fatto che non sia un ente realmente oggettivo ma opera della fantasia soggettiva degli uomini non preclude affatto la possibilità di poter dare giudizi oggettivi su di esso, pena confondere il senso logico dell'idea di oggettività (il valore di verità oggettiva di un giudizio) con quello ontologico (l'essere realmente autonomo di qualcosa rispetto ad una mente soggettiva che lo pensa o lo immagina). L'universalità mi permette di porre il concetto di "ippografo" come modello ideale regolativo sulla base del quale poter emettere su un singolo ippogrifo dei giudizi aventi un'intenzionalità oggettiva. Posso dire che "l'immagine che ho di fronte ritrae un'ippogrifo" e posso giudicare oggettivamente vero tale enunciato, a prescindere dal fatto di sapere che l'immagine rppresenta un essere fantastico e non reale.
CitazioneChe "Quindi l'universalità, sempre nell'accezione formale, del concetto di ippografo non è toccato dal fatto di sapere che l'ippografo non esiste nella realtà. Il fatto che non sia un ente realmente oggettivo ma opera della fantasia soggettiva degli uomini non preclude affatto la possibilità di poter dare giudizi oggettivi su di esso" concordo; ma allora non è vero che "L'universalità formale del concetto [in generale, necessariamente nel caso di qualsiasi concetto, anche quello di "ippogrifo] permette di dare al giudizio un'intenzionalità oggettiva, un tendere verso il riferimento ad uno stato di cose oggettive" (se non, in certi casi, come quello del concetto di "ippopgrifo", negandolo al concetto stesso).
Mentre il concetto può avere un' intenzionalità oggettiva (per esempio "albero") o meno ( per esempio "ippogrifo"), invece il giudizio può essere oggettivamente vero se nega l' esistenza di un riferimento a uno stato di cose oggettive circa il concetto universale di "ippogrifo" (che ne soddisfi l' intenzionalità), il quale in fatti non esiste, non si dà nella realtà (indipendentemente dal fatto di essere eventualmente anche pensata o meno), ma unicamente nel pensiero circa la realtà; o falso se lo afferma.
Se invece vogliamo attribuire l' intenzionalità ai giudizi, anzichè ai concetti di cui predicano, allora i giudizi su un singolo ippogrifo (al contrario di quelli su un singolo albero esistente; o all' immagine di un ippogrifo che puoi avere davanti, che è ben altra cosa da un ippogrifo, come l' immagine di un albero è ben altra cosa di un albero!) possono avere e hanno un' intenzionalità soddisfatta dal riferimento a qualcosa di meramente pensato (e reale unicamente in quanto tale), un riferimento meramente concettuale e non reale indipendentemente dall' eventuale essere anche pensato o meno (al contrario dei giudizi su un singolo albero realmente esistente).
Va confermata l'idea che l'universalità formale dei concetti permette a questi di comporre un giudizio intenzionato verso una realtà oggettiva, mentre la totale relativizzazione dei concetti condurrebbe anche al totale relativismo e scetticismo nelle nostre conoscenze, conoscenze che altro non sono che un complesso organico e oridnato di giudizi. Conoscere e giudicare. Su questo punto in particolare Kant ha perfettamente ragione: perchè si dia conoscenza scientifica occorre che tale conoscenza sia costiuita da giudizi, sì sintetici, ma a-priori.
CitazioneMa esistono concetti universali e anche particolari; per esempio il concetto del mio gatto Attila (che é "cosa" diversa dalla "cosa" costituita dal mio gatto Attila: la seconda potrebbe benissimo esistere anche senza la prima; e viceversa, come dimostra l'esistenza del concetto particolare di "ippogrifo Pegaso").
Inoltre rimando alle considerazioni esposte appena sopra circa il possibile riferimento dei concetti universali a un mero ente di pensiero (cosa reale unicamente in quanto pensata), oltre che a una cosa reale indipendentemente dall' essere eventualmente anche pensata (ente anche di pensiero) o meno.
Ho sempre dissentito da Kant sulla presunta esistenza di giudizi sintetici a priori (a priori o si stabiliscono arbitrariamente definizioni, che non sono conoscenza, non essendo giudizi, o si deducono giudizi analitici, che non fanno che esplicitare conoscenza di già implicata nelle premesse.
Dire che la conoscenza è come tutti gli altri concetti un derivato a-posteriori dell'esperienza degli oggetti particolari porterebbe a smentire qualunque collegamento tra apparato concettuale della mente soggettiva e natura degli oggetti esperiti che devono essere adeguati a produrre nella nostra mente concetti che li comprendono. Si creerebbe un fossato così largo tra realtà e mente che dovrebbe portare all'annullamento di qualunque discorso razionale, empirista o innatista che sia.
CitazioneCome tutti gli altri concetti é un derivato a-posteriori il concetto di "conoscenza", non il fatto della conoscenza, il quale ultimo è consentito dai rapporti reali di fatto fra mente e mondo (se si ammettono alcune tesi indimostrabili non esiste alcun "fossato" incolmabile fra mente conoscente e mondo conosciuto, anche se il concetto di "conoscenza" si acquisisce a posteriori).
Certamente il concetto di casa è ricavato dall'esperienza di singole case reali, e il concetto di albero dall'esperienza di singoli alberi reali, perchè alberi e case sono realtà adeguate e corripondenti ai concetti di "casa" e "albero". Ma il concetto di "universalità" o "totalità" ? Da dove deriverebbe? A partire da quale esperienza a-posteriori di oggetti potrebbe essere ricavata l'idea di universalità? Perchè il principio di corrispondenza per cui il concetto di "albero" e "casa" sono ricavati da realtà che corrispondono al significato del concetto, cioè alberi e case, non varrebbe più per l'universalità che invece andrebbe ricava dall'esperienza di una realtà che universale non è, perchè contingente, mutevole e delimitata dallo spazio-tempo da cui ricaviamo a-posteriori l'esperienza? Non è piuttosto più coerente pensare che l'apprensione dell'universale sia qualcosa dipendente dall'esperienza di qualcosa di realmente universale, adeguato a produrre quel concetto, un "qualcosa" operante al di là della contingenza spaziotemporale e con cui dunque la nostra mente è da sempre in contatto, a prescindere che raggiunga un livello di autocoscienza tale da rendersi conto di questo essere in contatto?
CitazioneDirei che certamente il concetto di casa è ricavato dall'esperienza di singole case reali, e il concetto di albero dall'esperienza di singoli alberi reali, perchè i concetti di "casa" e "albero" sono adeguati e corrispondenti alla realtà di alberi e case.
(A meno che non lo si acquisisca "di già confezionato" per insegnamento da altri, come per lo più di fatto accade) il concetto di "universalità"(e analogo discorso vale per "totalità") si acquisisce a posteriori per astrazione per così dire "al quadrato" (e dunque "a posteriori al quadrato" o "ulteriormente a posteriori"), cioè astraendo (ulteriormente) una caratteristica generale (per l' appunto quella dell' universalità) che è comune a vari concetti universali astratti dei quali necessariamente, come conditio sine qua non, si è fatta precedentemente esperienza (che si è a loro volta precedentemente acquisiti per astrazione e pensati), come quelli di "cavallo", "gatto", "sentimento", ecc., ecc., ecc. (che sono relativamente meno universali-astratti, ovvero relativamente più particolari-concreti di quello che da essi si astrae di "universalità"); astrazione che naturalmente non si esaurisce nella mera distinzione di ciò che è comune a tutti gli oggetti "finora" esperiti in passato "rientranti nei" concetti considerati, (di "cavallo", "gatto", "sentimento", ecc., ecc., ecc.), ma lo "proietta induttivamente" anche ad eventuali -potenziali- altri oggetti considerabili in futuro in numero indefinito, illimitato, attraverso un' ulteriore elaborazione teorica stabilendo per definizione il concetto di "universalità".
Ciò che vale per i concetti di alberi e case vale esattamente allo stesso modo per l'universalità che infatti si ricava esattamente allo stesso modo dalle esperienze di realtà (concettuali, in questo caso) che così tanto universali non sono (sono relativamente meno universali), relativamente più particolari e delimitati dallo spazio-tempo, le quali sono nell' esperienza (mentale, in questo caso).
Un "qualcosa" operante al di là della contingenza spaziotemporale e con cui dunque la nostra mente è da sempre in contatto, a prescindere che raggiunga un livello di autocoscienza tale da rendersi conto di questo essere in contatto mi sembra una frase senza senso: come può (in che senso?) la nostra mente essere (da sempre) in contatto con qualcosa senza raggiungere un livello di auto(?)coscienza tale da rendersi conto di questo essere in contatto? Tutto ciò che fa la nostra mente cosciente è (l' unico genere di !"contatto" che può avere con altre "cose" consiste nel) "rendersi conto" (avere consapevolezza fenomenica, sentire interiormente o "avvertire" qualcosa), e non altro.
Citazione di: sgiombo il 01 Settembre 2016, 21:22:06 PM
Per definizione si conoscono con certezza le sensazioni fenomeniche (esteriori-materiali ed interiori-mentali), se esse si avvertono (accadono) e (si avvertono le sensazioni interiori o mentali costituenti il fatto che) si predica che accadono (definizione di conoscenza = predicazione conforme alla realtà, ovvero predicazione che accade realmente qualcosa accadendo realmente tale qualcosa, o che non accade realmente qualcosa non accadendo realmente tale qualcosa).
Che cosa significa conoscere? Io penso che conoscere sia semplicemente vivere e che non si possa né vivere né conoscere "per definizioni", le definizioni a volte aiutano, ma sempre ingannano. Noi siamo sempre conformi alla realtà e tutto quello che accade comunque realmente accade, esterno e interno insieme. Esterno e interno sono solo definizioni per una catalogazione comoda ai nostri discorsi.
Noi, in quanto umani, sbagliamo (e tutti sbagliamo) non perché i nostri discorsi, i nostri pensieri, immaginazioni e prassi non sono conformi a una esterna realtà in sé, dato che la realtà solo in questi discorsi, pensieri, immagini e prassi si manifesta comunque si presentino, ma perché non riusciamo a intenderli nel loro contesto, non vogliamo vederli in rapporto a quello sfondo specifico, da noi stessi determinato per come ne veniamo determinati (ciascuno o collettivamente), in cui risiede la validità del loro significato.
Tutto ciò che appare in qualche modo realmente accade e accade significando qualcosa in rapporto a qualcos'altro che è un altro significato di immagini che continuamente si presentano esigendo che un senso possa venire trovato. E questo senso in qualche misura è sempre arbitrario e in qualche misura no e distinguerlo in questi termini non è un atto assoluto ed eterno, ma dipende dai contesti (fisici, biologici, cognitivi e sociali) in cui si manifesta.
CitazioneLa cosa in sé o noumeno (se c' è) per definizione non è accessibile alla sensazione, che per definizione è (e non può essere che) apparenza, fenomeno.
E' invece accessibile all' intelletto, che la, può pensare, ne può parlare (come di fatto qui si sta facendo), che essa esista realmente o meno)
Qui non stiamo parlando di cose in sé (anche se si può avere la pretesa di farlo), perché ciò che si può concepire e parlare non è mai la cosa in sé semplicemente per il fatto che nulla si può dire dell' "in sé" del quale si può propriamente solo tacere, anche se continuamente di esso si vuole dire qualcosa facendolo apparire.
CitazioneInnanzitutto faccio una domanda a mia volta: in che modo ci sarebbe già presente nella mente l' idea di una bellezza e di una bontà, prima di esperire cose belle e buone? C' é da qualche parte qualcuno (sano di mente) che ricorda di aver da sempre saputo cosa sia la bellezza anche prima di vedere qualcosa di concreto che gli ha fatto l' impressione della bellezza (che gli é parso bello)?
Certo, lo avevo già detto, è impossibile un'idea di bellezza senza che vi siano cose belle, ma è ugualmente impossibile che vi sia alcuno che sappia vedere cose belle senza che non senta prima in sé la bellezza. La bellezza non è, come vorrebbe un certo realismo ingenuo, un "a posteriori" rispetto all'esperienza delle cose.
Citazione...Dopo un bel po' di tutte queste esperienze stabilisce di chiamare "esperienza della bellezza" quel certo carattere comune a tutti i sentimenti di cui sopra, e che potrebbe riproporsi indefinitamente di fronte ad altre donne, ad altre opere d' arte, ad altre musiche, ad altri paesaggi, ecc. (e non di fronte alla visione della giornalista Lucia Annunziata, a un opera di Renzo Piano, a un rap, a una discarica di rifiuti, ecc.).
E come fai a sentire quel certo carattere comune senza che ti sia dato come carattere comune? Tu stai dicendo che la bellezza è un tratto comune (che così si "stabilisce di chiamare", come se il suo significato fosse solo una questione arbitraria di nomi!) che si ripete nelle diverse esperienze di cose in diverso modo belle senza accorgerti della "petitio principii": come si possono sentire diverse modalità di bellezza, senza che vi sia il sentimento di quella stessa bellezza che si vorrebbe spiegare a partire da esse?
Pensare che vi siano prima cose belle senza la bellezza che le rende in modo diverso tali è tanto assurdo quanto pensare che vi sia prima una bellezza ideale astratta senza le cose diversamente e concretamente belle.
Citazione di: Phil il 01 Settembre 2016, 21:49:04 PM
Dal mio punto di vista, il ruolo del linguaggio e della sua acquisizione viene spesso sottovalutato: se è vero che è il linguaggio a strutturare l'orizzonte di senso in cui ciascuno vive, le idee-ops!-astrazioni concettuali vengono prima apprese dalla cultura in cui si cresce (o costruite per "induzione linguistica" come suggerisce Sgiombo con l'esempio della bellezza), poi, esperendo e riflettendo, possono essere personalizzate... se riconosco e definisco qualcosa come "bello" o "duplice" o "astratto" è perché mi è stato precedentemente insegnato e spiegato cosa significa "bello" e "duplice" e "astratto", e come individuare queste caratteristiche nell'esperienza (oppure, in alternativa, creerò dei neologismi...).
E chi lo ha insegnato cosa significano "bello" e "duplice" e "astratto" a chi te lo ha insegnato? Dove sono stati trovati originariamente quei termini? Certamente questi significati, come ogni significato, è dato dalla cultura in cui si cresce, ma ogni cultura come lo ottiene? Dove lo trova?
CitazioneL'astrazione per eccellenza è quella del linguaggio, e proprio il linguaggio (con la sua logica) è l'unico paradigma imprescindibile per il ragionamento (idealista o materialista che sia), ma già nel riconoscerne il funzionamento si ha qualche indizio per risolvere le sue apparenti aporie: se non mi fosse stato insegnato che esiste "il bello", o meglio, che si può parlare di un'esperienza/percezione come "bella", non mi si potrebbe porre la dialettica viziosa fra percezione-del-bello/criterio-della-bellezza.
Quindi, per me, tutto parte dal linguaggio, dall'acquisizione "eteronoma" delle sue parole-definizioni-concetti, per poi proseguire il laborioso tentativo di "calibrazione" del proprio vocabolario basandosi sull'esperienza.
P.s. In questa constatazione dell'egemonia della linguisticità, non scorgo traccia nè della metafisica, nè di paradossi...
Io non penso che, pur essendo fondamentale per l'essere umano l'esperienza del linguaggio e che solo in questa dimensione linguistica comunicativa (intesa nel senso più ampio possibile) la questione può avere significato, ma nessuno insegna che esiste il bello o che una certa esperienza delle cose è bella come una diversa esperienza. Al massimo si insegna un vocabolo con cui poter comunicare il proprio sentire e non il sentire né il modo di sentire in esso la qualità. Questa mi pare piuttosto una disposizione originaria che potrà anche essere rimossa, ma che non si apprende e non si ricava per semplice induzione, ma semmai rende possibile ogni induzione.
Citazione di: paul11 il 01 Settembre 2016, 22:11:55 PM
L'utopia di riuscire a costruire un sistema formale esatto, certo, vero è esploso a cavallo fra fine Ottocento e inizi Novecento grazie alla fisica soprattutto. Il risultato è l'implosione della verità nei sistemi formali,esattamente l'opposto di quello che si voleva ottenere.Aporie, antinomie paradossi logici sono solo la punta dell'iceberg dell'ambiguità nel rapporto relazionale fra forma e sostanza e fra forme stesse.
Certo, poiché l'utopia di un sistema formale esatto e logicamente fondato esige la completa autoreferenzialità non contraddittoria ai presupposti (postulati definiti) di quel sistema, ma è proprio questa assoluta autoreferenzialità definitoria astratta che, interpretata in modo formalmente corretto, rivela la sua inevitabile autocontraddizione formale.
Citazione di: maral il 04 Settembre 2016, 11:37:17 AM
Citazione di: Phil il 01 Settembre 2016, 21:49:04 PMse riconosco e definisco qualcosa come "bello" o "duplice" o "astratto" è perché mi è stato precedentemente insegnato e spiegato cosa significa "bello" e "duplice" e "astratto", e come individuare queste caratteristiche nell'esperienza (oppure, in alternativa, creerò dei neologismi...).
[...]Certamente questi significati, come ogni significato, è dato dalla cultura in cui si cresce, ma ogni cultura come lo ottiene? Dove lo trova?
[corsivo mio]
Non a caso accennavo ai neologismi: il "vocabolario" è dinamico, non è un insieme chiuso e statico... e nel "vocabolario" (uso le virgolette perché non mi riferisco solo all'esemplare cartaceo o informatico, ma anche a quello "vivo", culturale, sociologico, etc.) ci sono anche concetti astratti, concetti recenti e tanto spazio (infinito!) per concetti nuovi.
Come mai oggi possiamo parlare di "virtuale" e due secoli fa non era possibile? Chi ce lo ha insegnato? Qualcuno che ha coniato e
definito quel termine in risposta ad un'esigenza comunicativa, quindi il concetto di virtuale è
a posteriori, anche se oggi può essere insegnato
a priori a chi, come i bambini, non ha ancora avuto esperienza del virtuale.
Citazione di: maral il 04 Settembre 2016, 11:37:17 AMma nessuno insegna che esiste il bello o che una certa esperienza delle cose è bella come una diversa esperienza. Al massimo si insegna un vocabolo con cui poter comunicare il proprio sentire e non il sentire né il modo di sentire in esso la qualità
Credo invece che la bellezza, come gran parte delle parole-concetti "comuni", venga insegnata/appresa (a seconda della prospettiva) e sia la condizione di possibilità di ogni "esperienza bella"
vissuta come tale: prima che la bellezza abbia una sua identità (logica, culturale, semantica...), l'esperienza non viene vissuta come "bella" dal soggetto, proprio perché egli non la può definire tale. Le sensazioni che prova non hanno un nome. Dopo che questo nome gli viene insegnato,
le sensazioni sono le medesime ma hanno un'identità concettuale-linguistica, non sono più solo sensazioni (e qui c'è un bivio del discorso che porterebbe a discutere su quanto il linguaggio influenzi, condizioni e predetermini i paradigmi dell'esperienza umana, Korzybski
docet... ma restiamo sulla strada principale).
Questa identità (la "bellezza") consente di distinguere il "bello", dal "simpatico", dall'"eccitante", dal "rassicurante", dal "sorprendente", etc. e da tutti quei concetti (di sensazione) che possono altrimenti essere confusi, come semplice "esperienza piacevole", prima che il soggetto in questione non li distingua ciascuno con il suo apposito termine (ben definito e che sarà il criterio delle individuazioni future del "bello", "simpatico", etc.).Citazione di: maral il 04 Settembre 2016, 11:10:27 AMtanto assurdo quanto pensare che vi sia prima una bellezza ideale astratta senza le cose diversamente e concretamente belle.
Non sono d'accordo: può esserci un concetto astratto
acquisito che non è stato ancora sperimentato estensionalmente (o che forse non lo sarà mai, v. divinità); può esserci, in teoria, bellezza senza il vissuto di "cose belle", così come si può avere il concetto di "amore" senza aver esperito vissuti "amorosi": quando te ne parlano, da bambino, magari non sei mai stato ancora innamorato, ma quando ti capiterà assocerai quella sensazione-esperienza a quella definizione che già ti era stata insegnata (e se questo meccanismo di deduzione funziona con qualcosa di estremamente aleatorio e soggettivo come l'amore, direi che può ben funzionare anche con concetti meno sfuggenti ;) ).
Citazione di: maral il 04 Settembre 2016, 12:19:23 PM
Citazione di: paul11 il 01 Settembre 2016, 22:11:55 PML'utopia di riuscire a costruire un sistema formale esatto, certo, vero è esploso a cavallo fra fine Ottocento e inizi Novecento grazie alla fisica soprattutto. Il risultato è l'implosione della verità nei sistemi formali,esattamente l'opposto di quello che si voleva ottenere.Aporie, antinomie paradossi logici sono solo la punta dell'iceberg dell'ambiguità nel rapporto relazionale fra forma e sostanza e fra forme stesse.
Certo, poiché l'utopia di un sistema formale esatto e logicamente fondato esige la completa autoreferenzialità non contraddittoria ai presupposti (postulati definiti) di quel sistema, ma è proprio questa assoluta autoreferenzialità definitoria astratta che, interpretata in modo formalmente corretto, rivela la sua inevitabile autocontraddizione formale.
Qui sarei un po' più ottimista, leggendo Godel come "giustificatore" del pluralismo logico e distinguendo la concreta funzionalità della logica dai casi in cui invece
Citazione di: Phil il 03 Settembre 2016, 17:41:17 PMalcune astrazioni creano falsi problemi e paradossi che "concretamente" non sussistono (Zenone docet!)
Citazione di: maral il 04 Settembre 2016, 11:10:27 AM
Citazione di: sgiombo il 01 Settembre 2016, 21:22:06 PM[size=3
Certo, lo avevo già detto, è impossibile un'idea di bellezza senza che vi siano cose belle, ma è ugualmente impossibile che vi sia alcuno che sappia vedere cose belle senza che non senta prima in sé la bellezza. La bellezza non è, come vorrebbe un certo realismo ingenuo, un "a posteriori" rispetto all'esperienza delle cose.
Citazione...
Scusa il "realismo ingenuo" ma come si fa a sentire prima in sè la bellezza? Se non c'è contatto con l'oggetto ritenuto bello non può in alcun modo nascere il senso della bellezza. Tra l'altro la famosa bellezza è un sentimento assai soggettivo ( io potrei trovare un'autentico pezzo di... la famosa Lucia Annunziata). Il fatto che la bellezza sia un sentimento soggettivo dimostra che è riconducibile alle esperienze piacevoli registrate nella nostra mente ( magari la Lucia Annunziata somiglia moltissimo alla mamma del soggetto che la trova bella :o ). Tutti abbiamo per esempio la sensazione piacevole che ci da il tornare al nostro paese natale ( dove abbiamo vissuto le esperienze piacevoli della nostra infanzia ), mentre per un altro soggetto il medesimo paese non fa nascere alcun senso della bellezza.
Per esempio trovo orribile il David di Michelangelo, universalmente ritenuto un capolavoro e un simbolo di bellezza, perchè le sue mani esagerate rispetto al corpo mi ricordano una spiacevole situazione vissuta nell'infanzia...
Prima c'è il contatto, dal contatto nasce la sensazione, la mente la valuta come piacevole o spiacevole rapportandola all'esperienza vissuta in precedenza , quindi viene valutata soggettivamente e limitatamente come bella oppure brutta. Il ritenere che ci sia un "qualcosa" che a-priori stabilisce in sè cosa è bello e cosa è brutto mi pare un assunto metafisico indimostrabile.
Citazione di: maral il 04 Settembre 2016, 11:10:27 AM
Citazione di: sgiombo il 01 Settembre 2016, 21:22:06 PM
Per definizione si conoscono con certezza le sensazioni fenomeniche (esteriori-materiali ed interiori-mentali), se esse si avvertono (accadono) e (si avvertono le sensazioni interiori o mentali costituenti il fatto che) si predica che accadono (definizione di conoscenza = predicazione conforme alla realtà, ovvero predicazione che accade realmente qualcosa accadendo realmente tale qualcosa, o che non accade realmente qualcosa non accadendo realmente tale qualcosa).
Che cosa significa conoscere? Io penso che conoscere sia semplicemente vivere e che non si possa né vivere né conoscere "per definizioni", le definizioni a volte aiutano, ma sempre ingannano. Noi siamo sempre conformi alla realtà e tutto quello che accade comunque realmente accade, esterno e interno insieme. Esterno e interno sono solo definizioni per una catalogazione comoda ai nostri discorsi.
CitazioneIo penso che per ragionare correttamente (filosoficamente e non solo; ma soprattutto di filosofia) si debbano definire accuratamente e il più possibile senza ambiguità i concetti. Che le definizioni ben disambiguate aiutino sempre (anche se malgrado esse si può pur sempre sbagliare) mentre i concetti ambigui o non ben definiti non aiutano mai e sempre tendono ad indurre in errore (e di fatto comunque troppo spesso inducono in errore).
E che il concetto di "vivere " sia ben diverso da quello di "conoscere": anche vegetali, protozoi, procarioti e virus vivono, ma non credo sia ragionevole ipotizzare che conoscano alcunché (se non in senso meramente metaforico -tutt' altra cosa!- come quando si dice che la selezione naturale consente al genoma di "acquisire """conoscenze""" " dell' ambiente).
Che noi siamo realtà, se esistiamo) è ovvio (una tautologia), ma il nostro pensiero non sempre è conforme alla realtà (per esempio se pensiamo che esistano gli ippogrifi).
Per (cercare nei limiti del possibile di) ragionare correttamente bisogna "catalogare" con precisione e rigore e senza ambiguità i concetti impiegati (per esempio distinguere correttamente fra interiore ed esteriore e non confonderli).
Noi, in quanto umani, sbagliamo (e tutti sbagliamo) non perché i nostri discorsi, i nostri pensieri, immaginazioni e prassi non sono conformi a una esterna realtà in sé, dato che la realtà solo in questi discorsi, pensieri, immagini e prassi si manifesta comunque si presentino, ma perché non riusciamo a intenderli nel loro contesto, non vogliamo vederli in rapporto a quello sfondo specifico, da noi stessi determinato per come ne veniamo determinati (ciascuno o collettivamente), in cui risiede la validità del loro significato.
Tutto ciò che appare in qualche modo realmente accade e accade significando qualcosa in rapporto a qualcos'altro che è un altro significato di immagini che continuamente si presentano esigendo che un senso possa venire trovato. E questo senso in qualche misura è sempre arbitrario e in qualche misura no e distinguerlo in questi termini non è un atto assoluto ed eterno, ma dipende dai contesti (fisici, biologici, cognitivi e sociali) in cui si manifesta.
Citazione
Noi, in quanto umani, sbagliamo (e tutti sbagliamo) perché i nostri discorsi, i nostri pensieri, immaginazioni e prassi non sono conformi alla realtà fenomenica della nostra esperienza cosciente, l' unica cui possiamo avere accesso sensibile, l' unica che possiamo sentire (la cosa in sé la possiamo ipotizzare, possiamo anche credere che esista, ma solo per un nostro ragionamento -fra l'altro indimostrabile essere vero- e non per accesso sensibile).
Non riesco ad attribuire alcun senso alle parole " contesto, sfondo specifico, da noi stessi determinato per come ne veniamo determinati (ciascuno o collettivamente), in cui risiede la validità del significato dei nostri discorsi, pensieri, immagini e prassi".
Tutto ciò che appare ovviamente accade in quanto apparenza: tautologia!
Ma non necessariamente tutto ciò che appare è dotato di significato: solo i segni lo sono (per esempio parole, segnali stradali, icone del computer, ecc).
Il monte Cervino appare, ma non significa nulla, è e basta (o credi forse che l' abbia fatto intenzionalmente Dio come segno indicante la sua bontà verso noi uomini o altro?).
Inoltre un segno per essere tale deve avere (per lo meno nelle intenzioni di chi lo allestisce) un unico senso: se può essere interpretato in più modi indefinitamente è un pessimo segno non efficace, o un "tentativo si segnare –di essere segno- fallito".
CitazioneLa cosa in sé o noumeno (se c' è) per definizione non è accessibile alla sensazione, che per definizione è (e non può essere che) apparenza, fenomeno.
E' invece accessibile all' intelletto, che la, può pensare, ne può parlare (come di fatto qui si sta facendo), che essa esista realmente o meno)
Qui non stiamo parlando di cose in sé (anche se si può avere la pretesa di farlo), perché ciò che si può concepire e parlare non è mai la cosa in sé semplicemente per il fatto che nulla si può dire dell' "in sé" del quale si può propriamente solo tacere, anche se continuamente di esso si vuole dire qualcosa facendolo apparire.
CitazioneParlando della cosa in sé non la si fa apparire (si apparire solo il suo concetto, esattamente come parlando degli ippogrifi non si fanno apparire gli ippogrifi ma solo il loro concetto); ma di essa si può ben parlare (che esista o meno) come si può ben parlare degli ippogrifi che non esistono: per definizione non la si può sentire ma la si può pensare (sentire il pensiero di essa, che é cosa diversa da essa come il pensiero dell' ippogrifo e diversa cosa dall' ippogrifo, ma anche il pensiero del cavallo -esistente- e diversa cosa dal cavallo).
Più in generale si può sensatamente parlare anche di ciò che potrebbe non esistere (un pianeta simile alla terra intorno alla stella Aldebaran) o certamente non esiste (gli ippogrifi sulla nostra terra).
CitazioneInnanzitutto faccio una domanda a mia volta: in che modo ci sarebbe già presente nella mente l' idea di una bellezza e di una bontà, prima di esperire cose belle e buone? C' é da qualche parte qualcuno (sano di mente) che ricorda di aver da sempre saputo cosa sia la bellezza anche prima di vedere qualcosa di concreto che gli ha fatto l' impressione della bellezza (che gli é parso bello)?
Certo, lo avevo già detto, è impossibile un'idea di bellezza senza che vi siano cose belle, ma è ugualmente impossibile che vi sia alcuno che sappia vedere cose belle senza che non senta prima in sé la bellezza. La bellezza non è, come vorrebbe un certo realismo ingenuo, un "a posteriori" rispetto all'esperienza delle cose.
CitazioneBeh, scusa ma la prima volta che un bimbo vede una cosa bella (sua madre?), la vede e avverte una componente di quella sensazione che poi imparerà a chiamare "bellezza" senza avere sentito prima in sé la bellezza.
La bellezza non, é come vorrebbe un certo platonismo ingenuissimo un idea a priori ubicata nell' iperuranio; è invece, come vuole l 'empirismo (ingenuo; e a maggior ragione se sofisticato), a posteriori .
Citazione...Dopo un bel po' di tutte queste esperienze stabilisce di chiamare "esperienza della bellezza" quel certo carattere comune a tutti i sentimenti di cui sopra, e che potrebbe riproporsi indefinitamente di fronte ad altre donne, ad altre opere d' arte, ad altre musiche, ad altri paesaggi, ecc. (e non di fronte alla visione della giornalista Lucia Annunziata, a un opera di Renzo Piano, a un rap, a una discarica di rifiuti, ecc.).
E come fai a sentire quel certo carattere comune senza che ti sia dato come carattere comune? Tu stai dicendo che la bellezza è un tratto comune (che così si "stabilisce di chiamare", come se il suo significato fosse solo una questione arbitraria di nomi!) che si ripete nelle diverse esperienze di cose in diverso modo belle senza accorgerti della "petitio principii": come si possono sentire diverse modalità di bellezza, senza che vi sia il sentimento di quella stessa bellezza che si vorrebbe spiegare a partire da esse?
Pensare che vi siano prima cose belle senza la bellezza che le rende in modo diverso tali è tanto assurdo quanto pensare che vi sia prima una bellezza ideale astratta senza le cose diversamente e concretamente belle.
CitazioneSe lo sento, allora "mi é dato come sensazione" (tautologia!).
Ma che c' entra la presunta questione arbitraria di nomi?
I nomi sono ovviamente arbitrari (come tutti i segni; ma esistono anche tantissime cose insignificanti, id est: che non sono segni), ma non puoi attribuire l' arbitrarietà da me ovviamente attribuita ai simboli verbali (i nomi; in particolare al vocabolo "bellezza" ") alle mie considerazioni (in particolare sull' essere a posteriori e non innato del concetto di bellezza!
Ma quale petizione di principio?!?!?!
Che sentendo diverse modalità di bellezza necessariamente si senta il sentimento di quella stessa bellezza é una banalissima tautologia!
E non si sta parlando della spiegazione della bellezza bensì dell' origine (a posteriori e non innata!) dei concetti in generale, esemplificando con il particolare concetto di "bellezza" (si poteva benissimo farlo con quello di "bruttezza" e con qualsiasi altro): se confondiamo questioni completamente diverse diventa molto difficile, se non impossibile intenderci e dialogare proficuamente.
Pensare che vi siano prima cose belle senza la bellezza che le rende in modo diverso tali é una contraddizione che non ho mai affermato.
Sostengo invece tutt' altro: che possono esistere cose belle anche senza che nessuno ne conosca l' esistenza e che prima di vedere cose belle (a meno che non ci venga insegnato da qualcuno che più o meno indirettamente l' ha imparato vedendo cose belle) non si conosce il concetto di "bellezza": lo si conosce a posteriori e non a priori!
Ovvero che non vi é prima una conoscenza della bellezza ideale astratta senza l' esperienza delle cose diversamente e concretamente belle (che mi mi sembra invece proprio quanto affermassi tu).
Citazione di: Phil il 03 Settembre 2016, 17:41:17 PM
Citazione di: davintro il 03 Settembre 2016, 16:29:14 PMPerchè il principio di corrispondenza per cui il concetto di "albero" e "casa" sono ricavati da realtà che corrispondono al significato del concetto, cioè alberi e case, non varrebbe più per l'universalità che invece andrebbe ricava dall'esperienza di una realtà che universale non è?
Credo che la risposta a questa domanda sia l'"astrazione negativa" a cui accennavo in precedenza (e che, per inciso, non è una mia invenzione!): alcuni concetti non appartengono a realtà esperibili, ma sono stati comunque derivati dalla negazione di ciò che è esperibile. Come posso sapere cos'è l'"assenza", se sperimento solo presenze? E il concetto di "eternità"? E il "nulla"? Sono tutti concetti definiti (oltre che da una tradizione che ce li insegna e da un vocabolario che ce li spiega) logicamente dalla negazione di un'astrazione che possiamo basare sull'esperienza. Per questo alcune astrazioni creano falsi problemi e paradossi che "concretamente" non sussistono (Zenone docet!). L'universalità (una volta acquisita per astrazione dalla particolarità), secondo me, è come l'"esponente" matematico, la "potenza" che moltiplica i risultati della singola astrazione; ad esempio: guardo una cavallo - astraggo alcune caratteristiche - ottengo la "forma astratta di quel cavallo" ("FC") - negando l'individualità (dell'esperienza conoscitiva di quel singolo cavallo), ottengo una non-individualità dell'esperienza, detta universalità (n) - coniugo la "forma astratta" di cavallo (FC) con la congetturata universalità (n) - inizio a pensare quella "forma astratta" valida per un numero infinito di cavalli (FCn). Salvo poi dover verificare se in quella forma ho considerato qualcosa che invece è solo una contingenza particolare di quel singolo cavallo...
Citazione di: davintro il 03 Settembre 2016, 16:29:14 PMNon è piuttosto più coerente pensare che l'apprensione dell'universale sia qualcosa dipendente dall'esperienza di qualcosa di realmente universale
[corsivo mio] Se anche esperissimo qualcosa di universale non lo sapremmo mai con certezza, perché non potremmo verificarne l'universalità, quindi non potrebbe essere quella l'esperienza che fonda l'universale come concetto (salvo crederci per fede... ma tale credenza tuttavia presuppone già l'acquisizione del concetto di universalità da una tradizione o da un "vocabolario", per cui tale concetto di universalità sarebbe semplicemente "ricevuto" e presupposto...).
Ma cosa renderebbe possibile la "negazione"? Anche se, ammesso e non concesso, il concetto di universalità fosse ricavato per astrazione negativa da quello di particolarità, senza che esso sia il presupposto formale della possibilità di avere un concetto di "particolarità" come di qualunque altro concetto (come invece ritengo io) tuttavia occorrerebbe che il concetto di "particolarità" comprenda in sè la possibilità di essere negato, così da poterne derivare il concetto opposto, quello di "universalità". Dunque, la negazione presuppone un rapporto di opposizione e la coscienza dell'opposizione presuppone la coscienza della differenza dei termini che si oppongono. Qui mi è utile ritornare all'esempio che avevo fatto a Sgiombo su "madre" e "figlio". L'essere madre consiste in una relazione con un altro essere che però non è responsabile dell'esistenza della madre in quanto donna, in quanto sostanza. Cioè, d'accordo con Aristotele, le relazioni non sono sostanze, non determinano l'essere delle cose, ma contribuiscono ad approfondire e ad arricchirne il significato. La relazione non determina l'essere delle cose, è l'essere che fà sì che la cosa sia in un certo tipo di relazione con altre cose. La negazione non è una sostanza, è una relazione logica. L'universalità è negazione dell'individualità ma io ne ho coscienza perchè ho già un'idea intuitiva del significato di "particolarità" e di "universalità". Alla luce dell'intuizione del senso dell'individualità e dell'universalità prendo coscienza della loro opposizione e posso riconoscere che uno è la negazione dell'altro. La negazione è resa possibile dal fatto che colgo l'idea che la "particolarità" non esaurisce il contenuto dell'essere, della totalità del pensabile, ma è potenzialmente, superabile dall'idea di qualcosa di ulteriore ed opposto ad esso, l'idea di universalità, di cui io apprendo il senso. La negazione è relazione, e noi non possiamo avere un'esperienza originaria delle relazioni, ma solo indiretta, a partire dalle cose (idee o realtà concrete) che sono in relazione, e questo perchè le relazioni sono attributi non esistenti autonomamente, per sè, ma solo come appartenenti alle sostanze, alle essenze, di cui invece cogliamo intuitivamente il senso. La negazione di A non porta necessariamente a B, prima devo sapere in cosa consistono A e B per poi dire che una è la negazione dell'altra. Mi rendo conto che questa tesi ha un senso solo nel contesto in cui la formazione delle idee non coincide con la formazioni sintattiche del linguaggio, delle definizioni chi usiamo (per le quali si potrebbe tranquillamente dire che la differenza tra B e non-A è solo convenzionale, dunque non avrebbe senso pensare a un'intuizione di B oggettivamente distinta da non-A), ma è data dal complesso di rapporti non tra parole, ma tra vissuti intuitivi e concreti della nostra esperienza delle cose, considerata in uno stadio originario e diretto, non ancora mediato da un apparato simbolico comunicativo
Per quanto riguarda l'ultima parte, direi che il riconoscimento dell'esperienza del contatto con qualcosa di universale avviene tramite l'astrazione. Attenzione! Non sto smentendo ciò che scrivevo prima dicendo che l'idea di universalità non nasce per astrazione. L'astrazione è ciò a partire da cui deriva non l'idea di universale, ma il riconoscimento a-posteriori della presenza in noi dell'universalità, che però sarebbe presente a prescindere dall'astrazione. Io posso, riflettendo sul processo di astrazione, rendermi conto della necessità per il costituirsi di tale processo dell'intuizione dell'idea di universalità a partire dal quale estendo i concetti astratti dal sensibile a delle applicazione a casi non ancora esperiti sensibilmente, applicazione potenzialmente valida infinitamente. Dunque, l'intuizione dell'universalità prescinde dall'astrazione dal sensibile (anzi, rende possibile quest'ultima), ma alla luce del condizionamento dell'esperienza sensibile sulla nostra conoscenza, noi non possiamo raggiungere uno stadio della conoscenza totalmente intelligibile e dunque dobbiamo trovare nella sensibilità gli aspetti che rendono possibile l'esperienza di questa, e possiamo riconoscere la necessità dell'intuizione dell'univeralità, non in sè stessa, ma come condizione trascendentale di tale esperienza sensibile. Se si vuole, è un processo di riconoscimento "retroattivo", dagli effetti alle cause.
Citazione di: davintro il 04 Settembre 2016, 16:45:46 PMMa cosa renderebbe possibile la "negazione"?
Il ragionamento logico (che non ragiona solo in modo universalistico), basato sull'astrazione formale, basata sull'esperienza.
Citazione di: davintro il 04 Settembre 2016, 16:45:46 PMAnche se, ammesso e non concesso, il concetto di universalità fosse ricavato per astrazione negativa da quello di particolarità, senza che esso sia il presupposto formale della possibilità di avere un concetto di "particolarità" come di qualunque altro concetto (come invece ritengo io) tuttavia occorrerebbe che il concetto di "particolarità" comprenda in sè la possibilità di essere negato, così da poterne derivare il concetto opposto, quello di "universalità".
La "possibilità di essere negato"(cit.) non è
in nessun concetto (in sé), ma credo sia tutta nella logica della mente che ci si relaziona...
Inoltre, secondo me, il concetto di particolarità non ha bisogno di un "presupposto formale"(cit.) che sia a sua volta un altro concetto, poiché può essere esperita, ed esperendola, una mente elucubrativa, dopo averne astratta la forma, può logicamente congetturare il suo opposto.
[L'idea di universalità è innata? Eppure non mi stupirebbe scoprire che in alcune lingue-culture non esiste una parola per questo concetto (nonostante magari esistano invece parole descrittive, come "sempre", "mai"...).]
Citazione di: davintro il 04 Settembre 2016, 16:45:46 PMDunque, la negazione presuppone un rapporto di opposizione e la coscienza dell'opposizione presuppone la coscienza della differenza dei termini che si oppongono.
Le negazione non presuppone il rapporto di opposizione, la negazione
è il rapporto di opposizione... altrimenti quale sarebbe la differenza fra negazione e opposizione? Se dico che il bello e il brutto sono "opposti", dico anche che uno è la negazione dell'altro...
"La coscienza della differenza dei termini che si oppongono"(cit.) è l'effetto, non la causa, della negazione: negando la bellezza di qualcosa, prendo coscienza della sua bruttezza... la negazione come mancato riscontro di alcune qualità (stando all'esempio della bellezza) viene prima crono
logicamente della sua applicazione concreta fra due elementi.
Citazione di: davintro il 04 Settembre 2016, 16:45:46 PMLa negazione di A non porta necessariamente a B, prima devo sapere in cosa consistono A e B per poi dire che una è la negazione dell'altra. Mi rendo conto che questa tesi ha un senso solo nel contesto in cui la formazione delle idee non coincide con la formazioni sintattiche del linguaggio, delle definizioni chi usiamo (per le quali si potrebbe tranquillamente dire che la differenza tra B e non-A è solo convenzionale, dunque non avrebbe senso pensare a un'intuizione di B oggettivamente distinta da non-A), ma è data dal complesso di rapporti non tra parole, ma tra vissuti intuitivi e concreti della nostra esperienza delle cose, considerata in uno stadio originario e diretto, non ancora mediato da un apparato simbolico comunicativo
Nel momento in cui riflettiamo su quei "vissuti concreti" non possono non entrare in gioco il linguaggio e la logica; se non riflettiamo sui vissuti, non si pone nemmeno il problema della universalità, perché ogni vissuto e individuale
hic et nunc.
Credo dunque che non si possa postulare quella "B" (l'universale) senza identificarla prima crono
logicamente con "non-A"(non-particolare): la relazione di negazione astrattiva innescata da A (il particolare) non produce certo alcuna "sostanza", ma solo una
congettura (non-A, ovvero B) che attende di essere verificata (in questo caso ciò è impossibile, e questo può far riflettere molto...).
Per questo citavo gli esempi di altri concetti inesperibili (assenza, nulla, eternità...) derivati dalla relazione di astrazione negativa...
Citazione di: davintro il 04 Settembre 2016, 16:45:46 PMIo posso, riflettendo sul processo di astrazione, rendermi conto della necessità per il costituirsi di tale processo dell'intuizione dell'idea di universalità [...] Dunque, l'intuizione dell'universalità prescinde dall'astrazione dal sensibile (anzi, rende possibile quest'ultima), ma alla luce del condizionamento dell'esperienza sensibile sulla nostra conoscenza, noi non possiamo raggiungere uno stadio della conoscenza totalmente intelligibile e dunque dobbiamo trovare nella sensibilità gli aspetti che rendono possibile l'esperienza di questa, e possiamo riconoscere la necessità dell'intuizione dell'univeralità, non in sè stessa, ma come condizione trascendentale di tale esperienza sensibile.
[grassetti miei]Quel "dobbiamo trovare" ciò che rende "necessaria" l'intuizione dell'universalità, è un dovere epistemologico o il sintomo di una
petitio principii? Ovvero: se non riuscissimo a trovare qualcosa che fonda l'innatismo dell'universalità, questo verrebbe smentito, e allora (per evitare ciò) postuliamo un circolo (vizioso) fra l'intuizione dell'universale nel particolare e la
necessità del particolare di rimandare all'universale... ma ciò non dimostra l'innatismo dell'universalità (solo l'evidente presenza del particolare).
Inoltre. tale intuizione non partirebbe forse dal sensibile, esattamente come l'astrazione? ;) Se invece è un'intuizione di origine divina, non posso che azzittirmi di fronte alla fede altrui...Citazione di: davintro il 04 Settembre 2016, 16:45:46 PMSe si vuole, è un processo di riconoscimento "retroattivo", dagli effetti alle cause.
Soltanto che per me la causa è il particolare, per te l'universalità: percorriamo la stessa strada in due direzioni opposte (per te, l'universalità, innata ed intuitiva, è la condizione di possibilità dell'astrazione; per me l'astrazione formale può anche non essere universale, e l'universale è solo uno dei risultati
concettuali del processo di astrazione...); praticamente, io scommetto sull'uovo, creato per "fecondazione eterologa" dal/nel linguaggio, tu sulla gallina ;D
Rispondo a Sgiombo
Proprio il fatto che anche circa un ente non reale e immaginario si possono dare giudizi oggettivi fà sì che qualunque concetto sia formalmente ponibile come "universale". Effettivamente l'espressione "intenzionalità oggettiva" per come l'ho usata, riferita a un concetto rischia di essere fuorviante. Intenzionalità oggettiva non vuol dire presumere che un concetto non sia solo un prodotto della mente ma un esistenza reale (se così fosse certamente il concetto di ippogrifo non sarebbe un concetto oggettivo), vuol dire che il concetto che pongo come elemento di un giudizio lo utilizzo attribuendogli un senso valido per ogni situazione in particolare nel quale l'oggetto può entrare a far parte di uno specifico stato di cose, e che senza tale attribuzione non sarebbe possibile alcun guidizio rivolto a predicare stati di cose oggettivi. Se io giudico che "l'immagine che ho di fronte rappresenta un ippogrifo" questa giudizio è intenzionalmente rivolto a rappresentare uno stato di cose oggettivo e può farlo perchè il concetto di "ippogrifo" ha per me un senso che vale per tutti gli ippogrifi possibili, altrimenti non sarebbe utilizzabile come criterio a-priori per dire che ciò che ho di fronte è un ippogrifo, ho bisogno cioè del concetto generale per giudicare il caso singolo, in questo senso parlavo di "intenzionalità oggettiva" del concetto e sostenevo la corrispondenza tra l'intenzionalità oggettiva del concetto (resa possibile dalla forma universale del concetto) e l'intenzionalità oggettiva del giudizio. La non-oggettività dell'ippogrifo intesa come non-esistenza reale non ha nulla a che fare con l'oggettività che consideravo io in questo contesto, spero di avere charito l'equivoco
Essendo l'universalità il carattere formale e non contenutistico del concetto, ogni concetto è universale a prescindere dall'estensione semantica del contenuto, dell'oggetto a cui il concetto si riferisce, e quindi non ci sono difficoltà a pensare a concetti formalmente universali riferiti a singoli individui e non solo a specie. Come il concetto di "gatto" si riferisce ad OGNI possibile gatto, il concetto del singolo gatto Attila, vale per tutti le differenti situazioni di cui di Attila posso fare esperienza, Attila resta Attila, sia quando dorme, quando è sveglio, quando è fuori casa, quando è in casa, quando è giovane, quando invecchierà... In questo caso il concetto del singolo gatto Attila consisterà nella sua identità individuale, vale per tutti i modi per i quali posso fare la sua esperienza, quindi la sua forma è universale come la forma del concetto "gatto", cambia solo l'estensione semantica del contenuto, non più una specie ma un singolo individuo. La molteplicità da cui si astrae non è per forza una molteplicità quantitativa, può essere una molteplicità di aspetti e situazioni riferibili a un ente numericamente unico. Ecco perchè "concetto" e "specie" sono cose diverse. Il concetto è una struttura mentale che può riferirsi sia a enti collettivi che individuali, la specie è data dal complesso di qualità comuni ad oggetti potenzialmente reali, tutto questo rientra nella fondamentale distinzione tra logica formale che comprende l'utilizzo di concetti, e l'ontologia "materiale" che si occupa di qualità concrete degli oggetti.
Pensare a un contatto cosciente della nostra mente con un "qualcosa" di universale di cui si potrebbe non rendersi conto non è qualcosa di assurdo, il "rendersi conto" di un processo mentale cosciente è un fatto accidentale e ulteriore rispetto al processo mentale cosciente stesso. Ogni atto della coscienza è specificato dall'oggetto a cui si rivolge. Dunque l'atto della coscienza con cui ci rivolgiamo alla nozione di universalità non è lo stesso atto di coscienza con cui penso al primo atto, quest'ultimo è un rivolgersi ulteriore. Del resto molti processi mentali hanno continuato nel tempo a porsi in atto senza che la coscienza riflettente (scientifica) se ne accorgesse. L'attività della coscienza che interviene nell'attività onirica a camuffare ngli elementi libidinosi in quanto sconvenienti socialmente era pressochè sconosciuta prima degli studi di Freud sull'inconscio e sull'interpretazione dei sogni (lasciamo perdere per ora il termine "inconscio", a mio modestissimo avviso fuorviante mentre sarebbe più corretto parlare di "coscienza potenziale", andremmo troppo fuori tema), eppure è sempre stata attuale prima che ce ne rendessimo conto. Inoltre, chi sostiene l'astrattività a-posteriori del concetto di universalità dovrebbe, in base a tale argomento, sostenendo che ogni processo mentale cosciente non potrebbe essere se non anche auto-cosciente e oggetto di una consapevolezza, negare tale processo all'interno della mente degli innatisti dato che questi non se ne renderebbero conto!
Citazione di: davintro il 05 Settembre 2016, 20:09:53 PM
Rispondo a Sgiombo
Proprio il fatto che anche circa un ente non reale e immaginario si possono dare giudizi oggettivi fà sì che qualunque concetto sia formalmente ponibile come "universale". Effettivamente l'espressione "intenzionalità oggettiva" per come l'ho usata, riferita a un concetto rischia di essere fuorviante. Intenzionalità oggettiva non vuol dire presumere che un concetto non sia solo un prodotto della mente ma un esistenza reale (se così fosse certamente il concetto di ippogrifo non sarebbe un concetto oggettivo), vuol dire che il concetto che pongo come elemento di un giudizio lo utilizzo attribuendogli un senso valido per ogni situazione in particolare nel quale l'oggetto può entrare a far parte di uno specifico stato di cose, e che senza tale attribuzione non sarebbe possibile alcun guidizio rivolto a predicare stati di cose oggettivi. Se io giudico che "l'immagine che ho di fronte rappresenta un ippogrifo" questa giudizio è intenzionalmente rivolto a rappresentare uno stato di cose oggettivo e può farlo perchè il concetto di "ippogrifo" ha per me un senso che vale per tutti gli ippogrifi possibili, altrimenti non sarebbe utilizzabile come criterio a-priori per dire che ciò che ho di fronte è un ippogrifo, ho bisogno cioè del concetto generale per giudicare il caso singolo, in questo senso parlavo di "intenzionalità oggettiva" del concetto e sostenevo la corrispondenza tra l'intenzionalità oggettiva del concetto (resa possibile dalla forma universale del concetto) e l'intenzionalità oggettiva del giudizio. La non-oggettività dell'ippogrifo intesa come non-esistenza reale non ha nulla a che fare con l'oggettività che consideravo io in questo contesto, spero di avere charito l'equivoco
CitazioneOvviamente circa un ente non reale ma immaginario (esattamente come circa un ente reale) si possono dare giudizi veri (se se ne predica l' inesistenza reale) o falsi (se se ne predica l' esistenza reale); non capisco in che senso potrebbero essere giudizi "oggettivi" o meno ("soggettivi"? Può oggettivamente accadere che si diano tali giudizi o meno e si può soggettivamente pensare che si diano o meno, ma non vedo l' interesse di queste ovvie considerazioni per la nostra discussione).
Che significa che un qualunque concetto (anche non universale o -come dici tu più sotto- "individuale"), per il fatto che -ovviamente- se ne possa predicare sarebbe formalmente ponibile come "universale"?
Intendi forse "concetto predicabile" come sinonimo di "concetto ponibile come universale"? Ma che senso avrebbe mai questo stabilimento arbitrario, per definizione di un' inutile, ridondante sinonimia?
E d' altra parte per il fatto che se ne possa predicare, il concetto del "mio gatto Attila", che ha una denotazione (e una connotazione) particolare non muta la sua natura particolare in quella universale di "gatto" che invece denota (e connota) caratteristiche universalmente presentate da un numero indefinito di animali.
Inoltre che ogni concetto debba avere un certo senso o connotazione stabilmente accettato dai parlanti e valido "per ogni situazione in particolare nella quale l'oggetto può entrare a far parte di uno specifico stato di cose, e che senza tale attribuzione" di una connotazione "non sarebbe possibile alcun giudizio rivolto a predicare stati di cose (oggettivamente reale o anche soggettivamente immaginario) mi sembra una cosa ovvia: un concetto per predicarlo sensatamente deve aver un certo senso; ma non vedo come tutto ciò possa inserirsi nella discussione su innatezza a priori o acquisizione a posteriori dei concetti, in particolare di quelli universali, e più in particolare ancora (toh, che bel gioco di parole!) del concetto di "universale".
Mi sembra ovvio ma non vedo in che senso rilevante che il concetto di "ippogrifo" abbia per te (e per tutti i parlanti la lingua italiana) un senso che vale per tutti gli ippogrifi (immaginari) possibili, altrimenti non sarebbe utilizzabile come criterio stabilito a posteriori (dopo aver visto svariati cavalli ed uccelli, e non prima di tali molteplici esperienze sensibili) per dire che ciò che hai di fronte è l' immagine di un ippogrifo (ben altra cosa che un ippogrifo!), che hai bisogno cioè del concetto generale per giudicare il caso singolo come appartenente a una classe di oggetti (e del concetto particolare di Ippogrifo Pegaso per giudicare, per esempio, che l' immagine che hai davanti rappresenta il particolare ippogrifo –immaginario- Pegaso).
Essendo l'universalità il carattere formale e non contenutistico del concetto, ogni concetto è universale a prescindere dall'estensione semantica del contenuto, dell'oggetto a cui il concetto si riferisce, e quindi non ci sono difficoltà a pensare a concetti formalmente universali riferiti a singoli individui e non solo a specie. Come il concetto di "gatto" si riferisce ad OGNI possibile gatto, il concetto del singolo gatto Attila, vale per tutti le differenti situazioni di cui di Attila posso fare esperienza, Attila resta Attila, sia quando dorme, quando è sveglio, quando è fuori casa, quando è in casa, quando è giovane, quando invecchierà... In questo caso il concetto del singolo gatto Attila consisterà nella sua identità individuale, vale per tutti i modi per i quali posso fare la sua esperienza, quindi la sua forma è universale come la forma del concetto "gatto", cambia solo l'estensione semantica del contenuto, non più una specie ma un singolo individuo. La molteplicità da cui si astrae non è per forza una molteplicità quantitativa, può essere una molteplicità di aspetti e situazioni riferibili a un ente numericamente unico. Ecco perchè "concetto" e "specie" sono cose diverse. Il concetto è una struttura mentale che può riferirsi sia a enti collettivi che individuali, la specie è data dal complesso di qualità comuni ad oggetti potenzialmente reali, tutto questo rientra nella fondamentale distinzione tra logica formale che comprende l'utilizzo di concetti, e l'ontologia "materiale" che si occupa di qualità concrete degli oggetti.
Citazione
Continuo a non capire in che senso l' l'universalità sarebbe "il carattere formale e non contenutistico" del concetto, in che senso ogni concetto sarebbe universale a prescindere dall'estensione semantica del contenuto, dell'oggetto –reale o immaginario, particolare o universale- a cui il concetto si riferisce: "universalità formale come sinonimo di "concettualità" o di "predicabilità"?
E perché mai?
L' ovvia affermazione che << "il concetto del singolo gatto Attila, vale per tutti le differenti situazioni di cui di Attila posso fare esperienza, Attila resta Attila, sia quando dorme, quando è sveglio, quando è fuori casa, quando è in casa, quando è giovane, quando invecchierà... In questo caso il concetto del singolo gatto Attila consisterà nella sua identità individuale, vale per tutti i modi per i quali posso fare la sua esperienza, quindi la sua forma è universale come la forma del concetto "gatto">> mi sembra un sofisma per cercare vanamente di negare che quello del "mio gatto Attila" è un concetto particolare (che ovviamente ha estensione comprendente tutta la vita dell' individuo particolare che denota, istante per istante: il che non ne fa certo una classe di diversi individui accomunati da una caratteristica astratta ad essi universalmente comune); mentre invece il concetto di "gatto" si riferisce ad ogni possibile gatto, a un indefinito numero di gatti passati, presenti e futuri, a una caratteristica (possibile oggetto di astrazione) universalmente posseduta da un insieme indefinitamente numeroso e di animali e non solo dal particolare gatto Attila.
Mi sembra che tu denomini (indebitamente; o per lo meno alquanto, originalmente e "tendenziosamente") come "universale" il fatto ovvio che il senso o denotazione di un concetto sia necessariamente "costante" (una volta che lo si è stabilito convenzionalmente; e fino ad eventuali, non auspicabili, mutamenti convenzionalmente stabiliti) e non "variabile ad libitum".
Nemmeno riesco a cogliere l' attinenza con la discussione dell' altra ovvia affermazione che "concetto" (in particolare i concetti universali di specie) e "specie" reale (indipendentemente dall' essere eventualmente anche oggetto di pensiero, senso o connotazione di concetto predicato, o meno) sono cose ben diverse.
E d' altra parte se "la specie è data dal complesso di qualità comuni ad oggetti potenzialmente reali" (le quali possono essere presenti in più oggetti concreti appartenenti all' "ontologia" materiale"), allora si tratta puramente e semplicemente di un sinonimo di "concetto astratto o universale", (il quale può avere denotazioni o referenti reali, presentati da più concreti oggetti reali); per esempio il complesso di caratteristiche comuni ad oggetti potenzialmente reali costituito dall' "essere pesanti" non é che il concetto astratto universale di "presantezza".
Pensare a un contatto cosciente della nostra mente con un "qualcosa" di universale di cui si potrebbe non rendersi conto non è qualcosa di assurdo, il "rendersi conto" di un processo mentale cosciente è un fatto accidentale e ulteriore rispetto al processo mentale cosciente stesso. Ogni atto della coscienza è specificato dall'oggetto a cui si rivolge. Dunque l'atto della coscienza con cui ci rivolgiamo alla nozione di universalità non è lo stesso atto di coscienza con cui penso al primo atto, quest'ultimo è un rivolgersi ulteriore. Del resto molti processi mentali hanno continuato nel tempo a porsi in atto senza che la coscienza riflettente (scientifica) se ne accorgesse. L'attività della coscienza che interviene nell'attività onirica a camuffare ngli elementi libidinosi in quanto sconvenienti socialmente era pressochè sconosciuta prima degli studi di Freud sull'inconscio e sull'interpretazione dei sogni (lasciamo perdere per ora il termine "inconscio", a mio modestissimo avviso fuorviante mentre sarebbe più corretto parlare di "coscienza potenziale", andremmo troppo fuori tema), eppure è sempre stata attuale prima che ce ne rendessimo conto. Inoltre, chi sostiene l'astrattività a-posteriori del concetto di universalità dovrebbe, in base a tale argomento, sostenendo che ogni processo mentale cosciente non potrebbe essere se non anche auto-cosciente e oggetto di una consapevolezza, negare tale processo all'interno della mente degli innatisti dato che questi non se ne renderebbero conto!
CitazioneNon prendo in considerazione Freud e la psicoanalisi dei quali ho una pessima opinione come di penose, irrazionali superstizioni antiscientifiche.
Per "mente" intendo quella parte di eventi fenomenici coscienti che non è intersoggettiva e misurabile attraverso rapporti numerici (la cartesiana "res cogitans").
Per definizione non può non essere cosciente.
D' altra parte di ciò che non è cosciente (se realmente qualcosa di non cosciente accade) credo ben poco possa dirsi.
L' astrazione a posteriori dei concetti è comunque un processo cosciente; e lo sarebbe anche l' appercezione a priori di essi, ammessa e non concessa.
Qualsiasi processo mentale (per come lo intendo io: da non confondersi con i processi cerebrali che per me sono tutt' altra cosa!) è per definizione cosciente, è il "rendersi conto di qualcosa, che ci si renda anche conto di rendersene conto (cioè che si sia anche autocoscienti, oltre che coscienti) o meno: un "fatto accidentale e ulteriore rispetto al processo mentale cosciente" è casomai la coscienza di tale processo mentale cosciente, cioè l' autocoscienza.
Non vedo pertanto come la tesi dell' innatezza a priori del conetto di "universalità" possa essere corroborata da queste considerazioni per me senza senso (autocontraddittorie, per come intendo io la coscienza) su pretesi "eventi mentali non fenomenicamente coscienti".
Sostengo l'astrattività a-posteriori del concetto di universalità, in pieno disaccordo dagli innatisti, guardandomi bene dall' affermare che "ogni processo mentale cosciente non potrebbe essere se non anche auto-cosciente e oggetto di una autoconsapevolezza", tesi che mi pare con l'astrattività a-posteriori del concetto di universalità non abbia nulla a che vedere.
Citazione di: sgiomboPensare che vi siano prima cose belle senza la bellezza che le rende in modo diverso tali é una contraddizione che non ho mai affermato.
Sostengo invece tutt' altro: che possono esistere cose belle anche senza che nessuno ne conosca l' esistenza e che prima di vedere cose belle (a meno che non ci venga insegnato da qualcuno che più o meno indirettamente l' ha imparato vedendo cose belle) non si conosce il concetto di "bellezza": lo si conosce a posteriori e non a priori!
Ovvero che non vi é prima una conoscenza della bellezza ideale astratta senza l' esperienza delle cose diversamente e concretamente belle (che mi sembra invece proprio quanto affermassi tu)
Bene, sono contento di questa tua precisazione, se per concetto di bellezza intendiamo la sua definizione (o il tentativo a posteriori di definirla astrattamente, ad esempio definendo dei rapporti formali che la stabiliscono come regole estetiche che sono certamente a posteriori). Le definizioni (e le astrazioni a cui conducono) sono estremamente utili e sono utili per manipolare i significati delle cose di comune accordo pensando di manipolare le cose stesse. Le definizioni si possono insegnare, ma non l'universale in quanto tale (che non è semplicemente una percezione di qualcosa di esterno, noi non percepiamo nulla di esterno), esso è già presente in ogni esperienza, ed è presente come assolutamente indefinibile e assolutamente indicibile. Ma attenzione, non vi è alcun significato universale che non si riveli proprio nelle particolari esperienze e infatti non ho mai detto che debba esservi prima una conoscenza ideale, men che meno di concetti, ma che il significato viene sempre con il segno significante e viceversa, ogni percezione con il senso che la sottende e viceversa. La cosa è sempre con la parola che la manifesta, pur essendo il mondo delle cose e delle parole indipendenti e diversi, sono due mondi legati, sempre connessi, l'uno permette l'altro senza che nessuno preceda l'altro. Noi viviamo sempre e comunque la realtà del mondo fenomenico e lo viviamo sempre soggettivamente: il linguaggio (non solo vocale) non è originariamente uno strumento inventato arbitrariamente da qualcuno per comunicare con gli altri che convengono con lui sugli stessi termini (anche se a posteriori può sembrare tale), nessuno può inventare linguaggi se non per usi molto particolari, ma è un puro strumento di espressione dell'esistenza stessa, è l'umano modo di esistere nella dimensione umana: noi parliamo come gli uccelli volano e i pesci nuotano, nessun uccello e nessun pesce ha mai convenuto con gli altri uccelli o pesci quali movimenti fare per volare o parlare, esattamente come nessun umano ha mai convenuto (se non in linguaggi formali, artificiali e dunque a posteriori) quale significato o significati dovesse indicare un segno o tanti segni anziché un altro o degli altri e in ogni caso, come gli uccelli nell'aria e i pesci nell'acqua, noi siamo sempre nel mondo del linguaggio, sia che si parli del monte Cervino che dell'ippogrifo e ciò che importa è solo il senso contestuale (e non la verità/falsità assoluta) dell'uno o dell'altro.
Propongo a tutti come spunto di riflessione, il link a una splendida lezione di Sini su questo tema, o meglio sul tema della "Differance" di Derrida, che mi pare collegabile anche al discorso sul Noumeno, all'assoluta indefinibilità del Noumeno, come all'assoluta indefinibilità e innominabilità della Differance (che poi è anche un tema profondamente legato al pensiero ebraico alla cui tradizione Derrida, come Husserl, come Levinas, come Freud, appartiene: l'assoluta inconoscibilità del none di Dio). Chiamandola così (Dio, Noumeno, Differance) si è già detto troppo, figuriamoci quanto troppo dice che pretende di parlare in nome di una metafisica definita su concetti religiosi o razionali che siano!
La lezione è piuttosto lunga, ma la complessità della questione rende necessario soffermarcisi sopra, in particolare dal minuto 21 in avanti. Molto pertinente è poi il richiamo a de Saussure sull'inestricabilità senza soluzione del rapporto tra significante e significato, intorno al minuto 40.
https://www.youtube.com/watch?v=LCSzf7Snmmk
Citazione di: maral il 06 Settembre 2016, 23:01:58 PM
Le definizioni (e le astrazioni a cui conducono) sono estremamente utili e sono utili per manipolare i significati delle cose di comune accordo pensando di manipolare le cose stesse. Le definizioni si possono insegnare, ma non l'universale in quanto tale (che non è semplicemente una percezione di qualcosa di esterno, noi non percepiamo nulla di esterno), esso è già presente in ogni esperienza, ed è presente come assolutamente indefinibile e assolutamente indicibile.
CitazioneNoi non percepiamo nulla di esterno alla nostra esperienza fenomenica cosciente, non percepiamo cose in sé (il numeno; se é reale, come personalmente credo, non sento né dimostro).
Mi pare che di ciò che non é assolutamete definibile né dicibile non possa dirsi alcunché, quindi credo che gli aspetti universali astratti delle esperienze fenomeniche di cui parliamo sensatamente, non siano indefinibili né indicibili (infatti nei vocabolari delle varie lingue esistono le definizioni di tutti quelli di essi che si impiegano di fatto).
In una singola esperienza particolare non é presente nulla di universale; solo da una serie di più esperienze particolari possono essere astratte caratteistcihe universalmente in esse presenti.
Ma attenzione, non vi è alcun significato universale che non si riveli proprio nelle particolari esperienze e infatti non ho mai detto che debba esservi prima una conoscenza ideale, men che meno di concetti, ma che il significato viene sempre con il segno significante e viceversa, ogni percezione con il senso che la sottende e viceversa.
CitazioneChe non possa esservi prima delle sperienze particolari concrete alcuna conoscenza ideale, men che meno di concetti, sono perfettamete d' accordo; e anche che il significato viene o sta sempre con il segno significante e viceversa.
Non invece che ogni percezione con il senso che la sottende e viceversa: ribadisco che vi sono percezioni (o insiemi di percezioni) che sono segni significanti e dunque dotate di sinificato, ma anche altre percezioni (o insiemi di percezioni) che non sono segni significanti e dunque non sono dotate di sinificato.
La cosa è sempre con la parola che la manifesta, pur essendo il mondo delle cose e delle parole indipendenti e diversi, sono due mondi legati, sempre connessi, l'uno permette l'altro senza che nessuno preceda l'altro. Noi viviamo sempre e comunque la realtà del mondo fenomenico e lo viviamo sempre soggettivamente: il linguaggio (non solo vocale) non è originariamente uno strumento inventato arbitrariamente da qualcuno per comunicare con gli altri che convengono con lui sugli stessi termini (anche se a posteriori può sembrare tale), nessuno può inventare linguaggi se non per usi molto particolari, ma è un puro strumento di espressione dell'esistenza stessa, è l'umano modo di esistere nella dimensione umana: noi parliamo come gli uccelli volano e i pesci nuotano, nessun uccello e nessun pesce ha mai convenuto con gli altri uccelli o pesci quali movimenti fare per volare o parlare, esattamente come nessun umano ha mai convenuto (se non in linguaggi formali, artificiali e dunque a posteriori) quale significato o significati dovesse indicare un segno o tanti segni anziché un altro o degli altri e in ogni caso, come gli uccelli nell'aria e i pesci nell'acqua, noi siamo sempre nel mondo del linguaggio, sia che si parli del monte Cervino che dell'ippogrifo e ciò che importa è solo il senso contestuale (e non la verità/falsità assoluta) dell'uno o dell'altro.
CitazioneAnche su questo non sono d' accordo.
Il monte Cervino c' era centinaia di migliaia di anni prima che ci fosse alcun uomo che lo vedesse, ci penasasse e ne parlasse.
E d' atra parte vi sono cose artificialmente realizzate dall' uomo (esempio banale: un' automobile) delle quali prima esistono il pensiero (i concetti), i disegni e relativi progetti, le parole con le quali vengono descritti e volendo -e in certi casi di fatto lo si vuole ed accade- perfino il nome che le viene assegnato), e dopo le cose stesse.
E vi sono perfino "cose" pensate, dette e scritte (e magari dipinte o scolpite), esistenti (realmente) solo in quanto tali (pensiero, concetti, figure) senza che mai esistano realmente in quanto "cose reali" (senza che mai esistano cose reali da essi denotate), come gli ippogrifi e gli altri oggetti di fantasia della letteratura e delle arti figurative.
Dunque é evidente che "il mondo delle parole" e "il modo delle cose" sono sì indipendenti e diversi, ma che non sono affatto necessariamente e universalmente, sempre e comunque connessi, che gli oggetti appartenenti all'uno possono accadere del tutto indipendentemente da quelli aparteneti all' altro, senza che l' uno abbia bisogno di alcun "permesso da parte dell' altro", potendo benissimo precederlo, succedergli, o anche essere reale senza che mai lo sia l' altro.
Sono (anticonformisticamente) convinto che il linguaggio sia un' "invenzione" umana e non una dote naturale di cui la nostra specie sia geneticamente dotata, bensì una delle prime e certamente la fondamentale, rivoluzionaria manifestazione della cultura o "storia umana", decisiva nel salto di qualità costituito dall' inizio di quest' ultima nel nostro pianeta rispetto alla "storia naturale" fino ad allora unicamente in atto (ma é una mia convnzione in larga misura intuitiva, non certo "saldamente dimostrabile" e inltre la questione sarebbe troppo complessa per affrontarla qui).
Solo i linguaggi tecnici artificiali vengono formalmente ed esplicitamente, "artificiosamente", arbitrariamente stabiliti e "sanciti"; e tuttavia, anche se in maniera più spontanea e "naif", meno formalmente e rigorosamente definita, tutti i linguaggi (anche "naturali") nascono in realtà per la decisione convenzionale dei parlanti di attribuire arbitrariamente determinati significati a determinati vocaboli (e non istintivamente, come il volo degli uccelli e il nuoto dei pesci).
Beh, a me personalmente la verità o falsià di ciò che si dice o si pensa interessa tantissimo.
ho riletto velocemente il thread.
A mio parere siete entrati troppo velocemente negli universali e nei giudizi di bello, brutto, ecc.
Noi non nasciamo con concetti, ma con meccanismi sicuramente sì, perchè sono quest'ultimi che a loro volta costruiscono conoscenze e concetti.
Sono convinto che ad esempio l'inferenza sia innata nell'uomo, il sapere confrontare, differenziare, trovare denominatori comuni.
Ma è proprio questa innatezza logica (non ancora ovviamente formalizzata perchè questa rientra nelle sintassi linguistiche) che crea l'astrazione. la prima relazione è fra mondo sensibile del percettivo rispetto all'idea, concetto che noi abbiamo costruito.
Il secondo problema è come linguisticamente definiamo, separiamo e uniamo fra loro i concetti(tassonomie, categorie).
L'astrazione può benissimo autogovernarsi, ma il problema di una credibilità razionale fuori dal campo della verifica con il mondo sensibile, presuppone che il linguaggio formalizzi allo stesso modo in cui ha costruito le relazioni fra astrazione e realtà(intendo quì il percepibile)
In altre parole il razionale inteso come "fuori" completamente dal mondo sensibile, per potersi reggere da solo deve necessariamente avere una formulazione formale e linguistica (sintassi e semantica) vera.
Ma è propri quì il problema, l'autoreferenza del sistema e l'ambiguità linguistica mai esaustiva come non lo è mai il conoscere.
Ma daccapo, se l'uomo fin da bambino fantastica e quel fantasticare diventerà organizzare formalmente l'astrazione dentro il razionale
noi non possiamo fingere che non vedendo l'altra metà della luna e non sapendola descriverla non esista..
L'universalità nel momento in cui si relazionano fra loro le astrazioni per ordinarle concetti "salta" fuori" naturalmente.
Come mai la metafisica dei numeri(la matematica) suddivide i numeri naturali, razionali, reali, ecc e costruisce l'insiemistica?
Come ma i la metafisca delle parole (la linguistica formale) comunque definisce ,descrive e rappresenta un mondo, un dominio, un ordine?
...e ancora
Gli oggetti del mondo sensibile, una montagna, oppure un'astrazione come un numero che non è in sè e per sè un oggetto fisico, per poter conoscere devono essere operazionati, relazionati.Gli oggetti quindi non sono ancora conosenza ,Se ad esempio dico montagna, tutte le montagne del mondo sono rappresentate, ma se delimito e sottraggo dal "tutto" il monte Cervino, allora lo devo descrivere separare dal concetto totale di montagna.
Il tutto e il particolare, l'universale e le differenze per negazione o sottrazione ( nel senso che estraggo dal concetto monte, il monte Cervino per specificarlo, indicarlo, denotarlo, descriverlo,ecc.) sono un insieme in cui i particolari ,le specificità son gli elementi che lo compongono.
La fortuna ,diciamo così, della matematica e della logica predicativa, proposizionale, è la qualità operazionale di coniugare l'astratto con il reale,Ovvero se dico uno, non dico niente, ma se dico una mela, due mela, indico una specificità che funziona, ovvero l'astratto permette di "manipolare" la realtà fisica.
La scienza moderna quindi si avvale della metafisica formale dei numeri e delle parole per la loro capacità di coniugarsi agli oggetti fisici.E' questa e sola corrispondenza che la scienza definisce razionale e costruisce conoscenza.
Ma ribadisco, il problema è che se funziona in se e per sè la matematica ,aritmetica, geometria, se funziona la parola dei segni logici ed in entrambi i domini applico segni astratti operazionali (+, - and, or o l'inferenza se....allora, ecc.) la razionalità non si fermerebbe al meccanismo logico/matematico applicato al mondo fisico, ma proseguirebbe nel dominio metafisico da cui si sono formalizzati i meccanismi matematici e logici.
Semplicemente perchè...da cosa viene cosa.... detto banalmente.Sono gli stessi meccanismi innati(a mio parere) che formuleranno come un sistema esperto , il sillogismo, i meccanismi logici di identità non-contraddizione, ecc
E' nella nostra natura chiedersi, visto che siamo arrivati ai concetti astratti dei numeri e parole segnici e la loro operazionalità che contribuisce a definire un sistema con delle proprietà postulate come fondativi, che cosa ci faccio al mondo, l'universo ha un principio e finirà, ecc.
Pensare di non poter pensare, ovvero fermarsi alla sola coniugazione fra forma e sostanza fisica, significa mortificare la propria essenza e potenzialità umana.
Citazione di: paul11 il 07 Settembre 2016, 18:51:39 PME' nella nostra natura chiedersi, visto che siamo arrivati ai concetti astratti dei numeri e parole segnici e la loro operazionalità che contribuisce a definire un sistema con delle proprietà postulate come fondativi, che cosa ci faccio al mondo, l'universo ha un principio e finirà, ecc. Pensare di non poter pensare, ovvero fermarsi alla sola coniugazione fra forma e sostanza fisica, significa mortificare la propria essenza e potenzialità umana.
Eppure, la constatazione che la matematica, la logica e il linguaggio siano convenzioni arbitrarie ed autoreferenti, non ci insegna anche che alcune delle questioni che esse pongono sono (in buona fede) altrettanto arbitrarie e autoreferenti?
Se quelle discipline mediano fra il nostro intelletto e ciò che ci circonda (il mondo), tale mediazione non può essere anche mal impostata o distorta e produrre dei falsi problemi? La consapevolezza che la razionalità non è la realtà, non è l'unico criterio che abbiamo per individuare gli usi impropri del nostro domandare, ovvero quando il domandare resta chiuso nell'autoreferenza formale della sua logica ma non ci apre al mondo o ad un ulteriore sapere?Per fare un esempio (a cui già mi sono riferito in precedenza): il problema zenoniano della competizione fra Achille e la tartaruga non è un forse un problema "serio" solo per la logica e per la matematica (ma non lo è affatto per l'esperienza)? Ciò non indica forse che quel problema era mal posto perchè risultava paradossale solo nella chiusura della sua logica narcisistica, ma perdeva di vista il mondo?P.s. Mi scuso con Paul che, se non erro, ha già avuto la pazienza di discutere con me su questi temi... ma, richiamando il titolo del topic, mi sembrava opportuno ricordare come una "critica della conoscenza" (in entrambi i sensi!) può essere spesso quella di non (ri)conoscere i propri limiti (talvolta limitarsi è opportuno...) e di affrontare qualunque problema (soprattutto quelli ritenuti ormai "classici") con troppo entusiasmo, senza verificarne la legittimità o, visto che Maral ha citato Derrida, senza decostruirli prima di lanciarsi alla ricerca della risposta...
Citazione di: Phil il 08 Settembre 2016, 15:57:47 PM
La consapevolezza che la razionalità non è la realtà, non è l'unico criterio che abbiamo per individuare gli usi impropri del nostro domandare, ovvero quando il domandare resta chiuso nell'autoreferenza formale della sua logica ma non ci apre al mondo o ad un ulteriore sapere?
Per fare un esempio (a cui già mi sono riferito in precedenza): il problema zenoniano della competizione fra Achille e la tartaruga non è un forse un problema "serio" solo per la logica e per la matematica (ma non lo è affatto per l'esperienza)? Ciò non indica forse che quel problema era mal posto perchè risultava paradossale solo nella chiusura della sua logica narcisistica, ma perdeva di vista il mondo?
CitazioneMa chi stabilirebbe la "proprietà" o meno del nostro domandare, ovvero "quando il domandare resta chiuso nell'autoreferenza formale della sua logica ma non ci apre al mondo o ad un ulteriore sapere" e quando no?
Mi pare che i paradossi di Zenone (che ritengo logicamente errati e confutabili, ma questa é un' altra questione) non siano chiusi in una loro logica narcisistica e autoreferenziale, ma riguardino il mondo reale.
Cercano di dimostrare (a mio parere erroneamente, e dunque vanamente) che la realtà é fissa e immutabile malgrado l' apparenza del cambiamento (di confermare le tesi sulla realtà del suo maestro Parmenide).
Quello di Zenone era per me un problema ben posto (anzi: ottimamente posto), ma mal risolto (erroneamente).
Le domande importanti per me (chiaramente si tratta di una preferenza del tutto soggettiva e arbitraria che può benissimo non essere condivisa; denomino "filosofi" coloro che le condividono) non sono solo quelle poste dalla pratica immediata del vivere "giorno per giorno", dei mezzi per conseguire scopi acriticamente assunti in determinate circostanze, ma anche quelle "teoriche (più o meno) pure" circa quali scopi porsi nella vita in generale (magari per trovare come risposta che non se ne possono razionalmente dimostrare ma solo se ne possono irrazionalmente avvertire dentro di sé") o com' é la propria vita e la realtà in cui ci si trova anche indipendentemente da qualsiasi eventuale conseguenza pratica che possa o meno derivare da eventuali risposte, per pura e semplice curiosità o desiderio di conoscenza, amore di sapere (letteralmente "filosofia").
Citazione di: sgiombo il 08 Settembre 2016, 19:50:40 PMMa chi stabilirebbe la "proprietà" o meno del nostro domandare, ovvero "quando il domandare resta chiuso nell'autoreferenza formale della sua logica ma non ci apre al mondo o ad un ulteriore sapere" e quando no?
come suggerivo nella domanda citata:
Citazione di: Phil il 08 Settembre 2016, 15:57:47 PMLa consapevolezza che la razionalità non è la realtà, non è l'unico criterio che abbiamo per individuare gli usi impropri del nostro domandare[...]?
questo almeno come prima indicazione; il resto direi che è compito dell'epistemologia.Citazione di: sgiombo il 08 Settembre 2016, 19:50:40 PMMi pare che i paradossi di Zenone (che ritengo logicamente errati e confutabili, ma questa é un' altra questione) non siano chiusi in una loro logica narcisistica e autoreferenziale, ma riguardino il mondo reale.
Secondo me, sono chiusi nel loro narcisismo proprio perché non guardano (letteralmente) il reale che li circonda: l'osservazione empirica dà un sonante schiaffo a Zenone mostrandogli Achille che surclassa subito la tartaruga, falsificando
di fatto l'apparente paradosso, e dimostrando che il problema si pone solo nell'autoreferenza del sofisma zenoniano, ma non nella realtà.
A che giova allora speculare e confabulare su un problema che sembrerebbe essere reale, ma che in realtà è tale solo sulla carta? Ecco il narcisismo filosofico che, a caccia di problemi (come se non ne avesse già abbastanza!), va in "
overdose" di speculazione e perde di vista i fatti, oppure li super-interpreta...
Restando al tema dell'osservare la realtà e parlando ancora di animali asserviti a scopi filosofici, direi che il gatto di Schrodinger, pur nella sua paradossalità, è molto meno "sofistico" della tartaruga zenoniana, perchè non pone una questione smentita palesemente da fatti comunemente osservabili... un maestro zen (che scomodo spesso in questi casi) avrebbe dato una sonora bastonata a Zenone, per riportarlo con i piedi per terra (e per non farlo travolgere da Achille in corsa...), ma probabilmente non avrebbe alzato un dito per Schrodinger (forse perché non avrebbe compreso il meccanismo radioattivo escogitato ;D).
Citazione di: sgiombo il 08 Settembre 2016, 19:50:40 PM Le domande importanti per me [...] non sono solo quelle poste dalla pratica immediata del vivere "giorno per giorno", dei mezzi per conseguire scopi acriticamente assunti in determinate circostanze, ma anche quelle "teoriche (più o meno) pure" circa quali scopi porsi nella vita in generale [...] o com' é la propria vita e la realtà in cui ci si trova
Su questo non vorrei essere frainteso: mettere in guardia dai falsi problemi filosofici, non riduce tutta la ricerca filosofica alla soluzione di questioni pratiche, anzi... interrogarsi sui problemi ("decostruirli" si diceva) significa fare una filosofia critica rivolta proprio al domandare filosofico stesso, cercando di eliminare i "virus" del pensiero, le perdite di solidità nel ragionamento ed evitando che la ragione si incanti di fronte al suo specchio per contemplare i suoi sterili virtuosismi...
phil,
mi par di capire che se per te esiste una critica alla conoscenza è posta in funzione del dominio in cui si utilizza.
Non so se ti fidi allora della forma, a te interessa la sostanza.Quindi ritieni che il mondo fisico giustifichi la verità formale e non la forma in sè, tanto meno quando la sua escursione è fuori dal dominio fisico.
E' così?
Dove sarebbe il limite della conoscenza?
Che così è la realtà?
Tanto per porre elementi di riflessione.
Quando l'uomo pensava che la Terra fosse piatta e al centro dell'universo, c'era sicuramente un Phil di allora che diceva la stesse cose che tu dici ora. Qual'è il limite dell'esperienza nel mondo e il limite del pensiero.
Come si è arrivati a capire che la Terra fosse rotonda e che non fosse al centro dell'universo.
L'uomo arriva prima con il pensiero o con l'esperienza alla conoscenza?
Un animale ha esperienze, ma conosce?
Einstein progetta la teoria della relatività, lo ha prima esperita?
Il bosone di Higgs è stato prima esperito o teorizzato?
Se espando le proprietà formali logiche e matematiche si apre un mondo a prescindere dal dominio fisico, per cui se a due mele tolgo le mele e rimane il segno astratto due le proprietà associative, commutative, distributive non mutano e posso trasporle ad altri sistemi e discipline.
Citazione di: paul11 il 08 Settembre 2016, 21:26:23 PMphil, mi par di capire che se per te esiste una critica alla conoscenza è posta in funzione del dominio in cui si utilizza. Non so se ti fidi allora della forma, a te interessa la sostanza.Quindi ritieni che il mondo fisico giustifichi la verità formale e non la forma in sè, tanto meno quando la sua escursione è fuori dal dominio fisico. E' così?
Non la penso così. Provo a spiegarmi meglio: penso che la forma (astratta) sia imprescindibile per il ragionamento (che è anch'esso astratto), constato che esistono elementi formali e concetti che non hanno una dimensione empirica e proprio per questo possono regolare il mondo (sociale, scientifico, etc...), la stessa filosofia può occuparsi tenacemente e "doverosamente" di questioni non osservabili o esperibili...
Ben vengano ricerche, intuizioni, supposizioni e "ipotesi di lavoro", ma ciò su cui porrei l'attenzione è anche la possibilità (non necessità!) di coinvolgere l'esperienza (come ci insegna la scienza classica: sperimentare!),
almeno se è possibile... un esempio banale: posso anche congetturare una forza di gravità che spinge i corpi lontano dalla terra, cercare di matematizzarla, etc. ma se l'esperienza mi dimostra che non è così (v. Zenone), devo rinunciare a sostenere quella teoria e idearne una nuova, magari non a partire da quella "sbagliata", ma iniziando nettamente da capo.
Se invece teorizzo un'interpretazione ermeneutica, non devo pormi il problema di cercare una verifica empirica, così come se propongo una chiave di lettura socio-politica della storia di una civiltà, non dovrò fare esperimenti, ma al massimo verificare le fonti su cui mi baso...
Per le questioni filosofiche più teoretiche si tratta, secondo me, di interrogare anzitutto la stessa interrogazione, domandarsi il "come" ci si pone la domanda (prima di rivolgersi al "cosa" ci si domanda), di tenere più aperto possibile l'orizzonte della ricerca e, per onestà intellettuale (come si diceva tempo fà), essere pronti a ri
conoscere le
impasse, le delusioni e, soprattutto, i falsi problemi...
P.s. In filosofia tutto è lecito? No, quella è la letteratura... ;)
Phil,
il problema è tuo non mio. Tu riconosci la forza della ragione ,ma hai fede nella percezione della realtà:la dicotomia è tua e genera incoerenza.
Se non rispondi a cosa sia la realtà, cosa giustifica la verità nella conoscenza, non potrai trovare risposte se la forma riesce ad autosostenersi. Se pensi che sia la realtà a darci conoscenza e che il movimento del conoscere si origini dalle cose e passi solo dopo a noi, riterrai l'uomo agente conoscitivo, ma passivo.
Tu pensi che il mondo si offra a noi per essere conosciuto, ma l'uomo può sapere ancora prima di conoscere perchè i meccanismi sono innati come l'istinto in un animale, deve solo sistematizzarli, formalizzarli correttamente.
Se la forma corretta cammina sulle ali del pensiero, l'immagine nasce prima della realtà fisica.
La relatività era nella mente di Einstein, e non ancora dimostrata là fuori nel mondo , fra fantasticheria e genialità è solo la correttezza della forma che decide che anticipa ciò che le percezioni dei sensi che la realtà può offrire, nasconde.
Un animale esperisce solo deambulando, l'uomo conosce anche nell'immobilità.
Citazione di: sgiomboBeh, a me personalmente la verità o falsià di ciò che si dice o si pensa interessa tantissimo.
E a chi non interessa la verità? Da sempre ogni essere umano ci corre dietro tentando di stabilirla con miti, parole o ispirazioni che giungono dall'alto, filosofie costruite razionalmente, esperienze e verifiche, teorie scientifiche. Dove sta la verità nelle infinite mappe che l'uomo costruisce per localizzarla? Dipende dalla mappa, ossia dipende dalle corrispondenze che di volta in volta si trovano con quello che vivendo sentiamo ci possa appartenere o meno. La verità è sempre in funzione del linguaggio usato per cercarla, di metafore e tropi linguistici. Vale anche per il Monte Cervino. E' solo questione di mappe, ma sotto le mappe non c'è mai solo una convenzione, ma la realtà che ogni mappa tenta di esprimere e non ci riesce mai fino in fondo, a meno di non volerlo credere per sentirsi tranquilli e al sicuro, come a casa propria o nella propria tana, finché non ci cade addosso (e allora, non sia mai, può accadere di scoprire che tutto quello che si credeva vero era falso e viceversa e che gli ippogrifi non li vedevamo solo perché quando alzavamo lo sguardo al cielo, si camuffavano dietro le nuvole).
Citazione di: paul11Pensare di non poter pensare, ovvero fermarsi alla sola coniugazione fra forma e sostanza fisica, significa mortificare la propria essenza e potenzialità umana.
Il problema non credo sia il pensare di non pensare, ma il pensare di pensare da cui non si esce, nemmeno per non pensare. Si può certo pensare in molti modi: analitico (come Zenone che si smarrisce nella sua analisi infinita del cammino per andare da A a B e per quanto riduca la distanza non fa mai un solo passo avanti, o come fa l'attuale conoscenza specialistica che così spera di tenere tutto sotto controllo), oppure sintetico, magari dando la preminenza a un originaria vaga intuizione a priori su cui è però sempre doveroso mantenere il dubbio, anche quando l'esperienza sembra confermarla, ché l'esperienza inganna sempre tutti i suoi verificatori. Oppure induttivo: all'inizio c'erano le cose da cui astraendo si arriva alla cosa, al concetto generale di ogni cosa, al monte che sta sotto ogni singola montagna e alla regola che definisce ogni regola, some se qualcosa potesse esistere senza quella cosa che già tutte le comprende. Oppure deduttivo: all'inizio c'è la cosa generalissima, l'uno che tutto comprende e via via per sottrazione infinita, si arriva poi a ogni cosa, a vederle una per una, come a sorgere nella forma chiara che a ciascuna spetta dalla nebbia profonda che tutte le forme tiene insieme confondendole continuamente.
Non possiamo non pensare, e pensando parlare a noi stessi per poterci in qualche modo sempre un po' trovare, finché c'è la coscienza che ci mantiene in bilico tra immagini continuamente sfuggenti e disperatamente, avidamente trattenute oppure rigettate lontano con odio e disgusto, compresa l'immagine di noi stessi tra le infinite altre, finché morte non ci separi unendo e confondendo ancora ogni forma in una sola e ogni segno nell'insignificanza di tutti i segni. Come in principio: un'agitata e nebbiosa turbolenza che nulla sa di sé, nemmeno il suo nome (che altro è infatti il suo nome se non il nome di tutte le infinite forme a ognuna di esse raccontato?).
Maral,
l'impasse è sempre un errore della forma. la forma è una costruzione logica e metaforicamene è una casa,Costruisci piani dalle fondamenta e la capacità di sostenersi è nei rapporti delle forze che devono essere regolati, ovvero nel sistema di relazione.
La correttezza formale è indispensabile affinchè il pensiero non sfugga alla forma e diventi fantasia o si disperda nel mondo fisico.
Non infrangerti nel disfattismo filosofico attuale che lecca le sue ferite quasi autocompiaciuto.
Ci si meraviglia se la scienza spedisce un satellite Juno su Giove? E altri compiangono se stessi nel fallimento formale? E chi mai è riuscito senza andare fisicamente su Giove, da milioni di chilometri di distanza a spedirlo senza errore? Se l'uomo evolve nella conoscenza è perchè va oltre la propria esperienza estendendo le regole formali e applicandole.Le altre culture umane non conoscono la capacità di sistematizzare e categorizzare il pensiero.
Non vorrei essere adesso frainteso.So benissimo di aporie, antinomie e paradossi.
Sto forzando il pensiero perchè vedo scoramento nelle proprie possibliità.
Non si vuol capire che la forza dei linguaggi formali è alla fondamenta di tutte le forme di applicazioni fisiche,metafisiche persino religiose.L'uomo fattosi storia e cultura decide nei cicli dei tempi di spostare i focus: prima la religione, poi la metafisica e infine la fisica e chissà mai domani.
Perchè la conoscenza ha prima ancora un' autocoscienza e viene indirizzata da una volontà.
Citazione di: paul11 il 08 Settembre 2016, 23:11:40 PMPhil, il problema è tuo non mio.
Scusami, ma non ho ben capito di quale problema parli...
Citazione di: paul11 il 08 Settembre 2016, 23:11:40 PMTu riconosci la forza della ragione ,ma hai fede nella percezione della realtà
"Fede" non mi sembra la parola esatta ;) ; se hai avuto modo di leggere i miei post precedenti, quelli sull'astrazione, avrai notato che ne faccio una questione di "linguaggio" (e di interpretazione), non di realtà...
Citazione di: paul11 il 08 Settembre 2016, 23:11:40 PMla dicotomia è tua e genera incoerenza.
Anche qui non colgo: quale incoerenza?
Citazione di: paul11 il 08 Settembre 2016, 23:11:40 PMTu pensi che il mondo si offra a noi per essere conosciuto,
In tutta onestà, non lo penso... dove hai letto qualcosa che ti ha spinto a interpretarmi così?
Per me, il mondo non "si offre", ma è l'uomo che gli si rivolge con tutto il suo apparato di (pre)concetti, teorie, forme astratte, esperimenti, etc. la conoscenza è una struttura formale (im)posta dall'uomo alla sua stessa visione del mondo (ecco l'autoreferenza!).
Citazione di: paul11 il 08 Settembre 2016, 23:11:40 PMma l'uomo può sapere ancora prima di conoscere perchè i meccanismi sono innati
L'uomo prima di conoscere qualcosa, non "la sa"... ipotizza, teorizza, suppone, spera, intuisce,
deduce ma non sa (per questo esistono le famigerate "eccezioni alla regola"...); proprio perché, come tu ricordi, i meccanismi sono innati, non la conoscenza (e anche il meccanismo innato è sottoposto a manutenzione, verifica, modifica, etc. da parte del singolo individuo...).Citazione di: paul11 il 08 Settembre 2016, 23:11:40 PMLa relatività era nella mente di Einstein, e non ancora dimostrata là fuori nel mondo
Era già nella sua mente come idea platonica, oppure lui l'ha elaborata partendo da tutto l'apparato formale (matematico, etc) già disponibile, modificandolo, completandolo, arricchendolo, grazie ad un ragionamento "originale"... non a caso, sul piano linguistico, ho già accennato ai "neologismi" come irruzione del "nuovo" che riformula, altera, stravolge il "vecchio"...
Phil,
francamente non ho ancora capito la tua tesi, o se ne hai.
La mia è :
1)che abbiamo innati dei meccanismi delle premesse che diverranno logica, come l'inferenza che permette di selezionare , differenziare e poi unire
2) il mondo fisico, empirico ci serve,dal punto di vista della sistematizzazione delle astrazioni. come esperienza di affinamento di quei meccanismi che diventano regole formali ampliandosi oltre all'inferenza.
3) l'universalità nasce prima ancora della razionalizzazione logica della forma dell'astrazione in concetti
e diventano nel linguaggio formale i quantificatori universali ed esistenziali nella logica proposizionale moderna
4) la correttezza di un sistema formale è alla base del sistema conoscitivo, come validazione e giustificazione del processo o procedimento conoscitivo. Così come la scienza moderna costruisce un metodo sperimentale a prescindere dall'applicazione, ovvero si regge universalisticamente e successivamente lo applica a tutti gli oggetti, fenomeni, così come un sistema formale corretto può reggersi universalisticamente ed essere autoapplicato nei concetti astratti anche indotti e dedotti dall'esperienza del mondo fisico ed empirico. Ovvero lo stesso procedimento formale regolativo può essere utilizzato in diversi domini.
Citazione di: paul11 il 09 Settembre 2016, 00:50:18 AMPhil, francamente non ho ancora capito la tua tesi, o se ne hai.
Questa è l'onestà intellettuale di cui parlavo, apprezzo la tua sincerità, grazie!
Citazione di: paul11 il 09 Settembre 2016, 00:50:18 AM1)che abbiamo innati dei meccanismi delle premesse che diverranno logica, come l'inferenza che permette di selezionare , differenziare e poi unire
Concordo.
Citazione di: paul11 il 09 Settembre 2016, 00:50:18 AM2) il mondo fisico, empirico ci serve,dal punto di vista della sistematizzazione delle astrazioni. come esperienza di affinamento di quei meccanismi che diventano regole formali ampliandosi oltre all'inferenza.
Concordo.
Citazione di: paul11 il 09 Settembre 2016, 00:50:18 AM3) l'universalità nasce prima ancora della razionalizzazione logica della forma dell'astrazione in concetti
Su questo non concordo, ma ne ho già discusso a lungo nelle pagine precedenti con Davintro (non voglio rendere il topic ridondante).Citazione di: paul11 il 09 Settembre 2016, 00:50:18 AM4) la scienza moderna costruisce un metodo sperimentale a prescindere dall'applicazione,
Un metodo
sperimentale che prescinde dall'applicazione, non so se possa essere definito sperimentale (chi glielo spiega a Galileo?).
Citazione di: paul11 il 09 Settembre 2016, 00:50:18 AMlo stesso procedimento formale regolativo può essere utilizzato in diversi domini.
...e in questo essere "multiuso" si annida il rischio di falsi problemi di cui parlavo prima, che giustifica una riflessione epistemologica sul metodo del domandare (ancora prima che sull'"oggetto" della domanda).
Phil,
anche se dovessimo avere posizioni diverse, l'importante è confrontarsi da persone con "sale in zucca" e aperte al confronto, quindi anch'io ti ringrazio.
Tu non pensi che l'universalità nasca già in un ragazzo, nel momento in cui confrontando gli oggetti nel mondo e imparando a denotare linguisticamente quella "cosa" e chiamandola casa costruisce un insieme che li accomuna? la particolarità è l'attribuzione e la predicazione, per cu iuna casa è un condominio, un grattacielo, una villa, è gilla, verde, bianca, ecc.
Diversamente come l'uomo avrebbe costruito le leggi matematiche, fisiche, ovvero regole e principi universali ?
Il mitico teorema pitagorico lo insegnano, se non ricordo male, in terza elementare e vale per "tutti" i triangoli accomunati da determinate caratteristiche. E' quindi insito e implicito la capacità di accomunare e particolarizzare ,proprio grazie alla selezione che quell'inferenza naturale dà la capacità di astrarre segnicamente, linguisticamente, simbolicamente, qualunque oggetto fisco nel mondo.
Il metodo è simile alla legge. Non è che cambiano i metodi sperimentali in funzione degli oggetti fisici da studiare e determinare.
la regola di base è universale.Se analizzo un tessuto di un malato non cambio metodo in funzione della persona, così come non muto il procedimento step by step di un'analisi chimica.
ma attenzione, qualunque metodo applicato alle varie discipline scientifiche , che si tratti di scoprire il bosone di Higgs oppure di analizare un tessuto organico o di procedere all'analisi chimica con reagenti è a sua volta nella regola universale della repitibilità della sperimentazione affinchè siano avvalorati i dati finali.
Insomma quando ci insegnarono a come risolvere un'equzione, o procedere all'analisi algebrica, il metodo prescinde dai numeri.
Ora se le leggi e procedure a loro volta sono state formulate grazie alla logica/ matematica, se quello stesso procedere nella correttezza formale con l'analisi fosse portata a isoli concetti estrapolati dal mondo attraverso il segno e simbolo dell'astrazione, non capisco dove sia il problema?
Quando si studia l'operazionalità della logica proposizionale si utilizzano simboli e non oggetti fisici e ribadisco, l'importante è che le regole date dagli enunciati e postulati fondativi di quella disciplina siano veri, dopodichè la soluzione procedurale appartiene a quel dominio e quindi essendo la logica il meccanismo formale della conoscenza che diventa scienza(quì intendo per scienza il fisico e il metafisico e persino il religioso in termini razionali). Basta vedere la prova dimostrativa logica di'esistenza di Dio da parte di un certo Godel.
Citazione di: Phil il 08 Settembre 2016, 21:13:05 PM
Citazione di: sgiombo il 08 Settembre 2016, 19:50:40 PMMa chi stabilirebbe la "proprietà" o meno del nostro domandare, ovvero "quando il domandare resta chiuso nell'autoreferenza formale della sua logica ma non ci apre al mondo o ad un ulteriore sapere" e quando no?
come suggerivo nella domanda citata:
Citazione di: Phil il 08 Settembre 2016, 15:57:47 PMLa consapevolezza che la razionalità non è la realtà, non è l'unico criterio che abbiamo per individuare gli usi impropri del nostro domandare[...]?
questo almeno come prima indicazione; il resto direi che è compito dell'epistemologia.
CitazioneDunque la filosofia (più in particolare l' epistemologia) va aplicata a tutte le domande (le quali sono previamente tutte "lecite") onde stabilire quando il domandare resta chiuso nell'autoreferenza formale della sua logica ma non ci apre al mondo o ad un ulteriore sapere" e quando no.
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Citazione di: sgiombo il 08 Settembre 2016, 19:50:40 PMMi pare che i paradossi di Zenone (che ritengo logicamente errati e confutabili, ma questa é un' altra questione) non siano chiusi in una loro logica narcisistica e autoreferenziale, ma riguardino il mondo reale.
Secondo me, sono chiusi nel loro narcisismo proprio perché non guardano (letteralmente) il reale che li circonda: l'osservazione empirica dà un sonante schiaffo a Zenone mostrandogli Achille che surclassa subito la tartaruga, falsificando di fatto l'apparente paradosso, e dimostrando che il problema si pone solo nell'autoreferenza del sofisma zenoniano, ma non nella realtà.
A che giova allora speculare e confabulare su un problema che sembrerebbe essere reale, ma che in realtà è tale solo sulla carta? Ecco il narcisismo filosofico che, a caccia di problemi (come se non ne avesse già abbastanza!), va in "overdose" di speculazione e perde di vista i fatti, oppure li super-interpreta...
Citazione(Prescindendo dal fatto che di fatto gli aforismi di Zenone sono per me logicamente errati, confutabili con relativa faciltà, che é tutt' atra questione) noto che l'osservazione empirica (superficialmente, acriticamente assunta -anzi: interpretata- sembrebebbe dare sonori ceffoni anche a chi sotenesse che il bastone immerso parzialmente nell' acqua non si piega, che la terra é sferica e non piatta, che il sole é realtivamente fermo e la terra relativamente in movimento intorno ad esso, ecc., ec., ecc.
Zenone riteneva di avere dei buoni argomenti (a mio avviso errati e in ultima analisi falsi) nelle teorie del suo maestro Parmenide per credere che il superamento della tartaruga da parte di Achille fosse illusorio allo stesso modo dell' angolatura del bastone nell' acqua, ecc., e dunque bene ha fatto a cercare di sottoporre a critica razionale la realtà del sorpasso del rettile da parte dell' atleta (anche se errando), come apparenza della realtà (e non come sua auorefernziale masturbazione mentale) da smentire oppure confermare sottoponendola a verifica razionale.
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Citazione di: sgiombo il 08 Settembre 2016, 19:50:40 PM Le domande importanti per me [...] non sono solo quelle poste dalla pratica immediata del vivere "giorno per giorno", dei mezzi per conseguire scopi acriticamente assunti in determinate circostanze, ma anche quelle "teoriche (più o meno) pure" circa quali scopi porsi nella vita in generale [...] o com' é la propria vita e la realtà in cui ci si trova
Su questo non vorrei essere frainteso: mettere in guardia dai falsi problemi filosofici, non riduce tutta la ricerca filosofica alla soluzione di questioni pratiche, anzi... interrogarsi sui problemi ("decostruirli" si diceva) significa fare una filosofia critica rivolta proprio al domandare filosofico stesso, cercando di eliminare i "virus" del pensiero, le perdite di solidità nel ragionamento ed evitando che la ragione si incanti di fronte al suo specchio per contemplare i suoi sterili virtuosismi...
CitazioneD' accordo.
E dunque quali siano (o meno) i "falsi problemi filosofici" non si può stabilire acriticamente a priori (come di fatto fanno, me lo si lasci stigmatizzare, molti scienziati, anche validi nel loro "limitato orticello teorico" -absit iniuria verbis- e non pochi filosofi positivisti, scientisti, ecc.); lo si può fare soltanto sottoponendoli a critca razionale, dunque filosofando a proposito di essi: i falsi problemi filosofici possono essere riconosciuti essere tali solo analizzandoli filosoficamente, a posteriori.
Citazione di: maral il 08 Settembre 2016, 23:12:57 PM
CitazioneBeh, a me personalmente la verità o falsià di ciò che si dice o si pensa interessa tantissimo.
E a chi non interessa la verità? Da sempre ogni essere umano ci corre dietro tentando di stabilirla con miti, parole o ispirazioni che giungono dall'alto, filosofie costruite razionalmente, esperienze e verifiche, teorie scientifiche. Dove sta la verità nelle infinite mappe che l'uomo costruisce per localizzarla? Dipende dalla mappa, ossia dipende dalle corrispondenze che di volta in volta si trovano con quello che vivendo sentiamo ci possa appartenere o meno. La verità è sempre in funzione del linguaggio usato per cercarla, di metafore e tropi linguistici. Vale anche per il Monte Cervino. E' solo questione di mappe, ma sotto le mappe non c'è mai solo una convenzione, ma la realtà che ogni mappa tenta di esprimere e non ci riesce mai fino in fondo, a meno di non volerlo credere per sentirsi tranquilli e al sicuro, come a casa propria o nella propria tana, finché non ci cade addosso (e allora, non sia mai, può accadere di scoprire che tutto quello che si credeva vero era falso e viceversa e che gli ippogrifi non li vedevamo solo perché quando alzavamo lo sguardo al cielo, si camuffavano dietro le nuvole).
CitazioneDi fatto a non pochi esseri umani interessa solo agire acriticamente, eterodiretti da mode, ideologie, ecc.
La verità interssa (soltanto) a chi si pone il problema della verità.
Concordo che la verità (oltre ad essere sempre inevitabilmente limitata; per lo meno per noi soggetti conoscenti umani; ma altri non ne conosco) non dipende soltanto arbitrariamente, soggettivistivisticamente, convenzionalisticamente dalle assunzioni umane aprioristicamente assunte, ma anche dalla realtà quale é indipendentemente dall' evetuale essere pure conosciuta.
Esistono anche "mappe" in sostanza integralmente false (superstizioni, astrologia, chiromanzia, cartomanzia, ecc.; ben sapendo di andare controcorrente, personalmente vi inserirei a pieno titolo anche la -o le- psicoanalisi; dico "in sostanza" perché la perfezione non esiste, nemmeno in negativo).
Se domani venisse scoperto un ippogrifo e la scoperta fosse confermata scientificamente (sconvolgendo non poco non solo la tassonomia, ma anche l' anatomia comparata dei vertebrati) crederi alla sua esistenza (nuove specie animali e vegetali vengono scoperte continuamente).
Ma ho forissime ragioni per ritenerlo un fatto impossibile, e (almeno per adesso) questo é ciò che conta.
Citazione di: paul11 il 08 Settembre 2016, 23:11:40 PM
Phil,
il problema è tuo non mio. Tu riconosci la forza della ragione ,ma hai fede nella percezione della realtà:la dicotomia è tua e genera incoerenza.
Se non rispondi a cosa sia la realtà, cosa giustifica la verità nella conoscenza, non potrai trovare risposte se la forma riesce ad autosostenersi. Se pensi che sia la realtà a darci conoscenza e che il movimento del conoscere si origini dalle cose e passi solo dopo a noi, riterrai l'uomo agente conoscitivo, ma passivo.
Tu pensi che il mondo si offra a noi per essere conosciuto, ma l'uomo può sapere ancora prima di conoscere perchè i meccanismi sono innati come l'istinto in un animale, deve solo sistematizzarli, formalizzarli correttamente.
Se la forma corretta cammina sulle ali del pensiero, l'immagine nasce prima della realtà fisica.
La relatività era nella mente di Einstein, e non ancora dimostrata là fuori nel mondo , fra fantasticheria e genialità è solo la correttezza della forma che decide che anticipa ciò che le percezioni dei sensi che la realtà può offrire, nasconde.
Un animale esperisce solo deambulando, l'uomo conosce anche nell'immobilità.
CitazioneScusate l' intromissione.
Anch' io penso che sia la realtà (e non noi arbitrariamente, ad libitum) a darci conoscenza e che il movimento del conoscere si origini dalle cose (o meglio vada alle cose; comunque che la conoscenza non sia aprioristicamente dentro di noi, indipendentemente dalle cose).
Ogni agente conoscitivo é per forza relativamente passivo, nel senso che può conoscere ciò che é o accade indipendentemente dalla sua volontà (non può conoscere, di reale, ciò che gli pacerebbe acadesse ma ciò che indipendentemente -e magari malgrado lui- da lui accade).
Poi se esiste divenire deterministico, allora la conoscenza (scientifica!) può essere anche mezzo per raggiungere attivamente scopi realistici attraverso l' applicazione adeguata di mezzi conosciuti ai dati di fatto reali (assecondando e utilizzando per quanto possibile le leggi del divenire naturale reale e non certo plasmandole o modificandole ad libitum).
L' uomo prima di esperire può solo avere "conoscenze" analitiche a priori, che non dicono nulla su come é o diviene la realtà ma solo su quali proposizioni (arbitrarie; del tutto indipendenti dalla realtà; vere o false che siano) conseguenti sono coerenti con certe proposizioni che ne sono premesse: non é conoscenza della realtà (di come é o diviene la realtà non ci dice nulla) ma solo di come si ragiona correttamente (circa la realtà o mano).
Di innato c' é solo l' istinto alla ricerca della conoscenza e c' é pure la capacità (potenziale) di ragionare sui dati empirici, non certo le conseguenze (filosofiche, scientifiche, ecc.) dell' applicazione di fatto (attuale) di questa capacità ai dati empirci; la quale a posteriori ci dà conscenze circa la realtà (e non solo circa il corretto ragionare).
La relatività non é scientificamente vera perché a priori, nella mente di Einstein era logicamente coerente (questa era solo un' ovvia conditio sine qua non, necessaria ma non affatto sufficiente della sua verità), ma perché verificata dalle osservazioni empiriche.
Anche la teoria della dinamica cartesiama "dei vortici" era logicamente corretta (e se vogiamo geniale; infatti certamente un genio era comunque Cartesio), ma essendo stata empiricamente falsificata é da escludersi sia vera.
Citazione di: paul11 il 09 Settembre 2016, 09:11:15 AMTu non pensi che l'universalità nasca già in un ragazzo, nel momento in cui confrontando gli oggetti nel mondo e imparando a denotare linguisticamente quella "cosa" e chiamandola casa costruisce un insieme che li accomuna?
Secondo me l'universalità è un attributo derivato dall'astrazione ("astrazione negativa"), per cui fra l'esperienza sensibile di quel ragazzo e l'universalità dei casi linguistici possibili, il passaggio cardine è l'azione dell'astrazione. Su tutto il resto sono d'accordo, discernerei soltanto fra il concetto di "universalità" e l'operazione di "astrazione" (troppo cavilloso?). Citazione di: paul11 il 09 Settembre 2016, 09:11:15 AMNon è che cambiano i metodi sperimentali in funzione degli oggetti fisici da studiare e determinare. la regola di base è universale.Se analizzo un tessuto di un malato non cambio metodo in funzione della persona, così come non muto il procedimento step by step di un'analisi chimica. ma attenzione, qualunque metodo applicato alle varie discipline scientifiche , che si tratti di scoprire il bosone di Higgs oppure di analizare un tessuto organico o di procedere all'analisi chimica con reagenti è a sua volta nella regola universale della repitibilità della sperimentazione affinchè siano avvalorati i dati finali.
Se non erro, i metodi sperimentali di studio non cambiano in funzione degli oggetti (x
1, x
2, x
3...), ma cambiano in base al tipo di oggetto (x, y, z...): è vero che ci sono alcune linee guida generiche (una sorta di "buon senso" scientifico), fra cui la ripetibilità, la formalizzazione, etc. ma ogni disciplina di studio (chimica, etologia,
fisica, linguistica, etc.) ha dei metodi personalizzati ad hoc, ed è proprio questo essere calibrati sull'oggetto di studio che li rende applicabili. Quindi i principi generali del buon metodo scientifico vanno poi declinati in base al campo d'applicazione, diventando metodi (al plurale).Citazione di: paul11 il 09 Settembre 2016, 09:11:15 AMOra se le leggi e procedure a loro volta sono state formulate grazie alla logica/ matematica, se quello stesso procedere nella correttezza formale con l'analisi fosse portata a isoli concetti estrapolati dal mondo attraverso il segno e simbolo dell'astrazione, non capisco dove sia il problema?
Più che un problema, c'è un rischio: quello dei falsi problemi... quanto più un ragionamento è lontano dall'esperienza (autoreferente nel suo formalismo), tanto più diventa non-falsificabile (e qui Popper storcerebbe il naso) con le conseguenze aleatorie che ne derivano... finché si tratta di gareggiare con una tartaruga, è facile riportare la teoria alla realtà (e fare i conti con i fatti), se invece non si tratta di formalizzazioni verificabili, allora l'
episteme rischia di diventare dotta
doxa scientista...
Citazione di: paul11 il 09 Settembre 2016, 09:11:15 AMBasta vedere la prova dimostrativa logica di'esistenza di Dio da parte di un certo Godel.
... e questo potrebbe essere uno dei casi a cui mi riferivo prima (dotta
doxa non-falsificabile); ma lascerei i discorsi religiosi all'apposita sezione ;)
Citazione di: sgiombo il 09 Settembre 2016, 12:47:57 PM
noto che l'osservazione empirica (superficialmente, acriticamente assunta -anzi: interpretata- sembrebebbe dare sonori ceffoni anche a chi sotenesse che il bastone immerso parzialmente nell' acqua non si piega, che la terra é sferica e non piatta, che il sole é realtivamente fermo e la terra relativamente in movimento intorno ad esso, ecc., ec., ecc.
[corsivo mio]
Infatti la "qualità" dell'interpretazione dell'osservazione-sperimentazione non ha un ruolo affatto marginale. In fondo è la stessa esperienza concreta ad aver dimostrato che il bastone non si piega (basta toccarlo sott'acqua), che la terra è sferica (nave che scompare all'orizzonte e viaggi intorno al globo), che la terra si muove relativamente al cosmo (osservazione astronomica della posizione delle stelle, se non dico una blasfemia...). Quindi in questi casi c'è stata una prima esperienza ingannevole a cui è seguita un'esperienza più critica che ha svelato l'arcano.
Nel caso di Zenone, al contrario, l'esperienza non forniva nessun inganno o stranezza (Achille batte sempre la tartaruga senza intoppi!), ma l'elucubrazione astratta ha invece congetturato un (falso) problema delle distanze parziali, dei tempi intermedi, etc. Se lo scopo era confermare l'essere parmenideo con i suoi attributi, il buon Zenone ha impostato i suoi argomenti paradossali in modo controproducente (costruendo una pseudo-realtà, parodistica e virtuale, in cui si pone il problema della gara fra i due protagonisti e il vincente non è quello "reale"...).
Citazione di: Phil il 09 Settembre 2016, 16:20:12 PM
Citazione di: sgiombo il 09 Settembre 2016, 12:47:57 PM
noto che l'osservazione empirica (superficialmente, acriticamente assunta -anzi: interpretata- sembrebebbe dare sonori ceffoni anche a chi sotenesse che il bastone immerso parzialmente nell' acqua non si piega, che la terra é sferica e non piatta, che il sole é realtivamente fermo e la terra relativamente in movimento intorno ad esso, ecc., ec., ecc.
[corsivo mio]
Infatti la "qualità" dell'interpretazione dell'osservazione-sperimentazione non ha un ruolo affatto marginale. In fondo è la stessa esperienza concreta ad aver dimostrato che il bastone non si piega (basta toccarlo sott'acqua), che la terra è sferica (nave che scompare all'orizzonte e viaggi intorno al globo), che la terra si muove relativamente al cosmo (osservazione astronomica della posizione delle stelle, se non dico una blasfemia...). Quindi in questi casi c'è stata una prima esperienza ingannevole a cui è seguita un'esperienza più critica che ha svelato l'arcano.
Nel caso di Zenone, al contrario, l'esperienza non forniva nessun inganno o stranezza (Achille batte sempre la tartaruga senza intoppi!), ma l'elucubrazione astratta ha invece congetturato un (falso) problema delle distanze parziali, dei tempi intermedi, etc. Se lo scopo era confermare l'essere parmenideo con i suoi attributi, il buon Zenone ha impostato i suoi argomenti paradossali in modo controproducente (costruendo una pseudo-realtà, parodistica e virtuale, in cui si pone il problema della gara fra i due protagonisti e il vincente non è quello "reale"...).
CitazioneNon sto a ripetere che Zenone di fatto errava (su questo siamo d' accordo, ma non é questo il problema).
Insisto invece che fosse del tutto "legittimo" (razionale e in linea di principio utile alla ricerca della conoscenza; per quanto di fatto errato), e non una vana elucubrazione oziosa, il suo criticare il moto osservato empiricamente, anche con argomenti puramente logico-matematici (oltre che eventualmente con argometi empirici): se (come non é di fatto) questi avessero effettivamente dimostrato una contraddizione logica e dunque l' assurdità nella credenza nel mutare del reale, allora questo sarebbe bastato (senza bisogno di ultriori osservazioni empiriche) per confutarla: la coerenza logica non é una condizione sufficiente per la verità in assenza di verifica empirica (logicamente coerente era anche la teoria meccanica cartesiana "dei vortici"), ma ne é comunque una condizione necesaria.
Citazione di: maral il 06 Settembre 2016, 23:01:58 PM
CitazionePensare che vi siano prima cose belle senza la bellezza che le rende in modo diverso tali é una contraddizione che non ho mai affermato.
Sostengo invece tutt' altro: che possono esistere cose belle anche senza che nessuno ne conosca l' esistenza e che prima di vedere cose belle (a meno che non ci venga insegnato da qualcuno che più o meno indirettamente l' ha imparato vedendo cose belle) non si conosce il concetto di "bellezza": lo si conosce a posteriori e non a priori!
Ovvero che non vi é prima una conoscenza della bellezza ideale astratta senza l' esperienza delle cose diversamente e concretamente belle (che mi sembra invece proprio quanto affermassi tu)
Bene, sono contento di questa tua precisazione, se per concetto di bellezza intendiamo la sua definizione (o il tentativo a posteriori di definirla astrattamente, ad esempio definendo dei rapporti formali che la stabiliscono come regole estetiche che sono certamente a posteriori). Le definizioni (e le astrazioni a cui conducono) sono estremamente utili e sono utili per manipolare i significati delle cose di comune accordo pensando di manipolare le cose stesse. Le definizioni si possono insegnare, ma non l'universale in quanto tale (che non è semplicemente una percezione di qualcosa di esterno, noi non percepiamo nulla di esterno), esso è già presente in ogni esperienza, ed è presente come assolutamente indefinibile e assolutamente indicibile. Ma attenzione, non vi è alcun significato universale che non si riveli proprio nelle particolari esperienze e infatti non ho mai detto che debba esservi prima una conoscenza ideale, men che meno di concetti, ma che il significato viene sempre con il segno significante e viceversa, ogni percezione con il senso che la sottende e viceversa. La cosa è sempre con la parola che la manifesta, pur essendo il mondo delle cose e delle parole indipendenti e diversi, sono due mondi legati, sempre connessi, l'uno permette l'altro senza che nessuno preceda l'altro. Noi viviamo sempre e comunque la realtà del mondo fenomenico e lo viviamo sempre soggettivamente: il linguaggio (non solo vocale) non è originariamente uno strumento inventato arbitrariamente da qualcuno per comunicare con gli altri che convengono con lui sugli stessi termini (anche se a posteriori può sembrare tale), nessuno può inventare linguaggi se non per usi molto particolari, ma è un puro strumento di espressione dell'esistenza stessa, è l'umano modo di esistere nella dimensione umana: noi parliamo come gli uccelli volano e i pesci nuotano, nessun uccello e nessun pesce ha mai convenuto con gli altri uccelli o pesci quali movimenti fare per volare o parlare, esattamente come nessun umano ha mai convenuto (se non in linguaggi formali, artificiali e dunque a posteriori) quale significato o significati dovesse indicare un segno o tanti segni anziché un altro o degli altri e in ogni caso, come gli uccelli nell'aria e i pesci nell'acqua, noi siamo sempre nel mondo del linguaggio, sia che si parli del monte Cervino che dell'ippogrifo e ciò che importa è solo il senso contestuale (e non la verità/falsità assoluta) dell'uno o dell'altro.
Propongo a tutti come spunto di riflessione, il link a una splendida lezione di Sini su questo tema, o meglio sul tema della "Differance" di Derrida, che mi pare collegabile anche al discorso sul Noumeno, all'assoluta indefinibilità del Noumeno, come all'assoluta indefinibilità e innominabilità della Differance (che poi è anche un tema profondamente legato al pensiero ebraico alla cui tradizione Derrida, come Husserl, come Levinas, come Freud, appartiene: l'assoluta inconoscibilità del none di Dio). Chiamandola così (Dio, Noumeno, Differance) si è già detto troppo, figuriamoci quanto troppo dice che pretende di parlare in nome di una metafisica definita su concetti religiosi o razionali che siano!
La lezione è piuttosto lunga, ma la complessità della questione rende necessario soffermarcisi sopra, in particolare dal minuto 21 in avanti. Molto pertinente è poi il richiamo a de Saussure sull'inestricabilità senza soluzione del rapporto tra significante e significato, intorno al minuto 40.
https://www.youtube.com/watch?v=LCSzf7Snmmk
Maral.
sto studiando la lezione di Sini, per ora sono arrivato ad un terzo circa dell'intera lezione e,...........
si perdono troppi filosofi nel pelo dell'uovo e dimenticano l'uovo.
La dualità innanzitutto non è solo Occidentale come sostiene Deridda.
Il problema linguistico fra essenza ed espressione di Husserl e di nuovo fra espressione e significato la radicalizzazione problematica di questa in De Saussure per cui il signifcato è un continuo differire all'infinito e simile alla problematica della scienza che pensa che la quantità della scienza ,l'estensione della conoscenza sia alla fine scienza della conoscenza.
Sini dice che IL rosso è un'essenza:sbaglia di grosso, eppure capisce che Hegel aveva anticpato e superato Husserl nella problematizzazione della coscienza husserliana che intenzionalmente coglie il senso del fenomeno nella sua espressione.
Insomma il problema linguistico che pone la fenomenologia di Husserl er a già all'interno della fenomenologia dello spirito di Hegel. Ma mentre i filosofi si perderanno nella linguistica dell' infiniti enti che appaiono in una infinita totalità si differenze di significati, da cui nemmeno la filosofia analitica è mai uscita e anzi sta rientrando nella metafica ricreando il ponte fra le due grandi correnti filosofiche dell'ultimo secolo ,analitica e continentale, il problema vero è l'essenza indicata da Hegel, che non è perdersi negli infinit passaggi dei predicati attributi che mostra il mondo, ma la sintesi delle essenze nel concetto ( per inciso è qualche mese che sto studiando fenomenologia dello spirito di Hegel e ho capito che pochissimi filosfi lo hanno compreso, fra cui Severino) Che cos'è l'essere se non un essenza utimativa, tolti tutti i predicati e attributi finalmente si presenta nuda alla verità.Cos'è Dio nella teologia se non essenza ultimativa e quindi originalità,Cosa cercano, infine, le scienze stesse contemporanee se non le origini ultimative, dalle antiche cosmogonie alle teorie cosmologiche,dall'atomos alla teoria delle stringhe. Cos'è un numero primo se non un essenza fra i numeri.
Le teorie filosofiche moderne hanno portato acqua al mulino del buon Phil che pone un problema linguistico e infatti la sua posizione è nella non trascendenza e trasposizione delle essenze oltre il significato che si perde nel mondo dell apparenze, da cui è impossible uscirne se non cogliendo in se stessi.E infatti Husserl, come dirà poi anche Wittgenstein, dice che l'ambiguità del segno linguistico è nel problema della comunicazione fra noi, fra il "dentro di sè" di paul e quello di maral, ad esempio.Ma invece quando paul o maral dialogano con se stessi, cade la contraddizione del segno per cui ora il signifcato non è più ambiguo
Davintro,
penso alla conoscenza e alla sua critica come evoluzione di senso nell'evoluzione umana.
Come ho già scritto, ritengo che ad esempio l'inferenza si presenti innata nel bambino.
Affinchè si costituisca in forma logica ha necessità prima di esperire nel mondo fisico, empiricamente.E' dalla sostanza che si astrae la forma quindi, prima c'era la sola fantasia ora la correttezza formale può trascendere concettualmente. La totalità, a mio avviso, se prima era intuitiva ora con la forma diventa logico/matematica.
Phil,
come ho scritto a Maral rischi di perderti nelle infinite molteplicità in divenire linguistico che infatti hai colto giustamente,
Il problema è che così non individui la Forma come raccoglimento delle astrazioni per giungere alle essenze delle sostanze sensibili, empiriche e fisiche, ma continuamente cercherai differenze, dualità, contrapposizioni e in quanto tali le sintesi saranno sempre parziali.
In fondo il negativo di una fotografia analogica è solo il contrario del "positivo".
L'addizione intuitivamente ci porta alla sottrazione,così come avviene fra moltiplicazione e divisione.
Sono le proprietà associative e le categorie insiemistiche che ci portano a formalizzare logicamente una toatlità e la molteplicità, l'universalità e la particolarità.
L'astrazione è segnica,ma è ben più importante il meccanismo operazionale ,relazionale;meno gli oggetti per cui ci si perderebbe nelle definizioni.
E' ovvio che il metodo si adegua nella prassi alle discipline, ma le propedeutiche devono garantire il metodo, diversamente non si parla più di scienza, ma di scientismo o pseudo-scienza.
Riconosco che è vero che l'allontanamento dal sistema esperienziale da parte della forma rischia autogiustificazioni e autoreferenze. ( parliamo del sesso degli angeli....)Questo è un problema della logica formale. a mio parere è risolvibile solo dalla logica dialettica, come un contraddittorio.Ovvero mentre parlo del sesso degli angeli ho necessità che qualcuno mi riporti anche alla realtà. Insomma penso che il movimento induttivo e deduttivo debbano necessariamente avvalorarsi nell'autocoscienza, ma non come solipsismo, ma come momento contraddittorio fra fisico/metafisico.
Quì accetto confronti e suggerimenti.
Sgiombo,
penso che invece sia la coscienza, l'agente conoscitivo, che utilizza la ragione, ovvero agente intenzionale.
Riconosco comunque che anche il mondo ci mostra, indipendentemente dalla nostra intenzionalità.
Quindi convivono movimenti attivi e passivi nel conoscere.
Ma se siamo in fondo tutti "filosofi" in quanto problematizziamo la nostra esistenza ponendoci domande, da qualche parte essendo universali quelle domande, per l'universalità di tutta l'umanità, quindi ci appartengono come innate, anche se si sviluppano ed emergono formalmente maturando esperienza e conoscenza.
Quello che intendevo dire sulla teoria della relatività di Einstein è che prima di essere scientificamente vera ed essere sperimentata e verificata, era già nella sua testa.E come c'è arrivato se non estendendo attraverso conoscenza, intuizione e quant'altro quei segni fomali fisici, matematici e logici che sono alla base dei postulati ed enunciati .....ed andare oltre. Einstein ha costruito metafisicamente una teooria fisica che è stata accettata dalla scienza sperimentale.
Citazione di: paul11 il 09 Settembre 2016, 23:38:29 PM
Ma se siamo in fondo tutti "filosofi" in quanto problematizziamo la nostra esistenza ponendoci domande, da qualche parte essendo universali quelle domande, per l'universalità di tutta l'umanità, quindi ci appartengono come innate, anche se si sviluppano ed emergono formalmente maturando esperienza e conoscenza.
Quello che intendevo dire sulla teoria della relatività di Einstein è che prima di essere scientificamente vera ed essere sperimentata e verificata, era già nella sua testa.E come c'è arrivato se non estendendo attraverso conoscenza, intuizione e quant'altro quei segni fomali fisici, matematici e logici che sono alla base dei postulati ed enunciati .....ed andare oltre. Einstein ha costruito metafisicamente una teooria fisica che è stata accettata dalla scienza sperimentale.
CitazioneDi innato c' é solo la mera potenzialità a ragionare e conoscere.
Che si attua solo a postriori, in seguito a molteplici esperienze.
Einstein ha elaborato le sue teorie anche con audaci ipotesi "creativamente partorite" dalla sua fantasia e non come passiva consguenza dell' osservazione emiprca (ipotesi poi sottoposte comunque a verifica empirica).
Ma in questo modo non ha fatto della metafisca bensì della scienza fisica: conoscenza scientifica del mondo fenomenico materiale - naturale e non critica razionale della sua natura, né ha trattato della realtà in sé o noumeno che eventualmnte stesse "oltre" i fenomeni.
Citazione di: paul11 il 09 Settembre 2016, 23:38:29 PMPhil, come ho scritto a Maral rischi di perderti nelle infinite molteplicità in divenire linguistico che infatti hai colto giustamente, Il problema è che così non individui la Forma come raccoglimento delle astrazioni per giungere alle essenze delle sostanze sensibili, empiriche e fisiche, ma continuamente cercherai differenze, dualità, contrapposizioni e in quanto tali le sintesi saranno sempre parziali.
In un orizzonte di ricerca post-metafisico (postmoderno, etc.) il mito dell'Essenza, dell'Essere, della Verità, etc. di obiettivi assoluti, risolutivi e perfetti può essere (non "deve essere") sostituito proprio dal continuo, "rizomatico" (Deleuze), parziale (ingrato ma appassionante) lavorio di interpretazione, di coniugazione, di "aggiornamento" e
ristrutturazione/
decostruzione (che vanno di pari passo...).
Si tratta, come da sempre, di scegliere se orientare la ricerca af
fidandosi al divenire oppure inseguendo l'immutabilità eterna... una delle due possibilità è abbastanza riscontrabile, quindi fornisce elementi concreti su cui "lavorare"; l'altra, nonostante l'imperituro fascino "classico", vive di tradizioni e "nobili" concettualizzazioni, che tuttavia iniziano ad arrancare con il progredire delle scienze:
Citazione di: paul11 il 09 Settembre 2016, 22:24:57 PMLe teorie filosofiche moderne hanno portato acqua al mulino del buon Phil che pone un problema linguistico e infatti la sua posizione è nella non trascendenza
Qui al mulino (non sono Banderas, ma solo uno "stagista" ;D
), finché le ricerche filosofico-scientifiche scorreranno sul fiume del linguaggio, l'acqua non mancherà di certo... e non è comunque facile fare manutenzione a degli ingranaggi che non si fermano mai...
Citazione di: sgiombo il 10 Settembre 2016, 08:45:47 AMCitazione di: paul11 il 09 Settembre 2016, 23:38:29 PMMa se siamo in fondo tutti "filosofi" in quanto problematizziamo la nostra esistenza ponendoci domande, da qualche parte essendo universali quelle domande, per l'universalità di tutta l'umanità, quindi ci appartengono come innate, anche se si sviluppano ed emergono formalmente maturando esperienza e conoscenza. Quello che intendevo dire sulla teoria della relatività di Einstein è che prima di essere scientificamente vera ed essere sperimentata e verificata, era già nella sua testa.E come c'è arrivato se non estendendo attraverso conoscenza, intuizione e quant'altro quei segni fomali fisici, matematici e logici che sono alla base dei postulati ed enunciati .....ed andare oltre. Einstein ha costruito metafisicamente una teooria fisica che è stata accettata dalla scienza sperimentale. CitazioneDi innato c' é solo la mera potenzialità a ragionare e conoscere. Che si attua solo a postriori, in seguito a molteplici esperienze. Einstein ha elaborato le sue teorie anche con audaci ipotesi "creativamente partorite" dalla sua fantasia e non come passiva consguenza dell' osservazione emiprca (ipotesi poi sottoposte comunque a verifica empirica). Ma in questo modo non ha fatto della metafisca bensì della scienza fisica: conoscenza scientifica del mondo fenomenico materiale - naturale e non critica razionale della sua natura, né ha trattato della realtà in sé o noumeno che eventualmnte stesse "oltre" i fenomeni.
Certo, non nasciamo "imparati", intendo dire che i meccanismi affinchè possiamo conoscere sono ancora "allo stato brado" e attraverso l'esperienza e l'insegnamento ,vengono sistematizzati.
Per metafisico intendo fire il pensiero che riflette se stesso nella forma corretta.
Non ci sarebbe evoluzione nemmeno tecnologico se l'uomo non avesse la capacità di andare oltre la cultura del tempo, oltre i dati empirici, oltre persino le forme. Il progettare è il luogo iin cui è depositata l'esperienza sia della forma che della sostanza e il pensiero va appunto oltre.
Per essere chiari, non sono per l metafisica contro la fisica.
Citazione di: Phil il 10 Settembre 2016, 10:35:55 AM
Citazione di: paul11 il 09 Settembre 2016, 23:38:29 PMPhil, come ho scritto a Maral rischi di perderti nelle infinite molteplicità in divenire linguistico che infatti hai colto giustamente, Il problema è che così non individui la Forma come raccoglimento delle astrazioni per giungere alle essenze delle sostanze sensibili, empiriche e fisiche, ma continuamente cercherai differenze, dualità, contrapposizioni e in quanto tali le sintesi saranno sempre parziali.
In un orizzonte di ricerca post-metafisico (postmoderno, etc.) il mito dell'Essenza, dell'Essere, della Verità, etc. di obiettivi assoluti, risolutivi e perfetti può essere (non "deve essere") sostituito proprio dal continuo, "rizomatico" (Deleuze), parziale (ingrato ma appassionante) lavorio di interpretazione, di coniugazione, di "aggiornamento" e ristrutturazione/decostruzione (che vanno di pari passo...).
Si tratta, come da sempre, di scegliere se orientare la ricerca affidandosi al divenire oppure inseguendo l'immutabilità eterna... una delle due possibilità è abbastanza riscontrabile, quindi fornisce elementi concreti su cui "lavorare"; l'altra, nonostante l'imperituro fascino "classico", vive di tradizioni e "nobili" concettualizzazioni, che tuttavia iniziano ad arrancare con il progredire delle scienze:
Citazione di: paul11 il 09 Settembre 2016, 22:24:57 PMLe teorie filosofiche moderne hanno portato acqua al mulino del buon Phil che pone un problema linguistico e infatti la sua posizione è nella non trascendenza
Qui al mulino (non sono Banderas, ma solo uno "stagista" ;D ), finché le ricerche filosofico-scientifiche scorreranno sul fiume del linguaggio, l'acqua non mancherà di certo... e non è comunque facile fare manutenzione a degli ingranaggi che non si fermano mai...
Phil,
secondo il mio parere no. Quasi tutti gli uomini di pensiero da Deridda a Foucoult, Deleuze, Sartre, ecc. sono "dentro" il meccanismo culturale e nella forma della conoscenza in uso, anche quando esercitano la critica E' quella cultura che è stata riassorbita dal sistema con molta tranquillità, perchè porsi anti-sistema o decostruirlo significa ancora essere "dentro" quel sistema. Tutti hanno fallito e si sono arresi, culturalmente, umanamente, predicando l'inanità umana.
Io vedo oggi le conseguenze di un secolo di contraddizioni culturali.
Così come non sono in antitesi al pensiero scientifico,non lo sono nemmeno sul divenire.Li accetto sicuramente come luoghi in cui non possono esserci verità, ma sono i luoghi che frequento vivendo li vivo come momento contraddittorio,
che attenzione non significa antitesi, ma come forma contraddittoria da superare.
Citazione di: paul11 il 08 Settembre 2016, 23:32:27 PM
Maral,
l'impasse è sempre un errore della forma. la forma è una costruzione logica e metaforicamene è una casa,Costruisci piani dalle fondamenta e la capacità di sostenersi è nei rapporti delle forze che devono essere regolati, ovvero nel sistema di relazione.
La correttezza formale è indispensabile affinchè il pensiero non sfugga alla forma e diventi fantasia o si disperda nel mondo fisico.
Non infrangerti nel disfattismo filosofico attuale che lecca le sue ferite quasi autocompiaciuto.
Ci si meraviglia se la scienza spedisce un satellite Juno su Giove? E altri compiangono se stessi nel fallimento formale? E chi mai è riuscito senza andare fisicamente su Giove, da milioni di chilometri di distanza a spedirlo senza errore? Se l'uomo evolve nella conoscenza è perchè va oltre la propria esperienza estendendo le regole formali e applicandole.Le altre culture umane non conoscono la capacità di sistematizzare e categorizzare il pensiero.
Non vorrei essere adesso frainteso.So benissimo di aporie, antinomie e paradossi.
Sto forzando il pensiero perchè vedo scoramento nelle proprie possibliità.
Non si vuol capire che la forza dei linguaggi formali è alla fondamenta di tutte le forme di applicazioni fisiche,metafisiche persino religiose.L'uomo fattosi storia e cultura decide nei cicli dei tempi di spostare i focus: prima la religione, poi la metafisica e infine la fisica e chissà mai domani.
Perchè la conoscenza ha prima ancora un' autocoscienza e viene indirizzata da una volontà.
L'impasse è un problema che si rivela sempre a posteriori di relazioni inappropriate tra forme e ciò di cui con queste forme si intende trattare. E questo comprende pure la logica, che non costituisce per nulla un modo di trattamento assoluto che spiega ogni cosa per come è, a meno di non ridursi a fare di ogni cosa una tautologia del tutto insignificante. Non vi è nulla da compiangere, ma semplicemente vi è da prendere atto del fatto che l'accesso alla realtà prima ci è precluso dalla nostra stessa esistenza cosciente (il vero peccato originale in fondo): comunque si pensi di poterla trattare noi vediamo sempre e solo gli effetti finali e parziali di catene rappresentative che stanno al di là di ogni possibilità di rendercene conto per tradurle in descrizioni che non siano a loro volta altre rappresentazioni a posteriori. Poi, in questi contesti, si può ovviamente arrivare a spedire con grande precisione una sonda su Giove, ma questo non ci dice nulla sulla effettiva conoscenza delle cose, né la aumenta, solo aumenta il senso della nostra potenza in un ambito prettamente tecnologico, ma la potenza non implica nessuna verità (e questa è una semplice constatazione logica).
Citazione di: paul11 il 10 Settembre 2016, 11:14:44 AMQuasi tutti gli uomini di pensiero da Deridda a Foucoult, Deleuze, Sartre, ecc. sono "dentro" il meccanismo culturale e nella forma della conoscenza in uso, anche quando esercitano la critica E' quella cultura che è stata riassorbita dal sistema con molta tranquillità, perchè porsi anti-sistema o decostruirlo significa ancora essere "dentro" quel sistema. Tutti hanno fallito e si sono arresi, culturalmente, umanamente, predicando l'inanità umana. Io vedo oggi le conseguenze di un secolo di contraddizioni culturali.
Non sminuirei l'apporto di quegli autori, mettendoli sul piano del "fallimento": in filosofia (ma non solo) non c'è semplice distruzione, ma piuttosto "archiviazione storiografica", delle posizioni non più "fungenti" e ormai teoreticamente desuete (così come i computer attuali non hanno distrutto quelli precedenti, li hanno solo rimpiazzati...). Proporre una complicazione, una prospettiva dissonante, una decostruzione, non ha l'obiettivo ingenuo di spazzare via lo scenario precedente (di cui tale "nuovo" si alimenta, seppur criticamente...), ma di concepire nuove posizioni nell'"abitarlo", nell'"usarlo" o, più semplicemente, nel pensarlo. Il che può produrre un altro sistema fruibile, per chi è disposto ad abbandonare il vecchio (vedi possibilità del pensiero "debole" postmoderno...). Comunque, anche "restare dentro" un sistema, dopo Derrida & co., può assumere nuove posizioni, prima impensate, e questa mi pare una conquista per il pensiero, non un fallimento... P.s. Credo che il pensiero post-metafisico non sia stato affatto riassorbito dalla metafisica (non gli sta più "dentro", ma ha prodotto un nuovo "fuori"), anche se non è stato ancora assorbito dal senso comune ed è ancora snobbato in molte accademie... è stata una tappa "evolutiva" della filosofia di cui ci si renderà conto diffusamente forse fra un decennio...
Maral,
vuoi dire che se la logica formale non è certezza, pensavi che la linguistica lo fosse?Nulla mi insegna di più di ciò che già sapessi Deridda e compagnia briscola. mai avuto illusioni di CERTEZZA nel mondo e come umano ma questo me lo ha insegnato prima la religione e solo nel Novecento filosofie, logiche, linguistiche si autodistruggono comprendendone il limite.
Io non mi fermo alla logica formale che trova le verità e falsità da semplici confronti proposizionali e quindi particolari, questo perdersi in infiniti ambiti di sottosistemi di intellettuali non mi dicono assolutamente nulla di come è il mondo e l'essere.
Ma proprio perchè la potenza non implica nessuna verità che sostituisce con il funzionale e l'utile che la filosofia è ridotta oggi a chiacchiera, ma proprio perchè è stata a sua volta potenza quando si è illusa di trovare nell'uomo e nel mondo la CERTEZZA.
Phil,
non stiamo parlando di intellettuali al tempo di Euripide, ma di meno di una generazione fa e praticamente quasi tutti francesi almeno d'adozione.Vuoi che parliamo del livello culturale attuale in Francia? Che cosa hanno prodotto nelle prassi, che testimonianza ci hanno lasciato? Sono persone intelligenti che hanno detto cose anche interessanti: punto.
A Maral, Phil e tutti quanti.
L'uomo si è illuso già dai tempi dei Greci di arrivare a CERTEZZE.
Il conoscere implica la relazione fra un agente conoscitivo e l'oggetto del sapere,Basta che uno dei due o il sistema di relazione sia implicitamente e fondativamente non certo che diventa impossibile che una verità diventi certezza.
La filosofia ha di propria volontà voluto consegnarsi alla scienza e per una semplice ragione Maral, che la prassi è ben più potente della teroretica. Intendo dire che mentre tutti i sistemi non sono certi, l'uomo, la realtà del mondo, i sistemi di relazione e i filosofi piangono il loro destino......il mondo è andato avanti nelle pratiche perchè 2+2=4 e lo era mille anni fa e lo sarà fra un milione di altri anni.
Perdersi nell'analisi della fallibilità umana è autocompiangersi di non arrivare alla verità significa non aver capito che il mondo andava avanti quando l'uomo pensava la Terra fosse piatta e adesso che spediamo satelliti su Giove,E intanto i problemi nelle prassi umane incancreniscono.
Ho preso atto da decenni che l'uomo è fallibile, la realtà per quello che è non è nemmeno percepibile dai nostri sensi, che la nostra mente può fallire che i sistemi essendo creati da un fallibile non potranno mai dirci nulla di più della nostra fallibilità. E allora? Intanto la tecnica che utilizza i linguaggi formali funziona ed è utile soprattutto ai potenti, intanto stuoli di cattedratici e arconti della scienze determinano il potere culturale.
Ma come avviene tutto questo se l'uomo è fallibile, come fanno a sostenere e giustificare le pratiche se postulati ed enunciati sono falliti e tutto è assiomatizzazione?
Noi continuiamo a scrivere e comunicare, nonostante non siano linguaggi certi, Mosè era un balbuziente e si dice parlasse con Dio, De Saussure scriveva del fallimento fra concetto ed espressione fra segno e significato e intanto scalava il Monte Bianco.
Spero che almeno queste metafore siano comprese.
Io mi trovo per adesso benissimo con la logica dialettica che è oltre e le comprende queste contraddizioni.
Citazione di: paul11 il 11 Settembre 2016, 01:40:52 AM
Maral,
vuoi dire che se la logica formale non è certezza, pensavi che la linguistica lo fosse?Nulla mi insegna di più di ciò che già sapessi Deridda e compagnia briscola. mai avuto illusioni di CERTEZZA nel mondo e come umano ma questo me lo ha insegnato prima la religione e solo nel Novecento filosofie, logiche, linguistiche si autodistruggono comprendendone il limite.
Io non mi fermo alla logica formale che trova le verità e falsità da semplici confronti proposizionali e quindi particolari, questo perdersi in infiniti ambiti di sottosistemi di intellettuali non mi dicono assolutamente nulla di come è il mondo e l'essere.
Ma proprio perchè la potenza non implica nessuna verità che sostituisce con il funzionale e l'utile che la filosofia è ridotta oggi a chiacchiera, ma proprio perchè è stata a sua volta potenza quando si è illusa di trovare nell'uomo e nel mondo la CERTEZZA.
Phil,
non stiamo parlando di intellettuali al tempo di Euripide, ma di meno di una generazione fa e praticamente quasi tutti francesi almeno d'adozione.Vuoi che parliamo del livello culturale attuale in Francia? Che cosa hanno prodotto nelle prassi, che testimonianza ci hanno lasciato? Sono persone intelligenti che hanno detto cose anche interessanti: punto.
A Maral, Phil e tutti quanti.
L'uomo si è illuso già dai tempi dei Greci di arrivare a CERTEZZE.
Il conoscere implica la relazione fra un agente conoscitivo e l'oggetto del sapere,Basta che uno dei due o il sistema di relazione sia implicitamente e fondativamente non certo che diventa impossibile che una verità diventi certezza.
La filosofia ha di propria volontà voluto consegnarsi alla scienza e per una semplice ragione Maral, che la prassi è ben più potente della teroretica. Intendo dire che mentre tutti i sistemi non sono certi, l'uomo, la realtà del mondo, i sistemi di relazione e i filosofi piangono il loro destino......il mondo è andato avanti nelle pratiche perchè 2+2=4 e lo era mille anni fa e lo sarà fra un milione di altri anni.
Perdersi nell'analisi della fallibilità umana è autocompiangersi di non arrivare alla verità significa non aver capito che il mondo andava avanti quando l'uomo pensava la Terra fosse piatta e adesso che spediamo satelliti su Giove,E intanto i problemi nelle prassi umane incancreniscono.
Ho preso atto da decenni che l'uomo è fallibile, la realtà per quello che è non è nemmeno percepibile dai nostri sensi, che la nostra mente può fallire che i sistemi essendo creati da un fallibile non potranno mai dirci nulla di più della nostra fallibilità. E allora? Intanto la tecnica che utilizza i linguaggi formali funziona ed è utile soprattutto ai potenti, intanto stuoli di cattedratici e arconti della scienze determinano il potere culturale.
Ma come avviene tutto questo se l'uomo è fallibile, come fanno a sostenere e giustificare le pratiche se postulati ed enunciati sono falliti e tutto è assiomatizzazione?
Noi continuiamo a scrivere e comunicare, nonostante non siano linguaggi certi, Mosè era un balbuziente e si dice parlasse con Dio, De Saussure scriveva del fallimento fra concetto ed espressione fra segno e significato e intanto scalava il Monte Bianco.
Spero che almeno queste metafore siano comprese.
Io mi trovo per adesso benissimo con la logica dialettica che è oltre e le comprende queste contraddizioni.
Quoto molto questo tuo intervento volendo aggiungere, nel caso, che ci furono tempi in cui la conoscenza era considerata più uno stato dell'anima che una questione di nozioni e architetture razionali. Socrate giunse in ritardo al celebre Simposio perché si era perso nelle sue meditazioni. Platone ha poi idealizzato Socrate e anche un po' tradito, perché il primo predicava l'interiorità, la scoperta dello stato di grazia dell'anima attraverso la catarsi del dialogo. Platone invece col mondo delle idee ha proiettato la ricerca della realtà al di fuori dell'animo umano. Opera completata da Hegel che col titolo Fenomenologia Dello Spirito, colloca il sapere dell'anima sotto la lente scientifica, sistematizzando anche questo ambito. Così la nostra conoscenza più intima, quella che ci tocca più nel profondo, diventa anch'essa un ingranaggio strutturato, soggiogato dalle leggi spazio-temporali. La comunicazione della conoscenza dello spirito non è un aggregato di
proposizioni vero/falso, dove una minima imprecisione fa crollare tutto il sistema. A differenza della comunicazione sistematico-razionale scientifica basata sulla scrittura, la comunicazione della conoscenza spirituale basata sull'oralità è molto più flessibile. Il suo scopo è individuare un sentimento e comunicarlo, e non una composizione di domino dove basta spingere una tessera per farle cadere tutte.
Se non vi è scampo alla nostra fallibilità poiché nulla si potrà mai dire con assoluta certezza, è la nostra fallibilità a riproporsi come assoluta certezza e dunque parimenti non vi è scampo alla certezza; se le teoresi prima o poi tutte naufragano nel gioco dei significati che istituiscono per cui pare non restare altro che rifugiarsi sul terreno solido di prassi verificate e tecnicamente omologate, non può sfuggirci che in tal modo è una nuova teoresi a venire stabilita con la sua corte di significati che la porterà ugualmente prima o poi al naufragio.
Ogni essere umano ormai può apparirci solo come un doppio che si contraddice e non è una questione di scelta dettata da volontà perverse: la fine dell'ente metafisico non dipende da noi, ma la fine dell'ente metafisico non è nemmeno una fine, solo una diversa proposta che istituisce la metafisica della prassi.
Ogni uomo in quanto tale (in quanto cosciente) è un po' dentro e un po' fuori al suo mondo e a se stesso, delocalizzato tra il significante e il significato, tra il segno e la cosa che quel segno solo indica desiderando che si riveli finché quel segno finisce con il prendere il posto di ciò che indica tramutando il segno in cosa e la cosa in segno, senza nemmeno che ci se ne accorga, magari come in matematica. Quando poi il segno indica il desiderio, accade pure che quel segno diventi un dio sul quale sarà necessario costruire teogonie e teologie.
Noi abbiamo bisogno di terreni solidi, ma abbiamo ugualmente bisogno dei sogni che li ricoprono, queste sono le nostre certezze che non potranno mai essere certe di alcunché, ma che ci consentiranno di poter scalare il Monte Bianco o di mandare satelliti su Giove e anche più in là. I sogni costruiscono le mappe e le mappe producono sogni così come fanno le cose.
I greci avevano ragione: a contare si comincia dal due (uno e un altro, non uno solo che non è altro che se stesso), ma il due implica l'uno che è il suo altro e ne sta a fondamento, cosicché quel 2 possa a sua volta suddividersi all'infinito inseguendo eternamente l'unità di se stesso. Dopotutto questa è la dialettica, una dialettica che, a differenza di quella hegeliana, non potrà mai concludersi in totalità, finché esiste l'uomo.
Citazione di: maral il 11 Settembre 2016, 10:29:54 AM
Se non vi è scampo alla nostra fallibilità poiché nulla si potrà mai dire con assoluta certezza, è la nostra fallibilità a riproporsi come assoluta certezza e dunque parimenti non vi è scampo alla certezza; se le teoresi prima o poi tutte naufragano nel gioco dei significati che istituiscono per cui pare non restare altro che rifugiarsi sul terreno solido di prassi verificate e tecnicamente omologate, non può sfuggirci che in tal modo è una nuova teoresi a venire stabilita con la sua corte di significati che la porterà ugualmente prima o poi al naufragio.
Ogni essere umano ormai può apparirci solo come un doppio che si contraddice e non è una questione di scelta dettata da volontà perverse: la fine dell'ente metafisico non dipende da noi, ma la fine dell'ente metafisico non è nemmeno una fine, solo una diversa proposta che istituisce la metafisica della prassi.
Ogni uomo in quanto tale (in quanto cosciente) è un po' dentro e un po' fuori al suo mondo e a se stesso, delocalizzato tra il significante e il significato, tra il segno e la cosa che quel segno solo indica desiderando che si riveli finché quel segno finisce con il prendere il posto di ciò che indica tramutando il segno in cosa e la cosa in segno, senza nemmeno che ci se ne accorga, magari come in matematica. Quando poi il segno indica il desiderio, accade pure che quel segno diventi un dio sul quale sarà necessario costruire teogonie e teologie.
Noi abbiamo bisogno di terreni solidi, ma abbiamo ugualmente bisogno dei sogni che li ricoprono, queste sono le nostre certezze che non potranno mai essere certe di alcunché, ma che ci consentiranno di poter scalare il Monte Bianco o di mandare satelliti su Giove e anche più in là. I sogni costruiscono le mappe e le mappe producono sogni così come fanno le cose.
I greci avevano ragione: a contare si comincia dal due (uno e un altro, non uno solo che non è altro che se stesso), ma il due implica l'uno che è il suo altro e ne sta a fondamento, cosicché quel 2 possa a sua volta suddividersi all'infinito inseguendo eternamente l'unità di se stesso. Dopotutto questa è la dialettica, una dialettica che, a differenza di quella hegeliana, non potrà mai concludersi in totalità, finché esiste l'uomo.
Molte cose che esponi quì le condivido.
Ma personalemnte aggiungo due aspetti: l'autocoscienza e il limite.
Non ha senso conoscere senza che l'agente conoscitivo abbia un Sè che muove intenzionalmente il desiderio di capire, oserei dire la necessità di compenetrare le relazioni che le domande umane e poi filosofiche ci impone.
E già questo muta la prospsettiva come ha ben detto CVC.
L'altro è il limite.Siamo limitati ebbene sì e in quanto tale fallibili, ma prima di tutto lo siamo tutti, universalmente tutti quanti, passato ,l'oggi e il futuro.
Già capire i propri limiti è un traguardo, proprio per mutamento di prospettiva, in un mondo dove il fuori si vorrebbe che manifestasse il dentro.
Ma soprattutto se si osserva il limite ,due sono le motivazioni, o mi deperisco in una frustrazione e smetto il delirio di onnipotenza, oppure lo sfido per andare oltre-
Oltre significa accettare la fallibilità, ma ben sapendo che l'intero sistema universale di ogni atomo ed energia che lo compongono hanno un unico principio originario "intelligente" e in quanto tale intellegibile,
Perchè attenzione, non confondiamo la fallibilità con l'inintelligibilità.
Se tutto fosse stato caos disorganizzato, noi non avremmo mai potuto nemmeno costruirci mentalmente un ordine che funziona nel mondo.Non ci sarebbero mai state matematiche, logiche, per quanto fallibili.
Se noi stessi e il mondo, nel momento in cui si presentano e si manifestano a noi intelligibilmente e l nostra ragione seppur approssimativamente li coglie, significa che c'è un ordine originario.
Ma proprio quì nasce la necessità delle essenze, per depurarle dalla contraddizione, ma soprattutto devo giungere all'autocoscienza, il luogo dell'innatezza, il veicolo della necessità di sapere e anche luogo del tormento nel contraddittorio.
A mio modesto parere è l'unica strada possibile in cui le contraddizioni di queste fallibilità insita nel sistema relazionale possono legarsi al momento originario innato nell'autocoscienza. unire l'universale e il particolare e la dialettica come coscienza dei propri limiti che si fanno storia, vita, narrazione di significati non solo oggettivi, ma momento razionale nel momento in cui compranda anche e soprattutto l'autocoscienza, il nostro motore primo dell'intenzione e della volontà.
CVC dice una cosa fondamentale, Platone ha diviso l'empirico e il metafisico ponendoli fuori del Sè.
Se strutturo la conoscenza dualmente, dove è finito il Sè il luogo dell'agente intenzionale e dell'innatezza logica,
Ho diviso la conoscenza e fatto sparire l'Essere come identitario con la propria autocoscienza.
Infatti Heidegger critica quell'Essere, come semantica priva di senso, come vuoto segno privo di significato.
Citazione di: paul11 il 11 Settembre 2016, 01:40:52 AMPhil, non stiamo parlando di intellettuali al tempo di Euripide, ma di meno di una generazione fa e praticamente quasi tutti francesi almeno d'adozione.Vuoi che parliamo del livello culturale attuale in Francia? Che cosa hanno prodotto nelle prassi, che testimonianza ci hanno lasciato? Sono persone intelligenti che hanno detto cose anche interessanti: punto.
Non credo che il peso filosofico di un contributo teoretico vada valutato in base al livello culturale del popolo connazionale all'autore... l'elite, l'avanguardia non è la massa (e, ovviamente, il successo culturale non è indice attendibile della "qualità teoretica" di una proposta...). La filosofia non è solo politica, economia e società, è anche interpretazione, ermeneutica della vita, per cui i suddetti pensatori forniscono chiavi di lettura che ognuno può cercare di utilizzare, ma che non sono certo destinate a unificare la visione del mondo di uno o più popoli (per fortuna, direi...).Hanno detto "cose interessanti"(cit.) che hanno aperto nuovi orizzonti, hanno forgiato nuovi strumenti concettuali, e, se si è disposti ad ascoltarli/leggerli con attenzione, si scoprirà che non hanno banalmente ricordato la fallibilità dell'uomo, ma hanno dato un contributo ulteriore che va oltre (non solo "dopo") la filosofia precedente... il che non toglie che si possa serenamente e legittimamente essere hegeliani o tomisti o aristotelici anche nel 2016 (anzi, proprio in base a tutti i contributi successivi, critici ed ermeneutici, si può esserlo
anche in modo differente...).
Citazione di: maral il 10 Settembre 2016, 22:16:29 PM
Citazione di: paul11 il 08 Settembre 2016, 23:32:27 PM
si può ovviamente arrivare a spedire con grande precisione una sonda su Giove, ma questo non ci dice nulla sulla effettiva conoscenza delle cose, né la aumenta, solo aumenta il senso della nostra potenza in un ambito prettamente tecnologico, ma la potenza non implica nessuna verità (e questa è una semplice constatazione logica).
Obietterei che la scienza (piuttosto che la tecnica. La conoscenza teorica del sistema solare piuttosto che le sonde che lo esplorano direttamente) ci da comunque conoscenza tendenzialmente crescente in quantità e in qualità, anche se limitata al mondo fenomenico materiale naturale e non circa la realtà in sé (se esiste); e anche se ciò é credibile solo ammettendo arbitrariamente la verità di etsi non dimostrabili, né empiricamente mostrabili essere vere (Hume!).
E questo per me (soggettivamente, arbitrariamente, lo so bene) è una delle aspirazioni più profonde (in me personalmente e in quella che ritengo -sempre arbitrariamente, soggettivamente- "l' umanità migliore"), è per me un importante aspetto del progresso della civiltà umana.
Inoltre un aumento di potenza pratica, a meno che non lo si ritenga puramente e semplicemente casuale (ma questo mi sembra difficilmente sostenibile) oppure che non si creda alla magia o affini facoltà preternaturali, implica necessariamente un qualche aumento di conoscenza -vera- della realtà da potersi "dominare" (relativamente e limitatamente dominare e secondo quello che mi piace chiamare il "principio di Engels": adeguandosi alle modalità oggettive immutabili del suo divenire, in un certo senso inevitabilmente subendole, ma per applicarle nei limiti del possibile al raggiungimento di scopi realistici mediante mezzi efficaci).
Citazione di: paul11 il 11 Settembre 2016, 01:40:52 AM
A Maral, Phil e tutti quanti.
L'uomo si è illuso già dai tempi dei Greci di arrivare a CERTEZZE.
Il conoscere implica la relazione fra un agente conoscitivo e l'oggetto del sapere,Basta che uno dei due o il sistema di relazione sia implicitamente e fondativamente non certo che diventa impossibile che una verità diventi certezza.
Citazione
CitazionePerò gli antichi scettici greci e il moderno David Hume erano ben consapevoli dei limiti e delle incertezze della conoscenza e non coltivavano l' illusione della certezza, anzi la criticavano razionalmente.
Phil,
questi pensatori sono moda e a me non interessano le mode culturali, non hanno cambiato nulla perchè non sono entrati nei paradigmi fondamentali che governano il sistema delle pratiche. e tanto meno della teoretica. Gli intellettualismi fini a se stesso , quando sono fini a se stessi quando non producono autocoscienza critica davvero alternativa,i sono intelligenti riflessioni che non mutano la storia e loro sono stati inghiottiti dalla storia.
A me sembrano i dibattiti fra i cartalisti e i monetaristi nell'agone delle scienze economiche, i primi non sono reale alternativa culturale all'imperante globalizzazione, perchè non entrano nei paradigmi delle scienze economiche e quindi le accettano, risultando solo opinioni contro altre opinioni nelle pratiche e dove ovviamente nei rapporti di forza sono perdenti. Così è avvenuto per quella generazione di intellettuali "alternativi" e "voce critica":hanno fallito ,ma non perchè lo dico io, ma perchè lo dice la storia che oggi è tutt'altro d da loro.
Phil io sono un atipico pensatore (modestissimo......) che guarda la metafisica ma non dimentica i rapporti di forza che governano i sistemi culturali e di potere, per questo mi interesso di economia e scienze quanto di metafisica.
Sgiombo,
è vero che gli empiristi hanno messo in discussione il platonismo metafisico e a parere mio giustamente,ma loro hanno semplicemente aiutato a spostare il focus.Se un nuovo pensiero non mette in contraddizione i paradigmi del vecchio sistema replica la contraddizione spostando il luogo dell'osservazione.Così gli empiristi non guardano più al cielo, ma alla terra e togliendone la trascendenza divennero cinici.
Vuoi che ti faccia l'esempio critico di come gli scozzesi compreso un certo Adam Smith da allora abbiano interpretato nelle prassi costruendo i paradigmi egocentrici che ha gonfiato le vele a quel futuro capitalismo di cui gli inglesi furono i primi maestri?
La stessa cosa vale per il pragmatismo americano più avanti.
Sono importantissimi per capire come le scienze moderne hanno mutato nelle pratiche i sisitemi e li hanno teorizzati, ma togliendo assolutamente la coscienza umana, spostando le relazioni formali dal metafisico ai rapporti socio-economici e quindi sono la base di tutto il pensiero pratico degli ultimi due secoli almeno.
Sgiombo, devi vedere le conseguenze di un pensiero che sifa cultura per poterne leggere le contraddizioni.
Il mio parere è che la cultura anglo-statunitense è basata sulle pratiche e in quanto tale appoggia la tecnica scientifica, come luogo dei rapporti di forza che a loro volta danno strumenti pratici come le tecnologie.
Ma hanno asservito l'uomo così, lo hanno reso schiavo della tecnica. perchè daccapo hanno spostato a loro volta il focus dicendo che l'Essere non esiste.
L'empirismo anglo-scozzese si sposò con alcune correnti culturali continentali come il positivismo.
Ma quali tipi di pensatori ha dato Oxfor e Cambridge, quale tradizione ha portato avanti e tutt'ora lo fa,
insieme al pragmatismo americano divenuta analitica.
Lo scontro dell'ultimo secolo fra analitici e continentali è proprio nel governo delle tradizioni scelte come paradigmi culturali.
Ma mentre i continentali soccombevano cercando l'Essere e Heidegger dichiarava la fine della filosofia, la cultura
più pratica che paradossalmente avrebbe dovuto soccombere visto che nessun sistema era certo spostava nell'utilità e nel funzionale il finalismo delle pratiche .
Oggi il mondo va avanti da sè, proprio perchè è governato dalle pratiche anche se nessuna teoria è fondativa e certa: questo è il vero inestricabile problema.
E' fallito l'Essere quanto è fallita la democrazia e la libertà, è fallito il principio fondativo dei sistemi, ma non il prodotto delle disuguaglianze economiche e sociali.
E cosa ci rimane se non un 'autocoscienza nostra(obliata completamente ormai dalla sparizione dell metafisica e dell'appropriarsi della tecnologia del destino) che lega tutte le contraddizioni nel mondo coagulandole nel tormentato uomo della post modernità che non sa nemmeno gestire i flussi migratori?
So benissimo che la ragione e la verità non vincerebbero mai,non bastano, sulle pratiche dei rapporti di forza che da sempre governano la storia umana di un uomo decadente che ha scelto la natura animale per giustificare le ignominie e il suo cinismo obliando l'Essere per perdere con esso la propria coscienza e con essa la morale e la responsabilità del governo di sè e del mondo in maniera armonica.
Citazione di: paul11 il 11 Settembre 2016, 14:08:19 PM
Sgiombo,
è vero che gli empiristi hanno messo in discussione il platonismo metafisico e a parere mio giustamente,ma loro hanno semplicemente aiutato a spostare il focus.Se un nuovo pensiero non mette in contraddizione i paradigmi del vecchio sistema replica la contraddizione spostando il luogo dell'osservazione.Così gli empiristi non guardano più al cielo, ma alla terra e togliendone la trascendenza divennero cinici.
Vuoi che ti faccia l'esempio critico di come gli scozzesi compreso un certo Adam Smith da allora abbiano interpretato nelle prassi costruendo i paradigmi egocentrici che ha gonfiato le vele a quel futuro capitalismo di cui gli inglesi furono i primi maestri?
La stessa cosa vale per il pragmatismo americano più avanti.
Sono importantissimi per capire come le scienze moderne hanno mutato nelle pratiche i sisitemi e li hanno teorizzati, ma togliendo assolutamente la coscienza umana, spostando le relazioni formali dal metafisico ai rapporti socio-economici e quindi sono la base di tutto il pensiero pratico degli ultimi due secoli almeno.
Sgiombo, devi vedere le conseguenze di un pensiero che sifa cultura per poterne leggere le contraddizioni.
Il mio parere è che la cultura anglo-statunitense è basata sulle pratiche e in quanto tale appoggia la tecnica scientifica, come luogo dei rapporti di forza che a loro volta danno strumenti pratici come le tecnologie.
Ma hanno asservito l'uomo così, lo hanno reso schiavo della tecnica. perchè daccapo hanno spostato a loro volta il focus dicendo che l'Essere non esiste.
L'empirismo anglo-scozzese si sposò con alcune correnti culturali continentali come il positivismo.
Ma quali tipi di pensatori ha dato Oxfor e Cambridge, quale tradizione ha portato avanti e tutt'ora lo fa,
insieme al pragmatismo americano divenuta analitica.
Lo scontro dell'ultimo secolo fra analitici e continentali è proprio nel governo delle tradizioni scelte come paradigmi culturali.
Ma mentre i continentali soccombevano cercando l'Essere e Heidegger dichiarava la fine della filosofia, la cultura
più pratica che paradossalmente avrebbe dovuto soccombere visto che nessun sistema era certo spostava nell'utilità e nel funzionale il finalismo delle pratiche .
Oggi il mondo va avanti da sè, proprio perchè è governato dalle pratiche anche se nessuna teoria è fondativa e certa: questo è il vero inestricabile problema.
E' fallito l'Essere quanto è fallita la democrazia e la libertà, è fallito il principio fondativo dei sistemi, ma non il prodotto delle disuguaglianze economiche e sociali.
E cosa ci rimane se non un 'autocoscienza nostra(obliata completamente ormai dalla sparizione dell metafisica e dell'appropriarsi della tecnologia del destino) che lega tutte le contraddizioni nel mondo coagulandole nel tormentato uomo della post modernità che non sa nemmeno gestire i flussi migratori?
So benissimo che la ragione e la verità non vincerebbero mai,non bastano, sulle pratiche dei rapporti di forza che da sempre governano la storia umana di un uomo decadente che ha scelto la natura animale per giustificare le ignominie e il suo cinismo obliando l'Essere per perdere con esso la propria coscienza e con essa la morale e la responsabilità del governo di sè e del mondo in maniera armonica.
CitazioneGià il compianto Preve pretendeva, secondo me del tutto a torto, che l' empirismo inglese (e in particolare David Hume) sia il "padre" dell' odierno capitalismo monopolistico transnazionale. Per me che sono marxista (immodestamentecredo credo più coerente del buon Preve), lo é in ultima analisi lo sviluppo delle forze produttive.
E non ritengo "lecita" (corretta) nessuna lettura unilaterale dell' empirismo inglese e in particolare del "mio" grandissimo David Hume, in questo senso.
La cultura ha una sua autonomia, per quanto relativa, limitata, dalla struttura economica della società e dalla lotta di classe, e Hume oggettivamente (quale che sia l' uso ideologico che può esserne stato fatto a torto o a ragione) resta il grandissimo genio che ha saputo "vedere" l' indimostrabilità della realtà di un soggetto e di oggetti eccedenti l' esperienza (fenomenica) cosciente (metafisici), che é conditio sine qua non del superamento del solipsismo, e del divenire naturale ordinato secondo leggi causali, che é conditio sine qua non (della possibilità, della verità) della conoscenza scientifica.
Non si può di certo rinfacciargli alcun "feticismo della certezza", come pretendevi di fare nel precedente intervento (facendo di tutte le erbe un fascio: non distinguendolo dal resto della cultura moderna (e antica) a cui muovevi la critica; che a mio parere é peraltro per lo meno discutibile anche a proposito di buona parte del resto della cultura occidentale moderna e antica; ma la cosa é meno lampante, richiederebbe argomentazioni più complesse, e inoltre mi preme personalmente di meno).
Tutto il resto (le possibili "libere interpretazioni" -discutibili "per definizione"- dell' empirismo inglese e di Hume come parte integrante e addirittura "radice teorica" dell ideologia dominante in Occidente e nel mondo) mi interessa ben poco (e comunque ne dissento profondamente).
La discussione è andata molto avanti e sta toccando tantissimi temi e raggiunto tanti spunti teoretici davvero interessanti che per me sarebbe troppo impegnativo e dispersivo commentare, almeno per ora, e che tra l'altro sarebbe per me opportuno rileggere con più calma e meno superficialità. Quello che nei limiti di tale superficialità mi sembra di notare è un complessivo stato di sfiducia verso la metafisica tradizionale (è stato da più parti chiamato in causa il postmoderno) e l'esclusione della possibilità di ammettere degli elementi di innatismo nella nostra conoscenza. In fondo mi aspettavo che la mia "battaglia" pro-innatismo fosse difficile da sostenere dal punto di vista della retorica, della capacità persuasiva, e forse non solo per i miei evidenti limiti. Perchè in fondo, nel momento in cui la nostra relazione con il mondo si riferisce costantemente ad un'esteriorità, all'interno delle nostre attività quotidiane, ci sembra davvero difficile ammettere la possibilità che alcuni fondamentali elementi della nostra conoscenza possano essere appresi indipendentemente dal rapporto con l'esteriorità, che appare così esauriente nel assorbire tutti gli aspetti della nostra esistenza, ed anche quando operiamo riflessivamente, il condizionamento del mondo esterno ci porta ad ipotizzare una correlazione tra oggetti esterni e processi mentali stretta al punto di non poter in alcun modo immaginare questi ultimi senza i primi, sottovalutanto e svalutando l'interiorità, riducendola a tabula rasa senza autonomia. L'errore di fondo, io credo, sia quello di porre l'antropologia come base della gnoseologia (o epistemologia) Cioè si parte dall'essere umano, nella misura in cui ne abbiamo una certa esperienza storica per poi elaborare una teoria della conoscenza, un sistema gnoseologico adeguato alla limitatezza ed imperfezione dell realtà umana, escludendo in via preliminare la trattazione degli elementi della conoscenza riferibiti a un soggetto con uno statuto ontologico differente dal quello umano. Io considero questo modo di procedere epistemologicamente scorretto. L'essere umano è una realtà complessa, strutturata da differenti entità, corpo, psiche, coscienza, intenzionalità, percezione, temporalità, libertà, volontà ecc Queste sono tutte categorie che colgono ciascuna un aspetto appartenente a quella realtà che definiamo "essere umano". Quando si ha di fronte una realtà complessa occorre cogliere il senso, le possibilità implicite in ciascuna singola componente per poi riunificare (non assommare in modo disordinato) organicamente il tutto per ricostuire l'immagine della realtà complessa. Non si deve partire dal concetto "uomo", ma indagare l'essenza di ogni singolo concetto "semplice", che lo costituisce, quindi quando in sede gnoseologica si parla di "coscienza" non si deve arbitrariamente restringere il campo di applicazione della coscienza alle forme in cui si manifesta in una certa determinata realtà, quella umana. L'uomo in virtà della sua limitatezza ed imperfezione dipende per la sua conoscenza dal corpo che lo mette in contatto con il mondo esterno, ma questa dipendenza non esclude che, in virtù di componenti distinte dalla mera corporeità, non possa accedere a un contenuto di coscienza originario ed a priori. La coscienza se nel contesto dell'essere umano presuppone per agire una dipendenza da un materiale sensibile ed esteriore, non per questo non potrebbe in un contesto differente esprimersi in modo indipendente da tale matariale. E dunque l'uomo quanto più orienta la sua attenzione verso l'interiorità, verso l'autocoscienza quanto più potrebbe riconoscere una conoscenza da sempre preesistente e originaria nella sua mente di cui non si rende conto qunto più la sua attenzione è orientata verso l'ambiente circostante, come è nello stato normale e naturale. L'uomo è sintesi di materia e spirito, una porta verso la dipendenza dall'esterno, l'altra verso l'interiorità. Il processo conoscitivo è una sintesi di entrambi i fattori e se l'aspetto di dipendenza va ricondotto alla materia non si può, pena la perdita del rilievo del carattere di complessità, trascurare l'intervento dello spirito, spirito che considerato nell'essenzialità del suo senso, a prescindere dalla sua presenza al'interno dell'uomo, determina un elemento di autosufficienza. Un puro spirito, come Dio sarebbe una realtà assoluta e autosufficiente e indipendente dall'esterno (questo discorso prescinde dal giudizio circa l'effettiva esistenza di tale realtà). E alla luce della presenza dello spirito nello stesso "meccanismo" stessa conoscenza umana , pur condizionata dall'esterno tende a somigliare, in modo imperfetto, al modello di conoscenza di un soggetto, che essendo puro spirito, possiederebbe in modo originario il materiale di tale conoscenza. L'uomo va chiarito sulla base delle singole componenti, non sono le singole componenti a dover essere limitate nella loro semantizzazione dalla finitezza dell'umano, pena porre tale finitezza e limitatezza dogmticamente come posizione intrascendibile con tutte le conseguenze che da tale dogmaticità deriverebbero
Davintro,
accetto il richiamo all'ordine nel rienetrare nell'alveo della discussione oltretutto tu sei l'anfitrione di questa discussione.
Se ho "cavalcato" la discussione mi premeva far notare un concetto fondamentale: ognuno di noi entra nei particolari ,come in questo caso sulla critica della conoscenza, ma proprio perchè ha un suo quadro generale. Ovvero si contraddicono coloro che non ritengono di avere universali che almeno mentalmente si sono precostituite delle forme di un'idea di mondo e attraverso queste filtrano i particolari.Detto sinteticamente ognuno di noi giudica attraverso i propri pre-giudizi e questo è determinato dalla forma che coagula la sostanza ovvero la parte metafisica mentale che si è fatta un'idea di mondo; i costruttivisti le denotano come credenze.
Perchè in realtà ognuno di noi ha necessità di credere in qualcosa e allora cerca..........
Nello specifico del tuo ultimo post, mi sembra che sia stato accettato l'innatismo della conoscenza, ma come meccanismo lo definito io, da rodare nel mondo empirico.Ho l'impressione invece che tu sia più "radicale", se così posso dire, ovvero vi è già dalla nascita un sapere che attende di conoscere, quindi l'esperienza del conoscere dovrebbe aiutarci ad avvalorare o negare quel sapere che già persiste.
E provo a spiegare.
Se l'Essere fosse già sapere non capisco perchè l'uomo può decadere, dovrebbe essere sempre migliore come coscienza. Se è permessa alla ragione di contrastare l'Essere, quell'Essere è obnulato è nascosto all'esistenza, per cui l'uomo erra ed è errabondo nelle manifestazioni infinite del mondo.
Io penso invece che L 'Essere sia pura identità ed è quell'esser-ci , prendo a prestito il concetto heideggeriano, che si fa corpo esistente nel mondo fisico nel contraddittorio fra il proprio essere identitario e le manifestazioni contraddittorie del mondo che deve vivere nella propria autocoscienza la maturazione di riportare all'Essere la sua esperienza contraddittoria con le significazioni dentro un percorso di senso.
Se esiste un sapere a priori ,a mio modesto parere, e non posso in effetti negarlo perchè spiega quello che volgarmente sono detti i predestinati alla genialità, non fanno fatica a capire perchè già comprendono, io lo vedo come un "eco", un rumore di fondo che si presenta all'anima e suggerisce all'autocoscienza il giudizio;
ma lo suggerisce non essendo agente attivo alla ragione, all'intenzione e alla volontà che personalmente considero nell'autocoscienza. Insomma è l'autocoscienza come luogo delle riflessioni della conoscenza contraddittoria che decide la differenza fra Essere e la significazione della propria esistenza.L'anima può suggerire il richiamo all'ordine all'autocoscienza, ma non può entrare come soggetto conoscitivo.
Citazione di: paul11 il 11 Settembre 2016, 18:50:36 PMDavintro, accetto il richiamo all'ordine nel rienetrare nell'alveo della discussione oltretutto tu sei l'anfitrione di questa discussione. Se ho "cavalcato" la discussione mi premeva far notare un concetto fondamentale: ognuno di noi entra nei particolari ,come in questo caso sulla critica della conoscenza, ma proprio perchè ha un suo quadro generale. Ovvero si contraddicono coloro che non ritengono di avere universali che almeno mentalmente si sono precostituite delle forme di un'idea di mondo e attraverso queste filtrano i particolari.Detto sinteticamente ognuno di noi giudica attraverso i propri pre-giudizi e questo è determinato dalla forma che coagula la sostanza ovvero la parte metafisica mentale che si è fatta un'idea di mondo; i costruttivisti le denotano come credenze. Perchè in realtà ognuno di noi ha necessità di credere in qualcosa e allora cerca.......... Nello specifico del tuo ultimo post, mi sembra che sia stato accettato l'innatismo della conoscenza, ma come meccanismo lo definito io, da rodare nel mondo empirico.Ho l'impressione invece che tu sia più "radicale", se così posso dire, ovvero vi è già dalla nascita un sapere che attende di conoscere, quindi l'esperienza del conoscere dovrebbe aiutarci ad avvalorare o negare quel sapere che già persiste. E provo a spiegare. Se l'Essere fosse già sapere non capisco perchè l'uomo può decadere, dovrebbe essere sempre migliore come coscienza. Se è permessa alla ragione di contrastare l'Essere, quell'Essere è obnulato è nascosto all'esistenza, per cui l'uomo erra ed è errabondo nelle manifestazioni infinite del mondo. Io penso invece che L 'Essere sia pura identità ed è quell'esser-ci , prendo a prestito il concetto heideggeriano, che si fa corpo esistente nel mondo fisico nel contraddittorio fra il proprio essere identitario e le manifestazioni contraddittorie del mondo che deve vivere nella propria autocoscienza la maturazione di riportare all'Essere la sua esperienza contraddittoria con le significazioni dentro un percorso di senso. Se esiste un sapere a priori ,a mio modesto parere, e non posso in effetti negarlo perchè spiega quello che volgarmente sono detti i predestinati alla genialità, non fanno fatica a capire perchè già comprendono, io lo vedo come un "eco", un rumore di fondo che si presenta all'anima e suggerisce all'autocoscienza il giudizio; ma lo suggerisce non essendo agente attivo alla ragione, all'intenzione e alla volontà che personalmente considero nell'autocoscienza. Insomma è l'autocoscienza come luogo delle riflessioni della conoscenza contraddittoria che decide la differenza fra Essere e la significazione della propria esistenza.L'anima può suggerire il richiamo all'ordine all'autocoscienza, ma non può entrare come soggetto conoscitivo.
Nessun richiamo all'ordine, ci mancherebbe... sono io che ho iniziato la discussione ma non ne sono certo il proprietario, quello che deve dettare una "linea editoriale"! Il mio non voler seguire gli ultimi sviluppi della discussione è dovuto alla consapevolezza dei miei limiti, non certo ad una critica o spirito polemico verso tali sviluppi, che invece valuto positivamente e sarebbe bello proseguissero
Il tuo ultimo post mi "costringe" ( "costringe" lo scrivo qua in modo scherzoso) a provare a esplicitare meglio la mia posizione. L'idea che vi sia "già dalla nascita un sapere che attende di conoscere" mi sembra riferibile al modello innatista platonico, un modello che al di là della sua grandezza, dell'importanza che ha avuto nel gettare le basi della storia del pensiero occidentale, delle basi di verità presenti in esso, credo sia stato fortemente condizionato da un complesso di dottrine come l'orfismo aventi a fare con la mitologia e la religione più che con un coerente svolgimento del logos filosofico razionale. Non condivido appieno quel modello, non credo alla metempsicosi, alla reincarnazione delle anime, non credo di aver in passato visitato una dimensione a sè stante come l'Iperuranio in cui avrei fatto esperienza delle idee universali che poi nell'entrata dell'anima nella "prigione" del corpo avrei dimenticato. Non credo ad un "sapere" prima della nascita" il cui rinvenimento sarebbe il fine della conoscenza mondana. La mia idea è che la nostra soggettività pensante presupponga un'intuizione, un coglimento di alcune nozioni come "universalità", "totalità", "eternità", "infinito" che rendono possibile la formazione di ogni concetto, sia esso riferibile a un contenuto sensibile o intellegibile, nozioni che sono corollari conseguenti dell' "Idea dell'Essere", presupposto trascendentale di ogni altra idea o concetto, citando l'espressione di Antonio Rosmini, la cui ispirazione è stata sviluppata dalla corrente dello spiritualismo italiano del novecento, di impronta neo-agostiniana. Questa intuzione non sarebbe sorta prima della nascita, ma ci accompagnerebbe sin da quel momento come presenza strutturale, originaria e necessaria della nostra mente, del nostro statuto ontologico di "soggetti pensanti". Effettivamente più che di innatismo (l'idea della nascita porta con sè una marea di implicazioni di ordine genetico, biologico, che in sede di discussione filosofica rischiano di essere fuori luogo e di generare confusione tra ambiti epistemici diversi) sarebbe preferibile parlare di originarietà o trascendentalità, anche se "innatismo" è un termine più chiaro e comunicativamente efficace. Non sarebbe neanche a rigor di termini di un "sapere", un complesso organico di giudizi. Il riconoscimento di tale intuzione originaria può umanamente essere effettuato a partire dall'analisi degli elementi che compongono il processo di astrazione dell'universale intelligibile dal particolare sensibile. Analizzando a-posteriori l'astrazione ci si può rendere conto della messa in atto dell'apprensione della nozione di "universalità" come elemento fondante, seppur non sufficiente, dell'astrazione. Ma a-posteriormente ci sarebbe solo il riconoscimento dell'intuzione dell'Essere e delle categorie ad esso correlate, non l'attuarsi reale psicologico della stessa intuzione nell'interiorità della nostra mente
Messe così le cose, forse la tua posizione, per come penso più o meno di averla intesa, non è così tanto distante dalla mia. Anch'io ritengo che l'esistenza umana, l'esser-ci, sia una tensione tra due poli, la molteplicità degli oggetti sensibili che costituisce il mondo in cui viviamo e l'universalità che ci richiama ad intepretare la nostra vita dandole un senso unitario in relazione a cui effettuare scelte ed elaborare pensieri che siano coerenti con tale senso. L'elaborazione di una visione globale e universalista che ricompatti il molteplice presuppone un agostiniano "redi in te ipsum", "rientra in te stesso" un raccogliersi nell'interiorità, (ciò che mi pare di aver capito tu definisca "autocoscienza", io direi più di una "conversione", uno spostamento dello sguardo dall'esterno all'interno, che non sarebbe solo un atto teoretico e contemplativo, ma insieme anche volontaristico) perchè allontanarsi dalla dispersione nella molteplicità è possibile nella misura in cui non siamo solo corpo, ma anche spirito. Il corpo spinge verso il molteplice sensibile, lo spirito verso l'universale. In questo contesto emerge la verità del platonismo, l'immagine dell'auriga, metafora della ragione che media tra i due cavalli, i due poli, cercando di mantenere un equilibrio dinamico, un "compromesso mobile" tra le esigenze dello spirito che spinge alla coerenza con i valori universali e il corpo che ci richiama alle fondamentali esigenze di mantenimento di sopravvivenza (quindi la stessa esistenza dello spirito), nonchè alle necessarie basi della nostra conoscenza, l'apprensione del mondo sensibile, indispensabile esso stesso per la vita. Sarebbe accettabile dunque anche nella mia visione l'idea di identificare l'innato con un "meccanismo", anche se andrebbe chiarito meglio il significato di questo meccanismo, se solo una funzione gnoseologica come in Kant, al servizio dell'apprensione di un contenuto conoscitivo solo estetico, oppure un'autentica apprensione di un materiale intelligibile, come sostengo in modo più infintamente modesto io. Inoltre il termine "meccanismo" non mi piace molto perchè rimanda ad una visione materialista che certamente non può che essere incoerente con qualunque concezione sostenga la presenza di alcunchè di transempirico. Capisco comunque anche l'utilizzo del termine in chiave metaforica, e non vorrei apparire troppo pedante, almeno per questo punto
Due gentili richieste di chiarificazione terminologica, per poter seguire meglio il dibattito:
@davintro
cosa intendi per "spirito"?
@paul11
cosa intendi per "autocoscienza"?
P.s. Se ho ben capito, sono i due termini portanti delle vostre prospettive, e non vorrei fraintenderne il significato...
Citazione di: paul11 il 11 Settembre 2016, 18:50:36 PMDavintro, accetto il richiamo all'ordine nel rienetrare nell'alveo della discussione oltretutto tu sei l'anfitrione di questa discussione. Se ho "cavalcato" la discussione mi premeva far notare un concetto fondamentale: ognuno di noi entra nei particolari ,come in questo caso sulla critica della conoscenza, ma proprio perchè ha un suo quadro generale. Ovvero si contraddicono coloro che non ritengono di avere universali che almeno mentalmente si sono precostituite delle forme di un'idea di mondo e attraverso queste filtrano i particolari.Detto sinteticamente ognuno di noi giudica attraverso i propri pre-giudizi e questo è determinato dalla forma che coagula la sostanza ovvero la parte metafisica mentale che si è fatta un'idea di mondo; i costruttivisti le denotano come credenze. Perchè in realtà ognuno di noi ha necessità di credere in qualcosa e allora cerca.......... Nello specifico del tuo ultimo post, mi sembra che sia stato accettato l'innatismo della conoscenza, ma come meccanismo lo definito io, da rodare nel mondo empirico.Ho l'impressione invece che tu sia più "radicale", se così posso dire, ovvero vi è già dalla nascita un sapere che attende di conoscere, quindi l'esperienza del conoscere dovrebbe aiutarci ad avvalorare o negare quel sapere che già persiste. E provo a spiegare. Se l'Essere fosse già sapere non capisco perchè l'uomo può decadere, dovrebbe essere sempre migliore come coscienza. Se è permessa alla ragione di contrastare l'Essere, quell'Essere è obnulato è nascosto all'esistenza, per cui l'uomo erra ed è errabondo nelle manifestazioni infinite del mondo. Io penso invece che L 'Essere sia pura identità ed è quell'esser-ci , prendo a prestito il concetto heideggeriano, che si fa corpo esistente nel mondo fisico nel contraddittorio fra il proprio essere identitario e le manifestazioni contraddittorie del mondo che deve vivere nella propria autocoscienza la maturazione di riportare all'Essere la sua esperienza contraddittoria con le significazioni dentro un percorso di senso. Se esiste un sapere a priori ,a mio modesto parere, e non posso in effetti negarlo perchè spiega quello che volgarmente sono detti i predestinati alla genialità, non fanno fatica a capire perchè già comprendono, io lo vedo come un "eco", un rumore di fondo che si presenta all'anima e suggerisce all'autocoscienza il giudizio; ma lo suggerisce non essendo agente attivo alla ragione, all'intenzione e alla volontà che personalmente considero nell'autocoscienza. Insomma è l'autocoscienza come luogo delle riflessioni della conoscenza contraddittoria che decide la differenza fra Essere e la significazione della propria esistenza.L'anima può suggerire il richiamo all'ordine all'autocoscienza, ma non può entrare come soggetto conoscitivo.
Davintro,sei mio traduttore ufficiale, hai descritto bene quello che penso.Volutamente non voglio utilizzare gergalicità filosofiche, Il rischio è non farsi capire da tutti e allontanare annoiate le persone.Cerco una mediazione comunicativa per arrivare il più possibile a tutti.Questa tensione però non implica affatto la netta separazione platonica fra fisico e metafisico, ed è strano che Platone lo compia.Platone , hai ragione, è il ponte fra i miti antichi e la filosofia, conosceva bene il linguaggio del mito antico e trovo strano ciò che ha elaborato, probabilmente sulla spinta degli altri fiolsofi greci. Faccio un esempio la religione ebraica, ma anche la musulmana che si rifà a quella ebraica, non divide affatto il mondo in senso platonico, tant'è che fra spirito teoretico e e prassi la divisione non è come nella cultura cristiana, così era anche nel mito antico.Un esempio è che i rituali , le pratiche, il digiuno sono assolutamente necessarie in quelle religioni.Noi invece abbiamo perso le pratiche in quanto le riteniamo poco significative rispetto al dettame divino. Nelle spiritualità orientali è addirittura combaciante, il " ki", il "kundalini" l'"om" tanto per fare esempi sono pratiche assolutamente necessarie fra corpo e spirito,Da noi lo yoga, le arti marziali, sono diventata quasi una ginnastica, ma nelle loro culture originarie sono forme spirituali come il tiro con l'arco.Personalmente sono più vicino a queste ultime visioni nel mio modo di vedere, per cui il conoscere che è prassi nel mondo di un corpo che vive con un'anima non è così separato , ecco perchè non sono un anti-empirista, anti-scientifico, semmai sono critico con le culture che si focalizzano solo su un dominio.Mi permette di specificare a Maral, che se Derrida essendo ebreo di origine, intende l'ebraismo nel senso che ho descritto e la cultura occidentale invece divisa dal platonismo, allora sì è vero quel dualismo che indica; ma non inficia il linguaggio a mio parere. Le descrizioni e i rapporti sia in sanscrito che in ebreo o aramaico sono anzi più ambigue dell'italiano ad esempio, per cui il rapporto fra concetto ed espressione dal punto di vista della parola è ancora più ambiguo se pensiamo che la loro scrittura originaria è priva di vocali che solo nella lettura, nell'espressione fonica viene immessa.L'autocoscienza personalmente la intendo dopo l'anima e prima della ragione.Altri possono combaciarle, altre addirittura obnularla e lasciare solo la ragione.Ma chi lascia solo la ragione spesso la conrtappone al sentimento, per cui la morale apparirebbe a sua volta come tensione fra ragione e sentimento.Personalmente invece ritengo che sia l'autocoscienza ispirata dall'anima perchè l'uomo tende al bene ,anche se può fare del male, per cui è anche il luogo dell'intenzione , della volontà.A sua volta ispira la ragione, la inclina , la veicola verso conoscenze.Ma questa autocoscienza non è assolutamente detto che essendo il luogo in cui la ragione ritorna con conoscenze e riflette anche nella morale, evolva spiritualemtne, metafisicamente, può benissimo autobnularsi, ma non sparire. L'uomo può decidere di non avere un'anima, anche se l'ha, di non avere una autocoscienza anche se l'ha, e veicolare la volontà in solo dominio, come infatti accade.Ma in realtà è ancora quell'autocoscienza che agisce in quanto il luogo del contraddittorio non ha trovato essenze da parte della ragione che conosce nel mondo sensibile e di nuovo replica le contraddizioni.Fin quando le essenze non hanno trovato le significazioni che diano il senso all'esistenza e di andare oltre al mondo sensibile, quella "porta".Il "meccanismo"lo intendo come dinamica innata della nostra mente a saper confrontare praticamente da poco più che bebè le cose. A cominciare a suddividere e selezionare e successivamente quindi ad unire.I concetti aprioristici che richiami a mio modesto parere vengono imparati a ordinarli con la pratica.Un bambino che fantastica non sa ancora temporalizzare il passato l'oggi, il futuro, tende ad attualizzare il tutto.Sono proprio quei concetti che scrivi che aiutano a formalizzare un ordine dal caos delle percezioni e sensazioni di un bambino ,La parte metafisca trovo che sia il fatto di avere un'anima e l'esistenza uno scopo, un senso, ma non che dei concetti siano innati, bensì quell'inferenza " allo stato brado" che attraverso l'esperienza nel mondo verrà ordinata nella forma logica.Phil, non so se sono stato esaustivo.La distinguo dalla comune coscienza perchè a mio parere è interpretata in maniera molto ambigua.Ad esempio il modo comune di intendere un essere cosciente o incosciente non è appropriatoa come penso io l'autocoscienza. E' auto in quanto è anche automatismo innato.
Citazione di: davintro il 11 Settembre 2016, 17:35:32 PM
La discussione è andata molto avanti e sta toccando tantissimi temi e raggiunto tanti spunti teoretici davvero interessanti che per me sarebbe troppo impegnativo e dispersivo commentare, almeno per ora, e che tra l'altro sarebbe per me opportuno rileggere con più calma e meno superficialità. Quello che nei limiti di tale superficialità mi sembra di notare è un complessivo stato di sfiducia verso la metafisica tradizionale (è stato da più parti chiamato in causa il postmoderno) e l'esclusione della possibilità di ammettere degli elementi di innatismo nella nostra conoscenza. In fondo mi aspettavo che la mia "battaglia" pro-innatismo fosse difficile da sostenere dal punto di vista della retorica, della capacità persuasiva, e forse non solo per i miei evidenti limiti. Perchè in fondo, nel momento in cui la nostra relazione con il mondo si riferisce costantemente ad un'esteriorità, all'interno delle nostre attività quotidiane, ci sembra davvero difficile ammettere la possibilità che alcuni fondamentali elementi della nostra conoscenza possano essere appresi indipendentemente dal rapporto con l'esteriorità, che appare così esauriente nel assorbire tutti gli aspetti della nostra esistenza, ed anche quando operiamo riflessivamente, il condizionamento del mondo esterno ci porta ad ipotizzare una correlazione tra oggetti esterni e processi mentali stretta al punto di non poter in alcun modo immaginare questi ultimi senza i primi, sottovalutanto e svalutando l'interiorità, riducendola a tabula rasa senza autonomia. L'errore di fondo, io credo, sia quello di porre l'antropologia come base della gnoseologia (o epistemologia) Cioè si parte dall'essere umano, nella misura in cui ne abbiamo una certa esperienza storica per poi elaborare una teoria della conoscenza, un sistema gnoseologico adeguato alla limitatezza ed imperfezione dell realtà umana, escludendo in via preliminare la trattazione degli elementi della conoscenza riferibiti a un soggetto con uno statuto ontologico differente dal quello umano. Io considero questo modo di procedere epistemologicamente scorretto. L'essere umano è una realtà complessa, strutturata da differenti entità, corpo, psiche, coscienza, intenzionalità, percezione, temporalità, libertà, volontà ecc Queste sono tutte categorie che colgono ciascuna un aspetto appartenente a quella realtà che definiamo "essere umano". Quando si ha di fronte una realtà complessa occorre cogliere il senso, le possibilità implicite in ciascuna singola componente per poi riunificare (non assommare in modo disordinato) organicamente il tutto per ricostuire l'immagine della realtà complessa. Non si deve partire dal concetto "uomo", ma indagare l'essenza di ogni singolo concetto "semplice", che lo costituisce, quindi quando in sede gnoseologica si parla di "coscienza" non si deve arbitrariamente restringere il campo di applicazione della coscienza alle forme in cui si manifesta in una certa determinata realtà, quella umana. L'uomo in virtà della sua limitatezza ed imperfezione dipende per la sua conoscenza dal corpo che lo mette in contatto con il mondo esterno, ma questa dipendenza non esclude che, in virtù di componenti distinte dalla mera corporeità, non possa accedere a un contenuto di coscienza originario ed a priori. La coscienza se nel contesto dell'essere umano presuppone per agire una dipendenza da un materiale sensibile ed esteriore, non per questo non potrebbe in un contesto differente esprimersi in modo indipendente da tale matariale. E dunque l'uomo quanto più orienta la sua attenzione verso l'interiorità, verso l'autocoscienza quanto più potrebbe riconoscere una conoscenza da sempre preesistente e originaria nella sua mente di cui non si rende conto qunto più la sua attenzione è orientata verso l'ambiente circostante, come è nello stato normale e naturale. L'uomo è sintesi di materia e spirito, una porta verso la dipendenza dall'esterno, l'altra verso l'interiorità. Il processo conoscitivo è una sintesi di entrambi i fattori e se l'aspetto di dipendenza va ricondotto alla materia non si può, pena la perdita del rilievo del carattere di complessità, trascurare l'intervento dello spirito, spirito che considerato nell'essenzialità del suo senso, a prescindere dalla sua presenza al'interno dell'uomo, determina un elemento di autosufficienza. Un puro spirito, come Dio sarebbe una realtà assoluta e autosufficiente e indipendente dall'esterno (questo discorso prescinde dal giudizio circa l'effettiva esistenza di tale realtà). E alla luce della presenza dello spirito nello stesso "meccanismo" stessa conoscenza umana , pur condizionata dall'esterno tende a somigliare, in modo imperfetto, al modello di conoscenza di un soggetto, che essendo puro spirito, possiederebbe in modo originario il materiale di tale conoscenza. L'uomo va chiarito sulla base delle singole componenti, non sono le singole componenti a dover essere limitate nella loro semantizzazione dalla finitezza dell'umano, pena porre tale finitezza e limitatezza dogmticamente come posizione intrascendibile con tutte le conseguenze che da tale dogmaticità deriverebbero
Mi trovo d'accordo con il metodo rappresentato, in particolare la parte rappresentata in grassetto che poi altro non è che la destrutturazione alla quale aggiungerei la ricerca dell'archè, del punto di partenza delle strutture concettuali. In tale ricerca ci si potrebbe trovare in una situazione auspicata da davintro, nella quale cioè l'archè non proviene dall'osservazione del mondo e quindi, giocoforza, è innato (anche se questo non vuol dire che lo abbiamo spiegato).
Citazione di: Phil il 12 Settembre 2016, 00:14:00 AMDue gentili richieste di chiarificazione terminologica, per poter seguire meglio il dibattito: @davintro cosa intendi per "spirito"? @paul11 cosa intendi per "autocoscienza"? P.s. Se ho ben capito, sono i due termini portanti delle vostre prospettive, e non vorrei fraintenderne il significato...
Per "spirito" intendo quel modo d'essere di un ente che lo rende non la risultante passiva di una causalità esterna, ma lo porta a rivolgersi verso il mondo in modo attivo, intepretandolo, valutandolo, dandogli un senso e un valore. Il complesso dei giudizi estetici, scientifici, morali che l'uomo formula riguardo al mondo e a se stesso è l'espressione della sua spiritualità e da ciò deriva la fondazione delle diverse forme culturali, scienza, filosofia, religione letteratura, politica. Attraverso lo spirito il mondo cessa di essere un insieme di meri fatti oggettivi ma acquisce un valore che non è mai totalmente immanente alla sua oggettività ma si costituisce come rapporto, relazione tra questa oggettività che in virtù delle sue qualità riceve il valore, e un soggetto cosciente che si protende verso il mondo in base alla sua attività intenzionale. La Pietà senza l'intenzionalità e la progettualità di Michelangelo che l'ha costruita e le categorie estetiche dei visitatori che la reputano un capolavoro sarebbe un mero "fatto", un ammasso informe di marmo, mentre lo spirito, cioè la coscienza soggettiva del suo scultore e di chi la osserva rende a quel ammasso, una forma definita in nome della quale assume un valore e un senso. Appare evidente come intesa in questo modo la spiritualità finisce per corripondere nell'uomo con la razionalità. E ci riagganciamo al tema dell' Universale. Se lo spirito è ciò che ci permette di essere soggetti che attivamente si rivolgono verso il mondo con delle valutazioni e giudizi allora l'essere spirituale presuppone l'utilizzo di categorie a cui attribuiamo una valore universale per giudicare e valutare la realtà particolare. Lo spirito mi porta a giudicare bella la Pietà in nome di un criterio "generale" (se proprio non piace il termine "universale") di bellezza così come riteniamo ingiusto ciò che accadeva ad Auschwitz in nome di un'idea generale di "giustizia". Senza spiritualità, saremmo soggetti in balia degli istinti provenienti dalle realtà particolari esterne al nostro Io, senza poter mai giungere al momento in cui l'Io cessa di farsi "sballottare", assume il controllo riflessivo di sè e del mondo e sottopone gli eventi particolari al giudizio critico, confrontandoli a dei criteri universali intorno a cui costruire la stabilità della sua personalità soggettiva
@davintro
La morale, la bellezza, sono clichè variabile con gli anni e con le culture. Un aborigeno probabilmente non proverebbe alcun senso di bellezza davanti alla pietà michelangiolesca e un greco classico troverebbe perfettamente morale, anzi educativo, che un saggio filosofo o artista si accoppiasse con teneri fanciulli maschi ( rigorosamente di età non inferiore a dodici anni, altrimenti era immorale...).
Fino a poco tempo fa l'omosessualità era considerata immorale; oggi è considerato immorale considerarla immorale e chi lo fa rischia la querela o il dileggio ...
Come può una categoria , che definiamo "spirito", fondarsi su questi basi, su queste fondamenta? Se questo "protendersi verso il mondo" è viziato in origine dall'educazione culturale e morale imposta dall'ambiente sociale che lo circonda? Troviamo spiritualmente ingiusto, profonfamente ingiusto la Shoha e lo sterminio perpetrato dal nazismo, ma non rabbrividiamo al pensiero di bombe atomiche scaricate su città inermi. I nazisti vennero processati a Norimberga , in nome della giustizia, per crimini di guerra e contro l'umanità, ma i giudici erano gli stessi che , in una sola notte di bombardamenti a tappeto, distrussero Dresda e 220.000 vittime civili...
Come può lo "spirito" trovare un fondamento etico al suo agire se tutto cambia continuamente, il senso del giusto e dell'ingiusto, del morale e dell'immorale, del bello e del brutto...?
Il pensiero non potrà mai essere semplicemente passivo ma è essenzialmente reattivo agli stimoli molteplici dell'ambiente che lo circonda e con cui viene a contatto, trovandosi altro da questo e costruendo il suo Ego/Io personale. La sua funzione è quella di "adeguarsi" al mondo per sopravvivere. Lo fa incessantemente, giorno dopo giorno, goccia dopo goccia, così da non sbigottire continuamente come quel tale che vede per la prima volta un uomo di pelle nera ma che poi, vedendone due, poi tre e infine una moltitudine, stabilisce che ...il mondo è fatto anche di neri!
Se poi abbisogna del "mondo" perchè, protendendosi verso di esso in modo attivo, interpretandolo,ecc. trova un senso e un valore alla sua esistenza, come possiamo definirlo trascendente la materia ? Se è in "dipendenza" dal mutiforme variare del mondo non può essere considerato come un ente trascendente il mondo. Per essere trascendente dovrebbe avere inerente a sé la sua stessa causa, non può essere causato dal contatto con le apparenze del mondo, se no sarebbe un "insorgere dipendente" e quindi soggetto a nascita e morte, all'apparire e scomparire.
L'Io "sottopone gli eventi particolari al giudizio critico, confrontandoli a dei criteri universali intorno a cui costruire la stabilità della sua personalità soggettiva". Il problema però è che questi criteri universali non esistono o sono illusori, impermanenti e il povero Io, vedendoseli franare continuamente sotto i piedi piomba in quel sentimento moderno che chiamiamo Angoscia, straniamento, incertezza. In quale porto sicuro può trovare ormeggio il disastrato Io , quando anche le più piccole certezze vacillano davanti al continuo mutare della marea?
Il giorno dopo le dimissioni del precedente pontefice i miei vecchi genitori erano inebetiti, scossi, non trovavano senso alcuno. Il loro vecchio mondo in cui avevano creduto per tutta una vita si stava sgretolando, ancora una volta irrompeva il cambiamento e non riuscivano ad assimilarlo e, assimilandolo, modificare, adattare il proprio spirito agli eventi. Provavano angoscia...
Se lo spirito è fondato sul pensiero, ben misere sono, purtroppo, le sue fondamenta.
** scritto da Sariputra:
CitazioneCome può lo "spirito" trovare un fondamento etico al suo agire se tutto cambia continuamente, il senso del giusto e dell'ingiusto, del morale e dell'immorale, del bello e del brutto...?
La verità, qualunque essa sia, non cambia, quindi è essa il fondamento etico che discerne, attraverso la sapienza, il senso del giusto, del morale e del bello.
Ciò che appare come cambiamento non è altro che una trasformazione dell'individuo (o di tanti individui, quindi trasformazione della società) verso ciò che uno ritiene sia quella verità, unica ed assoluta, che permette di essere felici ed appagati.
Chi considera che i giudici di Norimberga (o i partigiani) furono più che giustificati a commettere un'ingiustizia sommaria, o che l'omosessualità (nell'atto sessuale) sia un sentimento dignitoso, o che ci sia differenza tra la Shoah e quel che fa Israele a Gaza od a Betlemme, non sta facendo altro che associarsi, soprattutto con lo spirito (o l'anima, o la coscienza), con un pensiero etico (una Fede) che si pensi sia vero per tutti, adeguandosi al mondo per sopravvivere.
Io penso che esistiamo per vivere e non per sopravvivere, è tutto qua la differenza.
CitazioneIl giorno dopo le dimissioni del precedente pontefice i miei vecchi genitori erano inebetiti, scossi, non trovavano senso alcuno. Il loro vecchio mondo in cui avevano creduto per tutta una vita si stava sgretolando, ancora una volta irrompeva il cambiamento e non riuscivano ad assimilarlo e, assimilandolo, modificare, adattare il proprio spirito agli eventi. Provavano angoscia...
Esatto, avevano creduto (con tutto il rispetto per i tuoi genitori, spero di non essere impertinente) nel mondo, in un mondo che è ciò che tu giustamente affermi che cambia, e che questo mutamento, questi stimoli molteplici condizionino il nostro pensiero e la nostra fede sulla verità. Ma la croce, anzi il segno (il settimo per Gv) di quella Croce (da cui provenne la scelta santifica ed illuminante di Benedetto XVI) non cambia, è sempre fissa, è qualcosa che non si sgretola, incrollabile per l'eternità, quindi sì che esiste un fondamento etico che non accetta compromessi, che osserva il cambiamento e le stimolazioni innovative come un inganno, come il velo che l'uomo ha da togliere per vedere nitidamente ciò che quel velo già non può più totalmente occultare, proprio perché velo, effimero, provvisorio, momentaneo e destinato a sparire, per non poter più frodare il pensiero, la conoscenza e la fede umana.
Citazione di: Duc in altum! il 13 Settembre 2016, 10:02:19 AM** scritto da Sariputra: CitazioneCome può lo "spirito" trovare un fondamento etico al suo agire se tutto cambia continuamente, il senso del giusto e dell'ingiusto, del morale e dell'immorale, del bello e del brutto...?
La verità, qualunque essa sia, non cambia, quindi è essa il fondamento etico che discerne, attraverso la sapienza, il senso del giusto, del morale e del bello. Ciò che appare come cambiamento non è altro che una trasformazione dell'individuo (o di tanti individui, quindi trasformazione della società) verso ciò che uno ritiene sia quella verità, unica ed assoluta, che permette di essere felici ed appagati. Chi considera che i giudici di Norimberga (o i partigiani) furono più che giustificati a commettere un'ingiustizia sommaria, o che l'omosessualità (nell'atto sessuale) sia un sentimento dignitoso, o che ci sia differenza tra la Shoah e quel che fa Israele a Gaza od a Betlemme, non sta facendo altro che associarsi, soprattutto con lo spirito (o l'anima, o la coscienza), con un pensiero etico (una Fede) che si pensi sia vero per tutti, adeguandosi al mondo per sopravvivere. Io penso che esistiamo per vivere e non per sopravvivere, è tutto qua la differenza. CitazioneIl giorno dopo le dimissioni del precedente pontefice i miei vecchi genitori erano inebetiti, scossi, non trovavano senso alcuno. Il loro vecchio mondo in cui avevano creduto per tutta una vita si stava sgretolando, ancora una volta irrompeva il cambiamento e non riuscivano ad assimilarlo e, assimilandolo, modificare, adattare il proprio spirito agli eventi. Provavano angoscia...
Esatto, avevano creduto (con tutto il rispetto per i tuoi genitori, spero di non essere impertinente) nel mondo, in un mondo che è ciò che tu giustamente affermi che cambia, e che questo mutamento, questi stimoli molteplici condizionino il nostro pensiero e la nostra fede sulla verità. Ma la croce, anzi il segno (il settimo per Gv) di quella Croce (da cui provenne la scelta santifica ed illuminante di Benedetto XVI) non cambia, è sempre fissa, è qualcosa che non si sgretola, incrollabile per l'eternità, quindi sì che esiste un fondamento etico che non accetta compromessi, che osserva il cambiamento e le stimolazioni innovative come un inganno, come il velo che l'uomo ha da togliere per vedere nitidamente ciò che quel velo già non può più totalmente occultare, proprio perché velo, effimero, provvisorio, momentaneo e destinato a sparire, per non poter più frodare il pensiero, la conoscenza e la fede umana.
I miei vecchi avevano creduto in un assoluto, non nel mondo. L'assoluto per la loro fede era che il papa moriva in croce come Colui nel quale credevano. Erano stati educati così, percepivano la verità cristiana così, era una pietra del loro pensiero. Nel momento in cui il papa "scendeva dalla Croce", si dimetteva come un qualunque impiegato dello spirito, questa certezza è svanita. Frettolosamente si è dovuto instaurare al suo posto un altro pensiero, un altro ragionamento: quello che era stata , come sostieni tu, una "scelta salvifica e illuminante". Concetto abilmente e prontamente propagato dal clero che deve sempre autoleggitimarsi, spostando sui moti variabili dello Spirito Santo la variabilità delle decisioni umane. Sul fatto che sia poi stata una scelta illuminante e salvifica nutro molte , personali ovviamente, perplessità e lo potrà dire, forse, con il tempo, la storia. Le celebrazioni frettolose mi danno sempre un senso di...inadeguatezza ;).
Comunque, io tentavo di fare un'analisi dell'associazione pensiero-spirito e non di quella pensiero-fede...
Citazione di: paul11 il 12 Settembre 2016, 01:26:20 AML'autocoscienza personalmente la intendo dopo l'anima e prima della ragione [...] in realtà è ancora quell'autocoscienza che agisce in quanto il luogo del contraddittorio non ha trovato essenze da parte della ragione che conosce nel mondo sensibile e di nuovo replica le contraddizioni.Fin quando le essenze non hanno trovato le significazioni che diano il senso all'esistenza e di andare oltre al mondo sensibile
Quindi, se ho ben capito, l'autocoscienza per te non è "auto" in quanto "riflessiva" (come
autoconsapevolezza,
autodiagnosi, etc.), ma in quanto meccanismo
automatico (ma non
autonomo, perché "è ispirato dall'anima"(cit.), giusto?), che fa da intermediario (da "ingranaggio" intermedio) fra l'anima e la ragione, risolvendo tutto ciò che per la regione è inconciliabile o aporetico (non concordo, ma ho riassunto per farti verificare se ho afferrato la tua prospettiva).
Mi/ti chiedo: l'autocoscienza può comunicare con la ragione? Ovvero, se l'autocoscienza è risolutiva di tutte le apparenti incongruenze che la ragione riscontra intorno a lei, l'autocoscienza può fornire le sue soluzioni alla ragione in modo che l'individuo ne sia cosciente, e quindi la realtà gli risulti meno confusa?
Questo processo di emancipazione dall'apparenza, è eventualmente ancora razionale-mentale oppure è una sorta di "conoscenza superiore", di "illuminazione" (ispirata dall'anima?) che avviene oltre la semplice coscienza "
standard"?
Citazione di: davintro il 12 Settembre 2016, 23:21:00 PMPer "spirito" intendo quel modo d'essere di un ente che lo rende non la risultante passiva di una causalità esterna, ma lo porta a rivolgersi verso il mondo in modo attivo, intepretandolo, valutandolo, dandogli un senso e un valore. [...] Appare evidente come intesa in questo modo la spiritualità finisce per corripondere nell'uomo con la razionalità. E ci riagganciamo al tema dell' Universale
Lo spirito sarebbe dunque una ragione ordinatrice dell'esperienza, che allo stesso tempo interpreta e produce senso; ovvero la intendi più come un'attitudine culturale (ogni senso e figlio della sua cultura: "sua" perché la fonda, o "sua" perchè ne deriva, come ha già notato Sariputra) piuttosto che come un'inclinazione verso una trascendenza che prescinde dalla fattualità degli (avvenim)enti. Giusto?
Phil,
Penso che l'Essere semplicemente è e corrisponde allo spirito. ma di questo spirito nulla si può dir altro perchè non esiste non ha predicazioni. Avviene allora che dall'eterno lo spirito emana un'anima che si incarna nel divenire e nel momento in cui avvine laregola identitaria dell'<Essere divine immediatamente contraddizione, ma può predicarsi, può conoscere, può esistere. può vivere. L'anima a sua volta suggerisce l'autocoscienza poichè ha l'eco e la vicinanza dello spirito che è l'Essere ( e forse quì potrebbe aver ragione Davintro, quando sostine che già ontologicamente l'uomo nasce con dei contenuti come universale, tempo,ecc.).
L'auto coscienza la considero automatica in quanto ontologicamente è con il divenire dell'anima che s'incarna in un corpo fisico e immediatamente relaziona con la ragione.Quindi auto come automatismo innato, ma sfera anche dell'intenzione e della volontà che a sua volta muove la ragione per conoscere.
Se l'anima con la morte torna all'Essere che è lo spirito, l'autocoscienza deposita all'anima la sua essenza che è il senso che i significati degli essenti sono stati compresi attraverso il momento contraddittorio della conoscenza con le particolarità .gli eventi, i fenomeni.
Rispetto al pensiero di Davintro, penso, ma non è detto che abbia ragione, che l'evoluzione dal bebè all'uomo maturo sia un risveglio al contrario delle gerarchie ontologiche.
Ovvero, l'esperienza sensoriale sveglia la ragione che a sua volta sveglia l'autocoscienza che a sua volta ha coscienza di un'anima.L'autocoscienza è esattamente il centro nevralgico sia dell'evoluzione come ho appena detto dell'uomo sia come incontro fra il momento ontologico che arriva fino al Sè dell'autocoscienza che media il rapporto fra eterno e divenire in maniera contraddittoria. la ragione quindi porta astrazioni continuamente all'autocoscienza come esperienza del mondo sensibile ed essendo l'autocoscienza la sfera della volontà e intenzionalità a sua volta pilota la ragione nelle scelte del conoscere costruendosi regole formali e regole ordinative.
Quindi si, quell'auto è anche riflessione in quanto è il momento speculativo dove riflette la conoscenza acquisita dentro l'esistenza e si pone fra sè e sè nel contraddittorio in cui quì "pesca" le essenze e significazioni e costruisce il senso. Come luogo d'incontro/scontro fra spirito/anima e ragione/ conoscenza.
Per questo non basta l logica formale bisogna che un'altra logica comprenda quella formale, è il processo del contraddittorio interiore che è la dialogia del Sè quindi è dialettica sia nel divenire sia nella riflessione speculativa. E quì può nascere il senso che lo porta all'Essere, come momento conclusivo ispirativo
Perchè trovo che questa mia tesi sia in qualche modo idonea, perchè non è assolutamente detto che l'autocoscienza trovi essenze e significazioni che gli aprano la porta dell'anima e quindi dell'essere che è spirito.
Quell'autocoscienza può benissimo sbarrare la porta, in quanto incapace di risolvere il momento del contraddittorio e quindi si risolve e si dissolve SOLO nel divenire e lo accetta come proprio destino.
A questo punto la ragione è come se collassasse su se stessa perchè la conoscenza infinita nel mondo sensibile dentro il divenire che porta all'autocoscienza non viene mai risolta,quindi l'autocoscienza diventa non momento razionale, ma momento emotivo che esprime l'angoscia .
Sì io credo anche nel momento ispirativo e intuitivo che sono forme di conoscenza che appaiono in qualunque forma di conoscenza dall'intuito dello scienziato all'ispirazione artistica. siano fondamentali nell'accompagnare ragione e autocoscienza.
Ma ribadisco non è detto assolutamente che l'autocoscienza emancipi, può benissimo decadere.
Ritengo che l'anima ispiri l'autocoscienza e quindi essendo sfera della volontà piloti la ragione, ma è silente non è agente di conoscenza, ma fondamentale momento di trasmissione del senso e significati in quanto porterà a quell'Essere che è spirito che è eterno e privo di predicazioni i significati e il senso che l'autocoscienza con la morte lascia all'anima che ritorna dalla dimensione del divenire a quella dell'eterno.
Il senso che intendo non ha a che fare con le culture temporali, semmai in queste deve trovare le essenze i denominatori comuni delle culture, i confronti nel contraddittorio.Il senso è unire la contraddizione del divenire della conoscenza nel mondo sensibile del divenire all'Essere che è spirito eterno potendogli donare ora le predicazioni.L'Essere ora ha avuto l'orizzonte dell'esistenza temporale,ha conosciuto l'alba e il tramonto.
Il senso lo produce l'autocoscienza, non lo spirito, l'Essere, ma può anche decadere non trovandovi senso o accontentandosi del conoscere il sensibile come verità, come proprio destino che si dissolve.
L'angoscia potrei definirlo come il momento in cui l'anima non può più suggerire all'autocoscienza la presenza ontologica dell'Essere da cui viene, per cui ora l'autocoscienza chiude lo sguardo all'anima e rivolge l'attenzione ,la propria volontà, alla ragione chiedendo continua conoscenza, illudendosi che il momento contraddittorio possa svanire con la sola ragione applicata al sensibile del mondo.
Quindi, e finisco, l'Essere tace nel suo semplice "è".
Questa teoria metafisica (una rivisitazione di Hegel?) mi pone alcuni interrogativi:
Citazione di: paul11 il 13 Settembre 2016, 19:08:49 PMPenso che l'Essere semplicemente è e corrisponde allo spirito. ma di questo spirito nulla si può dir altro perchè non esiste non ha predicazioni
Probabilmente c'è un refuso che è sfuggito alla rilettura: se "l'Essere semplicemente è e corrisponde allo spirito", com'è possibile che "di questo spirito nulla si può dir altro
perchè non esiste"?
L'Essere corrispondente allo spirito (sinonimi?!) dovrebbe essere postulato come esistente, altrimenti ne conseguirebbe che l'Essere non è (che è una prospettiva impraticabile nel tuo orizzonte, da quel che ho capito...).
Se poi l'Essere-spirito non ha predicazioni e nulla se ne può dire, come possiamo sostenere che tale Essere emani un'anima? Allora, c'è qualcosa di predicabile riguardo l'Essere-spirito... e com'è possibile ascrivergli tale compito? L'autocoscienza ce lo rivela?
Citazione di: paul11 il 13 Settembre 2016, 19:08:49 PMAvviene allora che dall'eterno lo spirito emana un'anima che si incarna nel divenire
Questa emanazione è come l'ipostasi plotiniana o è di altro tipo?
Citazione di: paul11 il 13 Settembre 2016, 19:08:49 PMl'autocoscienza che a sua volta ha coscienza di un'anima
L'autocoscienza dunque porge l'idea di anima alla coscienza/ragione tramite... non può essere conoscenza razionale-empirica, quindi suppongo sia tramite intuito, giusto?
Citazione di: paul11 il 13 Settembre 2016, 19:08:49 PMQuell'autocoscienza può benissimo sbarrare la porta, in quanto incapace di risolvere il momento del contraddittorio e quindi si risolve e si dissolve SOLO nel divenire e lo accetta come proprio destino. [...] L'angoscia potrei definirlo come il momento in cui l'anima non può più suggerire all'autocoscienza la presenza ontologica dell'Essere da cui viene, per cui ora l'autocoscienza chiude lo sguardo all'anima e rivolge l'attenzione ,la propria volontà, alla ragione chiedendo continua conoscenza, illudendosi che il momento contraddittorio possa svanire con la sola ragione applicata al sensibile del mondo
Quindi l'anima, emanata dall'Essere, può essere così "difettosa" da non poter indirizzare l'autocoscienza, oppure così "soggetta al caso" al punto da poter anche produrre un'autocoscienza che si lascia intrappolare dalle contraddizioni della ragione anziché guidarla?
La fallibilità al livello dell'autocoscienza, forse non adeguatamente "sollecitata" dalla ragione, come può (se può) essere ri-orientata verso l'anima?
P.s. I miei riferimenti allo "spirito" e alla "cultura" erano un commento alla citazione da Davintro che avevo riportato...
Se "l'Essere tace nel suo semplice è" come si può dire che è lo spirito? Dicendo che è lo spirito, anche se poi si afferma che dello spirito nulla di può dire, si è già reso l'essere un ente, se ne è presentato un predicato a cui si contrappone la sua negazione, il non spirito, forse quella materia che però ugualmente è e dunque rientra nell'Essere. E perché mai, dato che qualcosa si è detto dell'Essere non si potrebbe predicare ancora dello spirito come di un qualsiasi ente, e predicare all'infinito, come di un qualsiasi ente. Dicendo che l'Essere è lo spirito si è già posta una dualità e ogni dualità continua all'infinito a scindersi negli enti, possiamo cominciare a contare!
L'Essere non è né spirito né materia, poiché è entrambe le cose, esso non ha nome perché ha ogni nome e quando diciamo Essere, diciamo qualcosa che non ha significato perché ha ogni significato, è l'uno e il molteplice, è tutto e niente, è contraddizione che non presenta alcuna contraddizione. E' e quindi appare, ma è e pertanto non appare: appare nel continuo infinito sorgere e tramontare degli enti e si nasconde nel medesimo sorgere e tramontare. E anche questo continuo apparire e scomparire deve apparire e scomparire nell'Essere, perché anch'esso come ogni cosa è.
Ogni dire appropriato dell'essere è inappropriato, ogni senso è insensato, proprio come queste parole. Avvicinarsi all'Essere è entrare nella follia più profonda e originaria degli enti ove tutto e nulla accade.
Citazione di: maral il 13 Settembre 2016, 22:48:17 PMSe "l'Essere tace nel suo semplice è" come si può dire che è lo spirito? Dicendo che è lo spirito, anche se poi si afferma che dello spirito nulla di può dire, si è già reso l'essere un ente, se ne è presentato un predicato a cui si contrappone la sua negazione, il non spirito, forse quella materia che però ugualmente è e dunque rientra nell'Essere. E perché mai, dato che qualcosa si è detto dell'Essere non si potrebbe predicare ancora dello spirito come di un qualsiasi ente, e predicare all'infinito, come di un qualsiasi ente. Dicendo che l'Essere è lo spirito si è già posta una dualità e ogni dualità continua all'infinito a scindersi negli enti, possiamo cominciare a contare! L'Essere non è né spirito né materia, poiché è entrambe le cose, esso non ha nome perché ha ogni nome e quando diciamo Essere, diciamo qualcosa che non ha significato perché ha ogni significato, è l'uno e il molteplice, è tutto e niente, è contraddizione che non presenta alcuna contraddizione. E' e quindi appare, ma è e pertanto non appare: appare nel continuo infinito sorgere e tramontare degli enti e si nasconde nel medesimo sorgere e tramontare. E anche questo continuo apparire e scomparire deve apparire e scomparire nell'Essere, perché anch'esso come ogni cosa è. Ogni dire appropriato dell'essere è inappropriato, ogni senso è insensato, proprio come queste parole. Avvicinarsi all'Essere è entrare nella follia più profonda e originaria degli enti ove tutto e nulla accade.
Un simile "Essere" non è concepibile né dalla ragione, né dal sentimento, né dall'intuizione. La domanda allora diventa: Cosa ce ne facciamo?
Leviamo il calice e godiamo di quella poca gioia che la vita ci riserva?...
@Maral
Secondo me, l'Essere non necessita di maiuscola, ma è semplicemente la forma sostantivata del verbo "essere", ovvero è come "l'amare" o "l'udire" o "l'imparare"... l'essere è principalmente la predicazione dell'esistenza, sia essa empirica, concettuale o soltanto (inevitabilmente) linguistica; lo dimostra il fatto che ogni "essere" deve essere logicamente riferito a un soggetto: "x è", per dire che "x" esiste; oppure "x è y" per dire qualcosa ("y") riguardo "x".
Affermare "l'Essere è" suona logico, ma, in fondo, è un aforisma "incompleto": l'Essere non esiste empiricamente; gli enti sono, esistono... "l'Essere è x" è invece una frase di senso compiuto (dove "x" può essere sostituito da differenti parole...). Sintomatico il fatto che il suo consueto contrario, il non-essere, sovente inteso come "nulla", sia inteso solitamente come non-essere-empirico... altrimenti, è innegabile che il "non-essere è un concetto, è una definizione, è un tema, è un'espressione, etc." e questo "essere del non-essere" non è affatto paradossale, se restiamo lontani dalla possibile ambiguità linguistica (che non distingue i differenti livelli dell'essere-come-esistere...).
Se poi con "l'Essere è" intendiamo che l'Essere esiste come concetto/proprietà/condizione, allora non ha laicamente senso la maiuscola, perché anche "l'amare è", "l'udire è", "l'imparare è"...
Lo so, starete già pensando alla differenza ontologica... ma non è forse possibile, oggi, riconoscere anche che le "maiuscole" di derivazione platonico-cristiana sono mitologemi di una metafisica che è stata utile al suo stesso superamento?
Non mi è impossibile pensare all'essere-degli-enti solo come loro proprietà esistenziale, come loro condizione di esistenza (così come penso all'appassire-dei-fiori come fase del loro ciclo vitale, senza che ci sia un'Appassire trascendentale, ma soltanto il semplice concetto di appassire), senza postulare necessariamente un Essere-apeiron a cui tali enti debbano far ritorno "pagando il fio della loro esistenza" (con buona pace del caro vecchio Anassimandro...).
@Sariputra
Prosit! :)
@paul11
Resto desideroso di poter meglio comprendere la tua prospettiva, magari grazie alle domande del mio precedente post...
Citazione di: Phil il 13 Settembre 2016, 22:00:41 PM
Questa teoria metafisica (una rivisitazione di Hegel?) mi pone alcuni interrogativi:
Citazione di: paul11 il 13 Settembre 2016, 19:08:49 PMPenso che l'Essere semplicemente è e corrisponde allo spirito. ma di questo spirito nulla si può dir altro perchè non esiste non ha predicazioni
Probabilmente c'è un refuso che è sfuggito alla rilettura: se "l'Essere semplicemente è e corrisponde allo spirito", com'è possibile che "di questo spirito nulla si può dir altro perchè non esiste"?
L'Essere corrispondente allo spirito (sinonimi?!) dovrebbe essere postulato come esistente, altrimenti ne conseguirebbe che l'Essere non è (che è una prospettiva impraticabile nel tuo orizzonte, da quel che ho capito...).
Se poi l'Essere-spirito non ha predicazioni e nulla se ne può dire, come possiamo sostenere che tale Essere emani un'anima? Allora, c'è qualcosa di predicabile riguardo l'Essere-spirito... e com'è possibile ascrivergli tale compito? L'autocoscienza ce lo rivela?
Citazione di: paul11 il 13 Settembre 2016, 19:08:49 PMAvviene allora che dall'eterno lo spirito emana un'anima che si incarna nel divenire
Questa emanazione è come l'ipostasi plotiniana o è di altro tipo?
Citazione di: paul11 il 13 Settembre 2016, 19:08:49 PMl'autocoscienza che a sua volta ha coscienza di un'anima
L'autocoscienza dunque porge l'idea di anima alla coscienza/ragione tramite... non può essere conoscenza razionale-empirica, quindi suppongo sia tramite intuito, giusto?
Citazione di: paul11 il 13 Settembre 2016, 19:08:49 PMQuell'autocoscienza può benissimo sbarrare la porta, in quanto incapace di risolvere il momento del contraddittorio e quindi si risolve e si dissolve SOLO nel divenire e lo accetta come proprio destino. [...] L'angoscia potrei definirlo come il momento in cui l'anima non può più suggerire all'autocoscienza la presenza ontologica dell'Essere da cui viene, per cui ora l'autocoscienza chiude lo sguardo all'anima e rivolge l'attenzione ,la propria volontà, alla ragione chiedendo continua conoscenza, illudendosi che il momento contraddittorio possa svanire con la sola ragione applicata al sensibile del mondo
Quindi l'anima, emanata dall'Essere, può essere così "difettosa" da non poter indirizzare l'autocoscienza, oppure così "soggetta al caso" al punto da poter anche produrre un'autocoscienza che si lascia intrappolare dalle contraddizioni della ragione anziché guidarla?
La fallibilità al livello dell'autocoscienza, forse non adeguatamente "sollecitata" dalla ragione, come può (se può) essere ri-orientata verso l'anima?
P.s. I miei riferimenti allo "spirito" e alla "cultura" erano un commento alla citazione da Davintro che avevo riportato...
Hegel metafisico? Dipende cosa intendi per metafisico. Non è spirituale, il suo concetto di spirito e trascendenza si ferma all'autocoscienza e lo spirito come idea. Non ho di fatto un ascendete filosofico in assoluto, ma ritengo geniale come Hegel unisce la pluralità del contraddittorio nel mondo empirico riportandolo al concetto universale in modo razionale, utilizzando la dialettica, in questo sì mi ha influito.
Rispondo a te e Maral,
Maral il tuo errore è l'oggettivazione ontologica dell'Essere che viene confuso quindi con enti ed essenti tipico di molta filosofia . O noi siamo qualcosa come Esseri o la filosofia è chiacchiera inutile che nulla dice di noi e dell'esistenza.
Heidegger intuisce che l'Essere metafisico concettualizzato fino ad allora non ha senso perchè non è legato all'esistenza. Tutte le metafisiche che pongono l'Essere e lo confondono con gli enti e quindi essenti non dicono nulla del motivo per cui siamo al mondo.Sono metafisiche noiose perchè non rispondono all'interrogativo del perchè esistiamo.L'Essere è e basta all'origine. Ma non gli basta autocontemplarsi speculativamente nel principio di identità. Deve vivere la contrraddiizione e l'esistenza nel divenire è la contraddizione rispetto all'eternità dell'Essere.Heidegger concettualizza l'Esser-ci nel momento in cui l'Essere esiste nell'orizzonte del tempo e vive per la morte.
La mia tesi è che o esiste una filosofia che comprende interamente il processo fra l'essere e le contraddizioni del conoscere nell'esistenza o la filosofia è morta,su questo sono d'accordo con Heidegger. Oppure diventa ermeneutica o linguistica e si relativizza ridimensionandosi negli interrogativi che si pone. perchè la filosfia non nacque per questi scopi secondari .E come se la Bibbia fosse studiata da un credente per fini linguistici e interpretativi di questi e non più di Dio.
Nel mio modo di concettualizzare l'Essere, solo l'esistenza con il ritorno dell'anima allo spirito o Essere, SOLO adesso ha le significazioni per cui la vita han avuto un senso e quindi ha le predicazioni.
Di cosa si può dire se l'Essere è ma non esiste se non predicati concettualizzati dentro l'esistenza?
Ha senso dire di Dio ad esempio secondo la lettura di un umano? Meglio tacere.E infatti agli ebrei è proibito il nome di Dio, il tetragramma.
Phil,
in un certo senso è vero c'è un processo di ipostasi gerarchica plotiniana.
Possiamo negare che esistiamo? Mi pare evidente, tautologico.Non ritengo che l'Essere entri direttamente nell'esistenza e direttamente quindi sia predicabile, da questo mi discosto da molte teologie, perchè sarebbe già contraddittorio l'Essere nel momento in cui esiste e questi o è verità o falsità sempre.
L'essere deve rimanere pura identità nell'eterno diversamente sarebbe impossibile impraticabile la concettualizzazione di una verità dentro l'esistenza poiche quell'Essere sarebbe dentro i momento "corruttibile" non identitario dell'esistenza dove tutto vive in contraddizione dialettica. E' l'anima come soffio vitale che svolge il compito dell'essere nel contraddittorio e ritorna come significazioni all'esser per cui dà il senso e le predicazioni..Solo così il cerchio si chiude dialetticamente.
.C'è un doppio movimento della conoscenza, quella empirica e quella metafisica unita dal momento riflessivo dell'autocoscienza.E' a salire e a discendere.L'autocoscienza è legata all'anima in quanto gli deposita il senso delle significazioni.
Citazione di: SariputraUn simile "Essere" non è concepibile né dalla ragione, né dal sentimento, né dall'intuizione. La domanda allora diventa: Cosa ce ne facciamo?
Nulla, l'ente non può fare alcuna cosa dell'Essere, non può utilizzarlo in alcun modo. L'Essere in quanto tale non è qualcosa a disposizione dell'ente.
CitazioneLeviamo il calice e godiamo di quella poca gioia che la vita ci riserva?...
Non sarebbe una cattiva idea, come diceva Socrate sapere di non sapere è il massimo sapere che ci è concesso, cerchiamo solo di vivere come meglio possiamo, per quello che siamo e non possiamo non essere: l'altrettanto famoso "conosci te stesso" scritto sul tempio di Apollo (e Dioniso) a Delfi.
Citazione di: PhilSecondo me, l'Essere non necessita di maiuscola, ma è semplicemente la forma sostantivata del verbo "essere", ovvero è come "l'amare" o "l'udire" o "l'imparare"... l'essere è principalmente la predicazione dell'esistenza, sia essa empirica, concettuale o soltanto (inevitabilmente) linguistica; lo dimostra il fatto che ogni "essere" deve essere logicamente riferito a un soggetto: "x è", per dire che "x" esiste; oppure "x è y" per dire qualcosa ("y") riguardo "x".
Anche dire che l'Essere è solo la forma sostantivata del verbo essere significa ridurlo a un ente (come tanti altri enti: l'amare, l'udire, l'imparare ecc., che comunque sono aspetti dell'Essere esistenzialmente inteso). Certo, l'essere implica l'esistenza, ma implicandola ne implica anche la negazione. Dicendo che x è (l'ente è) non dico altro che x è x (che non equivale a dire che x esiste, se per esistere intendiamo si manifesta, appare a qualcuno), ossia con x è si afferma la perfetta tautologia di x che genera un non x e quindi già lo pone come ente anche se di x non sto predicando nulla. Dicendo invece che x è y affermo che c'è qualcosa di x che trovo anche in y, ma per vedere questa somiglianza devo comunque in qualche modo avere (a priori) x e y come generalità. Non posso cioè predicare che questa mela è rossa, senza già sapere cosa in generale è la mela e cosa in generale è il rosso (per quanto sia mela che rosso si possano a loro volta dire nella loro particolare universalità di significato in molti modi linguisticamente diversi, basta intendersi).
In merito alla diversità dei linguaggi che tuttavia pare far riferimento a una fonetica espressiva originaria non arbitraria mi sembra interessante il richiamo a questa ricerca:
http://www.repubblica.it/scienze/2016/09/13/news/studio_con_lo_stesso_suono_gli_umani_esprimono_la_stessa_idea_anche_in_lingue_diverse-147714389/?ref=HRLV-22 @Paul, sei d'accordo che dell'Essere nulla si può dire? Se sei d'accordo come puoi dire (o come può dire Hegel) che l'Essere è lo Spirito da cui discende tutto il resto. Certo, dell'Essere si può dire anche qualsiasi cosa, si può dire che è Spirito, Materia, basta non pretendere che sia solo questo o quest'altro, perché pure quest'altro è, nel modo in cui viene a essere. Dire che l'Essere è lo Spirito è equivalente a dire che l'Essere è la Materia, dato che nell'Essere ci stanno entrambe le cose.
Mi dispiace deluderti nelle tue speranze, ma a mio avviso non può esistere una filosofia che "comprenda interamente il processo fra l'essere e le contraddizioni del conoscere nell'esistenza", giacché questo implicherebbe poter comprendere l'essere in cui invece ci troviamo sempre compresi come enti esistenti (e dunque contraddittori), ma non per questo la filosofia è morta, perché non è morta e non morirà mai la tentazione di fare di un modo di concepire e vedere il mondo un assoluto (ossia di fare di una filosofia una superstizione) e la filosofia può continuare a vivere proprio combattendo contro questa tentazione. Può quindi vivere di un compito continuamente decostruttivo per consentire una dimensione vivibile anziché assoluta e dunque invivibile come la follia. E questo, per quanto l'assoluto resti sempre sommamente desiderabile, non è a mio avviso per nulla uno scopo secondario, perché se le vecchie metafisiche sono decedute, ce ne sono sempre di nuove, ben più potenti e suggestive che vogliono prenderne il posto per costruirsi come assoluto.
Maral,
non ho ancora capito cosa sia per te l'uomo. E'' sì o no un agente conoscitivo ( e ti contraddiresti se dicessi di no), o è un semplice ente come un filo 'erba.
Continui a trattare l' Essere come se non ci appartenesse e quindi non potrai mai rispondere alla relazione fra Essere ed esistenza.
E' impossibile comprendere l'Essere dalla propria condizione di esistenza, semplicemente perchè farebbe a meno di esistere.
Constato che sei passato al relativismo dopo le lezioni severiniane.
La tua è una posizione ambigua intellettualmente, incoerente. O fai a meno di accettare di discutere l'Essere e accetti fino in fondo un relativismo culturale che non è più filosofia è più coerente la scienza contemporanea, oppure è necessario relazionare ,come ho scritto più volte, l'Essere e l'esistenza
E di nuovo ti contraddici.Come potremmo formulare l'essere, enti, tempo, universali , empirico, metafisico, ecc. se in qualche modo noi non li comprendessimo.Chi sei tu per dire che invece è sentimento, superstizione , tentazione?
Come rispondi alla conoscenza che domanda oltre il sensibile, se esiste un significato nella vita?
C'è chi risolve la sua coscienza e ragione di essere come un animale che si dissolve nel nulla :amen.E incoerentemente continua a ragionare inutilmente, perchè ciò che porta sopra il corpo non è ragione è orpello per vincere la concorrenza perchè non ha nessun senso la sua esistenza, vale come un'ameba: ma non perchè lo dico io, ma perchè lo ha deciso lui.
Non ho speranze, ho concetti e considerazioni riflessive, le superstizioni e le tentazioni saranno tue, non certamente mie
Phil scrive
"Lo spirito sarebbe dunque una ragione ordinatrice dell'esperienza, che allo stesso tempo interpreta e produce senso; ovvero la intendi più come un'attitudine culturale (ogni senso e figlio della sua cultura: "sua" perché la fonda, o "sua" perchè ne deriva, come ha già notato Sariputra) piuttosto che come un'inclinazione verso una trascendenza che prescinde dalla fattualità degli (avvenim)enti. Giusto?"
Direi che un'opzione non esclude l'altra. Essere fattore ordinativo dell'esperienza presuppone un margine di trascendenza rispetto a ciò che si ordina, perchè la logica ordinatrice sarebbe qualcosa di non necessariamente immanente al carattere di molteplicità degli oggetti dell'esperienza ma sarebbe espressione di un soggetto che ha un potere di unificare a livello concettuale tale esperienza. Il valore, il senso delle cose le cose non le hanno per sè ma lo ricevono a partire da una coscienza (che valore avrebbe la bellezza di un'opera d'arte senza uno sguardo soggettivo, esteticamente educato e formato che la contempla e ne gode?), e questo presuppone che il soggetto si rivolga in tale donazione di significati a partire da un modo d'essere distinto dagli oggetti che a partire da esso ricevono tale donazione. Non potrebbe cioè l'uomo dare alle cose alcunchè, alcun valore nulla che le cose come meri fatti oggettivi non possiderebbero già, se non fosse già ontologicamente in qualche modo distinto da distinto da esse. Lo spirito non è un' "attitudine culturale", piuttosto è ciò che rende possibile ogni forma di cultura in quanto tale, perchè ogni cultura ha come principio una soggettività cosciente che intepreta il mondo a partire da sè, in modo attivo. Perchè la cultura integri e si aggiunga alla natura materiale originaria occorre che il soggetto originante la cultura, l'uomo, non sia un ente naturale come tutti gli altri, ma un soggetto animato da esigenze, idee che lo portano ad ammettere prospettive differenti dal reale naturale di cui ha un'esperienza "hic et nunc", e sulla base di ciò poter operare una trasformazione, cioè l'introduzione di una nuova forma nella materia, cosicchè il mondo assume nuove forme attraverso la donazione di valore che riceve da un ente che di ogni valore è la portatrice, la persona. Come potrebbe Michelangelo aver progettato nuove forme rispetto ad un insensato blocco di marmo se non ci fosse alcuna discontinuità ontologica tra la sua persona e il blocco stesso? Dove avrebbe trovato l'idea di nuove forme, nonchè del valore estetico che a tali forme egli (e noi come ammiratori delle sue opere) attribuiva? Questa discontinuità ontologica, questa trascendenza, è data dallo spirito. E i limiti della presenza spirituale nell'uomo coincidono con i limiti della sua autonomia rispetto al mondo esterno, i limiti dell'autonomia dell'Io rispetto al non-Io
Il problema della critica della conoscenza è come si formano i concetti e come li relazioniamo.
Si è discusso sui presussposti della conoscenza, universale, particolare, o di una ontologia preesistente come universalità, temporalità.
L'altro grosso problema che emerge dalle critiche che ho avuto è nel limite dellaconoscenza stessa nei cuoi concetti. Dove vogliamo che la ragione arrivi ? Perchè è quì che constato incoerenza.
Lo scettico, l'empirista e il metafisico applicano la propria conoscenza rispetto a dove sostenfono che vi sia la verità, oltre il limite non è possible andare.
Lo scettico è Diogene che coerentemente abita nudo in una botte e defeca sulla piazza come un cane.
Quindi limita fortmente dove la ragione possa andare, per lui la verità è ciò che abita in prima persona, in ciò che vede, sente e percepisce come un animale. Impossibile e non praticabile andare oltre.
L'empirsta è il tipico scienziato contemporaneo (lo so che non è proprio così, ma utilizzo lo stereotipo),
che si fida della realtà anche se applica le regole formali della logica/matematica ( e per me questo è già incoerenza perchè la utilizza dove gli conviene e non secondo ragione).Negli empiristi vi sono scienziati e pensatori riduttivisti che ad esempio negano la coscienza.
Ora se nego la coscienza coerentemente nego tutte le etiche e morali che sarebbero semplice estensione percettiva psichica di un animale sociale per convenienza. Non hanno nessun fondamento logico di esistere, per cui la regola è quella naturale ,non vince la ragione vince il più forte.
L'empirista spirtuale è la tipica contraddizione in termini.
Il metafisico, anche quì esistono varie versioni, nega una realtà naturale come principio veritativo e la rivolge alla propria ragione.(anche questo è uno stereotipo, ma è par far capire succintamente)
Quindi il finalismo fra conoscenza-ragione- posizione filosofica è dove si pensa sia la verità e il compito se si dà o meno alla ragione di limitarsi al punto in cui la verità è ancora riconoscibile, deducibile .
La filosofia che da secoli ormai ha sposato una linea scientificizzata, ha di fatto accettato che le crisi dei primitivi, dei fondamentali sui sistemi, i paradigmi stessi scientifici, sia applicabile a sè, quindi si è relativizzata confondendosi con la stessa scineza sperimentale.
Il problema oggi è talmente riduttivo che l'Essere è obnulato del tutto, il problema è addirittura se abbiamo una coscienza o se siamo solo stimoli neurofisiologici.
Citazione di: davintro il 14 Settembre 2016, 17:02:19 PMCome potrebbe Michelangelo aver progettato nuove forme rispetto ad un insensato blocco di marmo se non ci fosse alcuna discontinuità ontologica tra la sua persona e il blocco stesso? Dove avrebbe trovato l'idea di nuove forme, nonchè del valore estetico che a tali forme egli (e noi come ammiratori delle sue opere) attribuiva? Questa discontinuità ontologica, questa trascendenza, è data dallo spirito.
Personalmente, propenderei per una semplice "astrazione concettuale" piuttosto che per una "trascendenza"... che differenza c'è? La seconda può presupporre uno "spirito" (termine ambiguo e tutto da dimostrare), la prima no (quindi non richiede indagini su postulazioni teoretiche, o sulla fede, o su intuizioni particolari...).
L'astrazione funziona meglio, è filosoficamente più "efficiente" della trascendenza.Secondo me, ad esempio, Michelangelo ha "semplicemente" usato la sua creatività per progettare (e la sua tecnica per realizzare) un'opera d'arte. Esattamente (più o meno ;D ) come facciamo noi quando scriviamo i post: la "discontinuità ontologica" fra noi e i nostri post non è data dallo spirito, comunque venga inteso (opinione mia), ma si tratta di combinare ciò che già conosciamo (le parole e i concetti, proprio come Michelangelo conosceva di certo i materiali e le forme) secondo la nostra capacità ("scrittoria" nel nostro caso, estetica nel caso dello scultore), producendo qualcosa di nuovo (piuttosto modesto nel nostro caso, decisamente sontuoso nel caso di Michelangelo).
A parer mio, mettere in ballo lo spirito (se non lo si intende come mera attività della mente) crea solo complicazioni spurie e falsi problemi di conciliazione fra i piani dell'esistenza...
Paul, certo che l'uomo è, nel suo particolare modo di essere, ossia nel suo essere un ente, un ente conoscitivo, anzi si potrebbe dire che ogni vivente essendo senziente è un ente conoscitivo, laddove però nell'uomo questa conoscenza si esprime in modo riflessivo reiterato potenzialmente all'infinito: l'uomo conoscendo conosce se stesso e conoscendo se stesso conosce il mondo in sente di vivere e questo lo fa attraverso il linguaggio con cui sviluppa relazioni reciprocamente influenzanti con altri esseri umani, che condizionano la conoscenza di altri esseri umani. Ma non può entrare in relazione con l'Essere in quanto tale, poiché è nell'Essere; è in esso compreso e non comprendente, ne è parte in ogni modo e in nessun modo può elevarsi su di esso per coglierne il panorama e definirlo (anche se in qualche modo, soprattutto in Occidente, si è sempre pensato di poterlo fare: l'Essere è Dio, l'essere è lo Spirito assoluto, oppure è Materia assoluta sempre in divenire, ma tutti questi non sono che enti, al massimo super enti se proprio li si vuole considerare tali per idolatrarli e come enti in rapporto all'Essere uno vale l'altro. Se ho detto che ogni volta che si pretende una chiara definizione da cui tutto si possa spiegare si cade nella superstizione, intendendo con tale termine una potenza senza conoscenza, è proprio perché dell'Essere non possiamo avere alcuna conoscenza mentre ci si illude di poterne avere dominio. Non mi stupisco che trovi contraddittorio questo mio dire, dell'Essere si può dire solo contraddicendosi, proprio perché è tutto ciò che è, non è due, è uno, ma nell'uno l'uno è due: l'ente e la sua negazione. Hai presente il Tao? Forse il Tao è la metafora più pertinente dell'Essere, che pur tuttavia è ancora solo metafora, perché solo come le metafore sono i termini dei nostri discorsi.
La parte non è il Tutto, ma ne è parte (e lo sottolinea pure Severino, al contrario di Hegel che pensa che la sua dialettica possa pervenire alla totalità: che grande, ultima illusione della vecchia metafisica quella di Hegel! Un portentoso fuoco d'artificio finale a rischiarare le tenebre, poi le tenebre): l'onda non è l'oceano anche se sotto di essa vi è tutto l'oceano, come sotto ogni altra onda, ma l'oceano è anche qualcosa di infinitamente meno dell'onda, non ha possibilità di definirsi se non come un'onda e un'altra e ancora un'altra: solo nelle infinite onde può trovare la sua vera definizione, ma le onde non finiscono mai e l'Essere non completa mai il suo nome. Ancora una metafora questa, perché non c'è altro modo di esprimersi in merito al rapporto tra essere ed ente e nessuna metafora sarà mai assoluta, tutto il nostro linguaggio è dato da metafore e metafore di metafore, possiamo comprendere solo le nostre metafore che finiranno prima o poi con il contraddirsi.
L'uomo non può fare a meno di cercare sempre il significato e il significato del significato e il significato dei significanti con cui indica il significato (quindi con continue inversioni tra segno e cosa) sperando di cogliere il significato vero di se stesso: non può non farlo (a differenza di un'ameba) proprio per quello che è nella sua specificità di ente, proprio perché non è un'ameba, l'ameba è molto più vicina all'Essere di qualsiasi uomo e per questo infatti non ci dice nulla oltre a quello che la sua semplice presenza rivela all'uomo che la osserva e a volte la invidia. L'uomo è in questa eterna peregrinazione che si esprime nel suo riflettere, nel suo pensare sentendo insieme ad altri uomini che condividono l'uno con l'altro il proprio destino e reciprocamente lo condizionano. Ma non solo gli uomini che stanno ora intorno a noi, tutti gli esseri umani comparsi sulla terra.
Giungere a sapere di non sapere, non significa rinunciare a sapere tanto non si saprà mai nulla, ma al contrario, significa non poter non continuare a tentare di sapere, di modo che ogni illusione possa essere tolta e ogni superstizione (intesa nel modo che prima dicevo di potenza senza conoscenza) superata, soprattutto quelle che costruiamo in merito a noi stessi.
Hai detto bene, in qualche modo noi comprendiamo, ma qualsiasi cosa noi comprendiamo sta sempre oltre la nostra comprensione, ogni passo sul cammino della conoscenza colloca il traguardo sempre un passo più avanti e ogni cammino è in realtà un ritorno. In fondo ogni essere umano è sempre in cammino tra i segni e i significati che compongono le metafore (a volte magnifiche metafore) con cui si esprime ed è proprio questo cammino che va garantito e preservato, non le illusioni di essere arrivati alla meta definitiva, in cima all'altare di un pensiero astrattamente metafisico da cui tutto si spiega con certezza per l'eternità.
Pure Severino lo dice: il pensiero astratto può cogliere la Gioia della Gloria, ma concretamente essa non appare, anche se è necessario che concretamente appaia.
Maral,
non ha capito quello che penso, e lo leggo dalle critiche,
E' paradossale ,ma la tua critica è giusta per Severino che ha la presunzione che con delle formulette logiche di aver risolto il dilemma.
Non posso ripetermi continuamente, dovresti rileggerti non gli ultimi post, anche perchè uscirei dal tema della discussione che non è discutere di quello che penso io.
Non hai capito che io domino proprio niente e me ne vado dal mondo senza la verità?
Il mio compito come vivente è raccogliere significazioni, cosa che ovviamente Severino e metafisiche vecchie non
pensano nemmeno nelle fredde e algide ontologie in cui l'uomo è una comparsata come ente.Come se gli enti fossero descritti chissà da chi.
Non hai capito nemmeno Hegel che presumo non hai mai letto da quello che scrivi , ma non per difenderlo, non sono nè mi sento idealista,ma pone un 'autocoscienza che nessuna metafisica ( Hegel non è metafisico in termini classici del termine se non nella trascendenza del momento contraddittorio quando diventa universale nel concetto)compreso Severino pone e in quanto tale un agente attivo che relazione universali e particolari: tutto quì.
Quello che non riesci a capire è che Severino non potrà mai influire su una cultura, Hegel invece sì.
Perchè applica la teoretica alla pratica, la dialettica alla conoscenza alla storia, all'etica. perchè il punto centrale è l'autocoscienza. ma ribadisco, non mi interessa far apologetica hegeliana.
Mi spiaae solo di non essere stato capito, ma capisco anche i perchè.
Ma rientrando nella discussione sulla conoscenza voglio vedere se qualcuno ha il coraggio di entrare con coerenza e onestà intellettuale su come lo scettico, l'empirico e il metafisico costruiscono il lor mondo modellandosi dentro la propria conoscenza, ovvero come la propria coscienza utilizza la verità empirica e fin dove quindi l'agente conoscitivo decide che finisce il vero e inizia la fallacia.
Il linguaggio , Maral.................
sto studiandomi Maometto e il Corano per capire quali motivazioni avesse l'ultimo profeta quello del sigillo secondo l'islam, quali influssi culturali avesse alla base.
Bene la calligrafia, penso si sappia, è l'arte secondo l'Islam ma anche una certa cultura orientale, in cui il segno è addirittura divino più della parola. L'arabesco è la ripetizione di una forma all'infinito.La scrittura per queste culture non riflette la realtà della parola,bensì l'espressione visibile dell'arte spirtiuale. In Occidente l'abbiamo ridotta a perizia forense,come al solito guardiamo il basso senza capire che alto e basso coincidono.Il mandala indiano ha questa significazione,La cultura araba per quanto controversa ,per posizione geografica applica i sincretismi di antiche culture che gli arrivano dalle tradizioni.Noi le abbiamo obliate, come molte cose, rincorrendo la realtà dell'utile e funzionale e trattiamo ormai il linguaggio come fredda analisi logica, del periodo, ortografica, semantica, sintattica.Come se un testo sia possibilitato nella sua estrema complessità ad essere ridotto ai particolari formali delle singole infinite proposizioni che lo compongono-
Qundi certo che l'essere è tutto, ma non è la sommatoria dei particolari , è quello che noi abbiamo capito di un intero testo che chiudiamo dopo aver finito...e andiamo a dormire.
Citazione di: paul11 il 15 Settembre 2016, 00:10:48 AMvoglio vedere se qualcuno ha il coraggio di entrare con coerenza e onestà intellettuale su come lo scettico, l'empirico e il metafisico costruiscono il lor mondo modellandosi dentro la propria conoscenza, ovvero come la propria coscienza utilizza la verità empirica e fin dove quindi l'agente conoscitivo decide che finisce il vero e inizia la fallacia.
Al riguardo avrei un'osservazione:
Citazione di: paul11 il 14 Settembre 2016, 18:41:03 PMLo scettico, l'empirista e il metafisico applicano la propria conoscenza rispetto a dove sostenfono che vi sia la verità, oltre il limite non è possible andare.
Ho trovato un intruso: uno di quei tre non sostiene che vi sia una verità, non la pone come traguardo o come limite della propria conoscenza, ma ne prescinde, sospendendo il giudizio (epochè): quello che oggi possiamo chiamare relativista, pronipote di quello che una volta si chiamava scettico.Parlare di verità "al plurale", di verità contingenti e relative alla prospettiva-paradigma che si adotta, di verità come scoglio (scambiato per porto) su cui si arena il pensiero interpretante, significa non essere tenuti in scacco dall'ideale della Verità, e quindi non averla come limite invalicabile coercitivo (a prescindere che si sia favorevoli o contrari ad un pensiero così "debole" e disincantato...).
P.s.
Citazione di: paul11 il 14 Settembre 2016, 18:41:03 PMLo scettico è Diogene che coerentemente abita nudo in una botte e defeca sulla piazza come un cane. Quindi limita fortmente dove la ragione possa andare, per lui la verità è ciò che abita in prima persona, in ciò che vede, sente e percepisce come un animale. Impossibile e non praticabile andare oltre.
Il Diogene della botte, era "cinico", non "scettico"... inoltre lo scetticismo non comporta di credere solo "in ciò che vede, sente o percepisce come un animale", questo è un "sensismo" radicalizzato ;)
phil,
sì, Diogene è un cinico, è Pirrone lo scettico.Ma guarda caso è proprio Diogene che ci racconta di Pirrone oltre al discepolo di quest'ultimo Timone.
Tutte e tre le figure, lo scettico, empirico, metafisico ( ovviamente sono stereotipate come figure appunto esemplificative) applicano un processo conoscitivo.La verità è una deduzione come si esplica da un procedimento risolutivo matematico e che tende a semplificare il complesso a trovarne essenza.
Il problema è che tutti accettano la matematica, la logica ma ognuno interpreta in maniera diversa l'applicazione degli strumenti formali .Wittgenstein nelle riflessioni sulla matematica essendo stato anche insegnante di questa materia si pone il problema.
Lo scettico dubito degli strumenti conoscitivi, non si fida dei sensi e nemmeno della ragione Pirrone.Ciò che bello o brutto, vero o falso è solo convenzione.
Non penso sia esattamente la posizione dei relativisti nostri contemporanei.
Penso che la matematica sia un sistema perfetto poichè sta esattamente al centro fra l'empirico e il metafisico.
Il mio ragionamento esemplificativo che avevo posto è che la matematica "sta in piedi da sola", non ha necessità neppure di un'applicazione.ha proprietà formali ,regole interne pur non essendo per nulla appartenete al mondo empirico.La sua applicazione al mondo empirico lo fa sembrare all'interno di questa dimensione,
Invece il linguaggio della parola ha necessità di espressione ,di denotazione.Ogni parola , inteso come nome, come predicazione è sempre riferito a qualcosa. Il segno è indispensabile sia legato a qualcosa.la matematica invece può essere solo segnica, come avevo scritto 2 mele denota un segno e un nome, ma il 2 da solo può applicarsi agli altri segni fra loro.totalmente avulso dall'empirico e quindi è il linguaggio per antonomasia universale. Possiamo interpretare la parola, ma non il numero.
Per me il sistema matematico è esemplificativo che il sistema empirico non basta, la ragione non può fermarsi a cercare verità solo lì.E se la ragione umana è riuscita a partorire un simile sistema, la stessa ragione tende ad andare oltre la dimensione fattuale del mondo fisico.
Si tratta di capire dove si ritiene che la ragione debba arrestarsi, dove si pensa possa arrivare il processo conoscitivo.Lo scettico dubita persino di se stesso, non ha fiducia di sensi e ragione,L'empirico ha fiducia nella ragione, ma solo se applicata al mondo fattuale dove i sensi governano.Il metafisico va oltre il mondo fattuale perchè sostiene che la forma è più importante della sostanza per cui mollta metafisica si fida più di dove lo porta il raziocinio del procedimento formale piuttosto che la dimensione del sensibile.
Per questo Kant ferma il suo processo gnoseologico e costruisce il noumeno, come d'altra parte farà Wittgenstein nel linguaggio. Ma come si spiega che la matematica sta in piedi in sè e per sè?
la logica formale è anch'essa segnica nelle sue formulazioni, ma il suo problema è il rapporto con la parola.
Il mio parere,come ho appena scritto che ogni parola denota per cui è interpretabile oltre che più ambigua e sfuggente.La matematica invece è pura astrazione segnica ed è paradossale che funzioni proprio per questo bene nelle applicazioni empiriche, ovvero quando si attribuisce ,si accompagna al segno matematico e le sue proprietà al mondo fisico.
Questo dovrebbe far riflettere, quanto la forma è potente e universale in quanto applicabile al tutto e quindi ha un ordinamento, ha proprietà interne
Paul, concludo con alcune ultime precisazioni in merito alla risposta che mi hai indirizzato:
Confermo, non mai letto Hegel, ma solo la lezione che di lui ne dà Severino (più ovviamente lontani ricordi scolastici), più un utilissimo libricini di Berto sulla dialettica hegeliana che è poi fondamentalmente la stessa tecnica che utilizza Severino (sia pure seguendo un indirizzo opposto). Sulla base di queste mie conoscenze (limitatissime e indirette) penso comunque di poter sostenere (con Severino) che Hegel esprime l'apoteosi finale della metafisica classica e che la filosfia hegeliana è l'ultimo grande tentativo di costruire un pensiero assoluto in termini appunto di metafisica classica pur riletta in chiave dialettica, l'ultimo tentativo (a parte Severino, che comunque si muove in un senso radicalmente diverso, giacché nega l'impianto originario del pensiero metafisico dell'Occidente per rifondarlo radicalmente) di pervenire all'assoluto ontologico e di credere di poterlo raggiungere, se non di averlo comunque raggiunto. Hegel costruisce il suo sistema come totalità assoluta che non lascia nulla fuori di sé. Ma dopo Hegel c'è stato Schopenhauer, c'è stato Marx, con le loro critiche al sistemone idealista e c'è stato soprattutto Nietzsche e la profonda crisi del Novecento che è sfociata nel mondo dominato dal pensiero tecnico e non perché si è sbagliato strada, ma perché quella era la strada che non si poteva non percorrere partendo da quella metafisica. Dopo Nietzsche comunque il mondo hegeliano, l'assoluto onnicomprensivo è definitivamente crollato.
Per quanto riguarda Severino, penso che riformuli completamente la questione metafisica, lo fa, è vero, partendo da una considerazione formale, che, per quanto complessa e ardua sia la sua filosofia, estremamente semplice: l'assoluto espresso dalla tautologia. Ma questo fondamento logico non rende per nulla Severino un pensatore freddo che analizza solo i formalismi logico linguistici godendo della sua abilità tecnica, ciò che lo anima (e lo si sente in ogni suo lavoro e in questo sono d'accordo con Cacciari), è una necessità profondamente umana: il suo pensiero palpita di una sorta di mistica che si rispecchia pienamente nella suggestiva complessità di un linguaggio per nulla autoreferente. Eppure Severino non è un mistico, ma un filosofo estremamente razionale, ma la sua ragione va ben oltre i freddi giochi formali dell'analisi linguistica e la sua filosofia esige che ogni ente nella sua differenza sia concretamente quello che è per l'eternità, nulla può venire sottratto dall'astrazione, nemmeno da quella astrazione che è l'umano preso in termini generali. E questo è qualcosa che trovo assolutamente dirompente in ogni senso: sociale, politico, economico (e non per niente Severino scrive ampiamente di temi sociali, politici, economici, non scrive solo testi teoretici).
Infine tu, paul11. Non credo di non aver capito quanto senti che ti appartiene (certo, in qualche misura non ti avrò capito, come sempre succede, figuriamoci!), condivido anzi in buona parte la tua idiosincrasia per i formalismi analitici di una filosofia che si riduce a mera tecnica del linguaggio continuando peraltro a non cavare un ragno dal buco, capisco anche che, sulla spinta della dialettica, non intendi perseguire un dominio cognitivo assoluto (come fa invece Hegel no?), ma pur tuttavia non posso fare a men di chiedermi allora perché dici che l'Essere è lo Spirito? Come ti collochi rispetto a chi dice che non stanno così le cose? Dello Spirito dici che non si può dire, ma dell'Essere sì? si può dire che è Spirito e non Materia? Spirito e Materia sono entrambi degli universali, entrambi delle astrazioni e quindi proprio per questo entrambi dei relativi, sono degli enti che nascono in relazione l'uno all'altro, l'uno in apparente opposizione all'altro. Un assoluto originario dello Spirito che ha di più o di meno di un assoluto originario della materia?
Per quanto riguarda la questione linguistica, non so se sei giunto al termine di quella lezione di Sini o se hai trovato troppo formali e inconcludenti quei discorsi, eppure quel tuo ultimo richiamo alla scrittura sta proprio nel tema centrale di quella lezione su Derrida: si parla di un'archeoscrittura che viene prima di ogni parola pronunciata, di ogni fonema vocale che occupa, a dire di Derrida, una posizione primaria nel discorso in Occidente. E certo, è un tema quello dell'originaria scrittura, che sta profondamente nel mondo medio orientale e orientale, ove il grafema non è il segno di un'espressione vocale: il segno scritto viene prima e si esprime nel silenzio, come lo spazio tra due parole: l'archeoscrittura è fatta di sospensioni mute. E' una cosa su cui varrebbe la pena riflettere, poiché sono forse solo queste sospensioni che rivelano il mondo.
Noi siamo sempre solo nel presente, il presente è l'Essere che è, ma la nostra esistenza ha senso solo tra un passato e un futuro che non sono (non più, non ancora), esistiamo solo in questa irrimediabile duplicità virtuale del tempo, allora forse quell'impercettibile segno è proprio il presente in cui sempre veramente siamo, l'assolutamente indicibile differenza che si colloca una in mezzo ai due e fa apparire qualcosa che dal futuro va al passato per riflettersi nel nostro cammino dal passato verso il futuro. Se l'Essere è questo presente non è più semplicemente l'universale assolutamente astratto (l'astrazione suprema di tutte le astrazioni, l'universale di tutti gli universali) come in genere lo consideriamo, ma un segno impercettibile che tace cosicché il senso appaia nell'esistenza e appaia un ieri e un domani, un significante e un significato, un vero e un falso, un empirico e un metafisico, un irrazionale e un razionale, un immanente e un trascendente, una teoresi e una prassi, un sogno e un mondo tangibile e reale, un sì e un no e tutte le dicotomie con cui ci esprimiamo per ritrovarci sicuri nel nostro significare. L'Essere sembra essere allora l'originaria singolare differenza da cui tutto l'universo appare in una storia che continua a ripeterla moltiplicandola all'infinito in infiniti significati tra loro sempre diversi e tra loro sempre in relazione.
Maral,
offri talmente tanti spunti interessanti che mi vorrebbe un libro per risponderti.
Sò abbastanza di Severino, ho letto e riflettuto parecchio come Berto descrive la logica dialettica di Severino
e ho scritto fino ad ora circa venti pagine protocollo di appunti su "Fenomenologia dello spirito"di Hegel,che non ho ancora finito, poi passerò ad "Essere e tempo"di Heidegger.
Ho deciso di studiarmi direttamente i testi perchè mi sono accorto che chi riporta i loro pensieri spesso "dicono quello che loro vedono", e tralasciano troppo spesso dei passaggi fondamentali che sono le loro chiavi di lettura.
Fenomenologia dello spirito di Hegel inizia dove finisce Kant. E' un procedimento gnoseologico, non metafisco perchè Kant non è metafisico vuole scientificizzare la filosofia e "Critica della ragion pura" è la critica della conoscenza proprio come il titolo di questa discussione e da filosofo/scienziato fa quello che un empirista coerente come il nostro Sgiombo, fa, la metafisica si apre e chiude con il noumeno.Non trascende la conoscenza oltre l'evidenza empirica. Hegel se non ricordo male non utilizza mai in "fenomenologia dello spirito" il termine Essere, ente, utilizza l'essente.Le parole sono importanti per capire le categorie del pensiero di un filosofo.
Utilizza moltissimo l'autocoscienza e la forma dialettica del procedimento conoscitivo, dove utilizza il momento astratto e concreto, suddividendo le forme della conoscenza in "in sè", "per sè" "in sè e per sè".
Ti dico subito che è criticabile come descrive la metodologia della conoscenza, è ovviamente stata molto più discussa e tutt'ora continua, in linguistica, teoria della conoscenza, persino la psicanalisi è una metodologia(Galimberti docet) Quello spirito che utilizza Hegel non è spirtuale o religioso, è l'idea.
L'autocoscienza ad esempio non è ben analizzata come agente conoscitivo "in sè", ontologicamente e descrive, come troppi pensatori scrivono, in modo autoreferenziale, ovvero alla fine è un sistema retorico che cerca di convincere reiterando la ua chiave di lettura gnoseologica. Ma la sua originalità è l'utilizzo dialettico della conoscenza.Severino è a mio parere uno dei pochissimi che ha capito davvero Hegel, prende la filosfia dialettica, e la trasforma in logica dialettica che comprende quella formale,. Avrai letto qualche hanno fa il contenzioso fra Severino con ordinari di filosofia in logica.
La metafisica che considero obsoleta dopo Heidegger, e adesso non prendermi per heideggeriano :),
è quella delle descrizioni ontologiche degli enti che non procede come agente conscitivo.
Io vedo un cielo stellato e lo fotografo e descrivo ogni corpo.Ma non mi dice del movimento della volta celeste,non dice che è un essere umano esistente che è gente conoscitivo che utilizza la ragione per descriverlo.
Purtroppo alla metafisica si oppone l'antropologia, O essere ed enti, essenti, oppure il linguaggio muta completamente sulle strutture antropologiche che ovviamente hanno origini e finalità diverse che indicano quindi il momento analitico descrittivo.
Nel mio pensiero è centrale Paul, Maral, l'agente conoscitivo. L'Essere è lì non per ontologia in sè e per sè, ma perchè qualcuno lo ha descritto, gli ha dato un significato e gli ha dato un grafema oltre un fonema, da questo mi distacco da Hegel, come dalle metafisiche obsolete.
L'autocoscienza di Hegel a mio parere è geniale, ma non come oggetto ontologico metafisico, ma come il luogo da cui tutto nasce come conoscenza, linguaggio.
Perchè il problema è il motivo per cui un umano fra gli umani decide di avere fiducia o meno in un certo sistema di relazione che vede lui come agente conoscitivo, la ragione come strumento intelligibile e fenomeni fisici, eventi oppure concetti.
La conoscenza presuppone: un agente conoscitivo, uno strumento relazionale, un oggetto da conoscere.
Il mio pensiero non è basato sull'Essere come costruzione conoscitiva, ecco perchè tace, ma è l'autocoscienza il fulcro di tutto perchè da una parte l'agente conoscito, l'autocoscienza, l'uomo, applica la ragione nel mondo empirico, ma dall'altra parte potrebbe o non potrebbe proseguire a ragionare SOLO concettualmente(poichè non vi sono più oggetti fenomenici dadescrivere del mondo fisico) per arrivare all'Essere.
Ha poca importanza in questa discussione se per me lìEssere corrisponde allo Spirito, per qualcuno l'Essere non esite nemmeno, non si pone il problema, oppure arriva all'Essere e lo descriverebbe in maniera diversa dal mio.
Il focus a cui volevo arrivare, quindi non è l'Essere, ma semmai perchè c'è chi si ferma al mondo empirico e perchè invece c'è chi prosegue oltre al concetto formale dell'empirico e alo applica oltre, diciamo nel metafisco-
Nella riposta a Phil, sollevo una riflessione. Perchè la matematica che è pura ragione non viene riconosciuta come concetto metafisico.Viene invece interpretato come strumento.Ma dove salta fuori?
Davintro a sua volta ritiene che i principi di universale e tempo siano metafisici, e capisco quello che vorrebe dire ,perchè è simile alla mia posizione sulla matematica, anzi forse il suo è più essenziale, presupposto a sua volta per arrivare a formulare un sistema matematico.
Non so se sono riuscito a spiegarmi Maral, Chiudo per ora, dicendo che in effetti l'aspetto volitivo, l'anelito alla spinta a rivolgere l'autocoscienza verso la metafisica è la ragione non sufficiente a spiegare la ragione stessa SOLO nel dominio empirico del divenire.La ragione starebbe in piedi da sola come momento puramente riflessivo, contemplativo di se stesso.Ma così come la coscienza è relazionata al cervello, ma non corrisponde, si pone un momento trascendente, c'è un qualcosa di apriroristico,delle regole, dei principi che sono ontologicamente e quindi metafiscamente in noi stessi come umani esistenti, come agenti che diventano conoscitivi.
Citazione di: paul11 il 17 Settembre 2016, 03:09:21 AMPerchè la matematica che è pura ragione non viene riconosciuta come concetto metafisico.Viene invece interpretato come strumento.
La matematica non è metafisica perché la metafisica tende a ragionare (anche solo per ipotesi verosimili), ma non a calcolare-quantificare. La matematica invece non ragiona, conta (quindi non la definirei "pura ragione", anzi...),Come tu stesso osservavi giustamente, nel momento in cui la matematica si declina in logica formale (aprendosi così al ragionamento), si innescano mille problemi, molti dei quali basati sulla relazione con ciò di cui si ragiona (siano dati empirici, concetti, intuizioni, elementi estetici, etc.). Perché solo diventando linguaggio la matematica ragiona, altrimenti conta e descrive. E le sue descrizioni, se non cor
rispondono ad esigenze fisiche o umane, non sono metafisiche, ma semplicemente concettuali (al netto della differenza fra essere "astratto-concettuale" ed essere "metafisico": dire metafisica, almeno in occidente, significa chiamare in causa una tradizione con tematiche e approcci piuttosto caratterizzati...).
La distanza, o meglio, la differenza (
differance ;) ) fra intelligenza artificiale e
intelligenza umana è tutta qui; calcolare versus ragionare...
Phil,
Come mai la matematica se applicata al mondo empirico ci credi che è vera e se invece applicata ai concetti non ci credi? Quì sta la contraddizione. E' inutile girarci in giro c'è uno scetticismo di fondo sulla ragione e fiducia al sensibile, ma daccapo è contraddetta dalla pratica che determina anche senza una teoretica vera e di cui si ha fiducia. Non riesco a farvi capire questo passaggio.
Cosa vuol dire che la matematica conta?Prima di contare ci vogliono proprietà e relazioni che distinguono ogni numero la relazione fra ogni numero la suddivisione fra naturali, reali, razionali ecc, la proprietà commutativa, distributiva, ecc.. La matematica è un vero e proprio dominio a sè.Anche la proposizione è "calcolo", nella misura in cui dice che le relazioni sono vere o false, come nelle tavole della verità di Wittgenstein. Come lavorerebbe diversamente la logica boleana sugli operatori logici?Un algoritmo cosa sarebbe, una formulazione euristica cosa altrettanto sarebbe?
Lo scoglio a mio parere è pregiudiziale sul perchè riteniamo vero il ragionamento fattuale, legato a cose fisiche e all'esperienza fisica e se viene spostato al dominio dei solo concetti, ovvero mantenendo la razionalità formale invece quella stessa ragione e quello stesso ragionamento diventa irrazionale in quanto inaffidabile.
Perchè
Citazione di: paul11 il 17 Settembre 2016, 17:16:10 PMPhil, Come mai la matematica se applicata al mondo empirico ci credi che è vera e se invece applicata ai concetti non ci credi? Quì sta la contraddizione.
Non mi sembra una contraddizione, ma solo un discernimento fra due campi d'applicazione molto differenti... e, ad essere precisi, la matematica non si applica ai concetti, ma ai numeri (che non sono concetti qualsiasi...).
La logica invece si applica ai concetti, ma già non è più matematica, proprio perchè non ci sono solo numeri (quantità). Non mi sembra una differenza da poco.Pensa ai valori di verità delle proposizioni: non sono valori matematici quantitativi, ma, appunto, logici (al di là che possano essere indicati per praticità anche con numeri); chi li pone? Un calcolo computerizzabile? No, un uomo. Se la frase "Socrate è un greco" sia vera o falsa, deve
deciderlo un altro uomo e, quindi, c'è spazio legittimo per l'errore. Non è più matematica. 2+2=4 non è una decisione, "Socrate è un uomo"="Vero" invece lo è...
La logica è utile e "spendibile" se parla, anzi ragiona, di variabili, non di costanti; altrimenti non ha applicazione concreta ma è solo formalismo autoreferente. Quando ragiono davvero su un problema, non ragiono di "x" e "y", ma di elementi concreti di cui devo decidere/cercare le proprietà e la verità. Dire: F(x,y) non è esattamente problematico come la sua "traduzione" particolare "Tizio e Caio sono amanti": sulla prima scrittura non c'è molto da ragionare, sulla seconda direi che ci sono verifiche e indagini da fare (è un esempio banale, ma spero sia chiaro a cosa alludo...).
A farla breve, la verità è comunque una decisione, un'attribuzione, esterna per la logica ("verità" da non confondere con "correttezza formale"!), mentre in matematica la verità è l'esattezza dei calcoli (quindi prescindendo dal "senso mondano" dell'operazione, che invece è ciò che conta nel ragionamento fuori dal foglio...).
Citazione di: paul11 il 17 Settembre 2016, 17:16:10 PMLo scoglio a mio parere è pregiudiziale sul perchè riteniamo vero il ragionamento fattuale, legato a cose fisiche e all'esperienza fisica e se viene spostato al dominio dei solo concetti, ovvero mantenendo la razionalità formale invece quella stessa ragione e quello stesso ragionamento diventa irrazionale in quanto inaffidabile. Perchè
La logica, nelle tavole di verità, dimostra proprio di poter essere usata anche in modo disinteressato rispetto al reale: "se x è vero, allora...", "se x è falso, allora..." ma, nella realtà, per essere utile, un ragionamento deve proprio decidere se x, o meglio, ciò-di-cui-si-parla, sia vero o falso... la correttezza formale, senza l'attribuzione (decisione) degli adeguati valori di verità, non produce un ragionamento fertile, ma solo ipotesi corrette che non ci aiutano a capire nulla.La "dimostrazione di Dio" di Godel (senza entrare nel merito) citata giorni fa, può essere applicata
formalmente anche al Dragone Imperiale Volante (che ho appena inventato ;D ), dimostrandone l'esistenza. Ma ciò che interessa davvero ad un ragionamento interrogante, forse è sapere se esistano
davvero il Dragone o Dio, non se sia possibile
formulare un "esercizio logico" (cosi lo definì lo stesso Godel) che nella sua autoreferenza ne dimostra la
possibilità dell'esistenza.
Phil,
la matematica è numero che si applica a cose, diversamente non esisterebbero algoritmi che agiscono fuori dal suo diretto ambito.Ma è proprio questo accompagnarsi e applicarsi che è legato alla sola esperienza.
Insomma io penso che la prassi oggi è più forte della teoria, e forse è sempre stato così, l'uomo si fida di più dell'esperienza quotidiana anche se fosse data da comportamenti irrazionali che sono i nostri primitivi mentali, poi viene il resto che impariamo e che in qualche modo "ci inquadrano" mentalmente, ci disciplinano in un ordine.
La filosofia ha accompagnato questa cultura, forse e soprattutto inconsapevolmente,, perchè utopicamente si è illusa che la parola fossero come i numeri, che nelle parole ci potesse essere quella esattezza matematica.
Ma poi non solo ha distrutto la sua utopia, ma ha capito che postulati, enunciati che si sono creduti per secoli veri invece erano falsificabili.Noi viviamo il tempo della regola della decostruzione e del falsificabile, ma allora quale credibilità avrebbero le teorie scientifiche senza la prassi?Daccapo ,allora ci fidiamo delle pratiche essendo le teorie falsificabili.
Prendiamo allora atto che nulla è esatto tranne la metafisica di un sistema matematico, e perchè mai è più veritiero l'empirico del metafisico? Il cortocircuito logico è che se quella ragione nasce da quell'inferenza innata, per cui impariamo a distinguere le cose astraendole dal mondo e ordinandole mentalmente, perchè si continua invece credere più nella percezione dei sensi che schiavizza la ragione alla cosa invece che al concetto che crea la ragione che permette di conoscere anche, ma non solo quella cosa empirica nel mondo fattuale?
E' ovvio, che l'autocoscienza, come la chiamo io, ma chiunque può nominare quello che vuole, ha a sua volta un cortocircuito logico, perchè la ragione razionalizzata nel processo formale, la matematica stessa partorita dalla ragione, non basta a sè, si chiede l'origine tende ad oltre quell'empirico.
Citazione di: paul11 il 18 Settembre 2016, 00:23:41 AM
Phil,
la matematica è numero che si applica a cose, diversamente non esisterebbero algoritmi che agiscono fuori dal suo diretto ambito.Ma è proprio questo accompagnarsi e applicarsi che è legato alla sola esperienza.
Insomma io penso che la prassi oggi è più forte della teoria, e forse è sempre stato così, l'uomo si fida di più dell'esperienza quotidiana anche se fosse data da comportamenti irrazionali che sono i nostri primitivi mentali, poi viene il resto che impariamo e che in qualche modo "ci inquadrano" mentalmente, ci disciplinano in un ordine.
La filosofia ha accompagnato questa cultura, forse e soprattutto inconsapevolmente,, perchè utopicamente si è illusa che la parola fossero come i numeri, che nelle parole ci potesse essere quella esattezza matematica.
Ma poi non solo ha distrutto la sua utopia, ma ha capito che postulati, enunciati che si sono creduti per secoli veri invece erano falsificabili.Noi viviamo il tempo della regola della decostruzione e del falsificabile, ma allora quale credibilità avrebbero le teorie scientifiche senza la prassi?Daccapo ,allora ci fidiamo delle pratiche essendo le teorie falsificabili.
Prendiamo allora atto che nulla è esatto tranne la metafisica di un sistema matematico, e perchè mai è più veritiero l'empirico del metafisico? Il cortocircuito logico è che se quella ragione nasce da quell'inferenza innata, per cui impariamo a distinguere le cose astraendole dal mondo e ordinandole mentalmente, perchè si continua invece credere più nella percezione dei sensi che schiavizza la ragione alla cosa invece che al concetto che crea la ragione che permette di conoscere anche, ma non solo quella cosa empirica nel mondo fattuale?
E' ovvio, che l'autocoscienza, come la chiamo io, ma chiunque può nominare quello che vuole, ha a sua volta un cortocircuito logico, perchè la ragione razionalizzata nel processo formale, la matematica stessa partorita dalla ragione, non basta a sè, si chiede l'origine tende ad oltre quell'empirico.
CitazioneSecondo me le "verità1" logiche e matematiche (qui Phil, che mi pare tenda ad enfatizzare la differenza fra matematica e logica in un modo che non mi é facile seguire, potrebbe opporre qualche interessante obiezione) sono certe (indubitabili) perché sono giudizi analitici a priori, mentre le "verità2" empiriche sono incerte perché sono giudizi sintetici a posteriori.
Sono cose ben diverse:
le verità2 empiriche sono reali conoscenze della realtà (conoscenze circa ciò che é o accade realmente o meno di nuova acquisizione, non eventualmente di già presenti); mentre le verità1 logiche e matematiche non sono che esercizi di inferenza logica (deduzioni di teoremi o calcoli matematici) che, se correttamente eseguiti, non ci dicono circa ciò che é o accade realmente o meno qualcosa che non sia di già postulato (creduto, ipotizzato, eventualmente anche veracemente saputo -?-), non costituiscono propriamente (nuove, non eventualmente di già presenti) conoscenza della realtà, limitandosi a esplicitare eventuali conoscenze di già implicite nelle premesse (piuttosto che acquisizioni di "conoscenze vere" sono "esercizi corretti di applicazione di regole arbitrariamente stabilite").
Non ritengo razionalmente superabile lo scetticismo:
La certezza dei giudizi analitici a priori della logica e della matematica (se correttamente espressi, rispettando regole logiche arbitrariamente stabilite) si paga al prezzo della loro "sterilità conoscitiva" (per lo meno relativa, dato che comunque sapere esplicitamente é qualcosa di più, o per lo meno di un po' diverso, dall' avere nozione implicita), mentre la "fertilità conoscitiva" dei giudizi sintetici a posteriori dell' esperienza si paga al prezzo della loro incertezza insuperabile (se non circa sensazioni immediatamente esperite, che é comunque effimera, "di durata infinitamente piccola", poiché immediatamente, col trascorrere ininterrotto del tempo, ciò che era per un effimero istante "sensazione immediata" diventa -sensazione di- contenuto di memoria, il quale é sempre degno di dubbio: é vero solo "se la memoria non m' inganna").
Sgiombo,
capisco quello che scrivi e ho fatto un rapido "giro" sulle nozioni che avevo di Popper: mondo1, mondo2, mondo3
1. il mondo degli oggetti fisici o degli stati fisici;
2. il mondo degli stati di coscienza o degli stati mentali, o forse delle disposizioni del comportamento ad agire;
3. il mondo dei "contenuti oggettivi di pensiero", specialmente dei pensieri scientifici e poetici e delle opere d'arte.
E lo scritto di Nicla Vassallo " Teoria della conoscenza".
Sono tutti orientati su quello che avevo definito "fiducia o non fiducia", ma non sui presupposti che la nostra mente/autocoscienza ha aprioristicamente.
Lo scetticismo ad esempio è combattuto dal naturalismo con l'"affidabilismo".Significa che è possible costruire teorie e quindi conoscenza dove il riscontro oggettivo della realtà risulti relato alla teoria stessa: in fondo è il metodo sperimentale scientifico.
E' vero che la forma in sè ,quella che chiami verità1, non ci direbbe significazione del mondo se non fosse relato a sotanze, fenomeni, cose.
Infatti mi accorgo che la grande problematica è l'incontro/scontro fra gnoseologia(o epistemologia come la si definisce modernamnete) e ontologia.
Ma soprattutto mi pare che manchi proprio quello che inizialmente Davintro avesse posto, quali sono i presupposti umani della conoscenza, che cosa abbiamo "in testa" che ci permette di costruire concetti?
Quando possiamo dire di avere effettivamente costruito, dedotto, una conoscenza?
Citazione di: paul11 il 18 Settembre 2016, 00:23:41 AMPrendiamo allora atto che nulla è esatto tranne la metafisica di un sistema matematico, e perchè mai è più veritiero l'empirico del metafisico?
Credo che qui tu abbia sottolineato il nodo centrale: la matematica è
esatta (formalmente corretta), l'empirico, nella migliore delle ipotesi, è veritiero ("portatore" di una verità). Istintivamente e storicamente l'uomo è forse più affamato di verità che di esattezza...Citazione di: paul11 il 18 Settembre 2016, 00:23:41 AMperchè si continua invece credere più nella percezione dei sensi che schiavizza la ragione alla cosa invece che al concetto che crea la ragione che permette di conoscere anche, ma non solo quella cosa empirica nel mondo fattuale?
Secondo me, ci si fida più dell'esperienza perché tutto inizia inevitabilmente dalla percezione; senza di essa non
verrebbero innescati i meccanismi (innati o acquisiti che siano) della ragione astratta concettuale. La ragione concettuale è linguistica ed il linguaggio notoriamente ha i suoi "punti morti", le sue ambiguità e può essere usato male (ad esempio assegnando valori di verità errati in un calcolo proposizionale). L'esperienza invece è meno ingannevole (anche se non certo impeccabile!) perché non è fatta di parole ma di percezioni, meno ambigue e sofistiche di molti discorsi razionali. Forse, suppongo, c'è una diffidenza verso i labirinti del logos che è giustificata dalla semplicità immediata (non-mediata) e meno problematizzata con cui si percepiscono i vissuti e gli oggetti. E il riconoscimento di alcuni falsi problemi concettuali spinge ulteriormente a rivolgersi alla necessità di fare i conti (non matematici!) con il reale, senza sovrastrutturarlo di impalcature concettuali; per questo i filosofi hanno la cattiva fama stereotipata di essere pensatori astratti, poco pratici, che "si sollazzano" con la ragione anziché usarla pragmaticamente (stereotipo che personalmente non condivido affatto, ma qui si parla in generale...).Citazione di: sgiombo il 18 Settembre 2016, 10:13:59 AMSecondo me le "verità1" logiche e matematiche (qui Phil, che mi pare tenda ad enfatizzare la differenza fra matematica e logica in un modo che non mi é facile seguire, potrebbe opporre qualche interessante obiezione)
Non obiezione, ma chiarimento su quella differenza: le verità della matematica (che, come accennavo, si limita ad usare numeri, quindi non "ragiona" ma "conta") credo possano essere intese solo come verità formali, come correttezza nell'uso delle operazioni. 2+2=4 è "corretto", più che "vero". In quella somma non c'è "verità" ma esattezza di calcolo, correttezza, validità, anche se nel linguaggio comune la maestra ci chiedeva "è vero?". Quel 2+2=4 diventa vero o falso se viene applicato ad un caso concreto (dando una "sostanza" a quei numeri): se Pierino ha due mele e ne compra altre due (senza mangiarle!) è vero che ne ha quattro. Per me, la verità matematica è fuori dal "foglio di calcolo", nel foglio ci può essere l'esattezza, la correttezza, la validità.
Le verità formali della logica invece si basano non solo sulla "correttezza" o "validità" (anche se alcuni le differenziano) del ragionamento, ma anche sull'immissione in circolo di una verità che ammicca alla realtà. Essendo rivolta al mondo e agli uomini più della matematica, la logica dovrebbe guidare ragionamenti non fatti di numeri, ma di enti, concetti, proprietà, etc. e quindi si pone il problema di attribuire i giusti valori di verità alla preposizioni.
Un ragionamento può essere "corretto/valido" ma non "vero". Se affermo che: se "x implica y" e "y implica z" allora "x implica z", si tratta di un ragionamento valido, ma non necessariamente veritiero: "se piove, prendo l'ombrello" e "se prendo l'ombrello, ho l'ombrello" allora "se piove, ho l'ombrello"... ragionamento formalmente valido (vedi sopra) ma che non costituisce un ragionamento "vero" (e, inversamente, il fatto che da premesse false possa derivare correttamente una conclusione vera, non può che far riflettere...).
Questo per dire che la verità delle proposizioni logiche è ben più problematica di quella matematica (o meglio, della semplice esattezza formale della matematica), perché comporta, per essere applicata, l'attribuzione di valori di verità da parte di un soggetto giudicante (una verità "di ragione" non è una verità "di fatto", per dirla con Leibniz, e sono quelle "di fatto" che ci servono per ragionare di problemi concreti...).
Citazione di: paul11 il 18 Settembre 2016, 11:32:07 AMè possible costruire teorie e quindi conoscenza dove il riscontro oggettivo della realtà risulti relato alla teoria stessa: in fondo è il metodo sperimentale scientifico.
Infatti se depuriamo l'approccio scientifico dalla pretesa di assolutezza dei risultati (residuo concettuale della nostra storia culturale incentrata sulla metafisica), l'epistemologia può funzionare serenamente avvicendando paradigmi sempre più funzionali e contingenti ai problemi che si pone (e in fondo, mi sembra che sia questa la sua attitudine più recente...).
Citazione di: paul11 il 18 Settembre 2016, 11:32:07 AMsoprattutto mi pare che manchi proprio quello che inizialmente Davintro avesse posto, quali sono i presupposti umani della conoscenza, che cosa abbiamo "in testa" che ci permette di costruire concetti? Quando possiamo dire di avere effettivamente costruito, dedotto, una conoscenza?
Rispondendo sinteticamente (e personalmente), alla prima domanda: la ragione (meccanismo mentale), intesa come capacità di astrarre e di ricombinare le esperienze sensoriali; alla seconda: quando una teoria "funziona" e possiamo usarla praticamente... lo so, sono risposte che creano molte più domande delle due dalle quali sono partite ;D
P.s. Grazie per la segnalazione sull'"affidabilismo", è uno dei tanti approcci che non conosco, cercherò di documentarmi, partendo dalla lettura di questo articolo (che spero non mi deluda!): http://www.scuolafilosofica.com/1608/affidabilismo-e-il-valore-della-conoscenza
Citazione di: paul11 il 17 Settembre 2016, 03:09:21 AM
Nella riposta a Phil, sollevo una riflessione. Perchè la matematica che è pura ragione non viene riconosciuta come concetto metafisico.Viene invece interpretato come strumento.Ma dove salta fuori?
Davintro a sua volta ritiene che i principi di universale e tempo siano metafisici, e capisco quello che vorrebe dire ,perchè è simile alla mia posizione sulla matematica, anzi forse il suo è più essenziale, presupposto a sua volta per arrivare a formulare un sistema matematico.
Per quanto riguarda la questione sulla matematica mi sembra riguardi lo stabilire se è il numero a rendere le cose di cui si ha esperienza numerabile, o se è l'esperienza della numerazione delle cose a determinare per astrazione il numero. Per me è chiaro che non si può avere alcuna numerazione di cose senza il numero, né alcun numero senza una numerabilità esperita. Sembra un modo per trarsi di impaccio, ma non è semplicemente così. significa che tra il mondo degli universali e quello delle cose esperite c'è sempre una stretta corrispondenza biunivoca, pur essendo tra loro diversi e indipendenti, una sincronia che risulta più o meno evidente a seconda dei campi di osservazione (e lo stesso penso valga anche per "la rossità" e questa mela che è rossa).
Mi è venuto in mente poi che il numero (almeno in certi casi) può anche essere esperito direttamente come tale in tutti quei soggetti che possono esprimere immediatamente quante sono gli oggetti che hanno davanti senza mettersi a contarli (possono anche essere soggetti che non sanno nemmeno contare, come le gazze o le cornacchie se ben ricordo) e questo sembrerebbe indicare che effettivamente il numero ha una consistenza non solo logico concettuale, ma pure ontologica ed esperibile proprio come tale.
Phi,
sono d'accordo con te, ma sono tutte categorie della conoscenza convenzionale quello di dire è esatto in matematica, plausibile come verità o falsità nel dominio del linguaggio della parola e se andiamo in fisica è abolito il termine certezza poichè è entrato il concetto di probabilità.Questo è il mondo attuale dopo le analisi sui domini logici della matematica, della parola rivisitati e assiomatizzati, non sono veri se non autoreferenti.. Ma dobbiamo allora essere relativisti, perchè questa sarebbe la conclusione?
Il problema è a monte.
Maral,
quindi riconosci che c'è qualcosa di ontologico nella matematica?
A phil, maral e tutto il forum.....
Siamo sicuri che la conoscenza signifca dividere ,costruire la conoscenza dividendo nettamente il soggetto dall'oggetto? La premessa scientifica del metodo, la premessa di Frege come antesignano della filosofia analitica, la premessa di Carnap come positivista, la premessa del primo Wittgenstein del Tractatus è togliere la psicologia.
Ma quella psicologia va estesa alla mente umana non solo alla disciplina propriamente psicologica o psicanalitica
dei Freud e Jung che nei primi decenni del Novecento esistevano. Secondo il mio parere è a cavallo del Novecento e nei primi decenni successivi che si è determinato il percorso storico fino alla nostra contemporaneità.Ovviamente i concetti culturali vengono da molto più lontano, ma in quel periodo c'è stata una contrapposizione e infine una scelta se non teorica, pratica, di fatto insomma.
Il conoscere è "fare mio"(com-prendere) un qualcosa che può essere fuori di me oppure se sono concetti riflessivi ,dentro di me stesso. Non so come la pensate voi, ma è risultata vincente la linea dello scetticismo sposato all'empirismo, una sorta di equilibrio pratico.
Ma Popper se la prende con Carnap, quando dice che la metafisica del concetto, ha portato ad esempio Democrito a teorizzare l'atomos che non esisteva empircamente al suo tempo se non come puro concetto astratto deduttivo. Popper che non è certo un metafisico riconosce che senza quella "intuizione" Maxwell e le sue teorie non sarebbero nemmeno potute esistere.
Husserl è uno scienziato di formazione La sua fenomenologia ha due anime, quella di Brentano è sull'intenzionalità degli atti mentali, l'altra è sull'oggettivismo rappresentazionale di Bolzano.
Ecco il soggettivo, e l'oggettivo, l'intenzionale, l'intuitivo.
A mio modesto parere il processo della conoscenza non è ancora stata per nulla definita.
Quello che emerge è che noi filosoficamente, scientificamente comunichiamo convenzionalmente, ovvero cerchiamo di comunicare solo la parte della conoscenza che "emerge" come oggettività, o che pensiamo sia solo oggettiva. Poi prendiamo un libro d'arte o di poesia, ed entriamo in un linguaggio che non è per niente convenzionale, perchè il rapporto è fra soggetti non gli importa dell'oggetto, lo strumento linguistico ,il colore, la parola, il disegno diventano "evocativi".Adatto che anche questa è una forma, che cosa significa quell'evocare se non andare oltre quella pretesa di dividere il soggetto e l'oggetto nella conoscenza?
Sò già la risposta: ma quella non è la stessa conoscenza scientifica, ma daccapo se è la stessa mente che linguisticamente pensa di oggettivare la conoscenza e dall'altra invece conosce l'arte o c'è un cortocircuito logico e siamo schizofrenici oppure c'è un unica forma di conoscenza
Andare oltre la convenzione ,perchè nella convenzione è vincente lo scettico o l'empirista affidabilista .
Cosa ne pensate?
Citazione di: paul11 il 19 Settembre 2016, 00:13:39 AM
Quello che emerge è che noi filosoficamente, scientificamente comunichiamo convenzionalmente, ovvero cerchiamo di comunicare solo la parte della conoscenza che "emerge" come oggettività, o che pensiamo sia solo oggettiva. Poi prendiamo un libro d'arte o di poesia, ed entriamo in un linguaggio che non è per niente convenzionale, perchè il rapporto è fra soggetti non gli importa dell'oggetto, lo strumento linguistico ,il colore, la parola, il disegno diventano "evocativi".Adatto che anche questa è una forma, che cosa significa quell'evocare se non andare oltre quella pretesa di dividere il soggetto e l'oggetto nella conoscenza?
Sò già la risposta: ma quella non è la stessa conoscenza scientifica, ma daccapo se è la stessa mente che linguisticamente pensa di oggettivare la conoscenza e dall'altra invece conosce l'arte o c'è un cortocircuito logico e siamo schizofrenici oppure c'è un unica forma di conoscenza
Andare oltre la convenzione ,perchè nella convenzione è vincente lo scettico o l'empirista affidabilista .
Cosa ne pensate?
CitazioneMa perché mai?
Conoscenza razionale (che cerca di essere quanto più oggettiva e realistica possibile) e fruizione artistica sono due diverse attitudini umane che si pongono per così dire su piani diversi: non sono né integrabili in un unico atteggiamento (se non compiendo un' astrazione alquanto "spericolata"), né reciprocamente escludentisi o contraddittori bensì complementari.
Non trovo acuna problematticità nel loro coesistere come distinte e reciprocamente non contrarie.
Citazione di: sgiombo il 19 Settembre 2016, 08:19:09 AMCitazione di: paul11 il 19 Settembre 2016, 00:13:39 AMQuello che emerge è che noi filosoficamente, scientificamente comunichiamo convenzionalmente, ovvero cerchiamo di comunicare solo la parte della conoscenza che "emerge" come oggettività, o che pensiamo sia solo oggettiva. Poi prendiamo un libro d'arte o di poesia, ed entriamo in un linguaggio che non è per niente convenzionale, perchè il rapporto è fra soggetti non gli importa dell'oggetto, lo strumento linguistico ,il colore, la parola, il disegno diventano "evocativi".Adatto che anche questa è una forma, che cosa significa quell'evocare se non andare oltre quella pretesa di dividere il soggetto e l'oggetto nella conoscenza? Sò già la risposta: ma quella non è la stessa conoscenza scientifica, ma daccapo se è la stessa mente che linguisticamente pensa di oggettivare la conoscenza e dall'altra invece conosce l'arte o c'è un cortocircuito logico e siamo schizofrenici oppure c'è un unica forma di conoscenza Andare oltre la convenzione ,perchè nella convenzione è vincente lo scettico o l'empirista affidabilista . Cosa ne pensate? CitazioneMa perché mai? Conoscenza razionale (che cerca di essere quanto più oggettiva e realistica possibile) e fruizione artistica sono due diverse attitudini umane che si pongono per così dire su piani diversi: non sono né integrabili in un unico atteggiamento (se non compiendo un' astrazione alquanto "spericolata"), né reciprocamente escludentisi o contraddittori bensì complementari. Non trovo acuna problematticità nel loro coesistere come distinte e reciprocamente non contrarie.
Sgiombo,
... e come no?
Prima di tutto è un'unica mente che fa scienza e arte e non lavora per compartimenti stagni.
Chi ti dice che ad esempio ad Einstein l'intuizione non gli sia scaturita mentre suonava il violino di alcuni passi della teoria della relatività. Siamo sicuri che l'intuizione sia a sè, che induzione e deduzione ognuna sia a sè, che fare scienza escluda l'arte e fare arte escluda scienza? E'vero che noi utilizziamo forme diverse, nella scienza utilizziamo di più la logica ma non esclude l'intuizione ad esempio. la nostra mente a mio modesto parere è più euristica che algoritmica. Se così non fosse l'umanità non avrebbe mai potuto acquisire scoperte e invenzioni, andare oltre l'osservato ritenuto oggettivo, è quell'atomos di Democrito, l'intuizione metafisica descritto da Popper. ma è propria questa la differenza fra un calcolatore elettronico e la mente umana.
La conoscenza non è semplice acquisizione di dati, ma quei dati mi cambiano in qualche modo ,diversamente cosa sarebbe l'esperienza, di nuovo un altro vuoto contenitore da riempire? Ecco perchè i significati e i sensi sono essenze, che per la logica e matematica sono formule, equazioni rappresentative di un fenomeno, son la legge di gravità, la rappresentazione attuale standard dell'atomo, ma vuoi che anche culturalmente noi come mente come coscienza non compiamo la stessa funzione nella filosofia, nelle arti ,nelle scienze umane?
Citazione di: paul11 il 19 Settembre 2016, 10:34:23 AM
Citazione di: sgiombo il 19 Settembre 2016, 08:19:09 AM
Citazione di: paul11 il 19 Settembre 2016, 00:13:39 AMQuello che emerge è che noi filosoficamente, scientificamente comunichiamo convenzionalmente, ovvero cerchiamo di comunicare solo la parte della conoscenza che "emerge" come oggettività, o che pensiamo sia solo oggettiva. Poi prendiamo un libro d'arte o di poesia, ed entriamo in un linguaggio che non è per niente convenzionale, perchè il rapporto è fra soggetti non gli importa dell'oggetto, lo strumento linguistico ,il colore, la parola, il disegno diventano "evocativi".Adatto che anche questa è una forma, che cosa significa quell'evocare se non andare oltre quella pretesa di dividere il soggetto e l'oggetto nella conoscenza? Sò già la risposta: ma quella non è la stessa conoscenza scientifica, ma daccapo se è la stessa mente che linguisticamente pensa di oggettivare la conoscenza e dall'altra invece conosce l'arte o c'è un cortocircuito logico e siamo schizofrenici oppure c'è un unica forma di conoscenza Andare oltre la convenzione ,perchè nella convenzione è vincente lo scettico o l'empirista affidabilista . Cosa ne pensate?
CitazioneMa perché mai? Conoscenza razionale (che cerca di essere quanto più oggettiva e realistica possibile) e fruizione artistica sono due diverse attitudini umane che si pongono per così dire su piani diversi: non sono né integrabili in un unico atteggiamento (se non compiendo un' astrazione alquanto "spericolata"), né reciprocamente escludentisi o contraddittori bensì complementari. Non trovo acuna problematticità nel loro coesistere come distinte e reciprocamente non contrarie.
Sgiombo,
... e come no?
Prima di tutto è un'unica mente che fa scienza e arte e non lavora per compartimenti stagni.
Chi ti dice che ad esempio ad Einstein l'intuizione non gli sia scaturita mentre suonava il violino di alcuni passi della teoria della relatività. Siamo sicuri che l'intuizione sia a sè, che induzione e deduzione ognuna sia a sè, che fare scienza escluda l'arte e fare arte escluda scienza? E'vero che noi utilizziamo forme diverse, nella scienza utilizziamo di più la logica ma non esclude l'intuizione
CitazioneNon capisco in che senso queste affermazioni obietterebbero a quanto da me affermato.
Ecco perchè i significati e i sensi sono essenze, che per la logica e matematica sono formule, equazioni rappresentative di un fenomeno, son la legge di gravità, la rappresentazione attuale standard dell'atomo, ma vuoi che anche culturalmente noi come mente come coscienza non compiamo la stessa funzione nella filosofia, nelle arti ,nelle scienze umane?
CitazioneLe leggi fisiche e le formule matematiche mi é chiaro che cosa siano.
Le "essenza" no.
Pensare é sempre pensare.
Pensare di filosofia é pensare diverso da pensare di scienza e ancor più di arte.
Citazione di: paul11 il 19 Settembre 2016, 00:13:39 AM
Maral,
quindi riconosci che c'è qualcosa di ontologico nella matematica?
Mi stupisce questa domanda, dato che fin dai miei primi interventi in questa discussione ho riconosciuto il carattere ontologico degli universali, insieme al carattere fondante dell'esperienza sulla loro ontologia. Quello che nego è che vi sia una primarietà di uno di questi aspetti sull'altro, vengono sempre insieme rendendosi reciprocamente possibili. E' curioso anche che questa mia lettura che riconosce un valore equivalente a entrambe le posizioni (e che quindi potrebbe mettere tutti d'accordo) venga intesa da ciascuno in contrapposizione alla propria concezione, collocandomi come Abelardo quando entrò nella diatriba scolastica sugli universali. Lo trovo molto significativo in termini di fenomenologia della percezione.
Per quanto riguarda la questione sulla soggettività e relativismo della conoscenza, riporto il mio riassunto di un passo di H. Maturana («Biologia della cognizione», 1970, in «Autopoiesi e cognizione», Marsilio Editori, Venezia, 2012) che ritengo molto chiaro e significativo nel merito:
"Dato che la logica della descrizione è la stessa logica del sistema descrivente, possiamo asserire il bisogno epistemologico di un substrato perché avvengano le interazioni, ma non possiamo caratterizzare questo substrato in termini di proprietà indipendenti dall'osservatore. Ne segue che la realtà come un universo di entità indipendenti delle quali possiamo parlare è necessariamente una finzione del dominio puramente descrittivo, e che noi dovremmo infatti applicare la nozione di realtà proprio a questo dominio di descrizioni col quale noi, il sistema descrivente, interagiamo con le nostre descrizioni come se fossero entità indipendenti, dunque la domanda su cosa sia l'oggetto della conoscenza" perde di ogni significato: non vi è alcun oggetto di conoscenza, fondamentalmente conoscere è essere capace di operare adeguatamente in una situazione individuale o cooperativa (p.104).
Il riconoscere che noi, come sistemi pensanti, viviamo in un dominio di descrizioni che ci consentono di aumentare indefinitamente la complessità del nostro dominio cognitivo tuttavia non contraddice determinismo e predicibilità dei diversi domini di interazioni, al contrario, dà loro fondamento mostrando che sono una conseguenza necessaria dell'isomorfismo tra la logica della descrizione e la logica del sistema descrivente. Determinismo e predicibilità sono validi solo entro il campo di questo isomorfismo; cioè sono validi solo per le interazioni che definiscono un dominio (p.105)."
Infine mi pare evidente che la conoscenza scientifica risente comunque di una valenza estetica, l'essere umano (l'osservatore) non è suddivisibile in compartimenti stagni a sé stanti e tali da non influenzarsi reciprocamente, pur facendo riferimento a contesti operativi diversi. La bellezza di una teoria scientifica (la bellezza ad esempio che fu riconosciuta alla teoria della relatività di Einstein), non credo sia un termine secondario rispetto alla sua funzionalità e la ricerca va comunque in entrambe le direzioni. E' solo la schizofrenia di un modo di pensare attuale che vorrebbe creare divisioni insormontabili tra i vari modi di considerare le cose, in nome dell'assurda pretesa di dettare le regole per una totale oggettività funzionale da cui ogni elemento estetico è tratto fuori e rigettato nel mondo della pura arbitrarietà soggettiva.
Sgiiombo,
a mio modesto parere il come la scienza determina l'affidabilità della realtà giustificandola come vera ,riflette di conseguenza quel metodo il metodo stesso di come mentalmente siamo: un insieme di scatole mentali .
Per me la conoscenza è unica, mentalmente c'è solo un sistema, mutano solo i linguaggi
Maral,
scusa.... sò come la pensi, ma il tuo post era inserito in successione con Phil e Sgiombo che sono sono posizioni diverse.
Perfetto, direi che la pensi come il sottoscritto
..................
Ne segue che la realtà come un universo di entità indipendenti delle quali possiamo parlare è necessariamente una finzione del dominio puramente descrittivo, e che noi dovremmo infatti applicare la nozione di realtà proprio a questo dominio di descrizioni col quale noi, il sistema descrivente, interagiamo con le nostre descrizioni come se fossero entità indipendenti, dunque la domanda su cosa sia l'oggetto della conoscenza" perde di ogni significato: non vi è alcun oggetto di conoscenza, fondamentalmente conoscere è essere capace di operare adeguatamente in una situazione individuale o cooperativa (p.104). ......................
E' esattamente quello che stò tentando di definire negli ultimi post.
Grazie
Citazione di: maral il 18 Settembre 2016, 23:06:38 PMstabilire se è il numero a rendere le cose di cui si ha esperienza numerabile, o se è l'esperienza della numerazione delle cose a determinare per astrazione il numero [...] non si può avere alcuna numerazione di cose senza il numero, né alcun numero senza una numerabilità esperita [...] significa che tra il mondo degli universali e quello delle cose esperite c'è sempre una stretta corrispondenza biunivoca
Nel caso specifico dei numeri (e quindi della matematica), il circolo vizioso fra "l'esperienza produce numeri per astrazione" e "i numeri consentono di contare nell'esperienza", circolo dal quale ci sembra non poter uscire, può dissolversi chiedendoci come ci siamo entrati... i numeri non sono innati, sono un'invenzione (non una scoperta), per cui mi pare legittimo che qualcuno, o alcuni, in un epoca pre-matematica, abbiano un giorno convenzionalmente definito i numeri, rendendo possibile il contare. Basandosi su un'esperienza non-numerica, codesti "fondatori della matematica" hanno stabilito la definizione dei numeri, che quindi sono nati da un'astrazione convenzionalizzata di esperienze vaghe (del tipo "tanto"/"poco").
La genealogia del numero dimostra che il rapporto tra calcolo astratto e calcolo empirico non è paradossale: è l'empirico (quantità vaga) che ha fondato l'astratto (numero esatto). Non a caso, talvolta l'astrazione ha dato origine a molteplici sistemi di misurazione (basti pensare alle diverse unità di misurazione per la lunghezza: centimetri vs pollici, entrambe basate sui numeri ma applicati con quantità differenti).
P.s. La considerazione di un atto fondativo, dell'irruzione del nuovo, è ciò che spesso risolve molti circoli viziosi...
Citazione di: paul11 il 19 Settembre 2016, 00:13:39 AMMa dobbiamo allora essere relativisti, perchè questa sarebbe la conclusione?
Direi che il relativismo va inteso proprio come la constatazione che "la logica di ogni descrizione opera adeguatamente solo relativamente al proprio sistema descrivente" (parafrasando quanto citato da Maral)
Citazione di: paul11 il 19 Settembre 2016, 00:13:39 AMSiamo sicuri che la conoscenza signifca dividere ,costruire la conoscenza dividendo nettamente il soggetto dall'oggetto?
La divisione non è mai netta, perché lo sguardo che indaga non è mai neutro (filo rosso da Protagora a Gadamer), ma d'altro canto, se non ci fosse un'altro-da-me, un conoscibile, un interpretabile, un descrivibile, un "tema", non si porrebbe nemmeno il problema del cosa conoscere (o tutto sarebbe auto-conoscenza...). Concordo sulla necessità di non assolutizzare l'oggetto, che non è "alterità", ma secondo me sempre "ulteriorità" (è sempre ulteriore al soggetto che lo indaga, non è mai totalmente altro; mistica a parte, ovviamente...).
Sul rapporto arte e scienza:
Citazione di: paul11 il 19 Settembre 2016, 10:34:23 AMPrima di tutto è un'unica mente che fa scienza e arte e non lavora per compartimenti stagni. Chi ti dice che ad esempio ad Einstein l'intuizione non gli sia scaturita mentre suonava il violino di alcuni passi della teoria della relatività.
Se l'idea gli fosse venuta mentre cucinava parleremmo forse di rapporto fra relatività e arte culinaria? O, se stava giocando a calcio, fra relatività e sport?
Indubbiamente, un'unica mente gestisce gran parte della vita umana, ma l'apporto e la funzionalità della specializzazione e della settorializzazione dei processi mentali, credo siano in generale più rilevanti della "contaminazione" e della interdisciplinarietà (che pure possono innescare intuizioni molto proficue...).
Citazione di: maral il 19 Settembre 2016, 12:03:19 PMmi pare evidente che la conoscenza scientifica risente comunque di una valenza estetica, l'essere umano (l'osservatore) non è suddivisibile in compartimenti stagni a sé stanti e tali da non influenzarsi reciprocamente, pur facendo riferimento a contesti operativi diversi. La bellezza di una teoria scientifica (la bellezza ad esempio che fu riconosciuta alla teoria della relatività di Einstein), non credo sia un termine secondario rispetto alla sua funzionalità e la ricerca va comunque in entrambe le direzioni
Direi che la "bellezza" della relatività non è affatto estetica, nel vero senso serio del termine... la filosofia di Nietzsche, ad esempio, non è "bella", ma può esser bello lo stile figurato e ardente con cui è stata scritta; così una teoria scientifica può avere "belle" conseguenze o "belle" formule, ma non si parla del "bello" estetico (un po' come quando, nel linguaggio parlato, si dice una "bella sorpresa", non si allude all'estetica...).
Phil,
Einstein avrebbe anche potuto avere un intuizione in bagno o in sogno, spesso non è l'attenzione o la concetrazione che danno soluzioni logiche, chissà perchè ci sono pensieri laterali, "meditare gente meditare".
Non è così banale il passaggio dallì'empirico alla 'astratto metafisico, nelle categorie che purtroppo si sono contrapposte.
nel momento in cui hai in tasca un pezzo di carta che ha valore convenzionale che sia chiama carta moneta ,hai assegnato un'astrazione, quel pezzo di carta ora ha un'altro significato.
Probabilmente le misure lineari, di capacità erano rapporti.
Se prendo un pezzo di legno e con questo mi metto a misurare un tavolo, quel pezzo di legno non è più solo empirco è diventato unità di misura ,come un righello
Ma fu soprattutto la geometria a spiccare il salto, tanto oda diventare sacra ed ermetica.
Se mi accorgo che indipendentemente dalla grandezza di una figura geometrica regolare, questa ha sempre dei rapporti costanti fra i lati, le diagonali ,gli angoli e l'area, e quella figura la utilizzo per misurare un tavolo, un appezzamento di terreno fino addirittura i corpi celesti , ho stabilito dei principi universali che valgono in cielo e in terra.
La geometria euclidea è una prima forma universale costruita su dei postulati che permette di costruire, disegnare con compasso e squadre (proprio come ci hanno insegnato a scuola) le prime figure geometriche regolari.
La nostra cultura ha nettamente separato quell'empirico e metafisico, ma furono proprio quelle possibilità di dare continuità biunivoca alle geometrie e matematiche che"rompevano" il muro fra dei e umani, fra cielo e terra quegli universali che in quanto tali attraversavano trasversalmente i saperi
Citazione di: Phil il 19 Settembre 2016, 22:57:46 PM
Nel caso specifico dei numeri (e quindi della matematica), il circolo vizioso fra "l'esperienza produce numeri per astrazione" e "i numeri consentono di contare nell'esperienza", circolo dal quale ci sembra non poter uscire, può dissolversi chiedendoci come ci siamo entrati... i numeri non sono innati, sono un'invenzione (non una scoperta), per cui mi pare legittimo che qualcuno, o alcuni, in un epoca pre-matematica, abbiano un giorno convenzionalmente definito i numeri, rendendo possibile il contare. Basandosi su un'esperienza non-numerica, codesti "fondatori della matematica" hanno stabilito la definizione dei numeri, che quindi sono nati da un'astrazione convenzionalizzata di esperienze vaghe (del tipo "tanto"/"poco").
La genealogia del numero dimostra che il rapporto tra calcolo astratto e calcolo empirico non è paradossale: è l'empirico (quantità vaga) che ha fondato l'astratto (numero esatto). Non a caso, talvolta l'astrazione ha dato origine a molteplici sistemi di misurazione (basti pensare alle diverse unità di misurazione per la lunghezza: centimetri vs pollici, entrambe basate sui numeri ma applicati con quantità differenti).
P.s. La considerazione di un atto fondativo, dell'irruzione del nuovo, è ciò che spesso risolve molti circoli viziosi...
Non è affatto un circolo vizioso, al contrario, è l'unica ipotesi ("Abelardica") che può risolvere la questione, giacché il tuo discorso, esattamente come quello di chi sostiene l'opinione opposta, non ha da solo fondamento e quindi la diatriba si presenterà eternamente irrisolvibile come tra gusti contrapposti. Non ha fondamento (pur essendo giusto nella sua affermazione) perché non è comunque possibile numerare le cose senza che ci sia l'idea di numero e questo vale in generale anche per il linguaggio (in fondo anche quello matematico è un linguaggio) in cui non è possibile avere significanti senza significati o viceversa, sono gli uni significanti e significati degli altri, sempre uniti nel loro intreccio originariamente connotativo e non denotativo.
Quando qualcuno definisce un numero (ad esempio come ha fatto Russell in "Principi della matematica") non inventa il numero partendo da qualcosa che non esiste se non nella sua testa o che è altro dal numero, ma appunto semplicemente definisce qualcosa che già c'è e che non è la pura numerazione empirica, se non ci fosse non si sarebbe mai arrivati a numerare empiricamente nulla (come se non ci fosse il rosso non vedremmo mai cose rosse). Dunque il numero non è semplicemente l'effetto dell'esperienza numerante, perché per poter numerare deve già esserci il numero e l'esperienza della numerazione è invece la descrizione del numero, per cui nella numerazione il numero può apparire e quindi essere definito.
Tra l'altro, come ho scritto sopra, il numero come totalità definita di una pluralità è pure percepibile, senza bisogno di contare: il genio autistico che immediatamente ti sa dire quante sono le carte di un mazzo sparpagliato a terra, coglie immediatamente ed esattamente l'entità numerica totale di quelle carte senza contarle, dunque percepisce immediatamente e concretamente il numero come tale, mentre se gli chiedi di fare un'addizione anche semplice può non esserne capace.
CitazioneSe l'idea gli fosse venuta mentre cucinava parleremmo forse di rapporto fra relatività e arte culinaria? O, se stava giocando a calcio, fra relatività e sport?
Se così fosse stato non troverei per nulla sconveniente parlarne, magari ci aiuterebbe pure a capire meglio la relatività. Di sicuro Einstein ne avrebbe parlato.
Citazione
Direi che la "bellezza" della relatività non è affatto estetica, nel vero senso serio del termine... la filosofia di Nietzsche, ad esempio, non è "bella", ma può esser bello lo stile figurato e ardente con cui è stata scritta; così una teoria scientifica può avere "belle" conseguenze o "belle" formule, ma non si parla del "bello" estetico (un po' come quando, nel linguaggio parlato, si dice una "bella sorpresa", non si allude all'estetica...).
Penso invece che possa essere "bella" anche una filosofia, e non in relazione allo stile usato per esprimerla, ma ad esempio alla pregnanza dei suoi significati interconnessi. Certo, la bellezza di una teoria scientifica è diversa da quella di un quadro o di un brano musicale, eppure è sempre legata al significato, alla possibilità di arrivare ad esempio a una formula semplice in cui si trovano condensati in modo appropriato, non banale e sorprendente un gran numero di aspetti fisici. Ma forse è soprattutto la matematica che può mostrare, a chi sa coglierlo, un valore estetico che va ben al di là della sua utilità.
L'astrazione consente di generalizzare, di rendersi conto di proprietà comuni a una molteplicità di enti esperiti, ma non può scoprire queste proprietà, nuove qualità delle cose, le nuove qualità sono sempre apprese con intuizioni orginarie, ed ogni differenza qualitativa tra un ente e un altro presuppone una nuova specie di intuizione. I numeri sono concetti a cui attribuiamo un significato ben distinto da quelli di "tanto" e "poco", anche perchè i numeri sono concetti che utilizziamo per formulare giudizi oggettivi, mentre "tanto" e "poco" sono concetti corrispondenti a stati psicologici soggettivi, qualcosa è tanto o poco in relazione alle mie aspettative soggettive, ma non posso pretendere in alcun modo che una quantità sia oggettivamente tanta o poca. La modalità di rapporto col mondo che intraprendo quando dico che "ci sono tanti alberi di fronte a me" non è la stessa di quando dico "ci sono 20 alberi di fronte a me". La prima modalità è estetica-psicologica, di fatto esprimo uno stato d'animo soggettivo seppur legato a una visione di un mondo esterno che me l'ha suscitato, la seconda modalità è scientifica-teoretica, esprimo il giudizio su uno stato di cose oggettivo, valido per tutti, una quantità. Queste due modalità, estetico-soggettiva e scientifica-oggettivante sono tra loro distinte, ognuna può in linea teorica essere percorsa a prescindere dall'altra, quando sono nella prima modalità non sono nella seconda e vicecersa. Ora, l'astrazione è un'attività della mente diretta a uno scopo, cioè è interna ad una stessa forma di relazione coscienza-mondo all'interno della quale quello scopo assume un senso, lo scopo è la formazione dei concetti, il mezzo per giungere a ciò è l'apprensione di dati comuni dell'esperienza. E dunque non ha senso che l'astrazione sia il passaggio tra una modalità e l'altra di rapporto col mondo, perchè nessuna delle due è subordinata e strumentale all'altra. La modalità per cui utilizzo le categorie "tanto" e "poco" non è strumentale a quella per cui utilizzo numeri e quaindi non c'è alcuna ragione per cui le categorie estetiche "tanto" e poco" siano mezzi per arrivare a concepire "numeri" e viceversa, appartengono a "regioni dell'essere" distinte fra loro e quindi ricavate con forme di apprensioni intuitive distinte, senza necessità di un processo mentale che le colleghi. Quando uso il concetto di "tanto" non mi servono i numeri, quando calcolo non mi serve il concetto di "tanto" (anzi in certi casi è un impiccio soggettivo "sentimentale" che mi distrae dall'oggettività impersonale che la tecnica di calcolo richiede). L'astrazione è un processo mentale valido per attribuire un contenuto sensibile in modo convenzionale a una forma concettuale che altrimenti sarebbe vuota e astratta, ricava concetti dall'esperienza, ma non può far derivare un concetto da un altro concetto, perchè altrimenti il nuovo concetto sarebbe ricavato per via puramente dialettica e speculativa, e mancherebbe il riferimento a un' apprensione passiva dell'esperienza, che è la base dell'astrazione stessa. Per ogni concetto cioè occorre cioè una base intuitiva, che sarà di tipi sensibile nel caso di concetti sensibili, intelligibile nel caso dei concetti intelligibili. I numeri sono innati poichè non essendo oggetti sensibili, mancano di un'esperienza del mondo esterno da cui ricavarli, ovviamente diversa è la questione per quanto riguarda le raffigurazioni simboliche con cui convenzionalmente creiamo un linguaggio matematico, il 2 e il 3 che scrivo sono forme, immagini che acquisisco dagli oggetti esperienza, ma il loro significato resta intelligibile, e dunque non empiricamente fondabile
Citazione di: maral il 20 Settembre 2016, 14:14:37 PMil tuo discorso, esattamente come quello di chi sostiene l'opinione opposta, non ha da solo fondamento e quindi la diatriba si presenterà eternamente irrisolvibile come tra gusti contrapposti. Non ha fondamento (pur essendo giusto nella sua affermazione) perché non è comunque possibile numerare le cose senza che ci sia l'idea di numero [...] per poter numerare deve già esserci il numero e l'esperienza della numerazione è invece la descrizione del numero, per cui nella numerazione il numero può apparire e quindi essere definito.
Non ti seguo: i numeri non sono forse stati inventati? Questo è un discorso opinabile non fondato, oppure è un dato di fatto (che la matematica sia stata inventata)? Se è stata inventata, com'è accaduto? Non si conoscevano già numeri (non ancora inventati!), per cui è lecito sostenere che ci sia stata un'arbitraria decisione di dare nomi e concetti ad un'astrazione quantitativa (che fino a quel momento era solo generica, non numerica...). Solo da quel momento in poi, sembra impossibile "scollegare" la numerazione come attività ed il numero come concetto... ma la consapevolezza di quella genesi, risolve l'enigma (sempre del tipo uovo/gallina: è nato prima il concetto di numero o l'esperienza del numero? Nessuno dei due, o meglio, sono nati assieme dall'atto creatore di qualcuno che ha dato un nome concettuale ad un esperienza...).
Sostenere che i numeri non sono stati inventati comporta o ritenere che l'uomo li conosca da sempre (ma non so se l'antropologia e l'archeologia siano d'accordo), oppure sostenere che esistono da sempre come idee platoniche e che qualche fortunato è riuscito ad attingerle e comunicarle al mondo...
Riprendendo il tuo esempio sul linguaggio: il concetto di "rosso" è derivato dall'esperienza del rosso che, a prescindere dalla lingua in questione, ha spinto qualcuno ha definire quel colore come "rosso". Sembra ovvio sostenere che non si può parlare di qualcosa di rosso, senza avere già il concetto di rosso, eppure almeno qualcuno lo ha fatto: esattamente colui che volendo dare un nome a quel riflesso della luce che esperiva, ha coniato "rosso" (o "
red" o "
rouge", etc...).
Pensa ai bambini: imparano a contare e ad usare i colori perché qualcuno glieli insegna... il fondatore della matematica (o dei colori) ha fatto esattamente lo stesso (comunicare agli altri un linguaggio che egli possedeva, avendolo coniato), soltanto che nessuno glieli aveva insegnati, ma i numeri (o i colori) erano appunto un suo vocabolario inventato
ad hoc (parlo di fondatore al singolare per praticità...).
Come accennavo, è l'esperienza originaria fondante che istituisce la biunivocità che, oggi, a posteriori, ci sembra inaggirabile...
Citazione di: maral il 20 Settembre 2016, 14:14:37 PMPenso invece che possa essere "bella" anche una filosofia, e non in relazione allo stile usato per esprimerla, ma ad esempio alla pregnanza dei suoi significati interconnessi. Certo, la bellezza di una teoria scientifica è diversa da quella di un quadro o di un brano musicale, eppure è sempre legata al significato, alla possibilità di arrivare ad esempio a una formula semplice in cui si trovano condensati in modo appropriato, non banale e sorprendente un gran numero di aspetti fisici. Ma forse è soprattutto la matematica che può mostrare, a chi sa coglierlo, un valore estetico che va ben al di là della sua utilità.
In fondo, "non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace"... anche se un'"estetica della matematica" o un'"estetica della filosofia" (da non confondere con la filosofia estetica), faccio fatica a pensarle come ambito di ricerca/studio, ma probabilmente è uno dei miei limiti :)
@Davintro"I numeri sono innati"(cit.)? Spiegati meglio...
Sul discorso "tanto" e "poco" come punto di partenza per l'invenzione del numero, ho cercato di intuire lo spunto che può aver avuto chi ha fondato i numeri, quindi cercando di ragionare
prima dell'avvento della matematica (su come siano intesi dopo, hai già detto tutto tu...).
Prova a pensare, ancora una volta, ad un bambino o a chi non ha studiato numeri: parlerà di "tanto" e "poco" (o almeno avrà questi due concetti se non parla) riferendosi ad una distinzione base fra, ad esempio, ciò che non è sufficiente a sfamarlo e ciò che invece non riesce a finire di mangiare... poi qualcuno gli insegna i numeri e lui, finalmente, può quantificare, dicendo "voglio 10 biscotti, né uno, né 100..." ;D
Citazione di: Phil il 20 Settembre 2016, 15:50:16 PM
Citazione di: maral il 20 Settembre 2016, 14:14:37 PMProva a pensare, ancora una volta, ad un bambino o a chi non ha studiato numeri: parlerà di "tanto" e "poco" (o almeno avrà questi due concetti se non parla) riferendosi ad una distinzione base fra, ad esempio, ciò che non è sufficiente a sfamarlo e ciò che invece non riesce a finire di mangiare... poi qualcuno gli insegna i numeri e lui, finalmente, può quantificare, dicendo "voglio 10 biscotti, né uno, né 100..." ;D
i bambini piccoli, alla scuola materna, imparano i numeri per comparazione di diverse lunghezze. Si usano infatti mattoncini colorati ( regoli?) per evidenziare le differenze. C'è il quadratino base che equivale al numero 1. I piccoli sommano i vari quadratini e poi l'insegnante fa imparare a memoria che , mettendo insieme cinque piccoli quadratini da 1, si ottiene il numero cinque. L'apprendimento è visivo. L'intelligenza innata è quella di percepire la diversità visiva tra "corto" e "lungo". La base dell'apprendimento dei numeri sta nella prima differenziazione tra ciò che si tocca ( uno) e poi la differenza sensitiva del toccare se stesso (due). Le due sensazioni che il bimbo piccolissimo prova sono diverse. La matematica nasce dal senso del tatto.
Interessante al riguardo studiare il lavoro di Stephane Bonnot abate di Condillac , che riteneva valido il principio che tutta la conoscenza deriva dall'esperienza e la prima esperienza, quella che lui chiamava sentimento fondamentale, è quella del senso del tatto. La radice-base del processo di conoscere. C'è molto di filosofia buddhista in questo ( anche se l'abate Condillac non sarebbe stato sicuramente d'accordo... :) ).
Phil scrive
"I numeri sono innati"(cit.)? Spiegati meglio...
Sul discorso "tanto" e "poco" come punto di partenza per l'invenzione del numero, ho cercato di intuire lo spunto che può aver avuto chi ha fondato i numeri, quindi cercando di ragionare
prima dell'avvento della matematica (su come siano intesi dopo, hai già detto tutto tu...).
Prova a pensare, ancora una volta, ad un bambino o a chi non ha studiato numeri: parlerà di "tanto" e "poco" (o almeno avrà questi due concetti se non parla) riferendosi ad una distinzione base fra, ad esempio, ciò che non è sufficiente a sfamarlo e ciò che invece non riesce a finire di mangiare... poi qualcuno gli insegna i numeri e lui, finalmente, può quantificare, dicendo "voglio 10 biscotti, né uno, né 100..." (http://www.riflessioni.it.cloud.seeweb.it/logos/Smileys/default/grin.gif)
Ciò che a mio avviso è innato è il significato che si attribuisce ai concetti dei singoli numeri, un significato intelligibile in quanto è costituito non da oggetti sensibili ma da delle loro relazioni intelligibili, mentre la corrispondenza tra il significato intelligibile e un'espressione simbolica sensibile presuppone l'esperienza di oggetti fisici da cui ricavo tali forme simboliche, gli spazi fisici all'interno dei quali posso tracciare delle linee grafiche. In questo senso penso che più che "inventare" i numeri credo che ad essere inventati siano delle strutture linguistiche convenzionali con cui associamo i numeri a delle immagini sensibili con cui le simbolizziamo, visuali (per poterli scrivere) e verbali per poter comunicarli oralmente. Abbiamo il sistema dei numeri arabi che utilizziamo noi comunemente, il sistema dei numeri romani... e apprendiamo in relazione all'ambiente culturale in cui cresciamo con i sistemi linguistici di riferimento per quell'ambiente l'associazione dei significati con l'espressione linguistica, ma non necessariamente i significati in sè
Io direi che il fatto che un bambino impari prima ad esprimersi in termini qualitativi "tanto", "poco" e successivamente impari ad utilizzare quantità, significa che ha col tempo acquisito una nuova funzione linguistica che si aggiunge ad altre senza però che si debba dedurre che le categorie qualitative siano uno stadio primitivo e confuso di un'evoluzione, base che determinerebbe nel futuro lo sviluppo della quantificazione. Se la deduzione fosse corretta allora il bambino potrebbe una volta imparato a padroneggiare i numeri, smettere di utilizzare le categorie qualitative "tanto" "poco", a quel punto inutili perchè valide per uno stadio evolutivo gà superato, categorie che invece continuano ad essere utilizzate per la ragione che la loro funzione si riferisce ad una modalità relazionale distinta ed autonoma rispetto a quella della quantificazione e dunque non strumentale e subordinata a questa. Non si può dedurre dal rilevamento di una mera successione diacronica di stadi evolutivi una derivazione causale di un "precedente" rispetto a un "successivo" all'interno di una linea unica, trovo più convincente l'idea di ricavare dalle distinte forme di attività coscienziali, distinguibili per un differente forma di attribuzione di significato al mondo, una molteplicità di "radici", "punti originari" (chiedo scusa, non trovo per ora una terminologia più elegante...) da cui scaturirebbero una molteplicità di linee evolutive che si svilupperebbero in modo distinto fra loro, senza che una linea sia la causa da cui deriverebbe un'altra. Una sorta di sistema a raggiera... La quantificazione sarebbe una di queste linee, distinta dalla linea corrispondente al processo di giudizio estetico qualitativo nel quale contesto poter utilizzare le categorie "tanto" "poco". Non deve far ingannare il fatto che sia i numeri che tali categorie qualitative si riferiscano all'idea di quantità. Ciò che è più importante è che quando uso numeri la mia intenzionalità verso le cose sia differente da quando utilizzo le categorie soggettive-estetiche, se dico "voglio 10 biscotti" esprimo l'intenzionalità di volerne mangiare quella precisa quantità e non un'altra inferiore o maggiore, se dico "voglio tanti biscotti" voglio esprimere l'idea che mi farebbe piacere mangiare biscotti a prescindere da una misura precisa. Non è che una richiesta è più confusa e primitiva di un'altra, cambia proprio l'obiettivo della comunicazione, il suo senso ontologico
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Citazione di: Sariputra il 20 Settembre 2016, 16:40:09 PML'apprendimento è visivo. L'intelligenza innata è quella di percepire la diversità visiva tra "corto" e "lungo". La base dell'apprendimento dei numeri sta nella prima differenziazione tra ciò che si tocca ( uno) e poi la differenza sensitiva del toccare se stesso (due). [...] La matematica nasce dal senso del tatto.
Leggendo questa considerazione (in cui ritrovo l'idea che è l'astrazione dell'empirico a fondare alcuni concetti), mi è tornata in mente la classica scena in cui i bambini, che non sanno ancora scrivere, mimano con la mano la quantità (più che il numero) della loro età usando le dita e pronunciano il suono corrispondente. Altrettanto classica la scena in cui due fratellini mostrano orgogliosi la propria mano-pallottoliere e uno dei due chiede ai genitori, "qual'è più grande?". In questo confronto non è ancora presente realmente il contare (numeri), ma solo il confrontare (quantità).E qui mi ricollego a:
Citazione di: davintro il 20 Settembre 2016, 17:38:37 PMdirei che il fatto che un bambino impari prima ad esprimersi in termini qualitativi "tanto", "poco" e successivamente impari ad utilizzare quantità, significa che ha col tempo acquisito una nuova funzione linguistica che si aggiunge ad altre senza però che si debba dedurre che le categorie qualitative siano uno stadio primitivo e confuso di un'evoluzione, [...] Non deve far ingannare il fatto che sia i numeri che tali categorie qualitative si riferiscano all'idea di quantità. Ciò che è più importante è che quando uso numeri la mia intenzionalità verso le cose sia differente da quando utilizzo le categorie soggettive-estetiche, se dico "voglio 10 biscotti" esprimo l'intenzionalità di volerne mangiare quella precisa quantità e non un'altra inferiore o maggiore, se dico "voglio tanti biscotti" voglio esprimere l'idea che mi farebbe piacere mangiare biscotti a prescindere da una misura precisa. Non è che una richiesta è più confusa e primitiva di un'altra, cambia proprio l'obiettivo della comunicazione, il suo senso ontologico
Non sempre cambia l'obiettivo; se passiamo dall'intenzionale al descrittivo, ad esempio, talvolta l'obiettivo è lo stesso ma sono le conoscenze a non rendere fruibili i numeri, e a quel punto "regredisco" al "tanto/poco", riecheggiando la relazione genealogica fra i due (relazione che è una mia supposizione per spiegare la genesi del concetto di numero, non voglio certo discutere la tua distinzione post-invenzione-matematica fra affermazioni soggettive ed oggettive). Se mi chiedi quanto sapone per piatti è rimasto da usare, la mia miglior descrizione (sono un casalingo piuttosto poco scientifico!) conosce tre livelli: "poco", "abbastanza", "tanto". Sono le quantità più precise di cui dispongo per descrivere
oggettivamente (nei limiti della mia "scienza") la quantità nella bottiglia, perché in tutta onestà, non so quantificare bene ad occhio i centilitri o le frazioni di litro... mi pare che "l'obiettivo della comunicazione ed il senso ontologico"(cit.) sono gli stessi rispetto alla risposta del casalingo dall'occhio ben calibrato che dirà ad esempio "circa 125 ml".
Questa derivazione dello "specifico" dal "vago", che spesso, come hai ben osservato, relega
a posteriori il "vago", ormai desueto, nell'ambito del "soggettivo" (ma nel mio caso, dire "poco detersivo" non è affatto "vago", bensì è l'apice della
mia cono-
scienza!), la troviamo anche in altri contesti, ad esempio in musica: se ascolto un brano (e la mia cognizione della musica è "primitiva") definirò il suo ritmo "veloce"; qualcuno, un po' più competente, dirà invece "vivacissimo" (termine tecnico, circa 140-150 battiti al minuto, ecco che entrano in gioco i numeri, seppur con un "
range"); se lo chiediamo a chi lo ha suonato dirà "esattamente 150".
Il pezzo ascoltato è il medesimo, ma il mio "veloce" è la mia miglior forma oggettivamente descrittiva (stando alle mie possibilità "ingenue"), proprio come quel "150" lo è per il musicista che si riascolta.
Tuttavia, se il musicista mi facesse scoprire "la matematica dei battiti al minuto", abbandonerei di certo la definizione "veloce", per convertirmi al "vivacissimo" o al 150 (magari relegando poi la parola a "veloce" ad altri ambiti più indefiniti...).
Su questo, in generale, concordo appieno:
Citazione di: davintro il 20 Settembre 2016, 17:38:37 PMNon si può dedurre dal rilevamento di una mera successione diacronica di stadi evolutivi una derivazione causale di un "precedente" rispetto a un "successivo" all'interno di una linea unica
Viene chiamata la fallacia "post hoc ergo propter hoc", ovvero quando si confonde la successione cronologica con quella logica.Citazione di: davintro il 20 Settembre 2016, 17:38:37 PMCiò che a mio avviso è innato è il significato che si attribuisce ai concetti dei singoli numeri, un significato intelligibile in quanto è costituito non da oggetti sensibili ma da delle loro relazioni intelligibili
Dunque, parafrasando (correggimi pure se fraintendo) è innato "il significato concettuale dei numeri, costituito dalle relazioni intelligibili di oggetti sensibili"? Un'innata idea platonica... l'innatismo spesso non mi convince, tendo a pensare che sia un "rimedio" ad una genealogia troppo problematica (come in questo caso, secondo me) oppure un camuffamento giustificante di una tradizione culturale. Anche se non nego che esistano bisogni innati, potenzialità innate e meccanismi mentali innati (come l'astrazione).
Negli ultimi post ci sono spunti interessanti.
Sono d'accordo che il bambino impara per astrazione dell'empirico e utilizza in quella fase il tatto, prima ncora il bebè utilizza la bocca, le labbra per istinto.
Ma infatti il modello di insegnamento per i bambini è costruirgli la propedeutica con esempi fisici, empirico-sensoriali perchè ritengo fondamentale la correlazione cervello/mente, ovvero così come i neuroni e le sinapsi costruiscono fisicamente una rete nel cervello così la mente prepara una sintassi, cioè comincia a preparare una rete di relazioni in cui riceverà i concetti, la semantica- Il bambino quindi prima prepara mentalmente con il passaggio emprico/astrazione quella sintassi che gli permetterà di ricevere le nozioni matematiche.
la sintassi è una sistematizzazione di regole, il concetto poggerà su quella rete dove ogni singolo filo di uqella rete lo relaziona ad altri concetti ( stò metaforizzando in immagini).
Ma è proprio questo che la forma/sostanza a sua volta si correlaziona in analogia alla sintassi/semantica, come alla mente/ cervello. E' la forma ad essere universale, la sintassi, perchè i concetti possono mutare, quello che la scienza chiama modello di rappresentazione.Sono quindi le regole che istituiscono la logica, la matematica, i numeri come contenuto e significazione arrivano se la sintassi che ha le regole ,le accetta come "vere".
Ma io comprendo la matematica se sintatticamente ho preparato la mente in maniera sintattica a ricevere quei contenuti che si relazionano ad altri precedenti contenuti astratto/empirici
A questo punto mi manca di capire come e cosa preordina la sintassi, quali innatismi od ontoolgie permettono che il cervello acquisica informazioni sensoriali-empirico-astratte costituite da neuroni e sinapsi e quindi permetta alla mente in analogia di formare quella sintassi indispensabile a ricevere i contenuti semantici.
Penso che la nostra mente apprenda in totalità con tutte le sue forme di domini: logico/matematico, psichico/emozionale, spirituale/religioso, solo che è l'intenzione a determinare la gerarchia delle forme,
Ogni semantica, ogni concetto ha più significazioni, se dico mela posso assumere mentalmente il concetto come fisico, come emotivo/psichico come religioso simbolico, per questo il linguaggio è sfuggente.
Il punto di vista quindi potrebbe essere interpretato il modo in cui intenzionalmente vogliamo utilizzare i domini, se sono empirico la mela avrà più significazione come fisictà, ecc. E' altrettanto chiaro che la sopravvivenza spinge comunque l'uomo a dare al dominio fisico/materiale un'importanza fondamentale.
Infatti il bambino è più astratto e fantastico e meno realista/fisico, Il gioco è la fantasia della metafora della vita.
Si impara a vivere quando quella sintassi è matura ,il linguaggio si è appiattito nella convenzione e la realtà diventa priorità come necessità di sopravvivere.
Citazione di: Phil il 20 Settembre 2016, 15:50:16 PM
Sostenere che i numeri non sono stati inventati comporta o ritenere che l'uomo li conosca da sempre (ma non so se l'antropologia e l'archeologia siano d'accordo), oppure sostenere che esistono da sempre come idee platoniche e che qualche fortunato è riuscito ad attingerle e comunicarle al mondo...
Forse significa solo che a un certo punto qualcuno a imparato a usare i numeri per contare e non che contando ha inventato i numeri: con cosa contava? I numeri (le quantità numericamente espresse), come ho detto, c'è chi riesce a coglierli immediatamente con esattezza anche senza contare: come sarebbe possibile la cosa senza una percezione proprio del numero come tale secondo te?
Ai bambini si insegna a contare, ossia a usare i numeri per contare, come si può insegnare a usare i colori, ma questo non mi pare voglia dire che usando i colori si inventano i colori, ma che usandoli li si scopre. il riflesso di luce rossa non è il rosso, ma una luce che si percepisce rossa perché c'è già il significato di rosso che peraltro non si potrebbe mai scoprire (e non inventare) se non ci fosse qualcosa rosso, esattamente come non si potrebbe mai scoprire (e non inventare) i numeri se non ci fosse qualcosa numerabile.
Citazione di: maral il 21 Settembre 2016, 19:40:17 PMa un certo punto qualcuno a imparato a usare i numeri per contare
Quindi i numeri c'erano anche prima, ma non erano stati ancora usati? Domanda: come è possibile avere il concetto di numero ma non usarlo?
Citazione di: maral il 21 Settembre 2016, 19:40:17 PMnon che contando ha inventato i numeri: con cosa contava?
Se avesse già avuto i numeri, non sarebbe stata un'invenzione, e si torna alla domanda precedente...
Mi pare sia come negare l'invenzione di una lingua affermando che "nessuno può avere inventato una lingua parlando, con cosa parlava?". La risposta sta nel precedente esempio di cui parlavo con davintro (passaggio dal "molto/poco" ai numeri) ovvero: passando da espressioni vocali inarticolate (primitive come la quantificazione "poco/tanto"), a forme più strutturate, come le parole (ed i numeri).
Almeno credo che la storia della lingua sia questa, salvo sostenere che le lingue siano "innate" e attendono solo di essere scoperte ;)
Citazione di: maral il 21 Settembre 2016, 19:40:17 PMI numeri (le quantità numericamente espresse), come ho detto, c'è chi riesce a coglierli immediatamente con esattezza anche senza contare: come sarebbe possibile la cosa senza una percezione proprio del numero come tale secondo te?
Per esprimere quel numero percepito senza contare dovranno comunque usare un linguaggio (che rimanda a concetti), e in questo linguaggio, che qualcuno gli ha insegnato, saranno compresi anche i numeri... può essere un virtuosismo cognitivo, ma presuppone sempre che qualcuno gli abbia fornito la definizione di "uno", "due", "tre", etc. altrimenti questi soggetti (eccezione e non regola) cosa dicono per stupirci?
Citazione di: maral il 21 Settembre 2016, 19:40:17 PMAi bambini si insegna a contare, ossia a usare i numeri per contare, come si può insegnare a usare i colori, ma questo non mi pare voglia dire che usando i colori si inventano i colori, ma che usandoli li si scopre. il riflesso di luce rossa non è il rosso, ma una luce che si percepisce rossa perché c'è già il significato di rosso che peraltro non si potrebbe mai scoprire (e non inventare) se non ci fosse qualcosa rosso, esattamente come non si potrebbe mai scoprire (e non inventare) i numeri se non ci fosse qualcosa numerabile.
Questo qualcosa di numerabile è la realtà, o meglio, l'esperienza, ma diventa "numerabile" inevitabilmente solo dopo l'invenzione del numero, prima è solo vagamente quantificabile, come dicevo anche nell'esempio della musica, rispondendo a davintro (ti invito a leggerlo per non ripetermi, non perché sia nulla di eccezionale).Chiaro che nominando i colori, non si inventano, ma come, perché è possibile nominarli? Secondo me, perché qualcuno ne ha inventato il corrispettivo concetto, e quindi, la parola (che ora tramandiamo di generazione in generazione).Per me, finché qualcuno non ha inventato il
concetto di colore (non certo i colori come riflesso della luce!) e le
definizioni delle distinzioni cromatiche, nulla si poteva
dire (non esperire) che fosse pertinente al colore... idem per la matematica, finché qualcuno non ha inventato "uno", "due", "tre", etc. (istituendo un linguaggio basato sull'esperienza) non era possibile contare (ma semmai quantificare genericamente).
Citazione di: Phil il 21 Settembre 2016, 21:28:07 PM
Quindi i numeri c'erano anche prima, ma non erano stati ancora usati? Domanda: come è possibile avere il concetto di numero ma non usarlo?
Basta non esserne consci. Ma non sto parlando del concetto di numero, sto parlando dei numeri che si traducono in concetti solo se ne diventiamo coscienti.
CitazioneMi pare sia come negare l'invenzione di una lingua affermando che "nessuno può avere inventato una lingua parlando, con cosa parlava?". La risposta sta nel precedente esempio di cui parlavo con davintro (passaggio dal "molto/poco" ai numeri) ovvero: passando da espressioni vocali inarticolate (primitive come la quantificazione "poco/tanto"), a forme più strutturate, come le parole (ed i numeri).
Almeno credo che la storia della lingua sia questa, salvo sostenere che le lingue siano "innate" e attendono solo di essere scoperte ;)
Infatti nessuna lingua (naturale) è mai stata inventata. Non è che prima c'erano dei grugniti e dopo questi grugniti per progressiva convenzione sono diventati parole; l'uomo, anche se si esprime a segni o con balbettii, quei segni o balbettii sono già parole significanti. Ciò che si apprende non è il linguaggio (che nelle sue strutture grammaticali fondamentali è già dato a priori, come insegna Noam Chomsky) ma un'espressione significante tra le tante possibili che non è semplicemente inventata, ma culturalmente trasmessa (e trasmettendola i contesti culturali la modificano in continuazione nei rapporti con i significati).
CitazionePer esprimere quel numero percepito senza contare dovranno comunque usare un linguaggio (che rimanda a concetti), e in questo linguaggio, che qualcuno gli ha insegnato, saranno compresi anche i numeri... può essere un virtuosismo cognitivo, ma presuppone sempre che qualcuno gli abbia fornito la definizione di "uno", "due", "tre", etc. altrimenti questi soggetti (eccezione e non regola) cosa dicono per stupirci?
Non è del tutto vero che sono l'eccezione, pare che fino a quattro tutti siano in grado di cogliere immediatamente il numero senza contare, e non solo gli umani, pure i corvi. Forse è una capacità latente che. imparando a contare si assopisce. Certo, qualcuno ci ha insegnato che quella quaternalità si dice 4 e contando scopriamo gli altri numeri, ma questo non significa che l'idea del numero si crei dal nulla contando a partire da un "tanto".
CitazioneQuesto qualcosa di numerabile è la realtà, o meglio, l'esperienza, ma diventa "numerabile" inevitabilmente solo dopo l'invenzione del numero, prima è solo vagamente quantificabile, come dicevo anche nell'esempio della musica, rispondendo a davintro (ti invito a leggerlo per non ripetermi, non perché sia nulla di eccezionale).
Phil, tu parti dal presupposto che i numeri si inventano e si inventano poiché a monte ci sta il presupposto che non può esserci nulla al di fuori della nostra esperienza, ma questo non esclude il presupposto opposto, ossia che i numeri solo si scoprono. Il punto per cui non riuscirai mai a convincere chi la pensa in modo opposto, né chi considera il numero come una trascendenza originaria potrà mai convincere te, è che entrambi avete ragione ed entrambi torto e ognuno coglie solo l'aspetto positivo della sua idea e negativo di quella altrui. Entrambi non vi rendete conto invece della irriducibile complementarietà che c'è sempre tra segno e significato, che non ci sono significati puri originari e senza segni da cui nascono i segni o viceversa, ma che sono sempre in rapporto, fin dall'inizio dei tempi. Solo se ci sono i numeri possiamo contare e solo se possiamo contare i numeri per noi ci sono e quindi possiamo usarli per contare.
Non si inventa il colore delle cose colorate, proprio come non si creano i colori delle cose colorate dal colore, Perché è quel colore che ci permette di vedere le cose colorate, esattamente come è il vederle colorate che ci permette di esperire (e certamente non di inventare) quel colore. Il concetto con cui poi veniamo a definire quel colore (definito ad esempio nel suo corrispondere a una certa lunghezza d'onda della luce) ha la sua origine nell'a priori del colore e diventa quel concetto a posteriori, attraverso l'esperienza che facciamo del colore originario nelle cose.
All'inizio c'è qualcosa (kantianamente sintesi a priori) che si rivela sensibilmente e immediatamente nelle cose che esperiamo e che, da questa esperienza, attraverso l'analisi di essa, poi concettualizziamo (sintesi a posteriori) e a sua volta il concetto richiama quella sintesi a priori e così via ciclicamente all'infinito.
Citazione di: maral il 22 Settembre 2016, 22:59:04 PM
Citazione di: Phil il 21 Settembre 2016, 21:28:07 PMQuindi i numeri c'erano anche prima, ma non erano stati ancora usati? Domanda: come è possibile avere il concetto di numero ma non usarlo?
Basta non esserne consci.
Quindi i numeri sarebbero innati e inconsci? Praticamente si parla di un "platonismo 2.0" in cui l'iperuranio è sostituito dall'inconscio... congettura avvincente, ma mi pare piuttosto ardua (e non dico "indimostrabile"...).Citazione di: maral il 22 Settembre 2016, 22:59:04 PMMa non sto parlando del concetto di numero, sto parlando dei numeri che si traducono in concetti solo se ne diventiamo coscienti.
"I numeri si traducono in concetti" (cit.), nel senso che i numeri non sono solo concetti?Ovvero: se non ne diventiamo coscienti, i numeri non si traducono in concetti, ma esistono lo stesso? Intendi nella mente degli altri, coloro a cui sono stati insegnati, oppure nell'iperuranio-inconscio del soggetto che non li ha ancora "scoperti"?
Citazione di: maral il 22 Settembre 2016, 22:59:04 PMNon è che prima c'erano dei grugniti e dopo questi grugniti per progressiva convenzione sono diventati parole; l'uomo, anche se si esprime a segni o con balbettii, quei segni o balbettii sono già parole significanti. Ciò che si apprende non è il linguaggio (che nelle sue strutture grammaticali fondamentali è già dato a priori, come insegna Noam Chomsky) ma un'espressione significante tra le tante possibili che non è semplicemente inventata, ma culturalmente trasmessa (e trasmettendola i contesti culturali la modificano in continuazione nei rapporti con i significati).
Non confonderei "lingua" e "linguaggio": il linguaggio è l'attuazione di una predisposizione innata (e neurologica) alla comunicazione; la lingua è un insieme convenzionale di segni e suoni finalizzato alla comunicazione; essendo convenzionale come può non essere stata inventata? Citazione di: maral il 22 Settembre 2016, 22:59:04 PMInfatti nessuna lingua (naturale) è mai stata inventata.
La lingua italiana è sempre esistita? Ovviamente non è stata inventata in un giorno, dal nulla (come ogni altra invenzione), ma il processo è stato lungo e si è basato su ciò che c'era a disposizione (il latino, il greco, etc.) ma credo sia innegabile che le lingue parlate oggi siano convenzionali e non eterne (perciò non innate né inconsce...).Citazione di: maral il 22 Settembre 2016, 22:59:04 PMPhil, tu parti dal presupposto che i numeri si inventano e si inventano poiché a monte ci sta il presupposto che non può esserci nulla al di fuori della nostra esperienza, ma questo non esclude il presupposto opposto, ossia che i numeri solo si scoprono.
Perdonami, ma direi che invece le due prospettive si escludono: o si inventa qualcosa o lo si scopre...Il fatto che i numeri siano stati inventati non è per me un presupposto, ma una (opinabile) conclusione, basata su quel poco che so, che riesco a ragionare e che ho cercato di esplicitare... l'osservazione che "non può esserci nulla al di fuori della nostra esperienza", non la sento affatto mia (se non altro perché fuori dall'esperienza ci sono tutte le predisposizioni e le "impalcature concettuali" del soggetto...).Citazione di: maral il 22 Settembre 2016, 22:59:04 PMEntrambi non vi rendete conto invece della irriducibile complementarietà che c'è sempre tra segno e significato, che non ci sono significati puri originari e senza segni da cui nascono i segni o viceversa, ma che sono sempre in rapporto, fin dall'inizio dei tempi.
Concorderai che i segni non esistono dall'"inizio dei tempi"... la scrittura è stata inventa, giusto? Dall'inizio dei tempi esiste semmai la voce (direbbe Derrida...).Proprio per questo credo che, il progresso del linguaggio sia avvenutoCitazione di: Phil il 21 Settembre 2016, 21:28:07 PMpassando da espressioni vocali inarticolate (primitive come la quantificazione "poco/tanto"), a forme più strutturate, come le parole (ed i numeri). Almeno credo che la storia della lingua sia questa, salvo sostenere che le lingue siano "innate" e attendono solo di essere scoperte ;)
Sui colori:
Citazione di: maral il 22 Settembre 2016, 22:59:04 PMPerché è quel colore che ci permette di vedere le cose colorate esattamente come è il vederle colorate che ci permette di esperire (e certamente non di inventare) quel colore.
Non mischierei il piano dell'esperienza sensoriale con quello linguistico (forse è questo l'inghippo che evita l'accordo): io posso esperire un colore che non conosco, ma non essere in grado di nominarlo (perché non ho una parola-concetto corrispondente...); nel momento in cui mi si insegna il suo nome, oppure me l'invento, creo un'identità linguistica-concettuale di quel colore che lo rende nominabile e riconoscibile anche in sua assenza... è lo stesso con i numeri: se vedo un cane con un altro cane, li so quantificare ("più di un cane", "meno di un branco"), ma solo nel momento in cui mi viene insegnato che quella quantità è "due", inizia ad esistere per me il numero "due" (che posso applicare ad altri enti). E questo insegnamento presuppone che un giorno qualcuno (ripeto, uso il singolare per semplicità) abbia deciso che quella quantità era segno "2" e suono "due"... come ha fatto? Nello stesso modo con cui un giorno qualcuno ha inventato (non scoperto) i concetti di radici, tronco, rami, foglie... non è che prima gli alberi non esistessero, o non si distinguesse la foglia caduta dal resto dell'albero, ma non c'era ancora una parola-concetto convenzionalmente corrispondente ad una divisione delle sue parti.
io credo che in linea generale sia un errore far coincidere la concreta applicazione di un processo mentale con l'apprensione dei contenuti di tale processo. Le pratiche di apprendimento di una funzione sviluppano la funzionalità di un processo mentale, ma senza creare il processo "ex nihilo". Se così non fosse allora si potrebbe, utilizzando tecniche didattiche standard, insegnere a contare, leggere, scrivere, a qualunque essere vivente, indipendentemente dalla struttura interiore mentale del soggetto che si ha di fronte. In realtà nell'uomo (ma non con altri mammiferi, ora non sono uno zoologo e non so se con altri animali come le scimmie si sia arrivati a risultati soddisfcenti da far pensare ad analogie con l'uomo) le tecniche didattiche possono aver successo perchè non autosufficienti, ma perchè nella loro opera si armonizzano non con una tabula rasa, ma una mente predisposta ad accoglierla. Questa ovvietà potrebbe far pensare ad una mera dinamica potenzialità innata-attualità concreta esterna che fà passare dalla potenza all'atto il processo mentale. Invece, come già provato a dire all'inizio della discussione, limitarsi ad ammettere una potenzialità equivale a non spiegare nulla. La potenzialità fintanto che resta tale è un mero non-essere, dunque impossibilitata ad intervenire concretamente, completando l'azione proveniente dall'esterno. Tutto ciò che è reale è attuale, dunque la predisposizione nei processi mentali, in quanto fatto reale e concreto, presuppone l'esistenza di un'attualità originaria e interiore che converge con la causalità esteriore per produrre l'applicabilità dei processi. Una mera potenzialità astratta non potrebbe mai porsi come fattore concreto nella costituzione di alcunche, resterebbe una pura idea, e l'idea senza attualità reale, è solo una staticità che non può partecipare ad alcuna dinamica
Nel caso dei numeri, ipotizzo che la predisposizione umana alla quantificazione preuspponga un innata, o meglio originaria, apprensione intuitiva del significato intelligibile dei numeri, che però resta impossibilitata ad essere espressa linguisticamente fintanto che non trova dei segni sensibili per comunicarla, e in assenza di un linguaggio adeguato il bambino ripiegherebbe su concetti qualitativi, come giustamente osservato da Phil, "tanto", "poco". L'apprendimento dei numeri implica l'associazione tra il segno sensibile e il significato intelligibile, ma questa associzione non potrebbe aver luogo se uno dei due termini, il significato intelligibile, non fosse già presente nel bambino a prescindere dall'apprensione di contenuti sensibili esteriori (a meno di non ipotizzare una sorta di telepatia, di comunicazione mentale intersoggettiva senza mediazioni sensibili!)
Per quanto riguarda il nesso che Phil rilevava tra affermazione dell'innatismo e esigenza sociale e politica di identificare il modello intepretativo dell'uomo proveniente da una certa tradizione culturale, con una naturalità originaria ed unica possibile, direi, sempre che abbia compreso il senso dell'osservazione, che è una tesi valida e condivisibile. Al tempo stesso credo però si possa anche dire che le posizioni antiinnatistiche siano in un altro senso funzionali a livello ideologico. Penso a tutte le dottrine politiche totalitarie e rivoluzionarie intenzionate ad edificare modelli di società totalmente nuovi e rivoluzionari, la cui edificazione presupporebbe una netta trasformazione dell'uomo, che per essere adeguato alla nuova società, deve il più possibile essere descritto come realtà fluida e plasmabile da interventi esterni. Quanto più invece l'uomo viene visto come realtà avente in sè dei caratteri stabili e presenti indipendetemente dagli influssi dell'ambiente circostante, tanto più si pone un limite alla possibilità di maniplazione con cui un qualsivoglia potere intenda intervenire per modificare la natura umana in relazione ai suoi fini ideologici. Quindi entrambe le posizioni in campo posso essere viste come convenienti o sconvenienti in relazione alla natura ideologica di un approccio politico, senza che si debba vedere una delle due come un'illusione costruita ad hoc per certe istanze sociali
Ma se una cosa , per venire in essere, ha bisogno di qualcos'altro, come si può definire già esistente a priori ? La mente ha bisogno del contatto per essere. Senza contatto non vi è mente, c'è solo una "possibilità" di mente. Ma possibilità non è essere. Un ovulo è una possibilità di un nuovo essere, ma senza contatto con lo spermatozoo non c'è un nuovo essere. Mente e sensi sono inscindibili. E' il pensiero duale che li vede separati. Non può esserci mente senza il contatto dei sensi e non possono esserci sensi senza percezione e possibilità di astrazione della mente. Non c'è " qualcosa" che viene prima o dopo, è un unico processo. Quando il tatto tocca per la prima volta c'è già mente; ma prima di quel primo tocco dov'è la mente? Il primo tocco poi avviene prima della nascita, durante gli ultimi tre mesi di vita intrauterina, quando già si comincia a sognare: è possibile registrare un'attività REM, attraverso l'elettroencefalogramma sull'addome della madre all'altezza del cervello del feto.
Che cosa sogna? Nessuno lo sa. Si può solo supporre che sogni tonalità di chiaro/scuro,voci, rumori, suoni, musiche e il rumore del battito cardiaco della madre. Questò è già il primo "mondo" che la mente abita.
E' vero che il prendere posizione per una teoria piuttosto che l'altra è funzionale all'ideologia a cui si aderisce. La credenza in una pre-esistenza della mente sostiene la visione spirituale/metafisica, mentre quella incentrata sui sensi sorregge l'idea materialista dell'esistenza. Il superamento di queste due concezioni , a mio avviso, erronee, risolve l'apparente conflitto. Mente e sensi lavorano insieme, sono un'unica cosa ( o essere se si preferisce per non dar l'impressione di cadere nell'estremo materialista), Se tagliamo una mano, un braccio può ancora muoversi e compiere diverse attività, così la mente agisce anche se privata di uno, o più di uno, dei suoi strumenti di senso; ma non può agire se ne viene privata totalmente.
Si può discutere all'infinito su chi viene prima, senza pervenire ad alcunchè, perchè le due cose nascono insieme e questo non è concepibile dal pensiero duale.
Citazione di: davintro il 23 Settembre 2016, 16:46:21 PMuna mera dinamica potenzialità innata-attualità concreta esterna che fà passare dalla potenza all'atto il processo mentale. Invece, come già provato a dire all'inizio della discussione, limitarsi ad ammettere una potenzialità equivale a non spiegare nulla. La potenzialità fintanto che resta tale è un mero non-essere, dunque impossibilitata ad intervenire concretamente, completando l'azione proveniente dall'esterno. Tutto ciò che è reale è attuale, dunque la predisposizione nei processi mentali, in quanto fatto reale e concreto, presuppone l'esistenza di un'attualità originaria e interiore che converge con la causalità esteriore per produrre l'applicabilità dei processi.
Da profano, credo che questa attualità in cui risiede "realmente" la potenzialità della matematica, del linguaggio e della conoscenza in generale, sia una attualità di tipo fisiologico (neurologico? genetico? ancora da scoprire?). Potrebbe essere un tipo di predisposizione biologica come quella che consente ai pipistrelli di utilizzare gli ultrasuoni senza che nessuno glielo insegni, o che consente ad altri animali di comportarsi in modo che per noi non è possibile... potremmo dire che se ogni specie ha i suoi "superpoteri
potenziali", quello dell'uomo è ciò che viene chiamato ragione, quindi linguaggio, matematica e altre abilità cognitive...
Citazione di: davintro il 23 Settembre 2016, 16:46:21 PML'apprendimento dei numeri implica l'associazione tra il segno sensibile e il significato intelligibile, ma questa associzione non potrebbe aver luogo se uno dei due termini, il significato intelligibile, non fosse già presente nel bambino a prescindere dall'apprensione di contenuti sensibili esteriori (a meno di non ipotizzare una sorta di telepatia, di comunicazione mentale intersoggettiva senza mediazioni sensibili!)
Credo che i significati non debbano essere necessariamente innati, ma possano essere appresi; non a caso citavo la musica: la lettura/scrittura dello spartito musicale (con il suo linguaggio di note, pause, etc) può essere imparato senza che ci sia, secondo me, un "significato intelliggibile interiore" da risvegliare o "attualizzare"; semplicemente, si apprende un linguaggio dedicato alla produzione armonica di suoni, così come la matematica è un linguaggio dedicato alla quantificazione di rapporti e descrizioni... ovviamente, se possiamo apprenderli è perché abbiamo una predisposizione (biologica?) a quel tipo di attività (utilizzo di un linguaggio per interfacciarci con il mondo...). Forse il vero "superpotere" dell'uomo è proprio quello di poter apprendere, potenzialmente, tutte le molteplici produzioni dell'intelletto di chi lo ha preceduto...Citazione di: davintro il 23 Settembre 2016, 16:46:21 PMPer quanto riguarda il nesso che Phil rilevava tra affermazione dell'innatismo e esigenza sociale e politica di identificare il modello intepretativo dell'uomo proveniente da una certa tradizione culturale, con una naturalità originaria ed unica possibile, direi, sempre che abbia compreso il senso dell'osservazione, che è una tesi valida e condivisibile. Al tempo stesso credo però si possa anche dire che le posizioni antiinnatistiche siano in un altro senso funzionali a livello ideologico. Penso a tutte le dottrine politiche totalitarie e rivoluzionarie intenzionate ad edificare modelli di società totalmente nuovi e rivoluzionari, la cui edificazione presupporebbe una netta trasformazione dell'uomo
Ammetto candidamente che mi riferivo alla sfera culturale in generale, non ho pensato al caso specifico della politica (a cui non penso mai!), ma condivido le osservazioni che hai saputo trarre: a seconda dei propri fini, un'ideaologia può parlare di "uomo nuovo" o di "uomo autentico", "uomo del futuro" o "uomo di una volta", etc....
Citazione di: Sariputra il 23 Settembre 2016, 21:31:03 PMMente e sensi sono inscindibili. E' il pensiero duale che li vede separati [...] Non c'è " qualcosa" che viene prima o dopo, è un unico processo
Concordo, prendendo in prestito la terminologia teologica direi che sensi e mente sono "distinti ma non separati" (salvo patologie): mentre si formano i sensi, si forma anche la cosiddetta mente, e viceversa, l'"influenza" è biunivoca... quello che si aggiunge, vissuto dopo vissuto, secondo me, sono tutti i concetti, con cui "dialogano" la mente e l'esperienza: la mente pre-condiziona come l'esperienza viene vissuta e l'esperienza vissuta modifica di riflesso come la mente vivrà la prossima esperienza (e anche l'apprendimento è un'esperienza, non solo quelle puramente percettive...).
Citazione di: Phil il 23 Settembre 2016, 16:15:55 PM
Quindi i numeri sarebbero innati e inconsci? Praticamente si parla di un "platonismo 2.0" in cui l'iperuranio è sostituito dall'inconscio... congettura avvincente, ma mi pare piuttosto ardua (e non dico "indimostrabile"...).
Per quanto mi riguarda non mi rifaccio a un pensiero neo platonizzante, quanto piuttosto a una considerazione severiniana: non si inventa nulla se per inventare si intende creare qualcosa (qualsiasi cosa, compreso numeri, colori) facendo essere qualcosa che prima non era. Nella loro qualità di numeri e colori, questi enti in quanto essenti, sono da sempre e per sempre e quindi non sono il risultato dell'esperienza, mentre il loro apparire e quindi i significati di questo apparire è il risultato dell'esperienza. E questa esperienza che li fa apparire rendendocene coscienti a sua volta non nasce dal nulla, non è arbitraria e quindi definibile per convenzione, ma il frutto necessario di un contesto inter relazionale tra gli enti.
Ma se questi numeri e colori pre esistono al loro apparire, altrimenti dovremmo dire che questo numero o questo colore come tali sono fondamentalmente niente, dove stanno allora i numeri e i colori prima del loro apparire alla nostra coscienza? Non stanno in un altro mondo, in un iperuranio, semplicemente sono, ma non appaiono. In questi termini parlo di inconscio. Ci sono inconsci e quindi non hanno per la nostra esperienza un luogo "scoperto", perché se lo avessero ci apparirebbero, ma non avere un luogo scoperto alla nostra esperienza non vuole dire che sono niente.
Beninteso, anche dire che prima del loro attuale apparire essi non hanno luogo scoperto è dovuto al loro attuale apparire, è proprio il loro apparirci che, mantenendo fermo che numeri e colori sono e non possono non essere, implica il loro poter non manifestarsi.
In tal senso non solo non inventiamo nulla (se inventare significa fare essere cose che non sono), ma anche non scopriamo nulla (se scoprire lo si intende come un atto del soggetto), ma viviamo esperienze che in determinati contesti relazionali tra gli enti, ci rendono alcuni enti come manifesti.
CitazioneNon confonderei "lingua" e "linguaggio": il linguaggio è l'attuazione di una predisposizione innata (e neurologica) alla comunicazione; la lingua è un insieme convenzionale di segni e suoni finalizzato alla comunicazione; essendo convenzionale come può non essere stata inventata?
Non trovo nessuna lingua naturale frutto di una convenzione. Non si è mai stipulata alcuna originaria convenzione per stabilire che un segno indicasse questa cosa e non un'altra per mostrarcela. Certo, impariamo questi segni da chi ci ha preceduto, che a sua volta li ha imparati da chi lo ha preceduto e così via e a ogni passaggio i segni che indicano questa cosa variano nei tempi e nei luoghi e variano pure le cose nel modo di apparirci, ma non c'è mai stato un momento originario in cui si è stabilito che il colore rosso dovesse chiamarsi "rosso" potendolo anche dire in modo diverso, il colore e la combinazione fonetica che lo mostra sono tra loro sempre legati secondo un'intrinseca necessità, non è una scelta convenzionalmente stabilita, anche se certamente varia. A ben vedere la cosa e il suo nome sono sì enti diversi, ma strettamente collegati l'uno all'altro da un'esperienza che non è soggettiva e quindi non può essere convenzionata tra soggetti. Nessuno ha mai stabilito o si è mai messo d'accordo con altri di chiamare il rosso rosso, o red, o rojo e via dicendo, comunque lo si dica c'è una necessità che lo fa dire così in quel luogo e in quel tempo consentendone la precisa identificazione e comunicazione.
Citazionel'osservazione che "non può esserci nulla al di fuori della nostra esperienza", non la sento affatto mia (se non altro perché fuori dall'esperienza ci sono tutte le predisposizioni e le "impalcature concettuali" del soggetto...).
Predisposizioni e impalcature che peraltro ci appaiono anch'esse in ragione dell'esperienza che ne facciamo, ma dove la mancanza di questa esperienza non determina il loro esserci o meno.
CitazioneConcorderai che i segni non esistono dall'"inizio dei tempi"... la scrittura è stata inventa, giusto? Dall'inizio dei tempi esiste semmai la voce (direbbe Derrida...).
Veramente Derrida parla di una scrittura che precede l'oralità della comunicazione (e ovviamente non è una scrittura che appartiene al soggetto umano; è segno muto e di per sé insignificante che dà significato a ogni cosa)
Non abbiamo mai conosciuto alcuna cosa senza un segno che ce la connotasse, fosse questo segno anche solo un gesto, e quel gesto, quell'espressione fonetica di un altro soggetto che ci ha mostrato quella cosa nessuno lo ha mai scelto né quindi convenzionato per quella cosa.
Citazione di: maral il 24 Settembre 2016, 13:30:58 PMnon si inventa nulla se per inventare si intende creare qualcosa (qualsiasi cosa, compreso numeri, colori) facendo essere qualcosa che prima non era. Nella loro qualità di numeri e colori, questi enti in quanto essenti, sono da sempre e per sempre
Cercando di restare sul piano ontologico (anche se il mio era perlopiù linguistico), non confonderei gli enti con i concetti: gli enti non si inventano, i concetti direi di si (non
ex nihilo, ovviamente...), altrimenti il concetto di "inflazione" sarebbe dovuto esistere prima dell'invenzione del denaro... e ciò è ammissibile solo con una fantasiosa teoria neo-platonica, o mistica, in cui tutto il pensabile c'è già, da qualche parte (metaforicamente parlando, ma non troppo...) e noi ci limitiamo, epoca dopo epoca, ad attingere da questo "serbatoio concettuale eterno e completo" (è questa per me la congettura ardua da sostenere, se non per "fede"... ma non voglio impantanare il discorso con speculazioni ontologiche).
Citazione di: maral il 24 Settembre 2016, 13:30:58 PMdove stanno allora i numeri e i colori prima del loro apparire alla nostra coscienza?
In questa domanda affiora il preconcetto che la (pre)orienta, ovvero che i numeri debbano essere sempre stati da qualche parte, per cui non resta che chiederci "dove?"; e se invece, fossero uno dei tanti concetti inventati? Proviamo a fare una dimostrazione per assurdo: se credere che i numeri non sono innati, comporta una contraddizione o va contro esperienze attendibili, allora i numeri sono innati... la contraddizione sarebbe ammetterne l'invenzione? Non sembra poi molto contraddittorio in sé, né andare contro esperienze attendibili (al di là di essere d'accordo o meno con la possibilità di inventare qualcosa).Se invece (per "par condicio") vogliamo applicare una dimostrazione per assurdo all'invenzione dei numeri, dovremo postulare che non siano inventati, e ciò dovrebbe essere contraddittorio o andare contro un'esperienza attendibile... la contraddizione in questo caso sarebbe l'ammissione di un'esistenza-non-manifesta (vedi sotto) che quindi va contro ogni esperienza attendibile (e anche se si è d'accordo con questa prospettiva, non sono pochi i punti interrogativi metafisici e epistemologici che ne conseguono...).Tuttavia, non insisto oltre, capisco che sono prospettive inconciliabili ;) Citazione di: maral il 24 Settembre 2016, 13:30:58 PMNon stanno in un altro mondo, in un iperuranio, semplicemente sono, ma non appaiono. In questi termini parlo di inconscio.
Ci sono inconsci e quindi non hanno per la nostra esperienza un luogo "scoperto", perché se lo avessero ci apparirebbero, ma non avere un luogo scoperto alla nostra esperienza non vuole dire che sono niente [...] mantenendo fermo che numeri e colori sono e non possono non essere,
"Sono ma non appaiono"(cit.), quindi sono "esseri immanifesti", immanifesti quindi indimostrabili, indimostrabili quindi oggetto di "fede" (uso anche qui le virgolette perché non parlo di fede religiosa...).Citazione di: maral il 24 Settembre 2016, 13:30:58 PMNon trovo nessuna lingua naturale frutto di una convenzione.
Chiaramente le lingue, e le rispettive convenzioni, si sono modificate con i secoli, nessuna lingua è nata dalla sera alla mattina o ad opera di un solo uomo... per "convenzione" va inteso un "inventare artificiale" che diventa poi un "affermarsi socialmente"; se le lingue non fossero convenzioni,
a cosa servirebbero i dizionari, le grammatiche, etc.? Citazione di: maral il 24 Settembre 2016, 13:30:58 PMnon c'è mai stato un momento originario in cui si è stabilito che il colore rosso dovesse chiamarsi "rosso" potendolo anche dire in modo diverso, il colore e la combinazione fonetica che lo mostra sono tra loro sempre legati secondo un'intrinseca necessità, non è una scelta convenzionalmente stabilita, anche se certamente varia.
La prospettiva diacronica delle lingue sembra indicare il contrario: non c'è necessita del nominare qualcosa con un determinato segno o suono, semplicemente una comunità ha deciso di usare quella combinazione, altre una combinazione differente, ma non c'è nessuna "intrinseca necessità"(cit.) fra l'oggetto e la parola (salvo per le onomatopeiche), solo arbitrarietà convenzionale... Pensa anche ai neologismi, che abbondano con il fiorire di nuove dimensioni (come quella attuale dell'informatica), che necessità c'è di chiamare alcune novità tecnologiche proprio con quel nome? Nessuna, semplicemente qualcuno le battezza così e gli altri "condividono" (in tutti i sensi ;D ) quella parola...Citazione di: maral il 24 Settembre 2016, 13:30:58 PMVeramente Derrida parla di una scrittura che precede l'oralità della comunicazione (e ovviamente non è una scrittura che appartiene al soggetto umano; è segno muto e di per sé insignificante che dà significato a ogni cosa) Non abbiamo mai conosciuto alcuna cosa senza un segno che ce la connotasse, fosse questo segno anche solo un gesto, e quel gesto, quell'espressione fonetica di un altro soggetto che ci ha mostrato quella cosa nessuno lo ha mai scelto né quindi convenzionato per quella cosa.
Credo vada distinta la "scrittura" dal "gesto" (e penso lo faccia anche Derrida quando, vado a memoria, distingue il "segno" dal "fare-segno"...), altrimenti "scrivere" e "gesticolare" diventano sinonimi! Non ricordo bene, ma non scommetterei che il concetto di "archiscrittura" di Derrida, al netto di metafore e giochi linguistici, neghi che ci sia stato, come sottolineavo, un momento in cui l'uomo non scriveva ma comunicava solo oralmente...
P:s. La convenzione, non la intenderei solo in modo accademico: ad esempio, come accennavo prima, molti neologismi nascono ed entrano nel vocabolario senza che ci sia un convegno di esperti, ma soltanto perché si innesca un "passaparola" fortuito e molto esteso: l'espressione "figlio dei fiori" (con tutti i riferimenti concettuali annessi) è ormai comprensibile a tutti, eppure non è sempre esistita, ma il suo successo sociale ne ha decretato la legittima appartenenza alla comunicazione (pur non sapendo, almeno io, chi sia stato il primo a coniare questa espressione).
Magari mi dirai che anche questa espressione esisteva da sempre, ma attendeva solo di manifestarsi, che "era ma non appariva", ma mi concederai che con questo presupposto di innatismo radicale, perdiamo ogni presa epistemologica sull'argomento, abbandoniamo la ricerca per "accomodarci" in una "fede metafisica" di cui tutto il '900 (con buona pace di Severino?) ci ha insegnato a dubitare...
Phil,
penso che vi siano divari, non so se colmabili, fra ontologia e gnoseologia(o epistemologia).
Non è nemmeno più una questione di mistifica o metafisica.
Persino le teorie affidabiliste, quelle linguistiche ,quelle etiche che non sono metafisiche oggi come un tempo
spostano il problema in "internalismo" ed "esternalismo".Basta vedere le posizioni di Searle e Davidson sull'etica.
Il problema è spostato sul processo, il focus quindi è più importante nel soggetto ,internalismo, oppure nell'oggetto esternalismo. Essendo l'uomo un essere pensante e riflessivo ci si chiede dove abita il pensiero ,ma ci si sposta di più sull'azione, sulla pratica, sull'esperienza.
Chomsky, citato da Maral, ad esempio. ha delle sue teorie sulla "grammatica trasformazionale" e una "teoria della competenza". Chomsky teorizza un innatismo.
Tutto questo per semplicemente dire che la teoria della conoscenza e la relativa critica non è più solo patrimonio della filosofia classica, o addirittura della metafisica, ma anche della tradizione anglo-statunitense della filosofia analitica e dei suoi sviluppi.
Quindi sono parte degli stessi "empiristi" che si chiedono se c'è una coscienza,se c'è una mente se c'è una lingua, se esiste un sistema o dominio, come l'uomo lo abbia potuto costruire.
La risposta non può essere solo evolutiva biologica, perchè anche il DNA si esprime in un codice e da dove venga e come si sia formato questa modalità e perchè così e non "cosà", nessuno lo sa.Ma è altrettanto strano che la stessa vita sia un codice come un sistema, e un codice è un informazione che si trasmette con un emittente e un ricevente e quindi comunica, proprio come i linguaggi.
Citazione di: Phil il 24 Settembre 2016, 17:12:43 PM
Cercando di restare sul piano ontologico (anche se il mio era perlopiù linguistico), non confonderei gli enti con i concetti: gli enti non si inventano, i concetti direi di si (non ex nihilo, ovviamente...), altrimenti il concetto di "inflazione" sarebbe dovuto esistere prima dell'invenzione del denaro... e ciò è ammissibile solo con una fantasiosa teoria neo-platonica, o mistica, in cui tutto il pensabile c'è già, da qualche parte (metaforicamente parlando, ma non troppo...) e noi ci limitiamo, epoca dopo epoca, ad attingere da questo "serbatoio concettuale eterno e completo" (è questa per me la congettura ardua da sostenere, se non per "fede"... ma non voglio impantanare il discorso con speculazioni ontologiche).
In termini ontologici è ente tutto ciò che è essente come unità, non alcuni elementi degli essenti, dunque anche i concetti sono essenti solo in virtù del loro esserci. E, dal punto di vista della sola essenza tutti gli enti sono perfettamente equivalenti, non ve ne sono alcuni che precedono altri in essenza.
Il concetto di inflazione peraltro non necessariamente è riferibile al denaro: si accompagna
anche al concetto di denaro per descrivere certe situazioni, ma non solo mi pare.
Citazione di: maral il 24 Settembre 2016, 13:30:58 PMdove stanno allora i numeri e i colori prima del loro apparire alla nostra coscienza?
Citazione di: PhilIn questa domanda affiora il preconcetto che la (pre)orienta, ovvero che i numeri debbano essere sempre stati da qualche parte, per cui non resta che chiederci "dove?"; e se invece, fossero uno dei tanti concetti inventati?
Scusa, ma la mia domanda introduceva un dubbio a quello che venivo dicendo io stesso, non tu, e, per risolvere il dubbio concludevo che la domanda non ha senso: non può apparire un luogo dove stanno gli essenti prima di apparire, se questo luogo apparisse sarebbero già apparsi.
CitazioneProviamo a fare una dimostrazione per assurdo: se credere che i numeri non sono innati, comporta una contraddizione o va contro esperienze attendibili, allora i numeri sono innati...
La contraddizione è che non si può contare senza avere i numeri dunque non è contando che si arriva a inventare il numero, deve già esserci e non in un modo generico e impreciso da raffinare (un "tanti" o "pochi"), ma proprio per quello che è (dal "tanti" o "pochi", proprio come è già stato detto, non si arriva a nessun numero).
Citazionela contraddizione in questo caso sarebbe l'ammissione di un'esistenza-non-manifesta (vedi sotto) che quindi va contro ogni esperienza attendibile (e anche se si è d'accordo con questa prospettiva, non sono pochi i punti interrogativi metafisici e epistemologici che ne conseguono...).
Bè mi pare che di esistenze non manifeste ce ne siano sempre state tante nella storia dell'umanità (e sicuramente ce ne sono tuttora che forse si manifesteranno in futuro), senza che questo pregiudichi alcuna esperienza attendibile. Tanto più che i numeri
sono esistenze manifeste che ora hanno luogo, dunque esistenze si sono manifestati senza che, mi pare, questo implichi che a un certo punto siano sorti per pura invenzione da altro (da un non numero), ossia siano nati dal loro essere niente come numero.
Non è fede ciò che asserisce che ogni essente è, ma non ogni essente solo a un dato momento appare, lo constatiamo continuamente.
CitazioneChiaramente le lingue, e le rispettive convenzioni, si sono modificate con i secoli, nessuna lingua è nata dalla sera alla mattina o ad opera di un solo uomo... per "convenzione" va inteso un "inventare artificiale" che diventa poi un "affermarsi socialmente"; se le lingue non fossero convenzioni, a cosa servirebbero i dizionari, le grammatiche, etc.?
I dizionari e le grammatiche fissano le lingue esistenti temporaneamente a mezzo di convenzioni, ma non è certo dai dizionari e dalle grammatiche che nascono le lingue. Ossia le lingue possono portare a convenzioni sull'uso dei termini, ma non viceversa. Non mi pare risulti a nessun antropologo che per cominciare a parlare una lingua si sia iniziato con il convenirne un dizionario, scritto o orale che fosse.
CitazioneLa prospettiva diacronica delle lingue sembra indicare il contrario: non c'è necessita del nominare qualcosa con un determinato segno o suono, semplicemente una comunità ha deciso di usare quella combinazione, altre una combinazione differente, ma non c'è nessuna "intrinseca necessità"(cit.) fra l'oggetto e la parola (salvo per le onomatopeiche), solo arbitrarietà convenzionale...
Pensa anche ai neologismi, che abbondano con il fiorire di nuove dimensioni (come quella attuale dell'informatica), che necessità c'è di chiamare alcune novità tecnologiche proprio con quel nome? Nessuna, semplicemente qualcuno le battezza così e gli altri "condividono" (in tutti i sensi ;D ) quella parola...
Certo a posteriori posso dire che se chiamo quel colore con la parola rosso o red è sempre lo stesso colore e sicuramente è così, ma nessuna comunità fa questa scelta, cioè nessuna comunità si è mai trovata davanti a qualcosa di rosso e ha cominciato a discutere se chiamare quel colore rosso o red, mettendosi d'accordo magari per alzata di mano a maggioranza come suonava meglio. Anche perché se ci fosse mai stata questa discussione le parole avrebbero ben dovuto già esserci e dunque, di nuovo, come per i numeri, per avere le parole, ci vogliono delle parole!
CitazioneCredo vada distinta la "scrittura" dal "gesto" (e penso lo faccia anche Derrida quando, vado a memoria, distingue il "segno" dal "fare-segno"...), altrimenti "scrivere" e "gesticolare" diventano sinonimi! Non ricordo bene, ma non scommetterei che il concetto di "archiscrittura" di Derrida, al netto di metafore e giochi linguistici, neghi che ci sia stato, come sottolineavo, un momento in cui l'uomo non scriveva ma comunicava solo oralmente...
Premesso che non conosco direttamente Derrida e quindi mi riferisco solo alla lezione di Sini che, per quanto ne so, potrebbe anche averlo interpretato male. Premesso che mi pare che lo scrivere nasce comunque come un gesto (anche se non direttamente rivolto all'interlocutore, ma rivolto all'interlocutore attraverso un mezzo che rende possibile una dilatazione del tempo tra espressione e ricevimento e forse questo è quello che distingue il gesto dello scrivere dal gesto del gesticolare). Non è di una scrittura umana che qui si parla, ma di una scrittura più originaria che nell'uomo si traduce in una ricerca di significati e quindi in suoni vocali, poi questa parola si può tradurre per l'uomo in una scrittura fonetica, come è accaduto in Occidente, ma non necessariamente in Oriente, ove la scrittura intende ancora richiamare direttamente proprio quella scrittura- segno originario e silente. Per questo, in Oriente, la scrittura viene prima della oralità e non è la semplice traduzione grafica di un suono. Questo mi pare si dica nella lezione di Sini.
CitazioneP:s. La convenzione, non la intenderei solo in modo accademico: ad esempio, come accennavo prima, molti neologismi nascono ed entrano nel vocabolario senza che ci sia un convegno di esperti, ma soltanto perché si innesca un "passaparola" fortuito e molto esteso: l'espressione "figlio dei fiori" (con tutti i riferimenti concettuali annessi) è ormai comprensibile a tutti, eppure non è sempre esistita, ma il suo successo sociale ne ha decretato la legittima appartenenza alla comunicazione (pur non sapendo, almeno io, chi sia stato il primo a coniare questa espressione).
Magari mi dirai che anche questa espressione esisteva da sempre, ma attendeva solo di manifestarsi, che "era ma non appariva", ma mi concederai che con questo presupposto di innatismo radicale, perdiamo ogni presa epistemologica sull'argomento, abbandoniamo la ricerca per "accomodarci" in una "fede metafisica" di cui tutto il '900 (con buona pace di Severino?) ci ha insegnato a dubitare...
Figurati, Severino è colui che vuole proprio mettere in dubbio le radici stesse della metafisica dell'Occidente che ritiene basata sulla pretesa assurda di un'assoluta e incontestabile evidenza del divenire. Ma tornando al tema, l'espressione "figlio dei fiori", certamente è apparsa a un certo punto come un composito fatto da espressioni che avevano già significato, è una combinazione di termini che si rivela nell'apparire di una certa figura umana che la richiama, per via metaforica. Tutti i linguaggi non sono altro fondamentalmente che metafore, ossia accoppiamenti tra enti diversi che si richiamano (si fanno segno) l'un l'altro, indipendentemente da qualsiasi scelta. I linguaggi sono sistemi di metafore non scelte, non eterne e tanto meno convenzionate.
Citazione di: maral il 25 Settembre 2016, 00:20:29 AM
CitazioneChiedo scusa a Phil (che ovviamente risponderà da par suo) per l' "entrata a gamba tesa".
Citazione di: Phil il 24 Settembre 2016, 17:12:43 PM
Cercando di restare sul piano ontologico (anche se il mio era perlopiù linguistico), non confonderei gli enti con i concetti: gli enti non si inventano, i concetti direi di si (non ex nihilo, ovviamente...), altrimenti il concetto di "inflazione" sarebbe dovuto esistere prima dell'invenzione del denaro... e ciò è ammissibile solo con una fantasiosa teoria neo-platonica, o mistica, in cui tutto il pensabile c'è già, da qualche parte (metaforicamente parlando, ma non troppo...) e noi ci limitiamo, epoca dopo epoca, ad attingere da questo "serbatoio concettuale eterno e completo" (è questa per me la congettura ardua da sostenere, se non per "fede"... ma non voglio impantanare il discorso con speculazioni ontologiche).
In termini ontologici è ente tutto ciò che è essente come unità, non alcuni elementi degli essenti, dunque anche i concetti sono essenti solo in virtù del loro esserci. E, dal punto di vista della sola essenza tutti gli enti sono perfettamente equivalenti, non ve ne sono alcuni che precedono altri in essenza.
Il concetto di inflazione peraltro non necessariamente è riferibile al denaro: si accompagna anche al concetto di denaro per descrivere certe situazioni, ma non solo mi pare.
CitazioneNon ti seguo bene attraverso i concetti (severiniani? Hedeggeriani?) Di ente! Ed "essente".
Ma se usiamo quelli a me comprensibili di "cosa reale" (indipendentemente dall' eventuale essere anche pensato, dall' essere inoltre oggetto di pensiero, eventualmente di conoscenza vera) e "concetto pensato" (reale unicamente in quanto pensato; anche se può esistere -o meno- pure una "cosa reale" da esso denotata), allora non mi sembra che non abbia obiettato efficacemente a Phil: gli enti reali esistono anche indipendentemente dall' esistenza degli eventuali concetti che li denotassero, come dimostra l' esempio di "inflazione" intesa come concetto economico (che sul vocabolario ha una definizione diversa, pur sotto lo stesso lemma, di "inflazione" in senso fisico: per lo meno il primo concetto (l' aumento del denaro in circolazione e dei prezzi) con tutta evidenza non è innato, sempre esistito "inconsciamente" nella mente degli uomini in attesa che qualcuno lo conoscesse a priori: è stato "confezionato" dopo che qualcuno ha studiato l' economia capitalistica, e la parola che lo simboleggia é stata adottata da tutti i parlanti convenzionalmente.
Se l' umanità si fosse estinta all' età della pietra nessuno avrebbe mai saputo a priori che cosa significa "inflazione" in senso economico.
Citazione di: maral il 24 Settembre 2016, 13:30:58 PMdove stanno allora i numeri e i colori prima del loro apparire alla nostra coscienza?
CitazioneIn questa domanda affiora il preconcetto che la (pre)orienta, ovvero che i numeri debbano essere sempre stati da qualche parte, per cui non resta che chiederci "dove?"; e se invece, fossero uno dei tanti concetti inventati?
Scusa, ma la mia domanda introduceva un dubbio a quello che venivo dicendo io stesso, non tu, e, per risolvere il dubbio concludevo che la domanda non ha senso: non può apparire un luogo dove stanno gli essenti prima di apparire, se questo luogo apparisse sarebbero già apparsi.
CitazioneMa i gruppi di cose simili diversamente numerosi (tre mele o tre pere, sette colli o sette laghi, dieci dita delle mani o dieci dita dei piedi, ecc.), esistevano prima dell' invenzione per astrazione da essi dei numeri naturali e della matematica.
E i rispettivi concetti astratti (i numeri naturali) esistono a posteriori, previa astrazione e non priori, nelle menti di chi li pensa.
CitazioneProviamo a fare una dimostrazione per assurdo: se credere che i numeri non sono innati, comporta una contraddizione o va contro esperienze attendibili, allora i numeri sono innati...
La contraddizione è che non si può contare senza avere i numeri dunque non è contando che si arriva a inventare il numero, deve già esserci e non in un modo generico e impreciso da raffinare (un "tanti" o "pochi"), ma proprio per quello che è (dal "tanti" o "pochi", proprio come è già stato detto, non si arriva a nessun numero).
CitazioneChe non si possa contare senza avere i numeri non dice nulla circa il problema se la conoscenza dei numeri sia innata o acquisita per astrazione dall' esperienza: vale esattamente allo stesso modo in entrambi i casi.
Citazionela contraddizione in questo caso sarebbe l'ammissione di un'esistenza-non-manifesta (vedi sotto) che quindi va contro ogni esperienza attendibile (e anche se si è d'accordo con questa prospettiva, non sono pochi i punti interrogativi metafisici e epistemologici che ne conseguono...).
Bè mi pare che di esistenze non manifeste ce ne siano sempre state tante nella storia dell'umanità (e sicuramente ce ne sono tuttora che forse si manifesteranno in futuro), senza che questo pregiudichi alcuna esperienza attendibile. Tanto più che i numeri sono esistenze manifeste che ora hanno luogo, dunque esistenze si sono manifestati senza che, mi pare, questo implichi che a un certo punto siano sorti per pura invenzione da altro (da un non numero), ossia siano nati dal loro essere niente come numero.
Non è fede ciò che asserisce che ogni essente è, ma non ogni essente solo a un dato momento appare, lo constatiamo continuamente.
CitazioneEsistenze non manifeste se ne sono sempre credute (non necessariamente sono tutte esistite) ma in quanto pensate attraverso (denotate da) pensieri consapevolmente avvertiti nell' ambito della propria esperienza cosciente (e non: inconsciamente).
E i numeri naturali sono concetti stabiliti a posteriori per astrazione in seguito all' osservazione (e al conseguente ragionamento: attuazione di una mera facoltà o capacità potenziale innata –che in molti casi purtroppo non si attua mai: pargoli morti in tenera età- e non di conoscenze di già belle che confezionate a priori; questo per rispondere anche a Davintro) di gruppi variamente numerosi di oggetti simili.
CitazioneChiaramente le lingue, e le rispettive convenzioni, si sono modificate con i secoli, nessuna lingua è nata dalla sera alla mattina o ad opera di un solo uomo... per "convenzione" va inteso un "inventare artificiale" che diventa poi un "affermarsi socialmente"; se le lingue non fossero convenzioni, a cosa servirebbero i dizionari, le grammatiche, etc.?
I dizionari e le grammatiche fissano le lingue esistenti temporaneamente a mezzo di convenzioni, ma non è certo dai dizionari e dalle grammatiche che nascono le lingue. Ossia le lingue possono portare a convenzioni sull'uso dei termini, ma non viceversa. Non mi pare risulti a nessun antropologo che per cominciare a parlare una lingua si sia iniziato con il convenirne un dizionario, scritto o orale che fosse.
La prospettiva diacronica delle lingue sembra indicare il contrario: non c'è necessita del nominare qualcosa con un determinato segno o suono, semplicemente una comunità ha deciso di usare quella combinazione, altre una combinazione differente, ma non c'è nessuna "intrinseca necessità"(cit.) fra l'oggetto e la parola (salvo per le onomatopeiche), solo arbitrarietà convenzionale...
CitazionePensa anche ai neologismi, che abbondano con il fiorire di nuove dimensioni (come quella attuale dell'informatica), che necessità c'è di chiamare alcune novità tecnologiche proprio con quel nome? Nessuna, semplicemente qualcuno le battezza così e gli altri "condividono" (in tutti i sensi ;D ) quella parola...
CitazioneNon si è fatta una riunione ufficiale di un apposito "comitato di definizione dei concetti e assegnazione dei simboli verbali", ma spontaneamente, anche senza pensarlo (senza pensare che lo si stava facendo, senza esserne autocoscienti), si è cominciato ad assegnare convenzionalmente (artificiosamente e di comune accordo) determinati simboli verbali a determinati concetti.
Citazione
Certo a posteriori posso dire che se chiamo quel colore con la parola rosso o red è sempre lo stesso colore e sicuramente è così, ma nessuna comunità fa questa scelta, cioè nessuna comunità si è mai trovata davanti a qualcosa di rosso e ha cominciato a discutere se chiamare quel colore rosso o red, mettendosi d'accordo magari per alzata di mano a maggioranza come suonava meglio. Anche perché se ci fosse mai stata questa discussione le parole avrebbero ben dovuto già esserci e dunque, di nuovo, come per i numeri, per avere le parole, ci vogliono delle parole!
CitazioneCredo vada distinta la "scrittura" dal "gesto" (e penso lo faccia anche Derrida quando, vado a memoria, distingue il "segno" dal "fare-segno"...), altrimenti "scrivere" e "gesticolare" diventano sinonimi! Non ricordo bene, ma non scommetterei che il concetto di "archiscrittura" di Derrida, al netto di metafore e giochi linguistici, neghi che ci sia stato, come sottolineavo, un momento in cui l'uomo non scriveva ma comunicava solo oralmente...
Premesso che non conosco direttamente Derrida e quindi mi riferisco solo alla lezione di Sini che, per quanto ne so, potrebbe anche averlo interpretato male. Premesso che mi pare che lo scrivere nasce comunque come un gesto (anche se non direttamente rivolto all'interlocutore, ma rivolto all'interlocutore attraverso un mezzo che rende possibile una dilatazione del tempo tra espressione e ricevimento e forse questo è quello che distingue il gesto dello scrivere dal gesto del gesticolare). Non è di una scrittura umana che qui si parla, ma di una scrittura più originaria che nell'uomo si traduce in una ricerca di significati e quindi in suoni vocali, poi questa parola si può tradurre per l'uomo in una scrittura fonetica, come è accaduto in Occidente, ma non necessariamente in Oriente, ove la scrittura intende ancora richiamare direttamente proprio quella scrittura- segno originario e silente. Per questo, in Oriente, la scrittura viene prima della oralità e non è la semplice traduzione grafica di un suono. Questo mi pare si dica nella lezione di Sini.
CitazioneP:s. La convenzione, non la intenderei solo in modo accademico: ad esempio, come accennavo prima, molti neologismi nascono ed entrano nel vocabolario senza che ci sia un convegno di esperti, ma soltanto perché si innesca un "passaparola" fortuito e molto esteso: l'espressione "figlio dei fiori" (con tutti i riferimenti concettuali annessi) è ormai comprensibile a tutti, eppure non è sempre esistita, ma il suo successo sociale ne ha decretato la legittima appartenenza alla comunicazione (pur non sapendo, almeno io, chi sia stato il primo a coniare questa espressione).
Magari mi dirai che anche questa espressione esisteva da sempre, ma attendeva solo di manifestarsi, che "era ma non appariva", ma mi concederai che con questo presupposto di innatismo radicale, perdiamo ogni presa epistemologica sull'argomento, abbandoniamo la ricerca per "accomodarci" in una "fede metafisica" di cui tutto il '900 (con buona pace di Severino?) ci ha insegnato a dubitare...
Figurati, Severino è colui che vuole proprio mettere in dubbio le radici stesse della metafisica dell'Occidente che ritiene basata sulla pretesa assurda di un'assoluta e incontestabile evidenza del divenire. Ma tornando al tema, l'espressione "figlio dei fiori", certamente è apparsa a un certo punto come un composito fatto da espressioni che avevano già significato, è una combinazione di termini che si rivela nell'apparire di una certa figura umana che la richiama, per via metaforica. Tutti i linguaggi non sono altro fondamentalmente che metafore, ossia accoppiamenti tra enti diversi che si richiamano (si fanno segno) l'un l'altro, indipendentemente da qualsiasi scelta. I linguaggi sono sistemi di metafore non scelte, non eterne e tanto meno convenzionate.
Citazione
A parte il mio radicale dissenso da Severino circa la realtà del divenire (che é altra questione), a me pare invece evidente che le lingue siano insiemi di simboli attribuiti a concetti, che accoppino enti (mentali) diversi (simboli e e significati, vocaboli e concetti) che si richiamano (si fanno segno) l'un l'altro (e non viceversa), per scelta arbitraria convenzionalmente condivisa.
Sgiombo non deve affatto scusarsi, così come chiunque altro voglia partecipare al dialogo... siamo qui per questo, no? :)
@paul11Mi sbilancerei nel sostenere che c'è più fertilità, futuribilità, nei discorsi epistemici degli "analitici" che nelle congetture metafisiche dei "continentali"... la vita come "codice" è una lettura, metaforica, che dà la ragione umana, ma come sempre, c'è il rischio di scambiare il significante che si legge con il significato, ovvero di pensare che la vita
sia davvero un codice, mentre è solo il nostro modo di leggerla che la
interpreta così (con tutti i rischi di fraintendimento che ogni interpretazione pone...).
@maralConcordo pienamente con le considerazioni di
sgiombo, quindi non voglio dilungarmi per fargli eco; aggiungerei alcune osservazioni:
Citazione di: maral il 25 Settembre 2016, 00:20:29 AMla mia domanda introduceva un dubbio a quello che venivo dicendo io stesso, non tu, e, per risolvere il dubbio concludevo che la domanda non ha senso: non può apparire un luogo dove stanno gli essenti prima di apparire, se questo luogo apparisse sarebbero già apparsi. [...] Non è fede ciò che asserisce che ogni essente è, ma non ogni essente solo a un dato momento appare, lo constatiamo continuamente.
Se un essente è (uso il tuo linguaggio, ma condivido con sgiombo la differenza "ente vs essente"), il suo essere dovrebbe logicamente avere una sua "dimensione" (sia essa meta-fisica, inconscia, iperuranica o altro), poiché ciò che è ma non ha "luogo", è solo il nulla in quanto concetto nominato. E non credo si possa parlare, almeno in occidente, di "innatismo dal nulla"...Quando parliamo del nulla parliamo di un concetto che non si riferisce a qualcosa di esistente in una dimensione, parliamo di qualcosa che non si manifesta, insomma parliamo esattamente di ciò che tu sembri definire come "innato ma non manifesto" riferendoti però a qualcosa che è prima di poter essere nominato... se il nulla è salvato dal paradosso ponendo la sua esistenza solo sul piano linguistico-concettuale, gli essenti innati di cui parli, essendo senza luogo e senza parola, non si salvano dall'aporia...Per questo la domanda sul "dove", per gli innatisti, è uno scacco insormontabile (per i non-innatisti è invece un falso problema).Sostenere che "qualcosa è, ma non è da nessuna parte fino a che non accade", non è una machiavellica perifrasi per dire "nasce" o, nel nostro caso, "viene inventato"? ;) Citazione di: maral il 25 Settembre 2016, 00:20:29 AMBè mi pare che di esistenze non manifeste ce ne siano sempre state tante nella storia dell'umanità (e sicuramente ce ne sono tuttora che forse si manifesteranno in futuro), senza che questo pregiudichi alcuna esperienza attendibile.
Se qualcosa non si manifesta come possiamo essere coscienti della sua esistenza? E come possiamo averne "esperienza attendibile"? Il livello minimo della consapevolezza-di-esistenza presuppone che qualcuno percepisca qualcosa, fossero anche solo i suoni o i segni che rimandano ad altro-da-loro... ma credere che qualcosa esiste solo perché ha un nome ci porta sul piano (legittimo ma non epistemico) della "fede" e della "mistica"...Citazione di: maral il 25 Settembre 2016, 00:20:29 AMI dizionari e le grammatiche fissano le lingue esistenti temporaneamente a mezzo di convenzioni, ma non è certo dai dizionari e dalle grammatiche che nascono le lingue. Ossia le lingue possono portare a convenzioni sull'uso dei termini, ma non viceversa. Non mi pare risulti a nessun antropologo che per cominciare a parlare una lingua si sia iniziato con il convenirne un dizionario, scritto o orale che fosse.
Ovviamente non riconosco nei dizionari il documento fondante di una lingua, ma solo un "indice" (in tutti i sensi!) di quanto la lingua sia "costruita" non "scoperta", al punto che è necessario archiviare la forma che si è
deciso (senza necessità intrinseca) di condividere...
Citazione di: maral il 25 Settembre 2016, 00:20:29 AMnessuna comunità fa questa scelta, cioè nessuna comunità si è mai trovata davanti a qualcosa di rosso e ha cominciato a discutere se chiamare quel colore rosso o red, mettendosi d'accordo magari per alzata di mano a maggioranza come suonava meglio. Anche perché se ci fosse mai stata questa discussione le parole avrebbero ben dovuto già esserci e dunque, di nuovo, come per i numeri, per avere le parole, ci vogliono delle parole!
Sulla non accademicità e sui tempi lunghi della costituzione della lingua, avevo già puntato l'attenzione nel post precedente: che il processo sia lungo, spontaneo, non strutturato e non supervisionato, non implica che non ci sia invenzione (l'esempio dei neologismi mi sembra ancora calzante...). Se "per avere parole ci vogliono delle parole"(cit.), "per avere note musicali ci vogliono note musicali"? Lo sforzo è proprio quello di cercare di porsi prima cronologicamente dell'attuale ovvietà del "parlare con parole", o "suonare con le note"...P.s. Su Severino mi dovrei documentare adeguatamente, ma forse (e magari prendo una grossa cantonata!) resta anche lui dentro una "fede metafisica", seppur parmenidea e non eraclitea...
In paul11 109 si faceva riferimento alla ripartizione Potteriana in tre mondi. Riflettendo sul terzo mondo, "contenuti oggettivi di pensiero", mi veniva da pensare che tale mondo in effetti sintetizza le realtà simboliche. Il simbolo, come oggetto fisico che esprime uno stato, una percezione interiore, non è né parte del mondo fisico, né di quello del pensiero. Le teorie scientifiche sono infatti strutture simboliche che esprimono un'intuizione, ma anche una serie di eventi fisici. Anche le opere d'arte possono essere considerate come simbolo espressivo di quell'emozionalità che l'artista cerca di trasmettere.
Paul11, in 126, diceva che la scelta dell'ambito di interpretazione semantico viene dalle motivazioni individuali, ma da dove vengono le motivazioni. Ad esempio nel caso dei bambini più creativi noi notiamo che loro ne hanno più bisogno perché sanno meno cose e hanno bisogno di costruire delle risposte. Lo stesso ragionamento si può fare per le mitologie antiche, si usava la fantasia per compensare un vuoto di conoscenza, mentre oggi se ne ha meno bisogno.
Sulla questione dell'innatismo dei numeri riflettevo su una situazione per me tipica, cioè la sensazione di avere ancora una cosa da fare, tra quelle programmate, come se il cervello le contasse e, pur non ricordando cosa bisogna fare, sa che rimane una cosa da fare. Il discorso per me si associa a quella ricerca per la quale sembra che i pulcini abbiano una percezione istintiva del numero dei chicchi di mangime a terra, cioè in qualche modo li contano e organizzano i loro movimenti di conseguenza, o alle ricerche antropologiche su non ricordo quale tribù i cui componenti, pur non avendo concetti di numeri, si accorgevano perfettamente della mancanza di qualche capo di bestiame.
:-* :-* :-*
Citazione di: davintro il 23 Settembre 2016, 16:46:21 PM
io credo che in linea generale sia un errore far coincidere la concreta applicazione di un processo mentale con l'apprensione dei contenuti di tale processo. Le pratiche di apprendimento di una funzione sviluppano la funzionalità di un processo mentale, ma senza creare il processo "ex nihilo". Se così non fosse allora si potrebbe, utilizzando tecniche didattiche standard, insegnere a contare, leggere, scrivere, a qualunque essere vivente, indipendentemente dalla struttura interiore mentale del soggetto che si ha di fronte. In realtà nell'uomo (ma non con altri mammiferi, ora non sono uno zoologo e non so se con altri animali come le scimmie si sia arrivati a risultati soddisfcenti da far pensare ad analogie con l'uomo) le tecniche didattiche possono aver successo perchè non autosufficienti, ma perchè nella loro opera si armonizzano non con una tabula rasa, ma una mente predisposta ad accoglierla. Questa ovvietà potrebbe far pensare ad una mera dinamica potenzialità innata-attualità concreta esterna che fà passare dalla potenza all'atto il processo mentale. Invece, come già provato a dire all'inizio della discussione, limitarsi ad ammettere una potenzialità equivale a non spiegare nulla. La potenzialità fintanto che resta tale è un mero non-essere, dunque impossibilitata ad intervenire concretamente, completando l'azione proveniente dall'esterno. Tutto ciò che è reale è attuale, dunque la predisposizione nei processi mentali, in quanto fatto reale e concreto, presuppone l'esistenza di un'attualità originaria e interiore che converge con la causalità esteriore per produrre l'applicabilità dei processi. Una mera potenzialità astratta non potrebbe mai porsi come fattore concreto nella costituzione di alcunche, resterebbe una pura idea, e l'idea senza attualità reale, è solo una staticità che non può partecipare ad alcuna dinamica
Nel caso dei numeri, ipotizzo che la predisposizione umana alla quantificazione preuspponga un innata, o meglio originaria, apprensione intuitiva del significato intelligibile dei numeri, che però resta impossibilitata ad essere espressa linguisticamente fintanto che non trova dei segni sensibili per comunicarla, e in assenza di un linguaggio adeguato il bambino ripiegherebbe su concetti qualitativi, come giustamente osservato da Phil, "tanto", "poco". L'apprendimento dei numeri implica l'associazione tra il segno sensibile e il significato intelligibile, ma questa associzione non potrebbe aver luogo se uno dei due termini, il significato intelligibile, non fosse già presente nel bambino a prescindere dall'apprensione di contenuti sensibili esteriori (a meno di non ipotizzare una sorta di telepatia, di comunicazione mentale intersoggettiva senza mediazioni sensibili!)
Per quanto riguarda il nesso che Phil rilevava tra affermazione dell'innatismo e esigenza sociale e politica di identificare il modello intepretativo dell'uomo proveniente da una certa tradizione culturale, con una naturalità originaria ed unica possibile, direi, sempre che abbia compreso il senso dell'osservazione, che è una tesi valida e condivisibile. Al tempo stesso credo però si possa anche dire che le posizioni antiinnatistiche siano in un altro senso funzionali a livello ideologico. Penso a tutte le dottrine politiche totalitarie e rivoluzionarie intenzionate ad edificare modelli di società totalmente nuovi e rivoluzionari, la cui edificazione presupporebbe una netta trasformazione dell'uomo, che per essere adeguato alla nuova società, deve il più possibile essere descritto come realtà fluida e plasmabile da interventi esterni. Quanto più invece l'uomo viene visto come realtà avente in sè dei caratteri stabili e presenti indipendetemente dagli influssi dell'ambiente circostante, tanto più si pone un limite alla possibilità di maniplazione con cui un qualsivoglia potere intenda intervenire per modificare la natura umana in relazione ai suoi fini ideologici. Quindi entrambe le posizioni in campo posso essere viste come convenienti o sconvenienti in relazione alla natura ideologica di un approccio politico, senza che si debba vedere una delle due come un'illusione costruita ad hoc per certe istanze sociali
Io ho l'impressione che questa visione del rapporto tra innatismo e socialità, dipendente da una visione ideologica, sfugga a una domanda di verità di fondo. L'individuo sociale prende le idee da altri individui, tali idee o sono innate negli altri o sono socialmente determinate. Nel secondo caso il discorso diventa ciclico, solo nel primo abbiamo fatto un passo avanti e dobbiamo solo spiegare da dove vengono le idee che sono sempre in origine innate.
Citazione di: anthonyi il 25 Settembre 2016, 13:46:16 PMSulla questione dell'innatismo dei numeri riflettevo su una situazione per me tipica, cioè la sensazione di avere ancora una cosa da fare, tra quelle programmate, come se il cervello le contasse e, pur non ricordando cosa bisogna fare, sa che rimane una cosa da fare. Il discorso per me si associa a quella ricerca per la quale sembra che i pulcini abbiano una percezione istintiva del numero dei chicchi di mangime a terra, cioè in qualche modo li contano e organizzano i loro movimenti di conseguenza, o alle ricerche antropologiche su non ricordo quale tribù i cui componenti, pur non avendo concetti di numeri, si accorgevano perfettamente della mancanza di qualche capo di bestiame.
CitazioneNon vedo che cosa ci sia di problematico nel notare la differenza fra un gruppo di tre vacche e uno di quattro vacche (e con un po' di pratica, di "allenamento" fra un gruppo di 47 e un gruppo di 48) senza avere nozione dei numeri, e dunque come la cosa possa puntellare la pretesa conoscenza innata dei numeri (e la conoscenza innata in generale).
Anche qualsiasi animale che sicuramente non possiede linguaggio e dunque non ha nozione (nè innata, né acquisita a posteriori) dei significati dei vocaboli "largo" e "stretto" sa distinguere benissimo un pertugio stretto in cui non può passare per ripararsi da un predatore da un pertugio largo che può offrirgli l' occasione di scappare al pericolo di essere divorato.
Citazione di: davintro il 23 Settembre 2016, 16:46:21 PM
io credo che in linea generale sia un errore far coincidere la concreta applicazione di un processo mentale con l'apprensione dei contenuti di tale processo. Le pratiche di apprendimento di una funzione sviluppano la funzionalità di un processo mentale, ma senza creare il processo "ex nihilo". Se così non fosse allora si potrebbe, utilizzando tecniche didattiche standard, insegnere a contare, leggere, scrivere, a qualunque essere vivente, indipendentemente dalla struttura interiore mentale del soggetto che si ha di fronte. In realtà nell'uomo (ma non con altri mammiferi, ora non sono uno zoologo e non so se con altri animali come le scimmie si sia arrivati a risultati soddisfcenti da far pensare ad analogie con l'uomo) le tecniche didattiche possono aver successo perchè non autosufficienti, ma perchè nella loro opera si armonizzano non con una tabula rasa, ma una mente predisposta ad accoglierla. Questa ovvietà potrebbe far pensare ad una mera dinamica potenzialità innata-attualità concreta esterna che fà passare dalla potenza all'atto il processo mentale. Invece, come già provato a dire all'inizio della discussione, limitarsi ad ammettere una potenzialità equivale a non spiegare nulla. La potenzialità fintanto che resta tale è un mero non-essere, dunque impossibilitata ad intervenire concretamente, completando l'azione proveniente dall'esterno. Tutto ciò che è reale è attuale, dunque la predisposizione nei processi mentali, in quanto fatto reale e concreto, presuppone l'esistenza di un'attualità originaria e interiore che converge con la causalità esteriore per produrre l'applicabilità dei processi. Una mera potenzialità astratta non potrebbe mai porsi come fattore concreto nella costituzione di alcunche, resterebbe una pura idea, e l'idea senza attualità reale, è solo una staticità che non può partecipare ad alcuna dinamica
Nel caso dei numeri, ipotizzo che la predisposizione umana alla quantificazione preuspponga un innata, o meglio originaria, apprensione intuitiva del significato intelligibile dei numeri, che però resta impossibilitata ad essere espressa linguisticamente fintanto che non trova dei segni sensibili per comunicarla, e in assenza di un linguaggio adeguato il bambino ripiegherebbe su concetti qualitativi, come giustamente osservato da Phil, "tanto", "poco". L'apprendimento dei numeri implica l'associazione tra il segno sensibile e il significato intelligibile, ma questa associzione non potrebbe aver luogo se uno dei due termini, il significato intelligibile, non fosse già presente nel bambino a prescindere dall'apprensione di contenuti sensibili esteriori (a meno di non ipotizzare una sorta di telepatia, di comunicazione mentale intersoggettiva senza mediazioni sensibili!)
Per quanto riguarda il nesso che Phil rilevava tra affermazione dell'innatismo e esigenza sociale e politica di identificare il modello intepretativo dell'uomo proveniente da una certa tradizione culturale, con una naturalità originaria ed unica possibile, direi, sempre che abbia compreso il senso dell'osservazione, che è una tesi valida e condivisibile. Al tempo stesso credo però si possa anche dire che le posizioni antiinnatistiche siano in un altro senso funzionali a livello ideologico. Penso a tutte le dottrine politiche totalitarie e rivoluzionarie intenzionate ad edificare modelli di società totalmente nuovi e rivoluzionari, la cui edificazione presupporebbe una netta trasformazione dell'uomo, che per essere adeguato alla nuova società, deve il più possibile essere descritto come realtà fluida e plasmabile da interventi esterni. Quanto più invece l'uomo viene visto come realtà avente in sè dei caratteri stabili e presenti indipendetemente dagli influssi dell'ambiente circostante, tanto più si pone un limite alla possibilità di maniplazione con cui un qualsivoglia potere intenda intervenire per modificare la natura umana in relazione ai suoi fini ideologici. Quindi entrambe le posizioni in campo posso essere viste come convenienti o sconvenienti in relazione alla natura ideologica di un approccio politico, senza che si debba vedere una delle due come un'illusione costruita ad hoc per certe istanze sociali
Io ho l'impressione che questa visione del rapporto tra innatismo e socialità, dipendente da una visione ideologica, sfugga a una domanda di verità di fondo. L'individuo sociale prende le idee da altri individui, tali idee o sono innate negli altri o sono socialmente determinate. Nel secondo caso il discorso diventa ciclico, solo nel primo abbiamo fatto un passo avanti e dobbiamo solo spiegare da dove vengono le idee che sono sempre in origine innate.
CitazioneChe l' uomo sia un animale sociale (e politico) e dunque di fatto l' apprendimento per lo meno della stragrande maggioranza dei concetti avviene "per insegnamento ricevuto" o "trasmissione culturale" (e non per "scoperta diretta") non mi sembra comporti alcun circolo vizioso (nè regressione all' infinito); né tantomeno mi sembra che ciò imponga di credere all' innatismo dei concetti in coloro che per primi li hanno pensati e insegnati ad altri.
A Davintro:
Le pratiche di apprendimento di una funzione sviluppano la funzionalità di un processo mentale, ma senza creare il processo assolutamente "ex nihilo" (a mo di creazione divina) bensì dalle mere potenzialità comportamentali innate, attuate ("rese reali", da mere potenzialità che erano. nulla di attualmente reale) dall' occasione dell' esperienza.
Le tecniche didattiche possono aver successo perchè non autosufficienti, ma perchè nella loro opera si armonizzano, ma una mente predisposta ad accoglierla, molto ben illustrata dalla metafora della tabula rasa; la quale per essere "rasa", cioé non avere scritto nulla a priori, non é "il nulla": é fatta di un certo o di un cero altro materiale (lavagna, carta, vetro, metallo, marmo, ecc.) e ha determinate caratteristiche fisiche o determinate altre (é liscia, ruvida, grande, piccola, ecc.), dipendentemente dalle quali caratteriostiche può ricevere, comunque sempre necessariamente a posteriori un tipo di scrittura piuttosto che un altro tipo (vernice apposta da un pennello, segni realizzati con gesso, incisi con uno scalpello, vergati con inchiostro; anche molto estesi se sufficientemente grande oppure solo minuscoli se insufficientemente grande, ecc.; fuor di metafora: può imparare meglio grazie a questo o quel metodo didattico, preferibilmente questo genere di nozioni o quest' altro).
La potenzialità fintanto che resta tale non è un mero (assoluto) non-essere, bensì una "predisposizione" reale, che esercita determinati effetti (=attualizza determinate potenzialità) in seguito ad azioni provenienti dall'esterno (esperienza a posteriori); ovviamente qualora -se e quando- queste accadano realmente.
Non solo tutto ciò che è reale è attuale, lo sono anche "potenzialità" (per esempio la fragilità reale del vetro e non reale dell' acciaio): dunque la predisposizione nei processi mentali, in quanto fatto reale e concreto, presuppone l'esistenza di un'a realtà originaria e interiore, la quale é limitata a mera "predisposizione", come quella ad essere scritta con inchiostro e non con uno scalpello che é propria di una tabula rasa di carta e non di marmo, che converge a posteriori con la causalità esteriore (l' esperienza sensibile) per produrre l' applicazione (non l' applicabilità, che c' è già prima) dei processi (di astrazione).
Una mera potenzialità reale può dunque ben porsi come fattore concreto nella costituzione (attuazione) delle conseguenze della sua interazione causale (a posteriori) con un "opportuno" fattore ' esterno (nella fattispecie l' esperienza sensibile).
Ecco come limitarsi ad ammettere una potenzialità (e nulla di attuale)innata equivale a spiegare tutto della conoscenza umana.
Citazione di: Phil il 25 Settembre 2016, 12:22:53 PM
@paul11
Mi sbilancerei nel sostenere che c'è più fertilità, futuribilità, nei discorsi epistemici degli "analitici" che nelle congetture metafisiche dei "continentali"... la vita come "codice" è una lettura, metaforica, che dà la ragione umana, ma come sempre, c'è il rischio di scambiare il significante che si legge con il significato, ovvero di pensare che la vita sia davvero un codice, mentre è solo il nostro modo di leggerla che la interpreta così (con tutti i rischi di fraintendimento che ogni interpretazione pone...).
Semmai cercano l'epistemico,,,,,ma non lo trovano....girano in giro.
Val la pena leggerli per riflettere, sono una buona lettura anche loro.
Continui a confondere forma e sostanza.Esiste o no il DNA?
Se lo manipolano biogeneticamente e funziona ,un empirista come te non può metterlo in discussione.
Citazione di: paul11 il 25 Settembre 2016, 17:39:17 PMContinui a confondere forma e sostanza.
Non posso conoscere una sostanza senza una forma (o meglio, senza "formalizzarla", senza "informarla"), ma sono disposto ad ammettere che ci possa essere una sostanza a prescindere dalla forma... perché la formalizzazione è semplicemente il mio modo di rapportarmi al mondo, ma credo che essa non sia affatto necessaria per la sussistenza della sostanza del/nel mondo...Citazione di: paul11 il 25 Settembre 2016, 17:39:17 PMEsiste o no il DNA?
Il DNA è sempre una definizione (linguistica-concettuale) umana, che ci consente di operare, magari ottenendo buoni risultati, ma da un punto di vista extra-umano (consentimi di cambiare faticosamente prospettiva per un attimo), il DNA non esiste, così come non esiste "il ramo" che taglio per ottenere "un bastone", sono solo discriminazioni percettive, identità-definizioni concettuali... gli enti esistono concettualmente solo se vengono definiti con identità linguistiche (simboli, segni, suoni...), ma questo è sempre e solo il nostro "sistema operativo" per interfacciarci con il reale, non è mai la realtà (ammettendo che esista), che scommetterei non è affatto linguistica (anche se noi possiamo ragionarci solo "linguistizzandola"...).Citazione di: paul11 il 25 Settembre 2016, 17:39:17 PMun empirista come te non può metterlo in discussione.
Le "etichette" sono come i soprannomi, debbono darceli gli altri, non possiamo sceglierceli... ad esempio, personalmente, non mi vedo affatto "empirista", se proprio dovessi mettermi un "distintivo" (e perché mai?) preferirei piuttosto "relativista ermeneuta zen", ma capisco che non è affatto esplicito e funzionale ;D
Concordo sull'osservazione di Anthony sul fatto che ricondurre la formazione di idee alla "società" non può essere fattore di un totale superamento della diatriba innatismo-antiinnatismo, a meno di pensare alla "società" come un qualcosa di totalmente astratto e separato dagli uomini che la creano, una struttura che sembra quasi scendere da un altro pianeta ad influenzare la mente delle persone, senza che queste possano avere alcun ruolo attivo nell'essere di tale struttura. Nelle posizioni estreme di tale posizione si cade in certe derive quasi paranoide, l'idea che tutto ciò che pensiamo e facciamo in fondo non abbia nulla a che fare con la nostra soggettività (che sarebbe vuota passività), ma sia solo frutto di un'influenza di qualche entità esteriore che ci manipola togliendoci di fatto il libero e la responsabilità l'idea che siamo tutte marionette mosse da un misterioso burattinaio, la società. Considerando la società invece come un fatto, una produzione umana, allora mi pare evidente che ciò che proviene dalla società dovrebbe avere comunque la sua origine nell'uomo, e la ricerca dell'origine ricade nella ciclicità di due termini "uomo" e "società" nella quale nessuno dei due sembra potersi porre come fondativo dell'altro e dove il dibattito pro-contro l'innatismo sembra protrarsi all'infinito
restando alla metafora del foglio bianco che seppur tabula rasa è predisposto a lasciarsi scrivere, occorrerebbe rendere ragione ciò che ha prodotto la "predisposizione" del foglio a permettere di essere usato per scrivere, la sua potenzialità di porsi come materia per un certo tipo di segnatura. A questo punto la domanda è "cosa ha fatto sì che il foglio sia predisposto a poterci scrivere sopra?" fuor di metafora "cosa rende la mente umana, a differenza della mente di un altro animale a poter essere sviluppata in vista di certe funzionalità?". Il foglio è statto progettato, immagino, per il fine di essere usato come carta per scrivere, quindi potremmo dire che il foglio possiede una sua"innatezza", una sua "originarietà"che corrisponde al progetto ideale con cui è stato fabbricato nella mente dell'artigiano o del progettatore industriale, e nel caso della mente umana occorre chiederci quale sia la causa ragion d'essere del suo essere predisposta così come è, con tutte le sue funzionalità. Nel momento in cui tale ragion d'essere viene ricondotta a qualunque processo mentale (compresa l'astrazione, o la didattica) che a sua volta è resa possibile dalla predisposizione stessa, si cade, come avevo già fatto notare, in una sorta di circolo vizioso per cui ciò che devo spiegare (la predisposizione) è tra le ragioni d'essere di ciò che dovrebbe spiegare (tutti i processi mentali che presuppongono tale predisposizione). Se è vero che la potenzialità non è un mero non-essere, ma una condizione necessaria per giustificare qualunque darsi di un evento (il mio camminare sarebbe inspiegabile senza la mia potenzialità di camminare), è anche vero che un essere che ha la potenzialità di svolgere una funzione o contribuire al realizzarsi di un fenomeno, questa potenzialità ce l'ha come conseguenza di qualcosa che potenziale non è, ma attuale e reale, una causalità concretamente agente che interviene sull'essere in questione dandogli una serie limitata di potenzialità. La fragilità del vetro dà al vetro la potenzialità di essere infranto, ma questa potenzialità è la conseguenza della attuale, non potenziale, struttura del vetro, i suoi legami fisici, chimici concretamente reali, così come la predisposizione innata della mente è la conseguenza di una causalità agente che fà sì che la mente sia predisposta a delle funzioni e non ad altre
Citazione di: davintro il 26 Settembre 2016, 01:32:29 AM
restando alla metafora del foglio bianco che seppur tabula rasa è predisposto a lasciarsi scrivere, occorrerebbe rendere ragione ciò che ha prodotto la "predisposizione" del foglio a permettere di essere usato per scrivere, la sua potenzialità di porsi come materia per un certo tipo di segnatura. A questo punto la domanda è "cosa ha fatto sì che il foglio sia predisposto a poterci scrivere sopra?" fuor di metafora "cosa rende la mente umana, a differenza della mente di un altro animale a poter essere sviluppata in vista di certe funzionalità?". Il foglio è statto progettato, immagino, per il fine di essere usato come carta per scrivere, quindi potremmo dire che il foglio possiede una sua"innatezza", una sua "originarietà"che corrisponde al progetto ideale con cui è stato fabbricato nella mente dell'artigiano o del progettatore industriale, e nel caso della mente umana occorre chiederci quale sia la causa ragion d'essere del suo essere predisposta così come è, con tutte le sue funzionalità. Nel momento in cui tale ragion d'essere viene ricondotta a qualunque processo mentale (compresa l'astrazione, o la didattica) che a sua volta è resa possibile dalla predisposizione stessa, si cade, come avevo già fatto notare, in una sorta di circolo vizioso per cui ciò che devo spiegare (la predisposizione) è tra le ragioni d'essere di ciò che dovrebbe spiegare (tutti i processi mentali che presuppongono tale predisposizione). Se è vero che la potenzialità non è un mero non-essere, ma una condizione necessaria per giustificare qualunque darsi di un evento (il mio camminare sarebbe inspiegabile senza la mia potenzialità di camminare), è anche vero che un essere che ha la potenzialità di svolgere una funzione o contribuire al realizzarsi di un fenomeno, questa potenzialità ce l'ha come conseguenza di qualcosa che potenziale non è, ma attuale e reale, una causalità concretamente agente che interviene sull'essere in questione dandogli una serie limitata di potenzialità. La fragilità del vetro dà al vetro la potenzialità di essere infranto, ma questa potenzialità è la conseguenza della attuale, non potenziale, struttura del vetro, i suoi legami fisici, chimici concretamente reali, così come la predisposizione innata della mente è la conseguenza di una causalità agente che fà sì che la mente sia predisposta a delle funzioni e non ad altre
Rilevato che la questione qui posta é diversa da quella filosofica (gnoseologica o epistemologica) della natura a priori o a posteriori, innata o acquisita della conoscenza), trovo ad essa una risposta scientifica: la selezione naturale per mutazioni genetiche causali e selezione naturale.
Le predisposizioni innate della mente sono conseguenza del divenire della mente correlato al divenire del cevello, il quale
è la conseguenza di una causalità agente costituita dall' evoluzione biologica (nessun processo mentale reso possibile dalla predisposizione stessa, dunque nessun circolo vizioso!); questa causalità agente ha fatto sì che il cervello umano funzioni in un certo modo; e non conseguentemente al suo funzionamento ma comunque "correlatamente" ad esso funziona la mente umana, esplicando in seguito all' esperienza (che ne determina l' attuazione) le sue potenzialità conoscitive.
Citazione di: sgiombo il 25 Settembre 2016, 10:10:21 AM
Ma se usiamo quelli a me comprensibili di "cosa reale" (indipendentemente dall' eventuale essere anche pensato, dall' essere inoltre oggetto di pensiero, eventualmente di conoscenza vera) e "concetto pensato" (reale unicamente in quanto pensato; anche se può esistere -o meno- pure una "cosa reale" da esso denotata), allora non mi sembra che non abbia obiettato efficacemente a Phil: gli enti reali esistono anche indipendentemente dall' esistenza degli eventuali concetti che li denotassero, come dimostra l' esempio di "inflazione" intesa come concetto economico (che sul vocabolario ha una definizione diversa, pur sotto lo stesso lemma, di "inflazione" in senso fisico: per lo meno il primo concetto (l' aumento del denaro in circolazione e dei prezzi) con tutta evidenza non è innato, sempre esistito "inconsciamente" nella mente degli uomini in attesa che qualcuno lo conoscesse a priori: è stato "confezionato" dopo che qualcuno ha studiato l' economia capitalistica, e la parola che lo simboleggia é stata adottata da tutti i parlanti convenzionalmente. Se l' umanità si fosse estinta all' età della pietra nessuno avrebbe mai saputo a priori che cosa significa "inflazione" in senso economico.
Sgiombo se parliamo di "cose reali" filosoficamente complichiamo enormemente la faccenda rispetto al termine elementare di essente. Perché la realtà non è semplicemente data, ma si dà a ciascuno nelle sue rappresentazioni e stabilire un senso universalmente valido di questo darsi è impossibile. Richiamo ancora un passo da "Autopoiesi e cognizione" che, lo si condivida o meno, trovo interessante da proporre alla riflessione:
"Dato che la logica della descrizione è la stessa logica del sistema descrivente, possiamo asserire il
bisogno epistemologico di un substrato perché avvengano le interazioni,
ma non possiamo caratterizzare questo substrato in termini di proprietà indipendenti dall'osservatore.
Ne segue che la realtà come un universo di entità indipendenti delle quali possiamo parlare è necessariamente una finzione del dominio puramente descrittivo, e che noi dovremmo infatti applicare la nozione di realtà proprio a questo dominio di descrizioni col quale noi, il sistema descrivente, interagiamo con le nostre descrizioni come se fossero entità indipendenti, dunque la domanda su cosa sia l'oggetto della conoscenza" perde di ogni significato:
non vi è alcun oggetto di conoscenza, fondamentalmente conoscere è essere capace di operare adeguatamente in una situazione individuale o cooperativa (p.104).
A proposito del concetto di inflazione, che mi assicuri si riferisca originariamente al denaro (anche se io ne dubito), faccio notare che anche "denaro" è un concetto ed esiste solo come tale, dunque inflazione sarebbe un concetto applicato a un altro concetto, lo stesso vale per "tanto" e per "poco", anche loro concetti, come lo sono i numeri. "Tanto" e "poco" sono termini che risuonano più imprecisi rispetto ad esempio a "125307" o "2", ma non per questo meno astratti. Tanto e poco, come i numeri, si riferiscono a insiemi di oggetti distinguibili considerati astrattamente insieme, ma pure "insieme" e "distinguibile" sono concetti. Quindi è sempre tra concetti che ci si muove e non trovo che ci siano ragioni per fissarne una tipologia più "realistica" rispetto a un'altra, o, se ci fosse, bisognerebbe spiegare perché... ma per spiegarlo bisognerebbe ancora ricorrere a concetti, quindi la faccenda non si risolverebbe mai.
Citazione di: Phil il 25 Settembre 2016, 12:22:53 PM
Se un essente è (uso il tuo linguaggio, ma condivido con sgiombo la differenza "ente vs essente"), il suo essere dovrebbe logicamente avere una sua "dimensione" (sia essa meta-fisica, inconscia, iperuranica o altro), poiché ciò che è ma non ha "luogo", è solo il nulla in quanto concetto nominato. E non credo si possa parlare, almeno in occidente, di "innatismo dal nulla"...
Perfettamente d'accordo, nemmeno io sostengo l'innatismo dal nulla (e per questo nego che si inventi alcunché, se inventare è costruire gli enti dal loro nulla originario). Quello che nego è che il luogo dell'ente nascosto appaia, in quanto il luogo dell'ente (e lo stesso luogo in cui andarlo a cercare) è determinato dal suo apparire cosicché scopro l'ente insieme al luogo ove ha luogo, non quindi come essente, ma come esistente, ossia non in sé, ma per me. Prima l'ente non aveva luogo perché, pure essendo, non era per me (o per noi se lo condividiamo). Ma se l'ente non ha luogo, non sono propriamente nemmeno io a scoprirlo nel luogo, ma è esso a scoprire me che ho un luogo in cui poter essere scoperto e scoprendo me scopre se stesso.
Citazione di: sgiombo il 25 Settembre 2016, 10:10:21 AMMa i gruppi di cose simili diversamente numerosi (tre mele o tre pere, sette colli o sette laghi, dieci dita delle mani o dieci dita dei piedi, ecc.), esistevano prima dell' invenzione per astrazione da essi dei numeri naturali e della matematica.
E i rispettivi concetti astratti (i numeri naturali) esistono a posteriori, previa astrazione e non priori, nelle menti di chi li pensa.
Ma il problema è esattamente il medesimo: per dire che tre mele o sette colli esistevano prima di 3 e 7, occorre che 3 e 7 esistano; per contare fino a 3 e fino a 7 occorre che quei concetti esistano prima di contare e quindi non è che contando si arriva a definire il numero, ma contando facciamo esperienza del numero e quindi esso si mostra, ha luogo e ha luogo nel nostro contare.
Esattamente come per convenire sul significato delle parole è necessario che le parole ci siano, ossia è necessario che ci sia già un linguaggio comunicativo che abbia dei segni fonetici o gestuali che di fatto sono già parole.
Mi fermo qui per evitare di estendere troppo il discorso o dargli una vena eccessivamente polemica che nuocerebbe alla comprensione effettiva della questione.
Citazione di: maral il 26 Settembre 2016, 11:43:47 AM
Citazione di: sgiombo il 25 Settembre 2016, 10:10:21 AM
Sgiombo:
Ma se usiamo quelli a me comprensibili di "cosa reale" (indipendentemente dall' eventuale essere anche pensato, dall' essere inoltre oggetto di pensiero, eventualmente di conoscenza vera) e "concetto pensato" (reale unicamente in quanto pensato; anche se può esistere -o meno- pure una "cosa reale" da esso denotata), allora non mi sembra che non abbia obiettato efficacemente a Phil: gli enti reali esistono anche indipendentemente dall' esistenza degli eventuali concetti che li denotassero, come dimostra l' esempio di "inflazione" intesa come concetto economico (che sul vocabolario ha una definizione diversa, pur sotto lo stesso lemma, di "inflazione" in senso fisico: per lo meno il primo concetto (l' aumento del denaro in circolazione e dei prezzi) con tutta evidenza non è innato, sempre esistito "inconsciamente" nella mente degli uomini in attesa che qualcuno lo conoscesse a priori: è stato "confezionato" dopo che qualcuno ha studiato l' economia capitalistica, e la parola che lo simboleggia é stata adottata da tutti i parlanti convenzionalmente. Se l' umanità si fosse estinta all' età della pietra nessuno avrebbe mai saputo a priori che cosa significa "inflazione" in senso economico.
MARAL:
Sgiombo se parliamo di "cose reali" filosoficamente complichiamo enormemente la faccenda rispetto al termine elementare di essente. Perché la realtà non è semplicemente data, ma si dà a ciascuno nelle sue rappresentazioni e stabilire un senso universalmente valido di questo darsi è impossibile. Richiamo ancora un passo da "Autopoiesi e cognizione" che, lo si condivida o meno, trovo interessante da proporre alla riflessione:
"Dato che la logica della descrizione è la stessa logica del sistema descrivente, possiamo asserire il bisogno epistemologico di un substrato perché avvengano le interazioni,ma non possiamo caratterizzare questo substrato in termini di proprietà indipendenti dall'osservatore. Ne segue che la realtà come un universo di entità indipendenti delle quali possiamo parlare è necessariamente una finzione del dominio puramente descrittivo, e che noi dovremmo infatti applicare la nozione di realtà proprio a questo dominio di descrizioni col quale noi, il sistema descrivente, interagiamo con le nostre descrizioni come se fossero entità indipendenti, dunque la domanda su cosa sia l'oggetto della conoscenza" perde di ogni significato: non vi è alcun oggetto di conoscenza, fondamentalmente conoscere è essere capace di operare adeguatamente in una situazione individuale o cooperativa (p.104).
CitazioneSgiombo:
Maturana e Varela dovrebbero però, prima di affermare che la conoscenza è indipendente dall' osservatore, dimostrare che oltre alla realtà di quanto percepito fenomenicamente esiste anche un' osservatore (evidentemente dai fenomeni percepiti diverso, trattandosi di un' ulteriore ente reale oltre ad essi).
Ma poiché sostengono che non vi è alcun oggetto di conoscenza, non vedo come possano poi (immediatamente di seguito, a mo di conseguenza!) affermare che fondamentalmente conoscere è essere capace di operare adeguatamente in una situazione individuale o cooperativa: di quale "situazione individuale o cooperativa" e di quale "capacità di operare adeguatamente" parlano, se non vi è alcun oggetto di conoscenza (dunque nemmeno è conoscibile –oggetto di conoscenza- alcuna "situazione individuale o cooperativa" né alcun "operatore più o meno adeguato ad essa")?
Se invece intendessero dire (non li ho letti, e trovo oscura la tua citazione, che forse potrebbe essere intesa in questo senso) che ciò che può essere conosciuto è unicamente costituito da sensazioni o insiemi di sensazioni, fenomeni e non "realtà in sé o noumeno sarei perfettamente d' accordo.
Ma ciò non toglie che gli enti reali conoscibili e conosciuti (fenomenici, certo!) esistono anche indipendentemente dall' esistenza degli eventuali concetti che li denotassero (percepiti mentalmente come ulteriori fenomeni "cogitans"), e dall' eventuale accadere della loro conoscenza, che avviene a posteriori (se e quando pure avviene), dopo che gli enti reali fenomenici (costituiti da sensazioni: "esse est percipi"!) sono appunto percepiti o sentiti -ovvero appaiono, accadono come fenomeni- e non apriori; in particolare la conoscenza di concetti astratti come "inflazione" (in senso fisico; e in senso economico a maggior ragione), che vengono ricavati dall' astrazione di caratteristiche comuni a più enti o eventi (ovviamente fenomenici) particolari e concreti (nel caso di "inflazione da più processi concreti di rigonfiamento come il lievitare del pane, il gonfiarsi di un palloncino in cui si soffia, il dilatarsi di una bolla di sapone con cui gioca un bambino, il riempirsi di un sacco di farina, il crescere della pancia di una donna incinta, ecc.).
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MARAL:
A proposito del concetto di inflazione, che mi assicuri si riferisca originariamente al denaro (anche se io ne dubito), faccio notare che anche "denaro" è un concetto ed esiste solo come tale, dunque inflazione sarebbe un concetto applicato a un altro concetto, lo stesso vale per "tanto" e per "poco", anche loro concetti, come lo sono i numeri. "Tanto" e "poco" sono termini che risuonano più imprecisi rispetto ad esempio a "125307" o "2", ma non per questo meno astratti. Tanto e poco, come i numeri, si riferiscono a insiemi di oggetti distinguibili considerati astrattamente insieme, ma pure "insieme" e "distinguibile" sono concetti. Quindi è sempre tra concetti che ci si muove e non trovo che ci siano ragioni per fissarne una tipologia più "realistica" rispetto a un'altra, o, se ci fosse, bisognerebbe spiegare perché... ma per spiegarlo bisognerebbe ancora ricorrere a concetti, quindi la faccenda non si risolverebbe mai.
CitazioneSgiombo:
Veramente non ti ho assicurato che sia primitivo il concetto di "inflazione" in senso economico e derivato quello in senso fisico, dato che mi pare evidentissimo il contrario!
Che "tanto" e "poco", "insieme" e "distinzione" siano concetti astratti mi pare ovvio.
Così come che linguisticamente si ragiona "per concetti", mettendo in determinate relazioni concetti (più meno astratti).
Ma non vedo come queste ovvie considerazioni possano servire come argomenti a sostegno del preteso carattere innato a priori e non acquisito a posteriori, per esperienza (e ragionamenti sull' esperienza) delle conoscenze (in generale e dei concetti astratti in particolare).
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Citazione da: sgiombo - 25 Settembre 2016, 10:10:21 am
CitazioneMa i gruppi di cose simili diversamente numerosi (tre mele o tre pere, sette colli o sette laghi, dieci dita delle mani o dieci dita dei piedi, ecc.), esistevano prima dell' invenzione per astrazione da essi dei numeri naturali e della matematica.
E i rispettivi concetti astratti (i numeri naturali) esistono a posteriori, previa astrazione e non priori, nelle menti di chi li pensa.
MARAL:
Ma il problema è esattamente il medesimo: per dire che tre mele o sette colli esistevano prima di 3 e 7, occorre che 3 e 7 esistano; per contare fino a 3 e fino a 7 occorre che quei concetti esistano prima di contare e quindi non è che contando si arriva a definire il numero, ma contando facciamo esperienza del numero e quindi esso si mostra, ha luogo e ha luogo nel nostro contare.
Esattamente come per convenire sul significato delle parole è necessario che le parole ci siano, ossia è necessario che ci sia già un linguaggio comunicativo che abbia dei segni fonetici o gestuali che di fatto sono già parole.
Mi fermo qui per evitare di estendere troppo il discorso o dargli una vena eccessivamente polemica che nuocerebbe alla comprensione effettiva della questione.
CitazioneSgiombo:
Per dire che tre mele o sette colli esistevano ovviamente (si tratta di una tautologia!) occorre che esistano, nel bagaglio delle conoscenze di chi lo dice, i concetti di "3" e "7"; così come per contare occorre conoscere i numeri naturali.
Ma le cose reali, per esempio quelle costituite dalle tre mele o dai sette colli, esistono prima dei concetti astratti dei numeri "3" e "7" che eventualmente le denotassero: i sette colli su cui è sorta Roma esistevano anche quando nessun uomo li aveva visti e men che meno contati, anche prima che chiunque pensasse il concetto astratto del numero 7; e sarebbero esistiti anche se nessuno avesse mai saputo (men che meno a priori) della loro esistenza.
Pure un' ovvia tautologia mi pare l' affermazione che contando abbiamo sensazione dei numeri che pronunciamo, scriviamo, oppure pensiamo mentalmente contando.
Che oggi per convenire sul significato delle parole sia necessario che le parole ci siano (altrimenti del significato di che si converrebbe?), e che di fatto oggi ci sia già un linguaggio comunicativo non dimostra che il linguaggio, se non come mera potenzialità, sia sempre esistito.
So bene che Chomsky sostiene essere il linguaggio innato, ma amicus Chomsky, sed magis amica veritas (detto meno pomposamente: la sua autorità non basta a convincermi)
Provo a riordinare alcuni pezzi (e le idee...).
Per quanto riguarda
Citazione di: davintro il 26 Settembre 2016, 01:32:29 AMun essere che ha la potenzialità di svolgere una funzione o contribuire al realizzarsi di un fenomeno, questa potenzialità ce l'ha come conseguenza di qualcosa che potenziale non è, ma attuale e reale, una causalità concretamente agente che interviene sull'essere in questione dandogli una serie limitata di potenzialità.
essendomi già sbilanciato
Citazione di: Phil il 23 Settembre 2016, 22:39:59 PMDa profano, credo che questa attualità in cui risiede "realmente" la potenzialità della matematica, del linguaggio e della conoscenza in generale, sia una attualità di tipo fisiologico (neurologico? genetico? ancora da scoprire?). Potrebbe essere un tipo di predisposizione biologica
non posso che concordare con sgiombo, anche se probabilmente abbiamo una definizione differente di "mente" (per me è "l'insieme sistemico dei processi cerebrali di pensiero", ma non voglio innestare un discorso off topic già affrontato altrove).Sui concetti:
Citazione di: maral il 26 Settembre 2016, 11:43:47 AMè sempre tra concetti che ci si muove e non trovo che ci siano ragioni per fissarne una tipologia più "realistica" rispetto a un'altra, o, se ci fosse, bisognerebbe spiegare perché... ma per spiegarlo bisognerebbe ancora ricorrere a concetti, quindi la faccenda non si risolverebbe mai.
Mi sembra sia invece proprio la distinzione fra tipi o classi di concetti che rende possibile il ragionare e la conoscenza (su cui condivido il "prospettivismo" della citazione): dire "tanto" è molto più impreciso di dire "10", per cui sono concetti gerarchicamente differenti per affidabilità e precisione (a anche la rispettiva "astrazione" è differente per rigore), così come il concetto di "mio padre" e quello di "mio angelo custode" non sono qualitativamente accostabili perché uno dei due è ancorato alla percezione, alla comunicazione diretta, etc. mentre l'altro è una suggestione o una fede (quindi non sperimentata).
La scala che va dalla percezione/sensazione all'astrazione più sognante è fatta di pioli molto differenti fra loro, sia per utilità che per "solidità" (chi sta troppo in basso non vede molto, chi sta troppo in alto rischia di avere le vertigini e di cadere :) )
Sull'innatismo:
Citazione di: maral il 26 Settembre 2016, 11:43:47 AMnego che si inventi alcunché, se inventare è costruire gli enti dal loro nulla originario
Indubbiamente si inventa sempre partendo da ciò che si ha a disposizione, avevo già premesso che l'invenzione non è
ex nihilo...
Citazione di: maral il 26 Settembre 2016, 11:43:47 AM Quello che nego è che il luogo dell'ente nascosto appaia, in quanto il luogo dell'ente (e lo stesso luogo in cui andarlo a cercare) è determinato dal suo apparire cosicché scopro l'ente insieme al luogo ove ha luogo, non quindi come essente, ma come esistente, ossia non in sé, ma per me.
Credo che (escludendo iperuranio, inconscio, mondi paralleli, volere divino, etc.) resti aperta la domanda:Citazione di: Phil il 25 Settembre 2016, 12:22:53 PMSostenere che "qualcosa è, ma non è da nessuna parte fino a che non accade", non è una machiavellica perifrasi per dire "nasce" o, nel nostro caso, "viene inventato"?
Domanda non risolta dalla congettura
Citazione di: maral il 26 Settembre 2016, 11:43:47 AM Prima l'ente non aveva luogo perché, pure essendo, non era per me (o per noi se lo condividiamo).
Se non possiamo parlare di "fede metafisica" (giusto?), come possiamo affermare che "l'essente/ente era già, ma solo non era ancora localizzato", ovvero:
Citazione di: Phil il 25 Settembre 2016, 12:22:53 PMSe qualcosa non si manifesta come possiamo essere coscienti della sua esistenza?
Prima di questa manifestazione, fosse anche solo linguistica, se non è "fede metafisica" quella che ci spinge a dire "eppure già esisteva...", in base a cosa possiamo affermarlo? Se qualcosa non ha ancora un nome e non è in un luogo (o meta-luogo "virtuale"), come possiamo, al suo apparire, supporre retroattivamente che esistesse già da prima?Citazione di: maral il 26 Settembre 2016, 11:43:47 AMnon è che contando si arriva a definire il numero, ma contando facciamo esperienza del numero e quindi esso si mostra, ha luogo e ha luogo nel nostro contare. Esattamente come per convenire sul significato delle parole è necessario che le parole ci siano, ossia è necessario che ci sia già un linguaggio comunicativo che abbia dei segni fonetici o gestuali che di fatto sono già parole.
Come suggerivo: le note hanno senso solo nello spartito, ma lo spartito ha senso solo se contiene note... si scrive musica da sempre oppure partendo dal "modulare la voce" qualcuno ha inventato note e spartito?
Citazione di: davintro il 26 Settembre 2016, 01:32:29 AM
. Considerando la società invece come un fatto, una produzione umana, allora mi pare evidente che ciò che proviene dalla società dovrebbe avere comunque la sua origine nell'uomo, e la ricerca dell'origine ricade nella ciclicità di due termini "uomo" e "società" nella quale nessuno dei due sembra potersi porre come fondativo dell'altro e dove il dibattito pro-contro l'innatismo sembra protrarsi all'infinito
...
In un analisi teorica appropriata l'uomo può essere definito come fondamento della società, nel senso che le proprietà comportamentali che si assegnano a dati individui possono razionalmente costruire un equilibrio culturale che possiamo definire società. E' il contrario che non può essere fatto, nel senso che se definisci una realtà sociale devi implicitamente definire i suoi componenti, fermo restando l'esistenza di meccanismi educativi e di socializzazione che possono aumentare il numero di questi componenti.
Citazione di: sgiombo il 26 Settembre 2016, 19:18:06 PM
Maturana e Varela dovrebbero però, prima di affermare che la conoscenza è indipendente dall' osservatore, dimostrare che oltre alla realtà di quanto percepito fenomenicamente esiste anche un' osservatore (evidentemente dai fenomeni percepiti diverso, trattandosi di un' ulteriore ente reale oltre ad essi). Ma poiché sostengono che non vi è alcun oggetto di conoscenza, non vedo come possano poi (immediatamente di seguito, a mo di conseguenza!) affermare che fondamentalmente conoscere è essere capace di operare adeguatamente in una situazione individuale o cooperativa: di quale "situazione individuale o cooperativa" e di quale "capacità di operare adeguatamente" parlano, se non vi è alcun oggetto di conoscenza (dunque nemmeno è conoscibile –oggetto di conoscenza- alcuna situazione individuale o cooperativa" né alcun "operatore più o meno adeguato ad essa")?
Se invece intendessero dire (non li ho letti, e trovo oscura la tua citazione, che forse potrebbe essere intesa in questo senso) che ciò che può essere conosciuto è unicamente costituito da sensazioni o insiemi di sensazioni, fenomeni e non "realtà in sé o noumeno sarei perfettamente d' accordo.
Il discorso di Maturana e Varela parte dal tentativo di individuare il vivente a prescindere dalla descrizione che ne dà l'osservatore con la sua concettualità astratta che stabilisce astrattamente un mondo esterno che fornisce degli input e un mondo interno che li riceve e risponde con degli output. L'unità vivente funziona come una macchina autopoietica che varia di struttura conservando la propria organizzazione che la mantiene unitaria per cui non conosce nulla di ciò che sta fuori di essa (questo non significa che non vi è nulla fuori di essa, solo che non si può conoscere se non nelle sue rappresentazioni interne), ma continuamente funziona in situazioni individuali e cooperative, ossia interagendo. L'osservatore è solo una macchina autopoietica in grado di sviluppare un dominio linguistico che aumenta le sue possibilità di autopoiesi. In altre parole il processo cognitivo non conosce alcun "oggetto reale fuori di noi", ma è solo un continuo modo di relazionarsi per mantenersi.
Ovviamente,
come osservi, anche questo è detto da un osservatore che sceglie un contesto pragmatico (fondato sulle relazioni anziché sulle cose) in cui quello che dice risulta valido nel momento in cui riesce a superare le contraddizioni e i problemi di una metafisica tradizionale (compreso anche quello tra significato della cosa e cosa) che presuppone un mondo oggettuale esterno e uno interno, senza avvedersi che tutti gli enti che considera nella loro realtà oggettiva appartengono solo al discorso astratto dell'osservatore.
Anche che tre mele o sette colle esitevano prima che qualcuno ne avesse esperienza rientra nel discorso astratto dell'osservatore: come può dirlo? E' solo la sua esperienza attuale che glielo rivela (e , sia ben chiaro, non è che rivelandoglielo glielo fa inventare, come se fosse lui con il suo pensiero a creare i sette colli dal nulla), è solo in virtù della relazione attuale che ha con il mondo per come si riflette a lui come significato che può dire che "i sette colli su cui è sorta Roma esistevano anche quando nessun uomo li aveva visti e men che meno contati", ma nemmeno questo significato dei colli è sorto per progressive trasformazioni dentro la testa di qualcuno da un suo originario essere nulla, nemmeno esso si è creato.
CitazioneSo bene che Chomsky sostiene essere il linguaggio innato, ma amicus Chomsky, sed magis amica veritas (detto meno pomposamente: la sua autorità non basta a convincermi)
Ni stupisce questa tua affermazione, dato che Chomsky basa la sua asserzione sullo studio della costanza delle strutture sintattiche nelle diverse lingue, è un innatismo, il suo, fondato su una verifica oggettuale, nella quale mi pareva che anche tu credessi. Ma forse, come poi è un po' di tutti, lo accetti solo nella misura in cui non contrasta con i tuoi presupposti metafisici oggettuali a cui quella "veritas" pare alludere ;)
Citazione di: Phil il 26 Settembre 2016, 19:44:09 PM
Mi sembra sia invece proprio la distinzione fra tipi o classi di concetti che rende possibile il ragionare e la conoscenza (su cui condivido il "prospettivismo" della citazione): dire "tanto" è molto più impreciso di dire "10", per cui sono concetti gerarchicamente differenti per affidabilità e precisione (a anche la rispettiva "astrazione" è differente per rigore)
E perché mai? 10 ti dice quanti sono, "tanti" ti dice con pari esattezza e astrazione che quei dieci sono tanti che, in quanto tale, quel 10 non te lo dice. Non vedo quale maggiore finezza ci sia in un 10 rispetto a un "tanti", ognuno dei concetti ha la sua specificità e messi insieme si integrano reciprocamente in un significato più complesso.
Citazionecosì come il concetto di "mio padre" e quello di "mio angelo custode" non sono qualitativamente accostabili perché uno dei due è ancorato alla percezione, alla comunicazione diretta, etc. mentre l'altro è una suggestione o una fede (quindi non sperimentata).
Resta il fatto che la maggiore veridicità dell'uno rispetto all'altro è il risultato di un'interazione di significati, non è che i padri sono in sé e per sé e invece gli angeli custodi no. Entrambi sono significati che veniamo scoprendo (non inventando dal nulla) nei contesti di significato da cui la nostra esistenza cognitiva acquista un senso.
In realtà non ci sono pioli di una scala in salita, solo contesti diversi che riflettono possibilità di senso cognitivo diverse. E certamente trovandosi dislocati tra queste possibilità si cade, ma si cade perché non ci si trova in sintonia con quello che il mondo (qualsiasi cosa sia) ai più riflette e ci si può fare molto male, anche se si è sempre sul piano orizzontale che comunque ci si trova.
CitazioneIndubbiamente si inventa sempre partendo da ciò che si ha a disposizione, avevo già premesso che l'invenzione non è ex nihilo...
Infatti parlavo del nulla dell'ente, non del nulla assoluto. Il nulla dell'ente è la fede che quell'ente viene da qualcosa che non è quell'ente, dunque quel qualcosa che non è quell'ente è il suo niente (il niente di quell'ente). E' questa la contraddizione che un ente sia stato e sarò
il suo niente (Severino docet :) ).
CitazioneCredo che (escludendo iperuranio, inconscio, mondi paralleli, volere divino, etc.) resti aperta la domanda:[/size]
Sostenere che "qualcosa è, ma non è da nessuna parte fino a che non accade", non è una machiavellica perifrasi per dire "nasce" o, nel nostro caso, "viene inventato"?
Domanda non risolta dalla congettura
Se nascere vuol dire viene inventato nulla nasce, se vuol dire si lascia scoprire, allora ogni cosa (concetti compresi) possono nascere e quindi morire. Se iperuranio, inconscio, mondi paralleli, volere divino li intendiamo come luoghi ove si trovano gli enti che non appaiono è una contraddizione affermarlo, oiché se lo fossero in qualche modo quegli enti in quei luoghi sarebbero apparsi. Il luogo appare sempre solo insieme all'ente: l'ente è il luogo in cui si manifesta, ma quando non si manifesta nulla di esso appare, men che meno il luogo, ma questo non vuol dire che non è.
Citazione...Prima di questa manifestazione, fosse anche solo linguistica, se non è "fede metafisica" quella che ci spinge a dire "eppure già esisteva...", in base a cosa possiamo affermarlo? Se qualcosa non ha ancora un nome e non è in un luogo (o meta-luogo "virtuale"), come possiamo, al suo apparire, supporre retroattivamente che esistesse già da prima?
Sull'essere contraddizione il dire che qualcosa che assolutamente non è (che è il suo niente) poi si manifesta come quell'ente che è. A non può diventare B, perché B in quanto B è il niente di A così come A in quanto A è il niente di B.
CitazioneCome suggerivo: le note hanno senso solo nello spartito, ma lo spartito ha senso solo se contiene note... si scrive musica da sempre oppure partendo dal "modulare la voce" qualcuno ha inventato note e spartito?
Ma si può modulare la voce in un canto senza che vi siano note con cui modularla? Ci sono le note e c'è la voce, solo se sono messe insieme abbiamo un canto. Se poi il canto vogliamo anche riprodurlo, allora magari lo scriviamo pure e lo spartito allora ci garantisce nella sua scrittura il poter tornare ad apparire di quel canto quando la memoria fa difetto. Na il né il canto né le note diventano spartito.
CitazioneCuriosando su Chomsky, ho trovato questo articolo divulgativo che parla di innatismo, tanto/poco, e numeri
E' il bello della scienza, si possono sempre trovare prove che confutano una teoria (soprattutto in questo campo), figurati che io ho trovato pure un articolo che affermava che probabilmente non solo la sintassi fosse innata, ma pure la terminologia fosse riconducibile a un'unica fonte originaria. Comunque non ho problemi a dichiararmi d'accordo con Everett: grammatica e numeri si scoprono (e non si inventano) grazie alle interazioni sociali, esprimono relazioni non cose.
Citazione di: maral il 27 Settembre 2016, 22:26:37 PMIl nulla dell'ente è la fede che quell'ente viene da qualcosa che non è quell'ente
Prendo atto che è un discorso di fede (metafisica), per cui non mi ostino ad argomentare.
Grazie, dialogando con te mi sono chiarito ulteriormente le idee :)
Citazione di: maral il 27 Settembre 2016, 22:26:37 PME' il bello della scienza, si possono sempre trovare prove che confutano una teoria (soprattutto in questo campo), figurati che io ho trovato pure un articolo che affermava che probabilmente non solo la sintassi fosse innata, ma pure la terminologia fosse riconducibile a un'unica fonte originaria.
Se posti il link dell'articolo, lo leggo volentieri (se non è troppo "tecnico"!).
Lasciando fra parentesi la mia prospettiva, per poter comprendere meglio la tua (sperando di non abusare della tua disponibilità), ti chiederei come intendi l'
identità dell'ente, ovvero se
Citazione di: maral il 27 Settembre 2016, 22:26:37 PMA non può diventare B, perché B in quanto B è il niente di A così come A in quanto A è il niente di B.
Io, come ente, non sono il risultato di un processo in
divenire che risale al mio essere feto, prima embrione, prima spermatozoo e cellula uovo, e così via? Quando e
dove avviene il mio manifestarmi come "ente A"?
Citazione di: Phil il 28 Settembre 2016, 08:04:41 AMLasciando fra parentesi la mia prospettiva, per poter comprendere meglio la tua (sperando di non abusare della tua disponibilità), ti chiederei come intendi l'identità dell'ente, ovvero se
Citazione di: maral il 27 Settembre 2016, 22:26:37 PMA non può diventare B, perché B in quanto B è il niente di A così come A in quanto A è il niente di B.
Io, come ente, non sono il risultato di un processo in divenire che risale al mio essere feto, prima embrione, prima spermatozoo e cellula uovo, e così via? Quando e dove avviene il mio manifestarmi come "ente A"?
Scusa l'intromissione ma a me pare che, se A non diventa B e poi C ecc., non c'è proprio possibilità del
divenire. Si deve per forza arrivare alla conclusione che tutti gli enti già esistono, sono eterni, immutabili e il divenire è solamente l'apparire alla coscienza di questi enti. Praticamente il pensiero tenta di "cristallizzare" il mutamento spezzettandolo in frammenti eterni (Severino?... :-\ ). Come quasi ad affermare che un corso d'acqua è formato da infinite gocce immutabili ed eterne che, solamente perchè così "appaiono" all'osservatore, sembrano un corso fluido d'acqua. Ma come si risolve che il percettore percepisce il mutamento e non questi enti eterni? Secondo il mio modesto parere qui si intravedono veramente tutte le difficoltà e i limiti del pensiero designante che annaspa nel tentativo di fermare proprio il divenire, in un certo senso "attorcigliandosi" su se stesso, per darsi ragione del suo pensare. Come si fa a de-finire un qualcosa in perenne trasformazione?
Sembra quasi il desiderio, o il sogno, del pensiero umano di conservare "intatto" il mondo delle idee, di preservarlo dal di-venire stesso, percepito come una minaccia.
P.S: Perdonate il mio gettarmi a capofitto nelle discussioni di carattere filosofico, non avendone la competenza è sicuramente una dimostrazione di latente orgoglio... :-[ ma ben sapete che , alla passione, non si comanda!!
Citazione di: maral il 27 Settembre 2016, 21:09:08 PM
Il discorso di Maturana e Varela parte dal tentativo di individuare il vivente a prescindere dalla descrizione che ne dà l'osservatore con la sua concettualità astratta che stabilisce astrattamente un mondo esterno che fornisce degli input e un mondo interno che li riceve e risponde con degli output. L'unità vivente funziona come una macchina autopoietica che varia di struttura conservando la propria organizzazione che la mantiene unitaria per cui non conosce nulla di ciò che sta fuori di essa (questo non significa che non vi è nulla fuori di essa, solo che non si può conoscere se non nelle sue rappresentazioni interne), ma continuamente funziona in situazioni individuali e cooperative, ossia interagendo. L'osservatore è solo una macchina autopoietica in grado di sviluppare un dominio linguistico che aumenta le sue possibilità di autopoiesi. In altre parole il processo cognitivo non conosce alcun "oggetto reale fuori di noi", ma è solo un continuo modo di relazionarsi per mantenersi.
Ovviamente, come osservi, anche questo è detto da un osservatore che sceglie un contesto pragmatico (fondato sulle relazioni anziché sulle cose) in cui quello che dice risulta valido nel momento in cui riesce a superare le contraddizioni e i problemi di una metafisica tradizionale (compreso anche quello tra significato della cosa e cosa) che presuppone un mondo oggettuale esterno e uno interno, senza avvedersi che tutti gli enti che considera nella loro realtà oggettiva appartengono solo al discorso astratto dell'osservatore.
Anche che tre mele o sette colle esitevano prima che qualcuno ne avesse esperienza rientra nel discorso astratto dell'osservatore: come può dirlo? E' solo la sua esperienza attuale che glielo rivela (e , sia ben chiaro, non è che rivelandoglielo glielo fa inventare, come se fosse lui con il suo pensiero a creare i sette colli dal nulla), è solo in virtù della relazione attuale che ha con il mondo per come si riflette a lui come significato che può dire che "i sette colli su cui è sorta Roma esistevano anche quando nessun uomo li aveva visti e men che meno contati", ma nemmeno questo significato dei colli è sorto per progressive trasformazioni dentro la testa di qualcuno da un suo originario essere nulla, nemmeno esso si è creato.
CitazioneTrovo assai realistico e concreto il fatto che alcune sensazioni (immaginazioni, pensieri, ragionamenti, desideri, sentimenti, ecc. -"res cogitans"- sono solitamemnte discretamente (anche se non assolutamente) dominabili volontariamente (ho generalmente buone possibilità di concentrare la mia attenzione su certe determinate piuttosto che su certe determinate altre di esse; anche se vi sono casi di pensieri "assillanti" e di ricordi "non evocabili" malgrado sforzi "eroici"); mentre altre (di oggetti materiali -res extensa- come pietre, alberi, case, montagne, ecc.) invece non sono dominabili ad libitum dalla mia volontà (se non, molto limitatamente, agendo su di essi o allontanandomi da essi nel rispetto di inderogabili leggi del divenire naturale onde praticare mezzi atti a conseguire i miei scopi purché realistici).
Ritengo inoltre che eventuali conoscenze non possano essere conseguite dalla macchina umana omeostatica e sociale (corpo, cervello) ma casomai nell' ambito della coscienza che la "accompagna".
Ritengo che tutti gli enti ed eventi conoscibili sono fenomenici, facenti parte dell' esperienza cosciente; ma non che ci sia contraddizione fra significato della cosa e cosa (sono diverse "cose" o eventi, ma non concetti o predicati reciprocamente contraddittori).
La conoscenza circa la preesistenza dei sette colli alla conoscenza di essi si fonda su assunzioni indimostrabili, su questo concordo.
Ma (se la conoscenza scientifica é vera, come credo senza poterlo dimostrare) il colle é sorto, fuori da qualsiasi testa (ma nell' ambito di esperienze fenomeniche coscienti intersoggettive), per mutamenti geologici ove prima non c' era.
CitazioneSo bene che Chomsky sostiene essere il linguaggio innato, ma amicus Chomsky, sed magis amica veritas (detto meno pomposamente: la sua autorità non basta a convincermi)
Ni stupisce questa tua affermazione, dato che Chomsky basa la sua asserzione sullo studio della costanza delle strutture sintattiche nelle diverse lingue, è un innatismo, il suo, fondato su una verifica oggettuale, nella quale mi pareva che anche tu credessi. Ma forse, come poi è un po' di tutti, lo accetti solo nella misura in cui non contrasta con i tuoi presupposti metafisici oggettuali a cui quella "veritas" pare alludere ;)
Citazione
Confesso di conoscere Chomsky (come linguista; ho invece letto tutti o quasi i suoi scritti politici tradotti in italiano) solo "per sentito dire".
Ma ho sempre dissentito da ogni innatismo gnoseologico (che non sia di mere attitudini potenziali, attuate di fatto in seguito all' esperienza, a posteriori).
Inoltre sono convinto che il liguaggio (le lingue) sia (-no) una delle prime e fondamentali invenzioni "culturali" umane e non un comportamento istintivo innato biologicamente determinato, "naturale").
P.S.: Avendo già lungamente (e vanamente) discusso con Maral in altre occasioni nel vecchio forum le tesi "fissiste" parmenidee o piuttosto severiniane da lui sostenute (per me il divenire non é affatto contraddittorio, come sarebbe invece l' essere e non essere degli stessi enti nei medesimi lassi di tempo e intervalli di spazio), mi astengo dal ripetere vecchie argomentazioni in riposta alla sua replica a Phil.
Citazione di: Sariputra il 28 Settembre 2016, 08:31:55 AM
Citazione di: Phil il 28 Settembre 2016, 08:04:41 AMLasciando fra parentesi la mia prospettiva, per poter comprendere meglio la tua (sperando di non abusare della tua disponibilità), ti chiederei come intendi l'identità dell'ente, ovvero se
Citazione di: maral il 27 Settembre 2016, 22:26:37 PMA non può diventare B, perché B in quanto B è il niente di A così come A in quanto A è il niente di B.
Io, come ente, non sono il risultato di un processo in divenire che risale al mio essere feto, prima embrione, prima spermatozoo e cellula uovo, e così via? Quando e dove avviene il mio manifestarmi come "ente A"?
Scusa l'intromissione ma a me pare che, se A non diventa B e poi C ecc., non c'è proprio possibilità del divenire. Si deve per forza arrivare alla conclusione che tutti gli enti già esistono, sono eterni, immutabili e il divenire è solamente l'apparire alla coscienza di questi enti. Praticamente il pensiero tenta di "cristallizzare" il mutamento spezzettandolo in frammenti eterni (Severino?... :-\ ). Come quasi ad affermare che un corso d'acqua è formato da infinite gocce immutabili ed eterne che, solamente perchè così "appaiono" all'osservatore, sembrano un corso fluido d'acqua. Ma come si risolve che il percettore percepisce il mutamento e non questi enti eterni? Secondo il mio modesto parere qui si intravedono veramente tutte le difficoltà e i limiti del pensiero designante che annaspa nel tentativo di fermare proprio il divenire, in un certo senso "attorcigliandosi" su se stesso, per darsi ragione del suo pensare. Come si fa a de-finire un qualcosa in perenne trasformazione?
Sembra quasi il desiderio, o il sogno, del pensiero umano di conservare "intatto" il mondo delle idee, di preservarlo dal di-venire stesso, percepito come una minaccia.
P.S: Perdonate il mio gettarmi a capofitto nelle discussioni di carattere filosofico, non avendone la competenza è sicuramente una dimostrazione di latente orgoglio... :-[ ma ben sapete che , alla passione, non si comanda!!
CitazioneFai benissimo a gettarti nelle discussioni filosofiche (in base al principio "amicus quisquid -Platone, Chomsky, perfino Hume!!!-, sed magis amica veritas").
Condivido la sostanza delle tue considerazioni.
Preciserei (scusa la pignoleria) che enti ed eventi in perenne trasformazione (ed eventi) si possono definire (e conoscere scientificamente, se sono pure misurabili e intersoggettivi) se il loro divenire é ordinato sec. leggi universali e costanti (cosa indimostrabile: Hume! ma credibile "per fede"): una sorta di "sintesi dialettica" fra mutamento assoluto, integrale (caotico), "tesi", e fissità assoluta, integrale (parmenidea - severiniana), antitesi: mutamento di particolari concreti nel quale si possono astrarre modalità generali fisse e costanti.
Citazione di: sgiombo il 28 Settembre 2016, 11:30:38 AMCitazione di: Sariputra il 28 Settembre 2016, 08:31:55 AMCitazione di: Phil il 28 Settembre 2016, 08:04:41 AMLasciando fra parentesi la mia prospettiva, per poter comprendere meglio la tua (sperando di non abusare della tua disponibilità), ti chiederei come intendi l'identità dell'ente, ovvero se Citazione di: maral il 27 Settembre 2016, 22:26:37 PMA non può diventare B, perché B in quanto B è il niente di A così come A in quanto A è il niente di B.
Io, come ente, non sono il risultato di un processo in divenire che risale al mio essere feto, prima embrione, prima spermatozoo e cellula uovo, e così via? Quando e dove avviene il mio manifestarmi come "ente A"?
Scusa l'intromissione ma a me pare che, se A non diventa B e poi C ecc., non c'è proprio possibilità del divenire. Si deve per forza arrivare alla conclusione che tutti gli enti già esistono, sono eterni, immutabili e il divenire è solamente l'apparire alla coscienza di questi enti. Praticamente il pensiero tenta di "cristallizzare" il mutamento spezzettandolo in frammenti eterni (Severino?... :-\ ). Come quasi ad affermare che un corso d'acqua è formato da infinite gocce immutabili ed eterne che, solamente perchè così "appaiono" all'osservatore, sembrano un corso fluido d'acqua. Ma come si risolve che il percettore percepisce il mutamento e non questi enti eterni? Secondo il mio modesto parere qui si intravedono veramente tutte le difficoltà e i limiti del pensiero designante che annaspa nel tentativo di fermare proprio il divenire, in un certo senso "attorcigliandosi" su se stesso, per darsi ragione del suo pensare. Come si fa a de-finire un qualcosa in perenne trasformazione? Sembra quasi il desiderio, o il sogno, del pensiero umano di conservare "intatto" il mondo delle idee, di preservarlo dal di-venire stesso, percepito come una minaccia. P.S: Perdonate il mio gettarmi a capofitto nelle discussioni di carattere filosofico, non avendone la competenza è sicuramente una dimostrazione di latente orgoglio... :-[ ma ben sapete che , alla passione, non si comanda!! CitazioneFai benissimo a gettarti nelle discussioni filosofiche (in base al principio "amicus quisquid -Platone, Chomsky, perfino Hume!!!-, sed magis amica veritas"). Condivido la sostanza delle tue considerazioni. Preciserei (scusa la pignoleria) che enti ed eventi in perenne trasformazione (ed eventi) si possono definire (e conoscere scientificamente, se sono pure misurabili e intersoggettivi) se il loro divenire é ordinato sec. leggi universali e costanti (cosa indimostrabile: Hume! ma credibile "per fede"): una sorta di "sintesi dialettica" fra mutamento assoluto, integrale (caotico), "tesi", e fissità assoluta, integrale (parmenidea - severiniana), antitesi: mutamento di particolari concreti nel quale si possono astrarre modalità generali fisse e costanti.
Sono d'accordo. Non ci troviamo di fronte ad un divenire nel caos.
Pensa, ma quasi mi vergogno a dirlo, che trovo ci sia addirittura un "senso etico" a questo perenne mutamento. Ma non so come spiegarlo filosoficamente... :'(
Citazione di: Phil
Se posti il link dell'articolo, lo leggo volentieri (se non è troppo "tecnico"!).
Purtroppo non lo ritrovo, ma comunque non era un articolo, solo si annunciava che alcuni studiosi ritenevano, sulla base della analisi linguistica condotta su diverse lingue, che fosse possibile ravvisare una radice comune dei termini, mentre altri contestavano questo argomento sull'analisi di altri termini. In ogni caso la questione se sia o meno esistito un originario linguaggio universale (prima della mitica Babele), non credo sia determinante per stabilire se le parole esistono di per sé o meno.
Per quanto riguarda la questione sul divenire e come la intende Severino se ne è molto discusso a suo tempo nel vecchio forum. Comunque in breve Severino parte dalla tautologia di ogni ente che si basa sul principio di identità (A è A) su cui non si può dubitare. Se A è A non potrà mai essere qualcosa di diverso da A nella sua concreta presenza (ove concreta significa completamente definita) da quello che è, quindi non solo Phil che adesso legge questo messaggio è mai stato un oocita, né un embrione, né un feto, tutti enti diversi da quello che Phil che legge questo messaggio è, ma non è nemmeno il Phil che qualche ora fa scriveva un altro messaggio, anche costui è un ente diverso ed eterno, non potendo mai essere altro da quello che è. Severino considera la fede nel divenire la follia e la violenza estrema dell'Occidente (che si esercita ogni volta che si vuole far diventare una cosa un'altra cosa), appunto perché con essa si crede che le cose possano essere ciò che non sono, pur restando ciò che sono (se dico che A è diventato B, dico che pur non essendo A B a un certo momento A è davvero B, e per diventare B A si è annullato pur rimanendo A).
CitazioneMa come si risolve che il percettore percepisce il mutamento e non questi enti eterni?
Ottima domanda, infatti fenomenologicamente gli enti eterni non appaiono. Ma per Severino noi non percepiamo affatto il mutamento, il mutamento che crediamo di percepire è solo il frutto di una volontà di crederlo (noi non percepiamo A che diventa B, ma A e B e poi affermiamo volendolo credere che l'uno è diventato l'altro). Questa fede sostiene che le cose possano cambiare pur rimanendo le stesse (lo stesso uomo che da embrione diventa bambino, poi adulto, poi vecchio poi cadavere pur rimanendo il medesimo uomo). Questo errore è dato dal pensare astrattamente le cose non nella loro concreta ed effettiva interezza che è eterna e si manifesta nella dimensione di un continuo sopraggiungere e passare oltre degli enti eterni nei vari contesti di significato in cui parzialmente si mostrano. La dimensione in cui appaiono gli eterni è dunque quella di un immenso fluire la cui totalità è infinita.
Comunque anche partendo dall'idea pragmatica opposta che si basa sul principio che tutto è un continuo divenire di relazioni che continuamente si intrecciano, la questione se sia più fondamentale e originario l'oggetto o il suo significato soggettivo perde di senso ed è appunto a questa posizione (sicuramente meno sconvolgente di quella severiniana) a cui mi ero riferito, anche nei riferimenti ai testi tratti da Maturana e Varela.
Citazione di: maral il 28 Settembre 2016, 13:59:23 PM
Citazione di: Phil
Se posti il link dell'articolo, lo leggo volentieri (se non è troppo "tecnico"!).
Purtroppo non lo ritrovo, ma comunque non era un articolo, solo si annunciava che alcuni studiosi ritenevano, sulla base della analisi linguistica condotta su diverse lingue, che fosse possibile ravvisare una radice comune dei termini, mentre altri contestavano questo argomento sull'analisi di altri termini. In ogni caso la questione se sia o meno esistito un originario linguaggio universale (prima della mitica Babele), non credo sia determinante per stabilire se le parole esistono di per sé o meno.
Per quanto riguarda la questione sul divenire e come la intende Severino se ne è molto discusso a suo tempo nel vecchio forum. Comunque in breve Severino parte dalla tautologia di ogni ente che si basa sul principio di identità (A è A) su cui non si può dubitare. Se A è A non potrà mai essere qualcosa di diverso da A nella sua concreta presenza (ove concreta significa completamente definita) da quello che è, quindi non solo Phil che adesso legge questo messaggio è mai stato un oocita, né un embrione, né un feto, tutti enti diversi da quello che Phil che legge questo messaggio è, ma non è nemmeno il Phil che qualche ora fa scriveva un altro messaggio, anche costui è un ente diverso ed eterno, non potendo mai essere altro da quello che è. Severino considera la fede nel divenire la follia e la violenza estrema dell'Occidente (che si esercita ogni volta che si vuole far diventare una cosa un'altra cosa), appunto perché con essa si crede che le cose possano essere ciò che non sono, pur restando ciò che sono (se dico che A è diventato B, dico che pur non essendo A B a un certo momento A è davvero B, e per diventare B A si è annullato pur rimanendo A).
CitazioneMa come si risolve che il percettore percepisce il mutamento e non questi enti eterni?
Ottima domanda, infatti fenomenologicamente gli enti eterni non appaiono. Ma per Severino noi non percepiamo affatto il mutamento, il mutamento che crediamo di percepire è solo il frutto di una volontà di crederlo (noi non percepiamo A che diventa B, ma A e B e poi affermiamo volendolo credere che l'uno è diventato l'altro). Questa fede sostiene che le cose possano cambiare pur rimanendo le stesse (lo stesso uomo che da embrione diventa bambino, poi adulto, poi vecchio poi cadavere pur rimanendo il medesimo uomo). Questo errore è dato dal pensare astrattamente le cose non nella loro concreta ed effettiva interezza che è eterna e si manifesta nella dimensione di un continuo sopraggiungere e passare oltre degli enti eterni nei vari contesti di significato in cui parzialmente si mostrano. La dimensione in cui appaiono gli eterni è dunque quella di un immenso fluire la cui totalità è infinita.
Comunque anche partendo dall'idea pragmatica opposta che si basa sul principio che tutto è un continuo divenire di relazioni che continuamente si intrecciano, la questione se sia più fondamentale e originario l'oggetto o il suo significato soggettivo perde di senso ed è appunto a questa posizione (sicuramente meno sconvolgente di quella severiniana) a cui mi ero riferito, anche nei riferimenti ai testi tratti da Maturana e Varela.
La tesi di una lingua comune non è altro che l'ipotesi sulla radice comune delle lingue Indo-Europee, cioè delle lingue sviluppatesi nelle aree mediterranee, mediorientali fino al continente Indiano, certamente c'è chi la mette in discussione ma è una tesi linguisticamente dominante. Essa è d'altronde associata con contenuti culturali, mitologici e cultuali che mantengono elementi comuni in tutte queste aree.
Per meglio chiarire ancora la questione mi rifaccio a un testo di Sini che è su posizioni pragmatiche ben diverse da quelle severiniane. Nell'opinione comune, osserva Sini, si pensa che le parole siano dei segni convenzionali per indicare o evocare (nominare) l'assente. Se dico ad esempio "cavallo" io evoco quel particolare ente che è un cavallo quando ad esempio non abbiamo un cavallo sotto gli occhi. La parola sta al posto della cosa che non c'è. Ma, fa ancora notare Sini, per potersi accordare che la vocalizzazione (il segno vocale) "cavallo" significa l'animale in questione, dobbiamo già avere un linguaggio e delle parole e delle parole. Ma, aggiunge, "il fatto fondamentale è che la cosa della parola è assente anche quando, per ipotesi, la cosa stessa sia presente. La presenza davanti a noi di un cavallo non renderebbe meno assente l'oggetto della parola "cavallo". E inoltre noi non potremmo avere alcuna "cosa" nella presenza, alcun "cavallo", se già prima non si fosse per noi aperto lo spazio della parola, della nominazione... le cose si manifestano nelle parole e non prima di esse, così che noi possiamo stabilire dei segni che vi rimandino." (da C.Sini "Il silenzio e la parola")
Questo significa, che anche chi pensa in modo esperenziale e strettamente fenomenologico, senza alcuna implicazione metafisica ontologica, che nessuna cosa può essere prima della parola che la nomina, cosa e parola sono sempre insieme, sono il frutto di una rete di relazioni assai complessa che sola ce ne dà presenza reale e significato, sempre indissolubilmente e originariamente insieme.
Citazione di: maral il 28 Settembre 2016, 13:59:23 PM
Citazione di: PhilSe posti il link dell'articolo, lo leggo volentieri (se non è troppo "tecnico"!).
Purtroppo non lo ritrovo, ma comunque non era un articolo, solo si annunciava che alcuni studiosi ritenevano, sulla base della analisi linguistica condotta su diverse lingue, che fosse possibile ravvisare una radice comune dei termini, mentre altri contestavano questo argomento sull'analisi di altri termini. In ogni caso la questione se sia o meno esistito un originario linguaggio universale (prima della mitica Babele), non credo sia determinante per stabilire se le parole esistono di per sé o meno. Per quanto riguarda la questione sul divenire e come la intende Severino se ne è molto discusso a suo tempo nel vecchio forum. Comunque in breve Severino parte dalla tautologia di ogni ente che si basa sul principio di identità (A è A) su cui non si può dubitare. Se A è A non potrà mai essere qualcosa di diverso da A nella sua concreta presenza (ove concreta significa completamente definita) da quello che è, quindi non solo Phil che adesso legge questo messaggio è mai stato un oocita, né un embrione, né un feto, tutti enti diversi da quello che Phil che legge questo messaggio è, ma non è nemmeno il Phil che qualche ora fa scriveva un altro messaggio, anche costui è un ente diverso ed eterno, non potendo mai essere altro da quello che è. Severino considera la fede nel divenire la follia e la violenza estrema dell'Occidente (che si esercita ogni volta che si vuole far diventare una cosa un'altra cosa), appunto perché con essa si crede che le cose possano essere ciò che non sono, pur restando ciò che sono (se dico che A è diventato B, dico che pur non essendo A B a un certo momento A è davvero B, e per diventare B A si è annullato pur rimanendo A).
CitazioneMa come si risolve che il percettore percepisce il mutamento e non questi enti eterni?
Ottima domanda, infatti fenomenologicamente gli enti eterni non appaiono. Ma per Severino noi non percepiamo affatto il mutamento, il mutamento che crediamo di percepire è solo il frutto di una volontà di crederlo (noi non percepiamo A che diventa B, ma A e B e poi affermiamo volendolo credere che l'uno è diventato l'altro). Questa fede sostiene che le cose possano cambiare pur rimanendo le stesse (lo stesso uomo che da embrione diventa bambino, poi adulto, poi vecchio poi cadavere pur rimanendo il medesimo uomo). Questo errore è dato dal pensare astrattamente le cose non nella loro concreta ed effettiva interezza che è eterna e si manifesta nella dimensione di un continuo sopraggiungere e passare oltre degli enti eterni nei vari contesti di significato in cui parzialmente si mostrano. La dimensione in cui appaiono gli eterni è dunque quella di un immenso fluire la cui totalità è infinita. Comunque anche partendo dall'idea pragmatica opposta che si basa sul principio che tutto è un continuo divenire di relazioni che continuamente si intrecciano, la questione se sia più fondamentale e originario l'oggetto o il suo significato soggettivo perde di senso ed è appunto a questa posizione (sicuramente meno sconvolgente di quella severiniana) a cui mi ero riferito, anche nei riferimenti ai testi tratti da Maturana e Varela.
Beh...direi che si può anche pensare che A non è un ente fisso e immutabile, ma un ente mutabile che ha in sè il "seme" di B e poi di C, ecc. Nel reale infatti osserviamo che l'entità seme, diventa l'entità germoglio e poi l'entità albero. Dov' è andato l'ente seme quando percepiamo l'ente albero ? Non è "scomparso" nel Nulla , ma si è trasformato nell'ente albero, che diventerà ente humus e così via in eterno...Questo non mi sembra contraddica il principio di identità. Quando il seme esiste come seme è un seme, quando esiste come germoglio è un germoglio, e così via. Quando è albero non sarà certo roccia; quando è seme non sarà ancora albero. Che "necessità" c'è per il pensiero di dover fermare tutti gli infiniti attimi in eterno? Per dare sostanzialità all'esperire? Ritorna sempre, mi pare, il sentimento del mutare percepito come grave minaccia che incombe sulle certezze del pensiero. Ma un seme che muta in albero e poi in humus non è privato di sostanza. E' una "sostanza che muta".
Tra l'altro, se non comprendo male, il portare alle estreme conseguenze il concetto di enti ( come fa Severino, mi par di capire) fa rientrare dalla finestra il concetto di Divenire, da lui negato e ritenuto cacciato dalla porta. Infatti, se tutti questi infiniti enti appaiono e devono seguire una logica nell'apparire, in che cosa differiscono dal divenire stesso? Dire che un corso d'acqua fluisce per la somma di infinite, eterne e immutabili, goccioline o dire che infinite goccioline si trasformano in un corso d'acqua fluente non è, di fatto, la stessa cosa?
In ogni caso "fluiscono", con un senso logico. E questo solo noi percepiamo. Mi sembra illogico pensare che tutti, indistintamente, dall'inizio dei tempi vogliamo e crediamo di percepire il divenire ( compreso Severino stesso che pare si desse molta pena di esser "riconosciuto" nel divenire) ma che in realtà tutto è immutabile. Siccome mai potrò tornar ente feto e poi ente bimbo e poi ente adolescente, e sicuramente diverrò l'ente chiamato vecchiaccio rincoglionito, mi dovrebbero spiegare che me faccio di questa strampalata teoria...
Concordo; inoltre mi sembra problematico proprio il definire l'identità dell'ente eterno; va bene astrarre logicamente in "A" e "B", ma concretamente (onticamente): se io che adesso scrivo, sono un ente diverso dal me che 15 minuti fa stendeva i panni, non diventa puro arbitrio (e quasi capriccio) distinguermi e scandirmi in enti potenzialmente infiniti?
Il solito monaco zen avrebbe dato a Severino una "bastonata didattica", anche se intimamente avrebbe sorriso, perché questo continuo focalizzarsi su di sé, come ente sempre nuovo, potrebbe essere un modo eterodosso di mantenere la concentrazione sul presente e non attaccarsi ai residui mnemonici del passato (a quello ci pensa il karma ;D).
P.s. Per quanto riguarda l'essere-niente ("A è il niente di B" e viceversa), non so se Severino mischi troppo le carte fra ni-ente, differ-ente, conting-ente, evid-ente, diveni-ente...
Citazione di: maral il 28 Settembre 2016, 13:59:23 PM
Per quanto riguarda la questione sul divenire e come la intende Severino se ne è molto discusso a suo tempo nel vecchio forum. Comunque in breve Severino parte dalla tautologia di ogni ente che si basa sul principio di identità (A è A) su cui non si può dubitare. Se A è A non potrà mai essere qualcosa di diverso da A nella sua concreta presenza (ove concreta significa completamente definita) da quello che è, quindi non solo Phil che adesso legge questo messaggio è mai stato un oocita, né un embrione, né un feto, tutti enti diversi da quello che Phil che legge questo messaggio è, ma non è nemmeno il Phil che qualche ora fa scriveva un altro messaggio, anche costui è un ente diverso ed eterno, non potendo mai essere altro da quello che è. Severino considera la fede nel divenire la follia e la violenza estrema dell'Occidente (che si esercita ogni volta che si vuole far diventare una cosa un'altra cosa), appunto perché con essa si crede che le cose possano essere ciò che non sono, pur restando ciò che sono (se dico che A è diventato B, dico che pur non essendo A B a un certo momento A è davvero B, e per diventare B A si è annullato pur rimanendo A).
CitazioneMannaggia a me, che non riesco a trattenermi dall' obiettare (per l' ennesima volta)!
Cercherò almeno di limitarmi al "minimo sindacale".
Da dove salta fuori questo "mai" (Se A è A non potrà mai essere qualcosa di diverso da A)?
Se A è A in un determinato tempo o/e luogo non potrà assolutamente in alcun modo essere qualcosa di diverso da A in tale determinato tempo o/e luogo, mentre in un altro tempo (successivo) potrà benissimo essersi trasformato in B (per esempio: A= l' embrione di ciascuno di noi; B = ciascuno di noi oggi).
CitazioneMa come si risolve che il percettore percepisce il mutamento e non questi enti eterni?
Ottima domanda, infatti fenomenologicamente gli enti eterni non appaiono. Ma per Severino noi non percepiamo affatto il mutamento, il mutamento che crediamo di percepire è solo il frutto di una volontà di crederlo (noi non percepiamo A che diventa B, ma A e B e poi affermiamo volendolo credere che l'uno è diventato l'altro). Questa fede sostiene che le cose possano cambiare pur rimanendo le stesse (lo stesso uomo che da embrione diventa bambino, poi adulto, poi vecchio poi cadavere pur rimanendo il medesimo uomo). Questo errore è dato dal pensare astrattamente le cose non nella loro concreta ed effettiva interezza che è eterna e si manifesta nella dimensione di un continuo sopraggiungere e passare oltre degli enti eterni nei vari contesti di significato in cui parzialmente si mostrano. La dimensione in cui appaiono gli eterni è dunque quella di un immenso fluire la cui totalità è infinita.
CitazioneVeramente la mia volontà sarebbe che io, Sgiombo, restassi lo Sgiombo giovane di quando avevo vent' anni...
Ma malgrado la mia volontà di crederlo (non assoluta: per fortuna so accettare il destino), ciò che credo di percepire é invece il mio inesorabile diventare sempre più vecchio (e vicino alla morte).
Citazione di: anthonyi il 28 Settembre 2016, 14:33:38 PM
Citazione di: maral il 28 Settembre 2016, 13:59:23 PM
La tesi di una lingua comune non è altro che l'ipotesi sulla radice comune delle lingue Indo-Europee, cioè delle lingue sviluppatesi nelle aree mediterranee, mediorientali fino al continente Indiano, certamente c'è chi la mette in discussione ma è una tesi linguisticamente dominante. Essa è d'altronde associata con contenuti culturali, mitologici e cultuali che mantengono elementi comuni in tutte queste aree.
CitazioneLa tesi di una lingua originaria comune indoeuropea penso sia messa in discussione da ben pochi e ben poco convincentemente.
Ma é diversa da quella di una lingua autenticamente universale originaria innata.
Citazione di: maral il 28 Settembre 2016, 14:33:54 PM
Per meglio chiarire ancora la questione mi rifaccio a un testo di Sini che è su posizioni pragmatiche ben diverse da quelle severiniane. Nell'opinione comune, osserva Sini, si pensa che le parole siano dei segni convenzionali per indicare o evocare (nominare) l'assente. Se dico ad esempio "cavallo" io evoco quel particolare ente che è un cavallo quando ad esempio non abbiamo un cavallo sotto gli occhi. La parola sta al posto della cosa che non c'è. Ma, fa ancora notare Sini, per potersi accordare che la vocalizzazione (il segno vocale) "cavallo" significa l'animale in questione, dobbiamo già avere un linguaggio e delle parole e delle parole. Ma, aggiunge, "il fatto fondamentale è che la cosa della parola è assente anche quando, per ipotesi, la cosa stessa sia presente. La presenza davanti a noi di un cavallo non renderebbe meno assente l'oggetto della parola "cavallo". E inoltre noi non potremmo avere alcuna "cosa" nella presenza, alcun "cavallo", se già prima non si fosse per noi aperto lo spazio della parola, della nominazione... le cose si manifestano nelle parole e non prima di esse, così che noi possiamo stabilire dei segni che vi rimandino." (da C.Sini "Il silenzio e la parola")
Questo significa, che anche chi pensa in modo esperenziale e strettamente fenomenologico, senza alcuna implicazione metafisica ontologica, che nessuna cosa può essere prima della parola che la nomina, cosa e parola sono sempre insieme, sono il frutto di una rete di relazioni assai complessa che sola ce ne dà presenza reale e significato, sempre indissolubilmente e originariamente insieme.
CitazioneDunque -se ben capisco- secondo Sini quando nessun uomo in grado di parlare era ancora comparso sulla terra, e dunque non esisteva la parola (o meglio la locuzione costituita da due parole) "monte Bianco" il monte Bianco non esisteva (come insieme di sensazioni fenomeniche nell' ambito delle esperienze coscienti di altri animali già esistenti (per esempio aquile, stambecchi, lupi, ecc.).
Non sono d' accordo.
Citazione di: Sariputra il 28 Settembre 2016, 14:57:52 PM
Nel reale infatti osserviamo che l'entità seme, diventa l'entità germoglio e poi l'entità albero. Dov' è andato l'ente seme quando percepiamo l'ente albero ? Non è "scomparso" nel Nulla , ma si è trasformato nell'ente albero, che diventerà ente humus e così via in eterno...Questo non mi sembra contraddica il principio di identità. Quando il seme esiste come seme è un seme, quando esiste come germoglio è un germoglio, e così via. Quando è albero non sarà certo roccia; quando è seme non sarà ancora albero.
Ma se il seme si è trasformato nell'albero, il seme non c'è più. quindi l'ente seme è diventato nulla e da quel nulla del seme è saltato fuori l'albero. E pur tuttavia per dire che il seme è diventato albero, fa notare Severino, ho bisogno di pensare quel seme presente nell'albero. La contraddizione sta qui e alla luce del principio di identità Severino ha ragione. Il seme in quanto è seme non sarà mai un albero proprio come non sarà mai una roccia; seme, albero e roccia sono tre enti diversi che vengono ad apparire. Nel caso di seme ed albero, essi hanno qualcosa in comune per cui l'apparire del seme richiama quello dell'albero facendoli apparire uno dopo l'altro, ma restano nella loro concreta interezza due enti diversi ed eterni (la sostanza del seme resta sil seme, esattamente come quella dll'albero l'albero per come sono in ogni minimo dettaglio).
Si noti che il mutare è percepito come minaccia (oltre che una grande opportunità di potenza) da tutto il pensiero occidentale che, per porsi al sicuro dal divenire inesorabile in cui fermamente crede, immagina enti privilegiati, eterni, sottratti al mutare (Dio è il classico esempio) che possono salvaguardarci. Severino nega che ci sia alcuna necessità di questi enti privilegiati, poiché tutti gli enti in quanto tali sono eterni.
CitazioneTra l'altro, se non comprendo male, il portare alle estreme conseguenze il concetto di enti ( come fa Severino, mi par di capire) fa rientrare dalla finestra il concetto di Divenire, da lui negato e ritenuto cacciato dalla porta. Infatti, se tutti questi infiniti enti appaiono e devono seguire una logica nell'apparire, in che cosa differiscono dal divenire stesso? Dire che un corso d'acqua fluisce per la somma di infinite, eterne e immutabili, goccioline o dire che infinite goccioline si trasformano in un corso d'acqua fluente non è, di fatto, la stessa cosa?
La differenza è che nell'apparire l'ente non diventa mai nulla, mai altro da ciò che è e continua a mostrarsi in infiniti contesti diversi e questo continuo poter apparire di tutti gli enti nelle relazioni che li richiamano è quella che Severino chiama Gioia della Gloria contrapposta alla Terra Isolata in cui il continuo apparire degli eterni è concepito come divenire dei morenti che sono solo per un istante infinitesimo, tra il nulla originario e il nulla che li attende. In tal senso il feto, il bimbo, l'adolescente che pensi di essere stato e il vecchio che pensi sarai non sono l'ente che sei essendo diversi e questa storia appartiene solo all'ente che ora sei e che, in quanto è, è sempre.
Citazione di: Phil il 28 Settembre 2016, 16:41:22 PM
Concordo; inoltre mi sembra problematico proprio il definire l'identità dell'ente eterno; va bene astrarre logicamente in "A" e "B", ma concretamente (onticamente): se io che adesso scrivo, sono un ente diverso dal me che 15 minuti fa stendeva i panni, non diventa puro arbitrio (e quasi capriccio) distinguermi e scandirmi in enti potenzialmente infiniti?
Per Severino, al contrario è proprio il pensare astrattamente che conduce al divenire, mentre pensare concretamente l'ente per come è fa emergere la sua necessaria (quindi mai contingente) eterna specifica identità che gli è propria (differente da quella di qualsiasi altro ente). E' la peculiarità differente di ogni ente a essere eterna e insopprimibile. Detto questo noi non possiamo immaginarci che come una storia, ma questa storia è sempre in un eterno presente, è il presente di ciò che siamo che si presenta (appare) sempre come memoria di un passato e aspettativa di un futuro.
Non aggiungerò altro qui su Severino, altrimenti il discorso si farebbe troppo esteso, ben oltre il tema trattato.
Citazione di: sgiombo il 28 Settembre 2016, 18:46:44 PM
Citazione di: maral il 28 Settembre 2016, 14:33:54 PM"il fatto fondamentale è che la cosa della parola è assente anche quando, per ipotesi, la cosa stessa sia presente. La presenza davanti a noi di un cavallo non renderebbe meno assente l'oggetto della parola "cavallo". E inoltre noi non potremmo avere alcuna "cosa" nella presenza, alcun "cavallo", se già prima non si fosse per noi aperto lo spazio della parola, della nominazione... le cose si manifestano nelle parole e non prima di esse, così che noi possiamo stabilire dei segni che vi rimandino." (da C.Sini "Il silenzio e la parola") Questo significa, che anche chi pensa in modo esperenziale e strettamente fenomenologico, senza alcuna implicazione metafisica ontologica, che nessuna cosa può essere prima della parola che la nomina, cosa e parola sono sempre insieme, sono il frutto di una rete di relazioni assai complessa che sola ce ne dà presenza reale e significato, sempre indissolubilmente e originariamente insieme.
CitazioneDunque -se ben capisco- secondo Sini quando nessun uomo in grado di parlare era ancora comparso sulla terra, e dunque non esisteva la parola (o meglio la locuzione costituita da due parole) "monte Bianco" il monte Bianco non esisteva (come insieme di sensazioni fenomeniche nell' ambito delle esperienze coscienti di altri animali già esistenti (per esempio aquile, stambecchi, lupi, ecc.). Non sono d' accordo.
Non credo sia un caso che Sini parli di "
manifestazione delle cose
nelle parole" e non di "esistenza", per cui non so fino a che punto è [/size]
lecito parafrasarlo con "nessuna cosa può essere prima della parola che la nomina"(cit. Maral).
Mi pare Sini alluda piuttosto alla necessità di avere un nome, per poter "essere una cosa"(identificata), e quindi per potersi manifestare nel linguaggio (non ontologicamente!). Almeno è così che interpreto quel "noi non potremmo avere alcuna "cosa" nella presenza, alcun "cavallo", se già prima non si fosse per noi aperto lo spazio della parola, della nominazione", ovvero: se supponiamo non esista la parola "cavallo" come nominazione di quell'ente, non è possibile parlare del "cavallo", e quindi anche quando ce l'ho presente davanti a me, non è per me un "cavallo", giacché tale nominazione non è stata ancora formulata (per ipotesi).
Qualche pagina dopo quella citazione, Sini infatti dice: "La parola ha l'assente dentro di sè per sua costituzione e natura o non sarebbe parola. Il suo assente non è diverso quando la cosa empirica sta lì davanti o quando sta altrove; e anzi la cosa empirica può stare lì davanti solo perchè la parola ha nominato l'assenza, il per tutti" (p. 58), e questo "per tutti" è tale in virtù dell'astrazione linguistica che consente di parlare di oggetti assenti, proprio in quanto astratti, in un modo che tutti comprendano.
Quindi, se intendiamo così il discorso di Sini, il Monte Bianco esisteva anche prima della "comunità parlante", ma nessuno lo aveva "battezzato" così, quindi non era ancora il "Monte Bianco" (se non ho frainteso, la morale della favola è: finché qualcosa non ha una sua parola, una sua nominazione, resta non dicibile, non predicabile e non "ragionabile").
Citazione di: sgiombo il 28 Settembre 2016, 18:46:44 PM
Dunque -se ben capisco- secondo Sini quando nessun uomo in grado di parlare era ancora comparso sulla terra, e dunque non esisteva la parola (o meglio la locuzione costituita da due parole) "monte Bianco" il monte Bianco non esisteva (come insieme di sensazioni fenomeniche nell' ambito delle esperienze coscienti di altri animali già esistenti (per esempio aquile, stambecchi, lupi, ecc.).
Non sono d' accordo.
Sgiombo, quello che Sini (e non solo Sini che si riferisce a tutta una corrente fenomenologica pragmatica di pensiero che si rifà a Wittgenstein, Husserl, Whitehead, Pierce, Mead, Derrida e via dicendo) viene dicendo è che per l'essere umano, in quanto essere continuamente parlante, le cose esistono solo nel loro significare e questo significare è parola, le cose sono inseparabili dalle parole con cui le si nomina. Non è che io vedo qualcosa e poi mi invento o convengo con degli altri su una parola per farne segno della cosa evocandola quando quella cosa non mi sta davanti, subito la parola si presenta se c'è la cosa, per il fatto che c'è come un significato, un'espressione vocale che ha un significato che risuona. Che poi questa espressione vocale sia diversa da lingua a lingua dipende dai dai contesi culturali contingenti e locali, ma la parola, qualsiasi essa sia, è necessaria alla cosa, proprio per poterla considerare oggettiva, condivisibile. E' alla luce del significato di questa parola "Monte Bianco" che noi riteniamo che quella cosa sia un monte (altra parola) e che quel monte è una parola che significa che quella cosa deve essere sempre esistita ed esistita per tutti, dove "esistita per tutti" sono ancora parole. E' implicito nella parola umana il significato di qualsiasi pre esistenza, non nella cosa. Per un bambino appena nato, per le aquile, gli stambecchi e i lupi che magari vivono sul monte, il monte non lo esperiscono come ciò che noi consideriamo monte vedendo degli stambecchi che ci si arrampicano sopra e attribuendogli di conseguenza il significato che noi gli diamo, non c'è per loro un soggetto che conosce qualcosa che sta fuori da lui come qualcosa a se stante più o meno permanente. Non è il "monte". perché non c'è né il monte né un me che possa concepirlo tale, con il significato (compreso quello di essere pre esistente a ogni esistenza) che noi, in quanto parlanti gli attribuiamo. Cos'è allora quel monte per essi che non hanno parola per concepirlo? Cos'è il monte prima di nominarlo? è un puro accadere in cui non è presente alcuna specificazione oggettuale, non è presente né soggetto, né oggetto, né monte, né stambecco che sta sul monte e nemmeno alcuna pre esistenza, perché l'accadere accade solo adesso e quando non accade non c'è e precede ogni distinzione tra dentro e fuori. E' solo la parola che lo fa rimanere e la parola costruisce la metafisica che lo pone e la scienza stessa, umana, che lo definisce e lo studia, perché anche la scienza, anche la matematica si esprime a parole.
Come vedi siamo all'opposto del pensiero severiniano e ai suoi enti eterni, ma alla fine si arriva a qualcosa di molto simile, se intendiamo che l'ente è il suo stesso completo significare in un mondo che per l'uomo implica il suo nome non come un'aggiunta arbitraria o semplicemente convenuta a posteriori potendo anche non convenirne: la cosa non è altro che il suo nome che risuona a tutti noi per come risuona.
Ma Phil, se si dice: "la cosa empirica può stare lì davanti solo perchè la parola ha nominato l'assenza, il per tutti" come fa la cosa empirica a starci davanti lì per tutti senza che la parola ne nomini l'assenza? Certo che la cosa empirica (intesa come esperienza) c'è? ma cos'è quella cosa empirica? Un monte? un cavallo? Carlo Sini? un fungo? Solo nella parola la cosa empirica che è esperita come relazione ci si mostra davanti oggettualmente (come oggetto per tutti) e non certo per mera e arbitraria convenzione.
Sini è molto chiaro quando descrive l'esperienza di un bambino di un anno che ha fame, noi diciamo che "ha fame", perché abbiamo la parola per dire e intendere "fame" e quindi per dire e intendere un bambino come un soggetto che ha fame, la fame esiste per noi oggettivamente nella nostra parola, per quel bambino la fame è lui stesso, lui è la fame perché non sa dirla, lui è la pappa, perché non ha parola per dirla. E certo che ha fame, ma quello che noi intendiamo per fame non è l'esperienza che lui vive prima della parola, non è per nulla la stessa cosa. Ed è la stessa cosa che dicono Maturana e Varela quando scrivono della necessità di distinguere il mondo descritto dall'osservatore e quello che vive l'unità vivente come tale. Poi anche loro per distinguere tra questi mondi devono usare le parole, non possono fare altrimenti. La parola in tal senso crea il mondo dell'osservatore che è essenzialmente il nostro mondo, il mondo ove abitiamo in cui le cose possiamo intenderle solo come significati, pur non essendo i significati delle cose.
Citazione di: Phil il 28 Settembre 2016, 21:06:48 PM
Citazione di: sgiombo il 28 Settembre 2016, 18:46:44 PM
Citazione di: maral il 28 Settembre 2016, 14:33:54 PM
CitazioneMi pare Sini alluda piuttosto alla necessità di avere un nome, per poter "essere una cosa"(identificata), e quindi per potersi manifestare nel linguaggio (non ontologicamente!). Almeno è così che interpreto quel "noi non potremmo avere alcuna "cosa" nella presenza, alcun "cavallo", se già prima non si fosse per noi aperto lo spazio della parola, della nominazione", ovvero: se supponiamo non esista la parola "cavallo" come nominazione di quell'ente, non è possibile parlare del "cavallo", e quindi anche quando ce l'ho presente davanti a me, non è per me un "cavallo", giacché tale nominazione non è stata ancora formulata (per ipotesi).
Non credo sia un caso che Sini parli di "manifestazione delle cose nelle parole" e non di "esistenza", per cui non so fino a che punto è lecito parafrasarlo con "nessuna cosa può [/size]essere prima della parola che la nomina"(cit. Maral).
Mi pare Sini alluda piuttosto alla necessità di avere un nome, per poter "essere una cosa"(identificata), e quindi per potersi manifestare nel linguaggio (non ontologicamente!). Almeno è così che interpreto quel "noi non potremmo avere alcuna "cosa" nella presenza, alcun "cavallo", se già prima non si fosse per noi aperto lo spazio della parola, della nominazione", ovvero: se supponiamo non esista la parola "cavallo" come nominazione di quell'ente, non è possibile parlare del "cavallo", e quindi anche quando ce l'ho presente davanti a me, non è per me un "cavallo", giacché tale nominazione non è stata ancora formulata (per ipotesi).
Qualche pagina dopo quella citazione, Sini infatti dice: "La parola ha l'assente dentro di sè per sua costituzione e natura o non sarebbe parola. Il suo assente non è diverso quando la cosa empirica sta lì davanti o quando sta altrove; e anzi la cosa empirica può stare lì davanti solo perchè la parola ha nominato l'assenza, il per tutti" (p. 58), e questo "per tutti" è tale in virtù dell'astrazione linguistica che consente di parlare di oggetti assenti, proprio in quanto astratti, in un modo che tutti comprendano.
Quindi, se intendiamo così il discorso di Sini, il Monte Bianco esisteva anche prima della "comunità parlante", ma nessuno lo aveva "battezzato" così, quindi non era ancora (nei pensieri umani) identificato come il "Monte Bianco" (se non ho frainteso, la morale della favola è: finché qualcosa non ha una sua parola, una sua nominazione, resta non dicibile, non predicabile e non "ragionabile").
CitazioneGrazie per le chiare spiegazioni: le cose o i fatti reali esistono o accadono (ontologicamente) anche indipendentemente dagli eventuali pensieri o discorsi (fatti di parole) circa "cose " e "fatti" (identificati linguisticamente) ...se non intendi questo, allora non ho capito nulla.
Mi viene comunque da dire che (senza voler mancare di rispetto al prof. Sini) sostenenre che finché qualcosa non ha una sua parola, una sua nominazione, resta non dicibile, non predicabile e non "ragionabile") mi sembra un po' la scoperta dell' acqua calda.
* * *
Citazione di Maral:
Sgiombo, quello che Sini (e non solo Sini che si riferisce a tutta una corrente fenomenologica pragmatica di pensiero che si rifà a Wittgenstein, Husserl, Whitehead, Pierce, Mead, Derrida e via dicendo) viene dicendo è che per l'essere umano, in quanto essere continuamente parlante, le cose esistono solo nel loro significare e questo significare è parola, le cose sono inseparabili dalle parole con cui le si nomina. Non è che io vedo qualcosa e poi mi invento o convengo con degli altri su una parola per farne segno della cosa evocandola quando quella cosa non mi sta davanti, subito la parola si presenta se c'è la cosa, per il fatto che c'è come un significato, un'espressione vocale che ha un significato che risuona. Che poi questa espressione vocale sia diversa da lingua a lingua dipende dai dai contesi culturali contingenti e locali, ma la parola, qualsiasi essa sia, è necessaria alla cosa, proprio per poterla considerare oggettiva, condivisibile. E' alla luce del significato di questa parola "Monte Bianco" che noi riteniamo che quella cosa sia un monte (altra parola) e che quel monte è una parola che significa che quella cosa deve essere sempre esistita ed esistita per tutti, dove "esistita per tutti" sono ancora parole. E' implicito nella parola umana il significato di qualsiasi pre esistenza, non nella cosa. Per un bambino appena nato, per le aquile, gli stambecchi e i lupi che magari vivono sul monte, il monte non lo esperiscono come ciò che noi consideriamo monte vedendo degli stambecchi che ci si arrampicano sopra e attribuendogli di conseguenza il significato che noi gli diamo, non c'è per loro un soggetto che conosce qualcosa che sta fuori da lui come qualcosa a se stante più o meno permanente. Non è il "monte". perché non c'è né il monte né un me che possa concepirlo tale, con il significato (compreso quello di essere pre esistente a ogni esistenza) che noi, in quanto parlanti gli attribuiamo. Cos'è allora quel monte per essi che non hanno parola per concepirlo? Cos'è il monte prima di nominarlo? è un puro accadere in cui non è presente alcuna specificazione oggettuale, non è presente né soggetto, né oggetto, né monte, né stambecco che sta sul monte e nemmeno alcuna pre esistenza, perché l'accadere accade solo adesso e quando non accade non c'è e precede ogni distinzione tra dentro e fuori. E' solo la parola che lo fa rimanere e la parola costruisce la metafisica che lo pone e la scienza stessa, umana, che lo definisce e lo studia, perché anche la scienza, anche la matematica si esprime a parole.
Come vedi siamo all'opposto del pensiero severiniano e ai suoi enti eterni, ma alla fine si arriva a qualcosa di molto simile, se intendiamo che l'ente è il suo stesso completo significare in un mondo che per l'uomo implica il suo nome non come un'aggiunta arbitraria o semplicemente convenuta a posteriori potendo anche non convenirne: la cosa non è altro che il suo nome che risuona a tutti noi per come risuona.
CitazioneLa conoscenza o per lo meno la considerazione, il pensiero della cosa, e non la cosa é il "significare dell' ente (tramite il simbolo verbale) per noi che lo pensiamo".
Come dice Phil (se ben l' intendo), la cosa (esempio : il monte Bianco) esisteva anche prima della "comunità parlante", anche se nessuno lo aveva "battezzato" così, quindi non era ancora la cosa pensata (identificata linguisticamente) in quanto tale (per esempio in quanto "Monte Bianco"); ma non per questo era meno cosa reale.
La cosa "Monte Bianco" non è una cosa, ma è una parola, perché "Monte bianco" è una parola che non indica una cosa, ma un'esperienza in cui non c'è cosa, ma l'assenza della cosa. l'assenza dell'oggetto che viene a starci davanti (ossia a stare davanti al soggetto che l'espressione vocale crea per "rimbalzo", come dice Sini) proprio in virtù della parola.
Sini non si limita allora a dire che "finché qualcosa non ha una sua parola, una sua nominazione, resta non dicibile, non predicabile e non ragionabile" che sarebbe effettivamente una banalità, come nota Sgiombo, ma dice che solo se l'esperienza è resa dicibile da una parola può presentarsi davanti a noi come una cosa, solo se è dicibile il Monte Bianco è la cosa Monte Bianco.
Qui vale il verso di Holderling, citato da Heidegger: "nessuna cosa è ove la parola manca"
Citazione di: maral il 28 Settembre 2016, 19:59:59 PMMa se il seme si è trasformato nell'albero, il seme non c'è più. quindi l'ente seme è diventato nulla e da quel nulla del seme è saltato fuori l'albero. E pur tuttavia per dire che il seme è diventato albero, fa notare Severino, ho bisogno di pensare quel seme presente nell'albero. La contraddizione sta qui e alla luce del principio di identità Severino ha ragione. Il seme in quanto è seme non sarà mai un albero proprio come non sarà mai una roccia; seme, albero e roccia sono tre enti diversi che vengono ad apparire. Nel caso di seme ed albero, essi hanno qualcosa in comune per cui l'apparire del seme richiama quello dell'albero facendoli apparire uno dopo l'altro, ma restano nella loro concreta interezza due enti diversi ed eterni (la sostanza del seme resta sil seme, esattamente come quella dll'albero l'albero per come sono in ogni minimo dettaglio).
Citazione di: Sariputra il 28 Settembre 2016, 14:57:52 PM
Non è affatto vero che , se il seme si è trasformato nell'albero, il seme non c'è più. Quello che non c'è più è solamente la percezione/designazione della mente dell'ente seme sostituita dalla percezione/designazione della mente con l'ente albero. Infatti "seme-germoglio-albero" non sono enti designati ma processi dinamici del reale che la mente non riesce a pensare, ma certamente a intuire.
Questa intuizione universale , che ci accomuna, che potremmo anche chiamare "sano buon senso" fa sì che di fronte ad un'idea che ha senso solo per il pensiero ( come quella Severiniana) si contrapponga l'intuizione che ciò non è possibile. Infatti una teoria simile non spiega perchè questi enti non appaiano Tutti contemporaneamente alla coscienza, o perchè non appaiano in modo casuale, o caotico, così che mentre in un momento di coscienza percepiamo l'ente Sari che scrive , il momento dopo non è possibile percepire l'ente Sari che piange nella culla. Un altro problema è che viene a mancare qualsiasi dinamismo al reale confinato in un'eternità immobile, in cui gli enti eterni appaiono in successione logica senza una causa valida. Pensare che l'ente "Sari che spinge come un forsennato seduto sulla tazza del water" sia un fatto eterno ;D oltre che inquietarmi , logicamente o sul piano della semplice intuizione , sembra una cosa assennata? Perchè la riflessione, dal mondo magnifico, etereo delle idee, bisogna calarla anche nel contingente e quindi abbiamo enti che , eternamente, sono in putrefazione, enti che eternamente muoiono, ecc.
E siccome questi enti si svolgono secondo una seguenza intelleggibile dalla ragione , di nuovo, non c'è alcuna differenza con l'evidenza percettiva del divenire del reale.
Perchè mai non si può sostituire l'idea di "ente fisso" con quella di "ente dinamico", che risolve un sacco di complicazioni? Che necessità c'è per la ragione pensare che un seme DEVE in eterno restare un seme e NON DEVE mai diventare un germoglio? Tra l'altro se osserviamo attentamente l'ente seme scopriamo che contiene già in sè le piccole foglioline, minuscole, dell'ente germoglio, e in questo osserveremo la presenza di tutte le caratteristiche dell'ente albero. Così che sembra più ragionevole supporre che il seme sia già in potenza il germoglio e questo l'albero. Ma anche osservando attentamente l'ente seme scopriremo che è composto da innumerevoli elementi di non-seme ( acqua, linfa, residui, ecc.). A loro volta, gli elementi di non-seme presenti, sono composti da altri di non-non- seme, e così via...in definitiva dove troviamo l'ente seme , se non in una mera definizione verbale? Se lo priviamo di tutti o in parte i suoi composti, non c'è più il seme.
Rifiutando l'idea , ritenuta erronea, del divenire, per caso non si muore? Severino è ancora eternamente vivo , visto che ha rifiutato l'idea erronea del divenire? Certo, da qualche parte esiste, secondo questa concezione, l'attimo eterno in cui il filosofo ha concepito quest'idea, e subito dopo l'attimo eterno in cui l'ha letta alla moglie e in sequenza l'attimo eterno in cui la moglie ha dichiarato di non conoscerlo... ;D ma purtroppo esiste anche l'eternità dei vermi che si mangiano il corpo di Severino...
Adesso l'attimo eterno in cui il Sari scrive si è concluso e viene sostituito dall'attimo eterno in cui il Sari se ne va a dormire...mah! ???
Infatti Severino considera assurdo il concetto dell'essere in potenza, lo considera contraddizione assoluta.
Per questo Sari che va a dormire, non è lo stesso Sari che scrive, altrimenti non si potrebbero distinguere. Benvenuto dunque al nuovo ente Sari e buon riposo, in attesa del prossimo Sari che si sveglia :)
(la logica della sequenza dell'apparire c'è, è data dal contesto che richiama questi diversi eterni necessariamente ad apparire in questo ordine, e non in un qualsiasi altro).
Citazione di: maral il 28 Settembre 2016, 22:50:44 PMInfatti Severino considera assurdo il concetto dell'essere in potenza, lo considera contraddizione assoluta. Per questo Sari che va a dormire, non è lo stesso Sari che scrive, altrimenti non si potrebbero distinguere. Benvenuto dunque al nuovo ente Sari e buon riposo, in attesa del prossimo Sari che si sveglia :) (la logica della sequenza c'è, è data dal contesto che li richiama necessariamente ad apparire in questo ordine).
E dove sta la differenza con il percepire che il Sari che se ne sta andando a dormire ( ma che non ha ancora preso la pastiglietta...) diventerà il Sari che si risveglierà? (Si spera...)
La differenza sta nel fatto che se il "Sari che va a dormire" diventa il "Sari che si risveglia" il "Sari che va a dormire" cessa di essere, non è più), mentre per Severino solo cessa di apparire, ma continua eternamente ad esserci e questo significa che potrà anche tornare ad apparire proprio come tale.
Citazione di: maral il 28 Settembre 2016, 22:19:36 PMMa Phil, se si dice: "la cosa empirica può stare lì davanti solo perchè la parola ha nominato l'assenza, il per tutti" come fa la cosa empirica a starci davanti lì per tutti senza che la parola ne nomini l'assenza? Certo che la cosa empirica c'è? ma cos'è quella cosa empirica? Un monte? un cavallo? Carlo Sini? un fungo? Solo nella parola la cosa empirica che è esperita come relazione ci si mostra davanti oggettualmente (come oggetto per tutti) e non certo per mera e arbitraria convenzione.
Tuttavia, se l'oggetto si mostra
nella parola, o meglio, la parola nomina l'assenza dell'oggetto, questa parola può essere "per tutti" perché è convenzione astratta, altrimenti sarebbe parola dotata di senso solo per il soggetto che la pronuncia.
Non ho ben colto la differenza a cui alludi fra
Citazione di: Phil il 28 Settembre 2016, 21:06:48 PMfinché qualcosa non ha una sua parola [...] resta non dicibile, non predicabile e non "ragionabile"
e
Citazione di: maral il 28 Settembre 2016, 22:32:21 PMsolo se l'esperienza è resa dicibile da una parola può presentarsi davanti a noi come una cosa
Non sono forse due affermazioni complementari? Entrambe affermano che ciò che non è dicibile con una parola non ha un'identità linguistica e quindi non è una cosa (predicabile), e non essendo una cosa (per qualcuno o per tutti) non ci si può ragionare...
Citazione di: maral il 28 Settembre 2016, 22:32:21 PMQui vale il verso di Holderling, citato da Heidegger: "nessuna cosa è ove la parola manca"
O anche, rispettando la differenza fra ontologia e semiologia, potremo dire con Wittgenstein "I limiti del mio linguaggio
significano i limiti del mio mondo".
Citazione di: maral il 28 Settembre 2016, 22:50:44 PM
(la logica della sequenza dell'apparire c'è, è data dal contesto che richiama questi diversi eterni necessariamente ad apparire in questo ordine, e non in un qualsiasi altro).
Questa logica sequenziale e contestuale mi pare davvero simile al cosiddetto "divenire", anche se riguarda enti postulati come eterni (giacché l'eternità può essere solo una congettura) che appaiono e scompaiono... secondo me, proprio come nel caso di Zenone citato settimane fa, anche qui si rischia di perdere di vista la realtà per incartarsi in falsi problemi meta-fisici :)
Citazione di: maral il 28 Settembre 2016, 23:15:28 PMLa differenza sta nel fatto che se il "Sari che va a dormire" diventa il "Sari che si risveglia" il "Sari che va a dormire" cessa di essere, non è più), mentre per Severino solo cessa di apparire, ma continua eternamente ad esserci e questo significa che potrà anche tornare ad apparire proprio come tale.
Ma ci credi veramente?...Siii sincero... :) :) :)
E poi...perchè il "Sari che va a dormire cessa di essere"? Mi sento fluire in perfetta continuità...non percepisco alcun "spazio" di interruzione nel mio fluire. Sento il cuore pulsare, il sangue fluire, il respiro procedere...non si notano interruzioni tra un ente Sari e un altro. Dove finisce un ente e ne inizia un altro? Solo nel pensiero? Troppo poco per evitare la bastonata del solito , famoso monaco zen... ;D ;D.
Siamo proprio nella metafisica...
Citazione di: maral il 28 Settembre 2016, 22:32:21 PM
La cosa "Monte Bianco" non è una cosa, ma è una parola, perché "Monte bianco" è una parola che non indica una cosa, ma un'esperienza in cui non c'è cosa, ma l'assenza della cosa. l'assenza dell'oggetto che viene a starci davanti (ossia a stare davanti al soggetto che l'espressione vocale crea per "rimbalzo", come dice Sini) proprio in virtù della parola.
CitazioneDunque, se ben capisco, per Sini se uno che ci vede bene va a Chamonix e guarda (in una giornata senza nuvole) a sud-est senza dire o pensare "questo é il monte Bianco", allora non vede il monte Bianco, allora il monte Bianco (quella cosa che é -anzi, per assurdo, se ci fosse, sarebbe- la montagna più alta d' Italia) non c' é.
Non sono d' accordo.
Sini non si limita allora a dire che "finché qualcosa non ha una sua parola, una sua nominazione, resta non dicibile, non predicabile e non ragionabile" che sarebbe effettivamente una banalità, come nota Sgiombo, ma dice che solo se l'esperienza è resa dicibile da una parola può presentarsi davanti a noi come una cosa, solo se è dicibile il Monte Bianco è la cosa Monte Bianco.
CitazioneQuindi, se ben capisco, per un muto (che non sia anche cieco) il monte Bianco (la cosa costituita dal monte Bianco) non c' é, non lo vede.
Di nuovo devo manifestare il mio dissenso.
Qui vale il verso di Holderling, citato da Heidegger: "nessuna cosa è ove la parola manca"
Citazione di: Sariputra il 28 Settembre 2016, 23:37:48 PM
Citazione di: maral il 28 Settembre 2016, 23:15:28 PMLa differenza sta nel fatto che se il "Sari che va a dormire" diventa il "Sari che si risveglia" il "Sari che va a dormire" cessa di essere, non è più), mentre per Severino solo cessa di apparire, ma continua eternamente ad esserci e questo significa che potrà anche tornare ad apparire proprio come tale.
Ma ci credi veramente?...Siii sincero... :) :) :)
CitazioneMi scuso anticipatamente, ma qui emerge irresistibilmente il discolo irriverente e provocatore che é rimasto in me in qualche misura (e infatti per Severino é eterno e immutabile, non scompare mai...) dalla lontana infanzia.
Non mi stupirei se una volta morto Severino (il più tardi possibile, sia chiaro, anche se per lui l' età del decesso non dovrebbe fare differenza) un notaio di Brescia rendesse nota una sua dichiarazione testamentaria in cui afferma che aveva sempre preso tutti per i fondelli (e se per caso lasciasse qualcosa in eredità a chi lo avesse capito, vi prego di testimoniare del mio buon diritto a goderne...).
Chiedo scusa per la provocazione (ma in fondo é un pensiero che non trovo del tutto implausibile).
Chiedo scusa per la mia, ingiustificabile, ignoranza... Precedentemente ho scritto che il Severino era morto. Invece sembra che sia ancora vivo.
Però...adesso che ci penso...è pure già morto e attende solo di apparire a noi come un ente "Severino morto"...
Beh! Allora non mi sono del tutto sbagliato...meno male! ;D
Citazione di: Phil il 28 Settembre 2016, 23:26:12 PM
Tuttavia, se l'oggetto si mostra nella parola, o meglio, la parola nomina l'assenza dell'oggetto, questa parola può essere "per tutti" perché è convenzione astratta, altrimenti sarebbe parola dotata di senso solo per il soggetto che la pronuncia.
Certo che la parola è astratta se è pubblica, ma non per questo è convenzionale. Sini lo spiega molto chiaramente con la sua descrizione della fenomenologia della percezione uditiva e lo dice anche esplicitamente nel testo che la parola non è un segno convenzionale, anche se così ci siamo abituati a pensarla alla luce di una vecchia metafisica.
E' astratta in quanto trascende sia chi la pronuncia che chi la ascolta e pone sia l'oggetto che il soggetto, ma non è un segno convenzionale tra parlanti che si sono messi d'accordo
come fanno i giocatori di briscola (la metafora è di Sini). Ovviamente ognuno può pensarla come crede, ma qualunque oggetto si presenta nel suo stesso presentarsi con parole che lo nominano incarnandone il significato, se non ha ciò che lo dice non ha significato e se non ha significato quell'oggetto non si presenta nella sua oggettualità (né tanto meno può venire detto pre esistente al suo significare, dato che il suo essere pre esistente sta tutto nel suo significare), qualsiasi cosa esso sia. L'essere astratto non implica l'essere convenzionale.
CitazioneNon ho ben colto la differenza a cui alludi fra
Citazione di: Phil il 28 Settembre 2016, 21:06:48 PMfinché qualcosa non ha una sua parola [...] resta non dicibile, non predicabile e non "ragionabile"
e
Citazione di: maral il 28 Settembre 2016, 22:32:21 PMsolo se l'esperienza è resa dicibile da una parola può presentarsi davanti a noi come una cosa
Non sono forse due affermazioni complementari? Entrambe affermano che ciò che non è dicibile con una parola non ha un'identità linguistica e quindi non è una cosa (predicabile), e non essendo una cosa (per qualcuno o per tutti) non ci si può ragionare...
C'è qualche identità non linguistica secondo te? Io penso di no, se anche tu la pensi così, allora le due affermazioni si equivalgono.
CitazioneO anche, rispettando la differenza fra ontologia e semiologia, potremo dire con Wittgenstein "I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo".
Io toglierei quel "mio" e direi che i limiti del linguaggio sono i limiti del mondo. Il linguaggio non è mio, proprio come il mondo, né c'è un mondo mio come non c'è un linguaggio mio.
Citazione
Questa logica sequenziale e contestuale mi pare davvero simile al cosiddetto "divenire", anche se riguarda enti postulati come eterni (giacché l'eternità può essere solo una congettura) che appaiono e scompaiono... secondo me, proprio come nel caso di Zenone citato settimane fa, anche qui si rischia di perdere di vista la realtà per incartarsi in falsi problemi meta-fisici :)
l'eternità dell'ente non è una congettura, per quanto possa apparire strampalata (e infatti poi Sari mi chiede "ma ci credi veramente?", pensando che effettivamente solo un matto completo può arrivare a credere sul serio una simile strampaleria, e Sari non ha tutti i torti) non lo è. La filosofia di Severino per quanto complessa e ardua risulti, è di base semplicissima, afferma semplicemente il principio di identità in modo assoluto e incontrovertibile e il principio di identità è una banalissima tautologia (l'ho provata a spiegare a Sgiombo ma non ci sono riuscito, lui continua a pensare che l'identità tautologica è rispettata nel divenire e che se dico che ora questo A è A, domani può tranquillamente, questo stesso e medesimo A di oggi, essere B, senza vederci nessuna contraddizione). Comunque mi sembra chiaro che l'apparire non è il divenire se il divenire significa venire
a essere altro rimanendo tuttavia lo stesso. Dire che è la stessa cosa sarebbe come dire che il coniglio che sbuca apparendo dal cappello del prestigiatore è un coniglio che si crea (diviene) dal nulla, e quando nel cappello vi scompare di nuovo dentro che quel coniglio è finito nel nulla. Mi pare che la differenza sia facile da capire.
Citazione di: Sariputra il 28 Settembre 2016, 23:37:48 PM
E poi...perchè il "Sari che va a dormire cessa di essere"? Mi sento fluire in perfetta continuità...non percepisco alcun "spazio" di interruzione nel mio fluire. Sento il cuore pulsare, il sangue fluire, il respiro procedere...non si notano interruzioni tra un ente Sari e un altro. Dove finisce un ente e ne inizia un altro? Solo nel pensiero? Troppo poco per evitare la bastonata del solito , famoso monaco zen... ;D ;D.
Siamo proprio nella metafisica...
Appunto "sento", adesso lo senti, nell'istante presente, perché tutto è solo nel presente che accade: quel Sari che andò a dormire è nel fotogramma attuale del Sari che si sveglia e Sari che si sveglia sente (ossia interpreta) e se la racconta come una storia in cui il protagonista è sempre lo stesso Sari che fa nel tempo cose diverse secondo una logica, magari di causa effetto e tutto secondo norma e regola, c'è un prima un adesso e un poi nel racconto della storia che solo adesso ci facciamo (la potenza delle parole sta appunto nel fare apparire delle storie da raccontare e soprattutto raccontarci a noi stessi).
Citazione di: sgiombo il 29 Settembre 2016, 08:29:42 AM
Dunque, se ben capisco, per Sini se uno che ci vede bene va a Chamonix e guarda (in una giornata senza nuvole) a sud-est senza dire o pensare "questo é il monte Bianco", allora non vede il monte Bianco, allora il monte Bianco (quella cosa che é -anzi, per assurdo, se ci fosse, sarebbe- la montagna più alta d' Italia) non c' é.
Non sono d' accordo.
Certamente vedrà un monte, perché ha comunque in sé la parola monte e il suo significato, cosa ben più comune dell'avere in sé il significato di Monte Bianco. Ma di sicuro uno stambecco che si arrampica su quel "monte" non vede alcun monte, giacché monte è un nostro concetto, di noi che separiamo soggetto e oggetto e tra gli oggetti monti e pianure e tra i monti le dune di sabbia che spariscono in un giorno quando soffia il vento e quelle di roccia che sono lì da sempre o quasi e comunque ben da prima di noi (che anche questo sta nel significato della parola "monte"). Tutto questo fa parte del nostro mondo in cui abbiamo le parole per dirlo (o meglio più probabilmente le parole hanno noi), non del mondo dello stambecco in cui le parole non ci sono.
CitazioneQuindi, se ben capisco, per un muto (che non sia anche cieco) il monte Bianco (la cosa costituita dal monte Bianco) non c' é, non lo vede.
Di nuovo devo manifestare il mio dissenso.
Condivido qui il tuo dissenso. Sini fa una descrizione molto accurata della fenomenologia del suono che risuona come parola e quindi del senso dell'udito rilevandone la grande differenza dagli altri sensi, per cui, lui dice, solo con l'udito e la fonazione si può istituire una dimensione pubblica, dunque oggettiva, da cui nasce anche il senso pubblicamente riconoscibile (astratto) di se stessi. Sorge spontanea la domanda: ma allora un sordomuto dalla nascita come fa? E soprattutto in quanto sordo, visto che dei suoni, anche se non li emette per fonazione potrà pur sempre produrli?
Credo che qui Sini si spinga un po' troppo oltre nel focalizzarsi sul senso dell'udito (anche se è fondamentale nell'uomo, ad esempio i bambini nati sordi incontrano maggiori difficoltà nel loro sviluppo cognitivo, se ben ricordo, rispetto a quelli nati ciechi), bisognerebbe rifletterci. Occorre anche riconoscere che soprattutto la civiltà Occidentale si è certamente sviluppata sul culto del grafema vocale (è proprio la parola che crea nella Bibbia, la parola di Dio che risuona).
Citazione di: maral il 29 Settembre 2016, 22:18:27 PMnon è un segno convenzionale tra parlanti che si sono messi d'accordo come fanno i giocatori di briscola (la metafora è di Sini).
Eppure se ci intendiamo è perchè parliamo la stessa lingua, ovvero giochiamo allo stesso gioco: se tu giochi a briscola con le tue carte e io gioco a poker con le mie, non possiamo giocare assieme, ovvero intenderci...
Citazione di: maral il 29 Settembre 2016, 22:18:27 PMC'è qualche identità non linguistica secondo te? Io penso di no, se anche tu la pensi così, allora le due affermazioni si equivalgono.
Concordo, per questo non capivo quando dicevi che Sini andava ben oltre la mia banale parafrasi...
Citazione di: maral il 29 Settembre 2016, 22:18:27 PM
CitazioneO anche, rispettando la differenza fra ontologia e semiologia, potremo dire con Wittgenstein "I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo".
Io toglierei di torno quel "mio" e direi che i limiti del linguaggio sono i limiti del mondo, il linguaggio non è mio, proprio come il mondo, né c'è un mondo mio come non c'è un linguaggio mio.
Quel "mio" è proprio ciò che tiene lontani dal dogmatismo metafisico e che, se non ho frainteso, viene sottolineato da Maturana e Varela: l'autopoiesi è individuale per l'osservatore, egli genera il
suo osservato, il
suo mondo...
Citazione di: maral il 29 Settembre 2016, 22:18:27 PMLa filosofia di Severino per quanto complessa e ardua risulti, è di base semplicissima, afferma semplicemente il principio di identità in modo assoluto e incontrovertibile e il principio di identità è una banalissima tautologia
Sull'identità ho trovato un breve video di Severino (
https://www.youtube.com/watch?v=0r_febsn0-Y) in cui spiega la sua teoria in modo davvero zenoniano e sofistico (andare al minuto 7:44): A non esiste, in fondo esistono solo A1, A2, A3... e ognuno di questi A
n può legittimamente essere identificato come B, C, D... è solo una questione di arbitraria definizione di un'identità con un simbolo piuttosto che un altro...
L'individuazione dell'identità è arbitraria e non è affatto contraddittoria con il divenire: si tratta solo di considerare un filmato come un insieme di fotogrammi, ma scambiare il fotogramma come qualcosa di autonomo dal filmato da cui è stato estrapolato, è un gesto che ha indubbio valore estetico (come i virtuosismi linguistici di Heidegger) e come tale va considerato...
Citazione di: Phil il 29 Settembre 2016, 23:00:09 PM
Eppure se ci intendiamo è perchè parliamo la stessa lingua, ovvero giochiamo allo stesso gioco: se tu giochi a briscola con le tue carte e io gioco a poker con le mie, non possiamo giocare assieme, ovvero intenderci...
Certo, qui infatti il gioco lo conveniamo con le parole, ma non conveniamo le parole con il gioco, Ossia non è che prima ci si mette a giocare e poi ci mettiamo d'accordo se quel gioco che abbiamo cominciato ciascuno per conto suo è briscola o poker.
CitazioneConcordo, per questo non capivo quando dicevi che Sini andava ben oltre la mia banale parafrasi...
Bene, è sempre un piacere arrivare a concordare su qualcosa. La trovavo banale ipotizzando delle identità originarie, non linguisticamente istituite, ma poi qualsiasi banalità a ben vedere non è per nulla una banalità (vedasi cosa ti combina quella banalissima tautologia di Severino)
CitazioneQuel "mio" è proprio ciò che tiene lontani dal dogmatismo metafisico e che, se non ho frainteso, viene sottolineato da Maturana e Varela: l'autopoiesi è individuale per l'osservatore, egli genera il suo osservato, il suo mondo...
Il dogmatismo metafisico lo avverto molto di più (come dogmatismo) se tolgo uno solo dei due "mio". Se ad esempio si dicesse "i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mondo" o "i limiti del linguaggio sono i limiti del mio mondo", nel primo caso ci sento una pretesa oggettiva assoluta e nel secondo una pari pretesa soggettiva. Togliere quel mio in entrambi mi pare consenta di vedere che non è mio né l'uno né l'altro (e non è mio l'uno in quanto non lo è l'altro), restando ben inteso il fatto che in questo non mio qualcosa di mio ci devo pur sempre venire a trovare (sia nel linguaggio che nel mondo), altrimenti addio autopoiesi.
CitazioneL'individuazione dell'identità è arbitraria e non è affatto contraddittoria con il divenire: si tratta solo di considerare un filmato come un insieme di fotogrammi, ma scambiare il fotogramma come qualcosa di autonomo dal filmato da cui è stato estrapolato, è un gesto che ha indubbio valore estetico (come i virtuosismi linguistici di Heidegger) e come tale va considerato...
Per come la penso non vi sono dubbi che il divenire sia un'autocontraddizione, qui trovo che Severino abbia perfettamente ragione. Il punto è piuttosto che (almeno dal mio punto di vista e nei miei limiti) dalla filosofia di Severino che si basa sull'assoluto dell'ente (Sini, dal suo punto di vista pragmatico, la chiama la superstizione dell'ente), proprio l'ente mi diventa incomprensibile e non tanto perché non arriveremo mai a definirlo completamente, ma perché non sappiamo nemmeno da dove incominciare, dove sta l'ente? pur parlando dell'ente è come se, seguendo Severino, si fosse sempre oltre l'ente, sempre nella sua astrazione e mai nel suo concreto. Quando si dice che l'ente "Sari che va a dormire alla sera" non è "Sari che si sveglia alla mattina" (e su questo sono d'accordo) si può notare che anche quel "Sari che va a dormire alla sera" è in realtà un'astrazione, perché in quel "Sari che va a dormire alla sera" c'è una miriade infinita di Sari diversi per quanto uniti dal fatto che tutti stanno andando a dormire, corrispondenti a ogni infinitesima cosa che accade. Dov'è allora l'istantanea? L'istante è sempre troppo lungo per essere davvero tale, perché possa venire a fuoco, è sempre in un intervallo di tempo fatto di frammenti ancora e ancora più piccoli.
Ecco che qui penso che la soluzione l'abbia trovata Sini, che dice in sostanza a Severino: sono d'accordo con te se con il tuo discorso filosofico ti riferisci al significato. Ossia, penso io di aver capito: l'ente esprime un'unità immediata e fenomenologica di significato e non un'unità logica ontologica e solo dell'unità di significato si può dire che è sempre quella, non di un'unità ontologica di cui non si può dire nulla (e dicendo questo si è già detto troppo). Ma allora la filosofia di Severino, vista come trattazione del significato anziché dell'essente, si presenta come una ermeneutica e questo non credo che Severino possa di sicuro mai accettarlo.
Citando una frase di Bergson:
Tutte le fotografie di una città, prese da tutti i punti di vista possibili, per quanto si completino indefinitamente le une con le altre, non varranno mai quell'esemplare in rilievo che è la città in cui si va a passeggio
affermo che :
Tutti gli infiniti "Sari che vanno a letto", presi da tutte le angolazioni e punti di vista possibili ( sopra sotto il letto), non varranno mai come quell'esemplare vivente di Sari che va effettivamente a letto.
Qui si palesa il primato dell'intelligenza intuitiva su quello della conoscenza analitica. L'intuizione coglie la presenza viva di Sari ( per adesione e simpatia) e il suo essere in divenire, mentre l'analisi deve ricorrere alla frammentazione di "tutti i punti di vista possibili".
Citazione di: maral il 29 Settembre 2016, 22:58:23 PM
Citazione di: sgiombo il 29 Settembre 2016, 08:29:42 AM
Dunque, se ben capisco, per Sini se uno che ci vede bene va a Chamonix e guarda (in una giornata senza nuvole) a sud-est senza dire o pensare "questo é il monte Bianco", allora non vede il monte Bianco, allora il monte Bianco (quella cosa che é -anzi, per assurdo, se ci fosse, sarebbe- la montagna più alta d' Italia) non c' é.
Non sono d' accordo.
Certamente vedrà un monte, perché ha comunque in sé la parola monte e il suo significato, cosa ben più comune dell'avere in sé il significato di Monte Bianco. Ma di sicuro uno stambecco che si arrampica su quel "monte" non vede alcun monte, giacché monte è un nostro concetto, di noi che separiamo soggetto e oggetto e tra gli oggetti monti e pianure e tra i monti le dune di sabbia che spariscono in un giorno quando soffia il vento e quelle di roccia che sono lì da sempre o quasi e comunque ben da prima di noi (che anche questo sta nel significato della parola "monte"). Tutto questo fa parte del nostro mondo in cui abbiamo le parole per dirlo (o meglio più probabilmente le parole hanno noi), non del mondo dello stambecco in cui le parole non ci sono.
CitazioneMa se non ci pensa non ha in sé (il pensiero de-) -la parola monte con il suo significato.
E comunque allora uno che non ha mai visto montagne né sentito parlare di montagne (nel suo proprio personale vocabolario o "bagaglio linguistico" non esiste -ancora- la parola "monte") se viene portato bendato a Chamonix, lo si invita a rivolgersi verso sud-est e gli si toglie la benda non vede il monte Bianco.
Inoltre se gli stambecchi non vedessero nessun monte e neanche nessun albero (non possedendo nemmeno il concetto di "albero") sbatterebbero continuamente contro pini e e abeti, cosa che non mi risulta accadere.
Devo dunque ribadire il mio totale, assluto disaccordo.
CitazioneQuindi, se ben capisco, per un muto (che non sia anche cieco) il monte Bianco (la cosa costituita dal monte Bianco) non c' é, non lo vede.
Di nuovo devo manifestare il mio dissenso.
Condivido qui il tuo dissenso. Sini fa una descrizione molto accurata della fenomenologia del suono che risuona come parola e quindi del senso dell'udito rilevandone la grande differenza dagli altri sensi, per cui, lui dice, solo con l'udito e la fonazione si può istituire una dimensione pubblica, dunque oggettiva, da cui nasce anche il senso pubblicamente riconoscibile (astratto) di se stessi. Sorge spontanea la domanda: ma allora un sordomuto dalla nascita come fa? E soprattutto in quanto sordo, visto che dei suoni, anche se non li emette per fonazione potrà pur sempre produrli?
Credo che qui Sini si spinga un po' troppo oltre nel focalizzarsi sul senso dell'udito (anche se è fondamentale nell'uomo, ad esempio i bambini nati sordi incontrano maggiori difficoltà nel loro sviluppo cognitivo, se ben ricordo, rispetto a quelli nati ciechi), bisognerebbe rifletterci. Occorre anche riconoscere che soprattutto la civiltà Occidentale si è certamente sviluppata sul culto del grafema vocale (è proprio la parola che crea nella Bibbia, la parola di Dio che risuona).
Ma i libri stampati che si vedono e si leggono attraverso la vista, contrariamente ai discorsi pronunciati, per Sini non sarebbero in grado di "istituire una dimensione pubblica", sarebbero come meditazioni interiori "privatamente praticate da ciascuno"?
CitazioneA-ri-dissento, come direbbero a Roma.
(Circa la Bibbia la parola di Dio può essere intesa benissimo come scritta o come semplicemente pensata, oltre che come pronunciata; per esempio i dieci comandamenti su Sinai sarebbero stati scritti su tavole di pietra e non detti da Dio).
Altri motivi di radicale dissenso da parte mia.
Affermi: che per Sini "la parola non è un segno convenzionale, anche se così ci siamo abituati a pensarla alla luce di una vecchia metafisica.
E' astratta in quanto trascende sia chi la pronuncia che chi la ascolta e pone sia l'oggetto che il soggetto, ma non è un segno convenzionale tra parlanti che si sono messi d'accordo come fanno i giocatori di briscola (la metafora è di Sini). Ovviamente ognuno può pensarla come crede, ma qualunque oggetto si presenta nel suo stesso presentarsi con parole che lo nominano incarnandone il significato, se non ha ciò che lo dice non ha significato e se non ha significato quell'oggetto non si presenta nella sua oggettualità (né tanto meno può venire detto pre esistente al suo significare, dato che il suo essere pre esistente sta tutto nel suo significare), qualsiasi cosa esso sia".
Ecco, io credo di pensarla proprio al contrario: gli oggetti esistono anche senza che qualcuno dia loro un nome e li pensi (sarebbe molto comodo se fosse come dice Sini: darei subito il nome -e attribuirei il significato- di "nulla" a Renzi, Obama e tantissimi altri e il mondo sarebbe subito molto, molto migliore).
Inoltre replichi a Phil:
"C'è qualche identità non linguistica secondo te? Io penso di no, se anche tu la pensi così, allora le due affermazioni si equivalgono".
Io la penso esattamente come Phil: le cose (solito esempio del monte Bianco) sono identiche a se stesse anche se nessuno le pensa (chissà quanti monti ci sono su pianeti di altre galassie che nessuno ha mai visto e concettualizzato, ma non per questo perdono al loro identità per diventare laghi, fiumi, mari, alberi, arcobaleni, nuvole o chissà cos' altro ...ah, se te lo sentisse dire Severino!!!).
Circa quest' ultimo affermi:
"La filosofia di Severino per quanto complessa e ardua risulti, è di base semplicissima, afferma semplicemente il principio di identità in modo assoluto e incontrovertibile e il principio di identità è una banalissima tautologia (l'ho provata a spiegare a Sgiombo ma non ci sono riuscito, lui continua a pensare che l'identità tautologica è rispettata nel divenire e che se dico che ora questo A è A, domani può tranquillamente, questo stesso e medesimo A di oggi, essere B, senza vederci nessuna contraddizione).
E io sono costretto a ripeterti la domanda:
Ma da dove salta fuori, nel principio di identità questo "mai" (Se A è A non potrà maiessere qualcosa di diverso da A)?
Se A è A in un determinato tempo o/e luogo non potrà assolutamente in alcun modo essere qualcosa di diverso da A in tale determinato tempo o/e luogo, mentre in un altro tempo (successivo o precedente) potrà benissimo essersi trasformato in (essere stato) B (per esempio: A= l' embrione di ciascuno di noi; B = ciascuno di noi oggi).
Se dico che ora questo A è A, domani può tranquillamente, quello che oggi é il medesimo A di oggi, essere diventato B senza alcuna contraddizione.
Citazione di: Sariputra il 30 Settembre 2016, 01:31:22 AM
Citando una frase di Bergson:
Tutte le fotografie di una città, prese da tutti i punti di vista possibili, per quanto si completino indefinitamente le une con le altre, non varranno mai quell'esemplare in rilievo che è la città in cui si va a passeggio
affermo che :
Tutti gli infiniti "Sari che vanno a letto", presi da tutte le angolazioni e punti di vista possibili ( sopra sotto il letto), non varranno mai come quell'esemplare vivente di Sari che va effettivamente a letto.
Qui si palesa il primato dell'intelligenza intuitiva su quello della conoscenza analitica. L'intuizione coglie la presenza viva di Sari ( per adesione e simpatia) e il suo essere in divenire, mentre l'analisi deve ricorrere alla frammentazione di "tutti i punti di vista possibili".
CitazioneOh, finalmente un motivo di dissenso da parte mia anche dal buon Sari (da bastian contrario per vocazione cominciavo a preoccuparmi).
Per me non si tratta nel caso di Severino (e di Sini) di intelligenza analitica (in generale) ma casomai di inelligenza analitica (razionalità) mal praticata, erroneamente.
L' intelligenza analitica - razionale correttamente praticata riconosce:
a) la realtà e non contraddittorietà del divenire; e
b) l' indipendenza delle cose dagli eventuali pensieri circa le cose.
Anzi, a mio modo di vedere identificare indebitamente (scorrettamente, erroneamente) cose e concetti delle cose e principio di identità - non contraddizione con "fissismo parmenideo o severiniano" non é espressione e conseguenza di un atteggiamento propriamente razionale - analitico ma piuttosto "intuitivo" (se uno afferma di avere queste "intuizionI" sue proprie, personali, soggettive, come si fa a contraddirlo? Queste restano sue intuizioni soggettive. Ma se pretende di dimostrarlo razionalmente é proprio con i nostri -anche tuoi!- ragionamenti che "analiticamente", razionalmente lo confutiamo).
Citazione di: Sariputra il 30 Settembre 2016, 01:31:22 AM
Citando una frase di Bergson:
Tutte le fotografie di una città, prese da tutti i punti di vista possibili, per quanto si completino indefinitamente le une con le altre, non varranno mai quell'esemplare in rilievo che è la città in cui si va a passeggio
affermo che :
Tutti gli infiniti "Sari che vanno a letto", presi da tutte le angolazioni e punti di vista possibili ( sopra sotto il letto), non varranno mai come quell'esemplare vivente di Sari che va effettivamente a letto.
Qui si palesa il primato dell'intelligenza intuitiva su quello della conoscenza analitica. L'intuizione coglie la presenza viva di Sari ( per adesione e simpatia) e il suo essere in divenire, mentre l'analisi deve ricorrere alla frammentazione di "tutti i punti di vista possibili".
...e vai!!! Meno male Sariputra che non capivi la filosofia, hai fatto passi da gigante ultimamente.
Recentemente ho letto proprio di Bergson il suo concetto di tempo rispetto a quello di Einstein e ne nacque una corrispondenza fra loro.
Il mio parere è che hai centrato l'obiettivo.Non esiste una razionalizzazione prima di un'intuizione.
L'intuizione di Severino è aver costruito una logica dialettica in cui la chiave di lettura è come il principio di non contraddizione si relaziona nel principio cardine che è quello dell'identità. Il come si relazionano costruisce a sua volta una forma di ontologia relazionata alla gnoseologia, in quanto gli essenti appaiono o meno in modo astratto o concreto e quindi rimanendo dentro la contraddizione del negativo o risolvendosi nel positivo(è molto sintetico, non me ne voglia il buon Maral).
Ma da dove scaturisce l'intuizione? Possiamo sostenere oltre un ordine gnoseologico, come strumento conoscitivo, anche una suo statuto ontologico? E' un poco come ritornare ai primi post in cui Davintro sosteneva che alcune "regole" (diciamo così) come il tempo fossero ontologicamente nella ragione. Quindi non sono da "scoprire", essendo già in noi.
sono ontologicamente esistenti nella nostra ragione
Citazione di: Phil il 29 Settembre 2016, 23:00:09 PMSull'identità ho trovato un breve video di Severino (https://www.youtube.com/watch?v=0r_febsn0-Y) in cui spiega la sua teoria in modo davvero zenoniano e sofistico (andare al minuto 7:44): A non esiste, in fondo esistono solo A1, A2, A3... e ognuno di questi An può legittimamente essere identificato come B, C, D... è solo una questione di arbitraria definizione di un'identità con un simbolo piuttosto che un altro...
L'individuazione dell'identità è arbitraria e non è affatto contraddittoria con il divenire: si tratta solo di considerare un filmato come un insieme di fotogrammi, ma scambiare il fotogramma come qualcosa di autonomo dal filmato da cui è stato estrapolato, è un gesto che ha indubbio valore estetico (come i virtuosismi linguistici di Heidegger) e come tale va considerato...
CitazioneIn questo intervento, in cui Severino trapassa di continuo indebitamente, scorrettamente dall' "essere" al "diventare", dall' "essere a un certo tempo" all' "essere a un certo altro tempo" (il tavolo non può essere non-tavolo, finché lo é, e perciò -secondo lui- non potrebbe diventare, in un altro succesivo tempo, non-tavolo: per esempio cenere), dall' essere istantaneo all' essere per sempre (eterno), ciò che mi ha più colpito é la battuta con cui si rivolge (circa a metà) a chi fra i presenti già conosce le sue teorie, dicendo che sentire "una barzelletta" (testuale) la seconda volta non fa ridere (o non ha senso, o non é divertente; non ricordo con precisione; sarà modestia e autoironia... sarà...).
Scrivo questo così, tanto per manifestare le mie impressioni...
Citazione di: maral il 29 Settembre 2016, 22:18:27 PM
l'eternità dell'ente non è una congettura, per quanto possa apparire strampalata
Per me l'eternità (così come l'infinito) non può che essere una congettura, perché, per definizione, è ciò che non è verificabile, ma solo ipotizzabile...
Citazione di: maral il 30 Settembre 2016, 00:05:44 AM
non è che prima ci si mette a giocare e poi ci mettiamo d'accordo se quel gioco che abbiamo cominciato ciascuno per conto suo è briscola o poker.
Al riguardo richiamerei ancora la differenza fra linguaggio e lingua, ovvero fra giocare a carte in modo istintivo e non-strutturato (linguaggio come predisposizione innata neurologico-comportamentale, che contempla anche la possibilità del "solitario"), e giocare a carte in modo regolamentato (lingua convenzionale), ma con ciò non voglio riavvolgere il discorso a tre o quattro pagine fa...
In questo interrogarsi:
Citazione di: maral il 30 Settembre 2016, 00:05:44 AMproprio l'ente mi diventa incomprensibile e non tanto perché non arriveremo mai a definirlo completamente, ma perché non sappiamo nemmeno da dove incominciare, dove sta l'ente?
ritrovo echi (subliminali?) di
Citazione di: Phil il 28 Settembre 2016, 08:04:41 AM
Quando e dove avviene il mio manifestarmi come "ente A"?
che sia arrivata a destinazione la bastonata del monaco (non mia)?
Citazione di: maral il 30 Settembre 2016, 00:05:44 AM
allora la filosofia di Severino, vista come trattazione del significato anziché dell'essente, si presenta come una ermeneutica e questo non credo che Severino possa di sicuro mai accettarlo.
Schleiermacher direbbe che possiamo capire Severino meglio di lui stesso... comunque, per come la vedo, quando l'ermeneutica si crede (crede se stessa) una ontologia, quando viene confuso il piano del linguaggio con quello dell'essere, si sconfina nell'estetismo, ovvero nel proporre una prospettiva estetizzata, come dimostra Heidegger (è tutta qui la differenza fra la citazione del "suo" Holderlin e quella di Wittgenstein). Per "prospettiva estetizzata" intendo quella in cui si sta nel circolo ermeneutico partendo dal senso (intuito, congetturato, prefigurato) per arrivare all'essere, piuttosto che (come vorrebbe fare l'ontologia autentica, nonostante lo scacco delle scienze) partire dall'essere per arrivare al senso (per inciso, questo dualismo senso/essere, con tutti i rovesciamenti annessi, può essere problematizzato fino al suo superamento).
L'attualizzazione severiniana di Parmenide è estetizzata (v. il problema zenoniano degli infiniti Sariputra che vanno a dormire), perché procede con un andamento "poetante" (pur sotto le mentite spoglie di un integerrimo locigismo), in cui un precedente senso mitologico (il mito dell'essere, dell'eternità, etc.) detta la concezione dell'essere (esattamente come accade nei culti religiosi e in ogni metafisica), non l'inverso (come tende ad accadere nelle scienze, dove il senso è
costruito a partire dall'essere degli enti).
Nell'estetica infatti la
produzione di senso può prescindere dalla logica e dall'ancoraggio al reale (il linguaggio estetico non conosce vero/falso e parla di un essere che non deve essere presupposto come ontologico) e quando vengono meno questi due presupposti, la scrittura, o meglio, il
logos si fa estetizzato, anche se si presenta come discorso
veritativo sull'essere. L'"ontologia" severiniana forse getta la maschera, svelandosi estetizzata, quando sfocia, con buona pace della logica, in un'escatologia della Gioia, della Gloria, dell'Immenso etc. (ma aspetto eventuali correzioni di chi maneggia questo concetti meglio di me...).
P.s. A scanso di equivoci, preciso che non intendo estetico l'oggetto del discorso severiniano, nè tantomeno voglio dare un'interpretazione estetica della sua ontologia; alludo alla sua prospettiva col termine di "estetizzata" allo stesso modo di come era estetizzata la "visione" proposta dal cubismo: in Severino non c'è il divenire, in Picasso non c'è la prospettiva; in Severino gli enti sono eterni, in Picasso gli enti sono scomposti, etc. la differenza sta nella intenzionalità dell'estetizzare il mondo (anche se sgiombo ha tratteggiato un "colpo di teatro" testamentario decisamente intrigante...) e nello strumento usato (pennello vs penna...).
Citazione di: Sariputra il 30 Settembre 2016, 01:31:22 AM
Citando una frase di Bergson:
Tutte le fotografie di una città, prese da tutti i punti di vista possibili, per quanto si completino indefinitamente le une con le altre, non varranno mai quell'esemplare in rilievo che è la città in cui si va a passeggio
affermo che :
Tutti gli infiniti "Sari che vanno a letto", presi da tutte le angolazioni e punti di vista possibili ( sopra sotto il letto), non varranno mai come quell'esemplare vivente di Sari che va effettivamente a letto.
Qui si palesa il primato dell'intelligenza intuitiva su quello della conoscenza analitica. L'intuizione coglie la presenza viva di Sari ( per adesione e simpatia) e il suo essere in divenire, mentre l'analisi deve ricorrere alla frammentazione di "tutti i punti di vista possibili".
Scusa se puntualizzo, ma altrimenti non ci si intende (ah queste parole!). Non è che la miriade di Sari che vanno a letto siano diversi perché c'è una miriade di punti di vista diversi con cui si può osservare Sari che va a letto (questa è una problematica ulteriore sulla quale Severino penso dissentirebbe), ma perché c'è una miriade di atti che Sari (quell'astrazione che chiamiamo Sari e in cui Sari identifica se stesso e corrisponde al significare del suo unico nome) compie per andare a letto e, poiché ognuno di essi istituisce una differenza per quanto possa essere impercettibile, a ognuno di essi corrisponde un diverso ente, un diverso Sari. Ma ciascuno di questi atti è a sua volta suddivisibile all'infinito in atti ancora più infinitesimi, quindi Siamo sempre e comunque davanti a delle astrazioni per quanto a fondo possiamo andare nella nostra analisi. Dunque alla fine siamo costretti ad ammettere che noi conosciamo solo le cose in astratto, conosciamo il loro significato riflesso dal nome, per quanti sforzi facciamo sono solo i nomi che vediamo.
L'intuizione che ci scalda molto di più gli animi appare certo più veritiera, ma allora dobbiamo mettere da parte ogni pretesa di fondatezza condivisibile, perché quella vita è solo la mia vita (l'io è l'unico, come diceva Stirner), ma anche così si arriva sempre al punto di interrogarsi su cosa sia io, su cosa sia la mia vita, "io" è davvero reale o è un nome astratto? E anche qui non si può avere alcuna risposta, Forse gli unici momenti in cui davvero viviamo sono quelli in cui non pensiamo (e quindi non parliamo, giacché l'uomo è solo parlando che pensa), Non ci resta che il silenzio, ma nessuno riesce a fare un silenzio sufficiente, nemmeno un monaco zen (e se anche ci riuscisse come potrebbe dircelo o dirselo?).
Citazione di: sgiombo il 30 Settembre 2016, 09:09:51 AM
(Circa la Bibbia la parola di Dio può essere intesa benissimo come scritta o come semplicemente pensata, oltre che come pronunciata; per esempio i dieci comandamenti su Sinai sarebbero stati scritti su tavole di pietra e non detti da Dio).
Non mi pare. Quando Dio crea (Genesi) crea con la voce, non scrive da nessuna parte e a Mosè Dio parla e Mosè sente la Sua Voce. Il segno grafico in Occidente è solo traduzione di un fonema, non è originario, ma è il segno di un segno fonico per rendere il segno fonico definitivo, imperituro appunto.
CitazioneEcco, io credo di pensarla proprio al contrario: gli oggetti esistono anche senza che qualcuno dia loro un nome e li pensi (sarebbe molto comodo se fosse come dice Sini: darei subito il nome -e attribuirei il significato- di "nulla" a Renzi, Obama e tantissimi altri e il mondo sarebbe subito molto, molto migliore).
Piacerebbe anche a me, ma purtroppo non accade e non accade non perché le parole sono arbitrarie, mentre quelli sono reali, ma proprio perché le parole non sono il frutto di nessuna arbitrarietà, nessuno dà il nome alle cose come gli pare, il nome corrisponde a quella cosa, perché ci dice cos'è. Senza nome possiamo dire che qualcosa c'è (anzi nemmeno questo a rigore, visto che "qualcosa" è già un nome). ma cos'è quel qualcosa? Ci vuole un nome, ci vuole
il suo nome!
CitazioneIo la penso esattamente come Phil: le cose (solito esempio del monte Bianco) sono identiche a se stesse anche se nessuno le pensa (chissà quanti monti ci sono su pianeti di altre galassie che nessuno ha mai visto e concettualizzato, ma non per questo perdono al loro identità per diventare laghi, fiumi, mari, alberi, arcobaleni, nuvole o chissà cos' altro ...ah, se te lo sentisse dire Severino!!!).
Ma il nome è costitutivo dell'ente, non è lo stesso ente un ente che si chiama in due modi diversi. Ma poi mi fai a dire come fai a conoscere quella cosa come un monte, tanto da dire che è un monte identico al suo essere monte ed è sempre e per tutti un monte, se non hai il nome e quindi il concetto di monte?
CitazioneE io sono costretto a ripeterti la domanda:
Ma da dove salta fuori, nel principio di identità questo "mai" (Se A è A non potrà maiessere qualcosa di diverso da A)?
Salta fuori dal fatto che se tautologicamente A non è non A, non ci sarà mai alcun luogo né alcun tempo in cui A è non A pur restando A così da poter dire che lo stesso A che un tempo era A ora è A che è diventato non A. ossia B. Detto in altri termini quel reale e concreto che fu Sgiombo bambino non può essere mai quel reale e concreto Sgiombo adulto che qui appare restando lo stesso Sgiombo. A meno che appunto non prendiamo solo il suo nome in astratto, perché solo quello, tenuto separato da chi lo porta, sembra essere rimasto lo stesso.
CitazioneSe dico che ora questo A è A, domani può tranquillamente, quello che oggi é il medesimo A di oggi, essere diventato B senza alcuna contraddizione.
Se è così quello che ieri era A ieri resta A, mentre quello che oggi è B non potrà mai essere quello che ieri era A che infatti non è quello che oggi è B.
O ancora "quello ieri era un bambino" - indichiamolo (A) - resta ieri un bambino (A), mentre quello che oggi è un adulto - indichiamolo (B) - è quello che oggi è un adulto (B), quindi non è quello che ieri era un bambino - non è (B) -, solo il nome si può dire che gli è rimasto lo stesso, ma mentre ieri era il nome di un bambino oggi è il nome di un adulto, quindi in fondo anche i nomi sono cambiati a meno di non volerli separare da chi li porta.
Citazione di: Phil il 30 Settembre 2016, 16:26:05 PM
Per me l'eternità (così come l'infinito) non può che essere una congettura, perché, per definizione, è ciò che non è verificabile, ma solo ipotizzabile...
Posso essere d'accordo (Severino non sarebbe e ci direbbe che è ciò di cui facciamo continuamente esperienza proprio nell'apparire degli enti), ma in tal caso si implicherebbe che noi possiamo fare esperienza solo della contraddizione, o meglio che possiamo solo contraddirci.
Citazione
Al riguardo richiamerei ancora la differenza fra linguaggio e lingua, ovvero fra giocare a carte in modo istintivo e non-strutturato (linguaggio come predisposizione innata neurologico-comportamentale, che contempla anche la possibilità del "solitario"), e giocare a carte in modo regolamentato (lingua convenzionale), ma con ciò non voglio riavvolgere il discorso a tre o quattro pagine fa...
Mi limito a chiedere se è mai esistito davvero un linguaggio non strutturato o una lingua senza un fondamento istintivo. Noi continuiamo linguisticamente a separare le cose (produrre astrazioni) sperando così di parlare oggettivamente, mentre in realtà parliamo sempre e solo attorno ai nostri astratti concetti (che va anche bene, dato che non possiamo parlare di altro, basta rendersene conto).
Citazioneche sia arrivata a destinazione la bastonata del monaco (non mia)?
Le bastonate dei monaci arrivano sempre prima o poi :D
CitazioneSchleiermacher direbbe che possiamo capire Severino meglio di lui stesso... comunque, per come la vedo, quando l'ermeneutica si crede (crede se stessa) una ontologia, quando viene confuso il piano del linguaggio con quello dell'essere, si sconfina nell'estetismo, ovvero nel proporre una prospettiva estetizzata, come dimostra Heidegger (è tutta qui la differenza fra la citazione del "suo" Holderlin e quella di Wittgenstein).
Mi dispiace per Schleiermacher e la sua voglia di chiarezza, ma linguaggio è di per sé confuso con l'essere e a separarli trovo si facciano ben più pericolose confusioni.
Citazione...intendo quella in cui si sta nel circolo ermeneutico partendo dal senso (intuito, congetturato, prefigurato) per arrivare all'essere, piuttosto che (come vorrebbe fare l'ontologia autentica, nonostante lo scacco delle scienze) partire dall'essere per arrivare al senso (per inciso, questo dualismo senso/essere, con tutti i rovesciamenti annessi, può essere problematizzato fino al suo superamento).
C'è da dire che anche questa "ontologia autentica" alla fine si rivela solo all'occhio ermeneutico un'interpretazione, che a volte ha valore estetico, altre no, ma il non averlo non la rende per questo più vera, magari solo più brutta.
Severino in realtà non vuole attualizzare Parmenide, anzi, considera Parmenide (con il suo Essere totalizzante) il grande originario proclamatore del Nulla e ritiene che sia proprio da quel Nulla implicato nell'Essere di Parmenide che nasce la follia dell'Occidente. Dire che l'essente è (ove "essente" va inteso al plurale) è qualcosa di radicalmente diverso dal dire che l'Essere (Uno) è. E' proprio a motivo della pluralità infinita degli Essenti che si ha la Gloria, mentre da Parmenide si ha solo una sfera in sé finita che equivale al Non Essere, una sfera perfettamente vuota. La Gloria non è un espediente estetizzante, ma l'infinito apparire degli Enti: come poteva arrivarci Parmenide che ha solo l'Uno?
CitazioneP.s. A scanso di equivoci, preciso che non intendo estetico l'oggetto del discorso severiniano, nè tantomeno voglio dare un'interpretazione estetica della sua ontologia; alludo alla sua prospettiva col termine di "estetizzata" allo stesso modo di come era estetizzata la "visione" proposta dal cubismo: in Severino non c'è il divenire, in Picasso non c'è la prospettiva; in Severino gli enti sono eterni, in Picasso gli enti sono scomposti, etc. la differenza sta nella intenzionalità dell'estetizzare il mondo (anche se sgiombo ha tratteggiato un "colpo di teatro" testamentario decisamente intrigante...) e nello strumento usato (pennello vs penna...).
Ma tu pensi davvero che la visione metafisica classica, quella su cui per senso comune facciamo affidamento, e che immagina uno scorrere nel tempo reale, un ieri, un oggi e un domani effettivi e non immaginati, con un soggetto e un oggetto, un dentro e un fuori ben distinti e separati, sia più realistica? La questione dello scorrere del tempo è di vecchia data, già Agostino la metteva giustamente in dubbio (il passato non è, esiste forse un luogo ove troviamo il passato? Cosa sono passato e futuro se non enti assolutamente senza luogo?).
Ma se vogliamo rimanere in termini pittorici, pensi davvero, ad esempio, che un quadro di Raffaello riproduca cose e persone in modo più reale di un quadro cubista, al di là delle rispettive scelte estetiche?
Citazione di: maral il 30 Settembre 2016, 21:54:24 PM
Citazione di: Sariputra il 30 Settembre 2016, 01:31:22 AMCitando una frase di Bergson: Tutte le fotografie di una città, prese da tutti i punti di vista possibili, per quanto si completino indefinitamente le une con le altre, non varranno mai quell'esemplare in rilievo che è la città in cui si va a passeggio affermo che : Tutti gli infiniti "Sari che vanno a letto", presi da tutte le angolazioni e punti di vista possibili ( sopra sotto il letto), non varranno mai come quell'esemplare vivente di Sari che va effettivamente a letto. Qui si palesa il primato dell'intelligenza intuitiva su quello della conoscenza analitica. L'intuizione coglie la presenza viva di Sari ( per adesione e simpatia) e il suo essere in divenire, mentre l'analisi deve ricorrere alla frammentazione di "tutti i punti di vista possibili".
Scusa se puntualizzo, ma altrimenti non ci si intende (ah queste parole!). Non è che la miriade di Sari che vanno a letto siano diversi perché c'è una miriade di punti di vista diversi con cui si può osservare Sari che va a letto (questa è una problematica ulteriore sulla quale Severino penso dissentirebbe), ma perché c'è una miriade di atti che Sari (quell'astrazione che chiamiamo Sari e in cui Sari identifica se stesso e corrisponde al significare del suo unico nome) compie per andare a letto e, poiché ognuno di essi istituisce una differenza per quanto possa essere impercettibile, a ognuno di essi corrisponde un diverso ente, un diverso Sari. Ma ciascuno di questi atti è a sua volta suddivisibile all'infinito in atti ancora più infinitesimi, quindi Siamo sempre e comunque davanti a delle astrazioni per quanto a fondo possiamo andare nella nostra analisi. Dunque alla fine siamo costretti ad ammettere che noi conosciamo solo le cose in astratto, conosciamo il loro significato riflesso dal nome, per quanti sforzi facciamo sono solo i nomi che vediamo. L'intuizione che ci scalda molto di più gli animi appare certo più veritiera, ma allora dobbiamo mettere da parte ogni pretesa di fondatezza condivisibile, perché quella vita è solo la mia vita (l'io è l'unico, come diceva Stirner), ma anche così si arriva sempre al punto di interrogarsi su cosa sia io, su cosa sia la mia vita, "io" è davvero reale o è un nome astratto? E anche qui non si può avere alcuna risposta, Forse gli unici momenti in cui davvero viviamo sono quelli in cui non pensiamo (e quindi non parliamo, giacché l'uomo è solo parlando che pensa), Non ci resta che il silenzio, ma nessuno riesce a fare un silenzio sufficiente, nemmeno un monaco zen (e se anche ci riuscisse come potrebbe dircelo o dirselo?).
Ma non potremo mai trovare una "fondatezza condivisibile" se io affermo che A diventa necessariamente B e C, ecc. mentre tu sostieni che A è A in eterno. Tutti e due però viviamo come se A deve diventare necessariamente B e poi C e così via. Anche Severino vive come noi e questo io lo chiamo vivere secondo un'intelligenza intuitiva. Con la necessità di spezzare il fluire in frammenti eterni chiamati enti, per poi trovarsi a dover spezzare i supposti enti in altri enti e poi in altri ancora, si riduce l'ente al nulla , o meglio...lo si riduce esattamente a quello che vuole negare, e cioè al Fluire , al Divenire così odioso. Così, alla fine , le due teorie che paiono alla ragione opposte pervengono alla stessa fattuale realtà. Che sarebbe quella che NON possiamo che vivere "come se A diventa B e poi C e così via..."
Che la teoria sia vera o che sia falsa è ininfluente, perchè siamo soggetti alla Necessità della teoria del divenire e perchè l'intelligenza intuitiva la avverte istinitivamente come vera e la può negare solo negando verità a se stessa. e ciò non è possibile perchè l'intelligenza intuitiva precede quella analitica e la fonda. L'intelligenza intuitiva può cogliere e diventare essa stessa l'"insieme", mente l'analitica coglie e analizza la relazione tra le parti dell'insieme ma sempre "separandole" e non riuscendo a cogliere la visione dell'insieme.
Penso che viviamo in un universo regolato da causa ed effetto e che , tutto quello che non conosciamo, che non riusciamo a capire, che ci sembra misterioso,che ci spinge a formulare variopinte teorie, sia semplicemente dovuto all'ignoranza delle cause e non alla mancanza delle stesse. Che poi sia una teoria giudicata "vecchiotta" e demodè, ne me ne può fregà de meno...anche gli ombrellini per ripararsi dal sole sono fuori moda , ma come sarebbero ancora molto comodi! :D
Tra l'altro il concetto che un'idea è superata è totalmente contrario alla teoria degli enti eterni del buon Severino. Come fa ad essere superata se il tempo non esiste?... ::)
P.s. il famoso monaco zen non fa silenzio e non ce lo racconta...di solito bastona!! ;D ;D ;D
Citazione di: maral il 30 Settembre 2016, 23:25:22 PM
Citazione di: Phil il 30 Settembre 2016, 16:26:05 PMPer me l'eternità (così come l'infinito) non può che essere una congettura, perché, per definizione, è ciò che non è verificabile, ma solo ipotizzabile...
Posso essere d'accordo (Severino non sarebbe e ci direbbe che è ciò di cui facciamo continuamente esperienza proprio nell'apparire degli enti), ma in tal caso si implicherebbe che noi possiamo fare esperienza solo della contraddizione, o meglio che possiamo solo contraddirci.
"Contraddizione" solo se restiamo
dentro alla logica (estetizzata) severiniana (ma per la logica classica non c'è contraddizione...)
Citazione di: maral il 30 Settembre 2016, 23:25:22 PMMi limito a chiedere se è mai esistito davvero un linguaggio non strutturato o una lingua senza un fondamento istintivo.
Un linguaggio non strutturato, secondo me (non potendo parlare con certezza di quello usato dall'uomo preistorico!), può essere quello dei neonati (prima che affinino la capacità di imitare); il fondamento istintivo-biologico è sempre quello innato della comunicazione...
Citazione di: maral il 30 Settembre 2016, 23:25:22 PMNoi continuiamo linguisticamente a separare le cose (produrre astrazioni) sperando così di parlare oggettivamente, mentre in realtà parliamo sempre e solo attorno ai nostri astratti concetti
Per questo sottolineavo la differenza fra ermeneutica e ontologia, fra linguaggio/senso ed essere... ovviamente, le parole (astratte) non sono gli enti a cui si riferiscono!
Citazione di: maral il 30 Settembre 2016, 23:25:22 PMMa tu pensi davvero che la visione metafisica classica, quella su cui per senso comune facciamo affidamento, e che immagina uno scorrere nel tempo reale, un ieri, un oggi e un domani effettivi e non immaginati, con un soggetto e un oggetto, un dentro e un fuori ben distinti e separati, sia più realistica? La questione dello scorrere del tempo è di vecchia data, già Agostino la metteva giustamente in dubbio (il passato non è, esiste forse un luogo ove troviamo il passato? Cosa sono passato e futuro se non enti assolutamente senza luogo?).
Il passato lo troviamo trasfigurato nella memoria, mentre gli enti severiniani, prima del loro apparire,
sono ma non sono in nessun tipo di luogo (se ho capito bene): entrambe non sono esperienze di autentico possesso o percezione del passato (che sarebbe logicamente impossibile!), ma quella della memoria come
traccia del divenire mi sembra meno "spericolata" e fantasiosa (ma forse è solo una questione di plausibilità secondo la mia prospettiva...).
Citazione di: maral il 30 Settembre 2016, 23:25:22 PMMa se vogliamo rimanere in termini pittorici, pensi davvero, ad esempio, che un quadro di Raffaello riproduca cose e persone in modo più reale di un quadro cubista, al di là delle rispettive scelte estetiche?
Il quadro di Raffaello mi pare resti più comprensibile, decifrabile, attendibile come rap
presentazione, rispetto ad un quadro di Picasso (così come il divenire resta, per me, più funzionale come chiave di lettura, rispetto ad una metafisica dell'eterno): se tu dovessi mandarmi un quadro per farmi vedere le tue sembianze fisiche (non per stupirmi o darmi qualcosa da appendere in salotto), lo commissioneresti a un Raffaello o a un Picasso?
a mio avviso l'idea della contraddittorietà del divenire è frutto della confusione tra piano logico-formale e piano materiale-esistenziale. A non potrà mai essere sul piano logico non-A, questa resta una verità indubitabile fondamento trascendentale del nostro pensare. Ma dal punto di vista reale ed esistenziale nessun ente è mai solo una lettera, una proprietà, ma una struttura complessa (anche le entità apparentemente più semplici come pietre e sassi) di differenti proprietà, un intreccio di queste. A non potrà mai essere non-A vuol dire "essere in Italia" non sarà mai come "non essere in Italia", ma non vuol dire che "Tizio è in Italia" sia la condizione definitiva di Tizio, che non potrebbe mai andarsene dall'Italia e visitare un paese straniero. L'immutabilità sottesa al principio di non contraddizione riguarda il significato concettuale di un singolo modo d'essere considerato astrattamente, e formalizzabile in modo simbolico con la lettera A, non la concretezza di un ente sostanziale che vive in una temporalità diacronica (Tizio) e che si pone come relazione dinamica tra una molteplicità di proprietà che non possono essere, se contestualizzate all'interno della realtà del soggetto a cui appartengono. La pretesa di dedurre un'ontologia, una teoria sulla realtà a partire da leggi regolanti i rapporti tra puri concetti rende l'eleatismo in fondo una sorta di idealismo ante litteram che anticipa, giungendo alle sue conclusioni radicali, i sistemi idealisti tedeschi dell'ottocento. A tale confusione idealista occorre rispondere con il realismo aristotelico che distingue all'interno di un ente proprietà sostanziali che restano immutabili all'interno di un ente, finendo con il costituirlo come "quell'ente e non un altro" e proprietà accidentali, mutevoli. Che Tizio si trovi in Italia o in Germania riguarda sue proprietà accidentali, soggette al divenire, che però convivono insieme ad un substrato immutabile, ciò che rende Tizio Tizio e non Caio,la sua sostanzialità, la sua identità personale. Nell'ultimo senso l'essere di Tizio vede il suo nullificarsi come contradditorio, dunque insensato. La soluzione dunque è considerare il divenire non il passaggio dall'essere al nulla, ma trasformazione qualitativa di accidenti che si attua però all'interno dell' essere, essere che resta sempre tale senza mai cadere nel Nulla assoluto.
La distinzione tra il piano logico formale e quello ontologico non deve però farci cadere nell'errore di considerare qualunque discorso sull'Essere universale, immutabile, escludente il nulla, come necessariamente astratto, filosoficamente inconcludente, tautologico, sofisitico, opposto alla concretezza del divenire. In realtà l'Essere considerato in sè stesso, nella sua indeterminatezza, ha una sua concretezza che gli deriva dall'essere la condizione necessaria della manifestazione di ogni ente particolare e della giudicabilità. Ogni ente per essere predicato, giudicato, ha bisogno che si manifesti a noi come avente delle caratteristiche che lo rendono un "non nulla". Affermare, giudicare, predicare delle proprietà circa un soggetto equivale a considerare quel soggetto come avente un qualunque modo d'essere, dunque un essere. L'essere è cioè il presupposto trascendentale dell'affermare qualcosa di qualcuno, dell'affermare predicati di un soggetto, ciò che determina di fatto la presenzialità di qualunque cosa. Ciò che non posso in alcun modo giudicare è il Nulla, l'assoluto non-presente. In questo modo si può dire che l'idea di Essere come presupposto trascendentale della giudicabilità è co-implicata nell'idea di Universalità, quest'ultima intesa come presupposto trascendentale della formazione dei concetti, che a loro volta sono i termini che compongono i giudizi, seppur sia la giudicabilità e la concettualizzazione hanno bisogno di un contenuto esperienziale per poter concretezzarsi. Questa relazione di co-implicazione tra idea dell' "essere" e idea di "universalità" compone una struttura originaria (non voglio dire innata) fondante la nostra soggettività mentale.
Questo discorso potrebbe essere contestato dal punto di vista dell'idea (e qui finisco con lo sfiorare l'altro tema in cui mi pare si sia nelle ultime pagine orientata la discussione, il tema del rapporto tra linguaggio-cosa) che nella sintassi della nostra lingua l'essere si limita ad essere una copula, e non un predicato, per il quale si potrebbe dire che ciò che ho di fronte è un "essere". Ma in realtà occorre che l'analisi dei principi fondamentali della soggettività pensante, la speculazione filosofica, sia indipendente dalla molteplicità delle forme culturali linguistiche, e che cerchi di giungere a conclusioni necessarie attraverso un lavoro critico razionale di setaccio e separazione degli aspetti contingenti dagli aspetti essenziali all'interno dell'esperienza di ciò che tematizziamo. Identificare le possibilità del pensiero con quelle del linguaggio dovrebbe portare a smentire l'idea che ogni giudizio presupponga la presenza della nostra mente dell'idea dell'essere sulla base del fatto che alcuni giudizi non sono in lingua italiana strutturati in riferimento esplicito all'essere, tutti giudizi in cui l'essere non compare come soggetto o copula. Ma l'obiezione viene meno nel momento in cui l'Essere non va considerato come parola, convenzione culturale, ma come oggetto di un'intuizione intellettuale di cui ci si può render conto nell'analisi della nostra esperienza considerata a un livello interiore, preesistente alla traduzione a scopi comunicativi con l'esterno in forma simbolica, cioè con le parole. Cioè anche quando dico e scrivo "ho una maglietta","piove", "mangio la piadina", sto utilizzando l'idea dell'Essere, a prescindere dalla sua non utilizzazione a livello linguistico.
Citazione di: maral il 30 Settembre 2016, 22:39:00 PM
Citazione di: sgiombo il 30 Settembre 2016, 09:09:51 AM
(Circa la Bibbia la parola di Dio può essere intesa benissimo come scritta o come semplicemente pensata, oltre che come pronunciata; per esempio i dieci comandamenti su Sinai sarebbero stati scritti su tavole di pietra e non detti da Dio).
Non mi pare. Quando Dio crea (Genesi) crea con la voce, non scrive da nessuna parte e a Mosè Dio parla e Mosè sente la Sua Voce. Il segno grafico in Occidente è solo traduzione di un fonema, non è originario, ma è il segno di un segno fonico per rendere il segno fonico definitivo, imperituro appunto.
Citazione1 Non ho scritto che secondo la Bibbia (per quel che me ne frega, mi verrebbe da dire se non volessi evitare di urtare la suscettibilità dei credenti) Dio si rivolge agli uomini "solo" con parole scritte, ma "anche", come dimostra l' elargizione su pietra dei dieci comandamenti.
2 Non ho mai sostenuto la colossale corbelleria secondo cui é stata inventata prima la scrittura e dopo il linguaggio parlato.
CitazioneEcco, io credo di pensarla proprio al contrario: gli oggetti esistono anche senza che qualcuno dia loro un nome e li pensi (sarebbe molto comodo se fosse come dice Sini: darei subito il nome -e attribuirei il significato- di "nulla" a Renzi, Obama e tantissimi altri e il mondo sarebbe subito molto, molto migliore).
Piacerebbe anche a me, ma purtroppo non accade e non accade non perché le parole sono arbitrarie, mentre quelli sono reali, ma proprio perché le parole non sono il frutto di nessuna arbitrarietà, nessuno dà il nome alle cose come gli pare, il nome corrisponde a quella cosa, perché ci dice cos'è. Senza nome possiamo dire che qualcosa c'è (anzi nemmeno questo a rigore, visto che "qualcosa" è già un nome). ma cos'è quel qualcosa? Ci vuole un nome, ci vuole il suo nome!
CitazioneSe nessuno da il nome alle cose come gli pare come mai esistono centinaia di lingue nelle quali in molti casi il medesimo concetto é espresso da vocaboli diversissimi fra loro?
Sono forse le cose poliglotte anziché gli uomini?
Ovvio che senza nome non possiamo parlare delle cose (ma quando mai avrei scritto quest' altra corbelleria?); ma le cose sono reali indipendentemente dagli eventuali nomi che si danno loro e dal fatto che se ne parli o meno (esempio delle numerosissime montagne su pianeti di altre galassie che nessuno vedrà e nominerà mai).
Conoscenza delle cose =/= le cose.
CitazioneIo la penso esattamente come Phil: le cose (solito esempio del monte Bianco) sono identiche a se stesse anche se nessuno le pensa (chissà quanti monti ci sono su pianeti di altre galassie che nessuno ha mai visto e concettualizzato, ma non per questo perdono al loro identità per diventare laghi, fiumi, mari, alberi, arcobaleni, nuvole o chissà cos' altro ...ah, se te lo sentisse dire Severino!!!).
Ma il nome è costitutivo dell'ente, non è lo stesso ente un ente che si chiama in due modi diversi. Ma poi mi fai a dire come fai a conoscere quella cosa come un monte, tanto da dire che è un monte identico al suo essere monte ed è sempre e per tutti un monte, se non hai il nome e quindi il concetto di monte?
CitazioneA no? Dunque il fiume Po e l' Eridano sono due diversi corsi d' acqua?
E il Benaco e il Garda, l' Iseo e il Sebino, ecc.?
Se non conosco la parola "monte" e il relativo concetto non posso sapere cos' é un monte e se "quella cosa alta che vedo" é un monte.
Ma non per questo "quella cosa alta" non esiste o non é un monte (e se tu invece pensi che sia diventato un lago non dirlo a Severino...)!
CitazioneE io sono costretto a ripeterti la domanda:
Ma da dove salta fuori, nel principio di identità questo "mai" (Se A è A non potrà maiessere qualcosa di diverso da A)?
Salta fuori dal fatto che se tautologicamente A non è non A, non ci sarà mai alcun luogo né alcun tempo in cui A è non A pur restando A così da poter dire che lo stesso A che un tempo era A ora è A che è diventato non A. ossia B. Detto in altri termini quel reale e concreto che fu Sgiombo bambino non può essere mai quel reale e concreto Sgiombo adulto che qui appare restando lo stesso Sgiombo. A meno che appunto non prendiamo solo il suo nome in astratto, perché solo quello, tenuto separato da chi lo porta, sembra essere rimasto lo stesso.
CitazioneTautologicamente A non é non A a un tempo e luogo determinato; in altro tempo e luogo può benissimo diventare B nel pieno rispetto del principio di identità - non contraddizione.
Infatti io non sono sempre esattamente, integralmente lo stesso Sgiombo che ero da bambino: quello non é esattamente, integralmente lo stesso Sgiombo di ora (tempi diversi, cose diverse nel pieno rispetto del pr. di identità-non contraddizione!), ma é diventato lo Sgiombo (in parte diverso) di ora: si, solo il nome é rimasto esattamente lo stesso, mentre la "cosa" (io) é cambiata!
CitazioneSe dico che ora questo A è A, domani può tranquillamente, quello che oggi é il medesimo A di oggi, essere diventato B senza alcuna contraddizione.
Se è così quello che ieri era A ieri resta A, mentre quello che oggi è B non potrà mai essere quello che ieri era A che infatti non è quello che oggi è B.
O ancora "quello ieri era un bambino" - indichiamolo (A) - resta ieri un bambino (A), mentre quello che oggi è un adulto - indichiamolo (B) - è quello che oggi è un adulto (B), quindi non è quello che ieri era un bambino - non è (B) -, solo il nome si può dire che gli è rimasto lo stesso, ma mentre ieri era il nome di un bambino oggi è il nome di un adulto, quindi in fondo anche i nomi sono cambiati a meno di non volerli separare da chi li porta.
CitazioneNo, quello che ieri era A oggi é diventato B senza alcuna contraddizione.
L' adulto di oggi non é esattamente integralmente il bambino di ieri proprio per il fatto che il bambino di ieri é diventato l' adulto di oggi.
Ed é appunto per questo che quello che ieri era il nome di un bambino oggi é (diventato) il nome di un adulto (ma se il nome era Giulio, tale resta senza cambiare, a meno che non lo decida per un qualche motivo il suo portatore arbitrariamente, e convenzionalmente non venga accettato dai parlanti).
Credo che comunque la si pensi, il dibattito ricco di significati che si sta qui sviluppando, faccia risaltare il punto focale che la filosofia di Severino (per quanto quasi sconosciuta all'estero) costituisce. La sua è filosofia nel senso più alto del termine, proprio per la carica dirompente di quanto sostiene come incontrovertibile (ammesso che oggi si sia ancora disposti ad accettare l'incontrovertibilità), non un semplice gioco formale (come lo avverte Paul 11) condotto con una logica estetizzata (come scrive Phil) fine a se stessa (peraltro la logica che usa Severino è quella della dialettica hegeliana, né più né meno). Lo sottolineano sia Cacciari che Sini nel loro discorso su Severino in occasione dell'omaggio tributatogli alla presentazione di "Dike" in questo video che ho trovato molto interessante e in cui vi sono vari e profondi riferimenti a quanto fin qui discusso:
https://www.youtube.com/watch?v=01wBjB1jMro Se avrete la pazienza di visionarlo poi credo sarà interessante discuterne: le posizioni dei tre filosofi emergono ben evidenti nella registrazione.
Vengo a qualche commento su alcune delle vostre ulteriori osservazioni.
Sariputra chiede in sostanza che influenza può mai avere concretamente una teoria che nega il divenire, quando alla comunque con il divenire, che lo si voglia o no, si ha da fare conto tutti, Severino compreso. Cosa importa intendere il divenire come un continuo apparire, se poi l'apparire della totalità dell'ente (che corrisponde alla sua eternità), non appare e, lo spiega Sini commentando e spiegando per noi il passo su "Dike", non appare giacché ciò che sopraggiunge non può essere l'eterno, non può essere la totalità, pur sopraggiungendo. Io penso che, sia pure in modo solo formale, la posizione severiniana mostri comunque l'assurdo della pretesa oggettiva della morte, mostrando come essa sia negata in partenza dalla premessa logica fondamentale, dalla pura e semplice tautologia dell'esistenza. Sini riferisce questa eternità al significato (che qui afferma esplicitamente venir prima della cosa) e su questo piano è disposto a seguire Severino, anche se poi la conclusione spinoziana di Sini non può essere con lui condivisa. Ma quello che è essenziale e che fa la differenza è appunto l'incontrovertibile certezza logica (il Destino nell'accezione in cui Severino lo intende) che appunto la morte è solo un'interpretazione errata dell'eterno apparire degli enti. Le conseguenze sono enormi e prima tra tutte che non c'è bisogno di inventarsi alcun eterno privilegiato ente supremo (Dio o principio razionale, o qualsiasi altro onnicomprensivo contenitore di mortalità) per sentirsi salvi e al riparo da essa, perché ognuno, solo perché è, è già eternamente salvo, nessuna eternità può venirgli donata, con tutte le ambiguità e i ricatti che i doni recano con sé. Fosse pure, come dice spinozianamente Sini, che "questa è
l'opinione che il modo si fa della sua eterna esistenza" si tratta di un'opinione che fa un'enorme differenza nel modo di intendere l'esistenza nella sua stessa apparente contingenza e, se non altro, accoglie l'aver gettata alle ortiche ogni metafisica trascendente in una sorta di immanenza assoluta in ogni infinitesimo ente dell'eternità. Riesco a farti sentire la differenza e la rilevanza che ha sul significato?
Dice poi Phil:
CitazioneIl passato lo troviamo trasfigurato nella memoria, mentre gli enti severiniani, prima del loro apparire, sono ma non sono in nessun tipo di luogo (se ho capito bene): entrambe non sono esperienze di autentico possesso o percezione del passato (che sarebbe logicamente impossibile!), ma quella della memoria come traccia del divenire mi sembra meno "spericolata" e fantasiosa (ma forse è solo una questione di plausibilità secondo la mia prospettiva...).
No, gli eterni di Severino sono comunque in altri cerchi dell'apparire, in altri luoghi e contesti umani ove appaiono in modo diverso.
Quello su cui concordo è che il passato trasfigurato nella memoria (il passato presente sempre variabile al presente) non è il passato, come non è il passato quello che ricostruiamo nelle storiografie dai resti che troviamo nel presente, ricostruzioni che sono sempre prodotte solo dal presente modo di intendere. Il passato non c'è e non ha luogo plausibile, anche se alcune presenti elaborazioni di questi immaginari luoghi del passato ci sembrano più attendibili di altre, ma solo perché si accordano meglio con il nostro modo presente di essere.
Il divenire (a differenza di un mio ritratto dipinto da Raffaello o da Picasso, che dopotutto mostrano aspetti diversi dello stesso ente) è il solo modo che abbiamo di vedere le cose, ma questo non significa che sia il loro modo di essere, anzi non lo è, è il loro modo di apparire:
sopraggiungendo e oltrepassandoci mentre continuano sempre a essere.
Citazione di: davintro il 01 Ottobre 2016, 02:10:58 AM
Che Tizio si trovi in Italia o in Germania riguarda sue proprietà accidentali, soggette al divenire, che però convivono insieme ad un substrato immutabile, ciò che rende Tizio Tizio e non Caio,la sua sostanzialità, la sua identità personale.
E qual è questo substrato immutabile? Dove sta? Tu dici, seguendo Aristotele, che ci sono delle proprietà accidentali che possono variare, mentre altre che definiscono stabilmente l'identità. Facile a dirsi, ma quali? Tizio è sempre Tizio perché si chiama sempre così e basta? Perché dovrebbe essere solo accidentale l'essere in Germania o in Italia di Tizio? Cos'è il sostanziale? Forse la forma del naso di Tizio che è rimasta sempre la stesa da quando ce lo ricordiamo? O il suo modo di sentire e di pensare? O la sua anima? Qui si accusa di metafisicità astratta e derivazione parmenidea un modo di pensare che vede che Tizio è espresso da ognuno dei suoi modi effettivi di essere, nessuno escluso, rispetto a un pensiero ben più metafisico e astratto che pretende di estrarre tra tutti questi modi una sostanza indefettibile sulla base della quale Tizio, pur cambiando resta sempre lo stesso. E' qui che sta l'astrazione e il conseguente errore, non il contrario!
Citazione di: maral il 01 Ottobre 2016, 14:43:32 PM
Sariputra chiede in sostanza che influenza può mai avere concretamente una teoria che nega il divenire, quando alla comunque con il divenire, che lo si voglia o no, si ha da fare conto tutti, Severino compreso. Cosa importa intendere il divenire come un continuo apparire, se poi l'apparire della totalità dell'ente (che corrisponde alla sua eternità), non appare e, lo spiega Sini commentando e spiegando per noi il passo su "Dike", non appare giacché ciò che sopraggiunge non può essere l'eterno, non può essere la totalità, pur sopraggiungendo. Io penso che, sia pure in modo solo formale, la posizione severiniana mostri comunque l'assurdo della pretesa oggettiva della morte, mostrando come essa sia negata in partenza dalla premessa logica fondamentale, dalla pura e semplice tautologia dell'esistenza. Sini riferisce questa eternità al significato (che qui afferma esplicitamente venir prima della cosa) e su questo piano è disposto a seguire Severino, anche se poi la conclusione spinoziana di Sini non può essere con lui condivisa. Ma quello che è essenziale e che fa la differenza è appunto l'incontrovertibile certezza logica (il Destino nell'accezione in cui Severino lo intende) che appunto la morte è solo un'interpretazione errata dell'eterno apparire degli enti. Le conseguenze sono enormi e prima tra tutte che non c'è bisogno di inventarsi alcun eterno privilegiato ente supremo (Dio o principio razionale, o qualsiasi altro onnicomprensivo contenitore di mortalità) per sentirsi salvi e al riparo da essa, perché ognuno, solo perché è, è già eternamente salvo, nessuna eternità può venirgli donata, con tutte le ambiguità e i ricatti che i doni recano con sé. Fosse pure, come dice spinozianamente Sini, che "questa è l'opinione che il modo si fa della sua eterna esistenza" si tratta di un'opinione che fa un'enorme differenza nel modo di intendere l'esistenza nella sua stessa apparente contingenza e, se non altro, accoglie l'aver gettata alle ortiche ogni metafisica trascendente in una sorta di immanenza assoluta in ogni infinitesimo ente dell'eternità. Riesco a farti sentire la differenza e la rilevanza che ha sul significato?
CitazioneNon vorrei che il tono decisamente polemico e forse eccessivamente sarcastico delle mie obiezioni (sono fatto così, mi dispiace...) inducesse qualcuno, e men che meno il sempre correttissimo (forse a differenza di me...) Maral, a credere che io non consideri (e rispetti) quella di Severino (ma ovviamente anche di Sini) filosofia nel senso più alto del termine, proprio anche (nel caso di Severino) per la carica dirompente di quanto sostiene come incontrovertibile (ammesso che oggi si sia ancora disposti ad accettare l'incontrovertibilità).
Semplicemente la ritengo gravemente errata (sarò presuntuoso, ma non sono disposto a piegarmi all' autorità di nessuno, preferisco sparare -eventualmente- cazzate di cui il mio senso critico mi fa convinto).
Credo che, seguendo Severino, non ci sia bisogno di inventarsi alcun eterno privilegiato ente supremo (Dio o principio razionale, o qualsiasi altro onnicomprensivo contenitore di immortalità) per sentirsi salvi e al riparo dalla morte per il semplice fatto che è la sua stessa filosofia a costituire un' ontologia, sia pure pretesa non metafisica e immanente, che erroneamente e falsamente (a mio modestissimo avviso) pretende di garantire una sorta di immanenza assoluta in ogni infinitesimo ente dell'eternità (ovvero, per dirlo più prosaicamente, di scongiurare lo spiacevole inconveniente della morte cui tutti siamo destinati; senza iniziale maiuscola, naturalistissimamente).
Concordo che Il passato non c'è e non ha luogo plausibile (non é più reale), anche se alcune presenti elaborazioni di questi immaginari luoghi del passato ci sembrano più attendibili di altre, ma solo perché si accordano meglio con il nostro modo presente di essere.
Ma non per questo non è il passato quello che ricostruiamo nelle storiografie dai resti che troviamo nel presente, ricostruzioni che sono sempre prodotte solo dal presente modo di intendere: il passato è passato e non è più (presentemente, attualmente, realmente) reale, anche se l' illudersi che lo sia e che lo sia in eterno consola, esattamente come le metafisiche della presunta eternità dello spirito o del pensiero e le religioni, di fronte alla prospettiva della morte.
Citazione di: maral il 01 Ottobre 2016, 14:43:32 PMCosa importa intendere il divenire come un continuo apparire, se poi l'apparire della totalità dell'ente (che corrisponde alla sua eternità), non appare e, lo spiega Sini commentando e spiegando per noi il passo su "Dike", non appare giacché ciò che sopraggiunge non può essere l'eterno, non può essere la totalità, pur sopraggiungendo.
[corsivo mio]
L'assunto in corsivo è la congettura fondante che andrebbe ragionata/spiegata/dimostrata, non presupposta, altrimenti è inevitabile che i conti torneranno sempre (tramite
petitio principii).
Citazione di: maral il 01 Ottobre 2016, 14:43:32 PMIo penso che, sia pure in modo solo formale, la posizione severiniana mostri comunque l'assurdo della pretesa oggettiva della morte, mostrando come essa sia negata in partenza dalla premessa logica fondamentale, dalla pura e semplice tautologia dell'esistenza.
Ricorderei che la logica prescinde dal fattore tempo, ma la vita no... mentre parlo con qualcuno, io e lui, siamo solo due enti che comunicano, oppure siamo un'infinità di enti per cui l'ente-Phil che inizia la conversazione non è lo stesso ente-Phil che la conclude? Se è così, come spiegare l'illusione della
continuità della conversazione per la coscienza e la memoria?
Comunque, l'ente Phil-cadavere è eternamente e oggettivamente morto (quindi la morte non esce affatto di scena!), per cui fatemi le condoglianze finché sono vivo... o dovrei dire fate le condoglianze a qualcuno dei tanti Phil vivi ;)
Citazione di: maral il 01 Ottobre 2016, 14:43:32 PMLe conseguenze sono enormi e prima tra tutte che non c'è bisogno di inventarsi alcun eterno privilegiato ente supremo (Dio o principio razionale, o qualsiasi altro onnicomprensivo contenitore di mortalità) per sentirsi salvi e al riparo da essa, perché ognuno, solo perché è, è già eternamente salvo, nessuna eternità può venirgli donata, con tutte le ambiguità e i ricatti che i doni recano con sé.
Ho il sospetto che in questo sia l'estremismo metafisico di Severino: non un ente supremo, ma tutti gli enti sono supremi possedendo le caratteristiche assolute (eternità, immortalità...). Severino in fondo ha divinizzato gli enti (plurale obbligatorio) al punto che, proprio come con le divinità, essi non hanno un tempo ed uno spazio proprio, ma ogni tanto si concedono ad una rivelazione-manifestazione, sulla cui causa sarebbe interessante avere delucidazioni:
perché l'ente eterno appare? cosa lo porta ad apparire?
Tempo e spazio, se ho ben capito, per gli enti eterni non esistono, esistono sono nella loro mondana apparizione; eppure:
quanto dura un ente? dov'è un ente quando non appare? Sono domande che forse minano tutta la solidità dell'eternalismo severiniano. Ora che sto scrivendo, quanti enti-Phil si avvicendano? Uno ogni lettera? Uno ogni battito di ciglia? Uno al minuto? La decisione è arbitraria, tutt'altro che logicamente solida... poi c'è quella "fede" nell'ente eterno che, quando non appare,
è ma non è (da nessuna parte certa), e anche qui la logica aggrotta la fronte...
Citazione di: maral il 01 Ottobre 2016, 14:43:32 PMl'aver gettata alle ortiche ogni metafisica trascendente in una sorta di immanenza assoluta in ogni infinitesimo ente dell'eternità.
Secondo me, ogni volta che sale sul palco il concetto di eternità, lo spettacolo non può che essere metafisico... così come le spade laser e le astronavi denotano un film di fantascienza, parimenti la """presenza""" dell'eterno denota una teoria metafisica (sempre stando al mio modo di valutare; secondo il quale i
mmanentizzare l'eternità nella manifestazione degli enti è uno dei gesti più filo-trascendentali che possano compiersi...).Citazione di: maral il 01 Ottobre 2016, 14:43:32 PMNo, gli eterni di Severino sono comunque in altri cerchi dell'apparire, in altri luoghi e contesti umani ove appaiono in modo diverso.
Scappatoia estetizzata o universi paralleli? :) Gli eterni, come osservavi, non possono
sempre essere manifesti; ma quando non lo sono, dove sono?
Citazione di: maral il 01 Ottobre 2016, 14:43:32 PMun mio ritratto dipinto da Raffaello o da Picasso, che dopotutto mostrano aspetti diversi dello stesso ente
Raffaello raffigura, Picasso sfigura (artisticamente parlando ;D ), Raffaello "rispetta", asseconda la percezione dell'occhio umano, Picasso la
trascende proponendo un "astigmatismo stroboscopico"...
Citazione di: maral il 01 Ottobre 2016, 14:43:32 PMQui si accusa di metafisicità astratta e derivazione parmenidea un modo di pensare che vede che Tizio è espresso da ognuno dei suoi modi effettivi di essere, nessuno escluso, rispetto a un pensiero ben più metafisico e astratto che pretende di estrarre tra tutti questi modi una sostanza indefettibile sulla base della quale Tizio, pur cambiando resta sempre lo stesso. E' qui che sta l'astrazione e il conseguente errore, non il contrario!
"Tizio, pur cambiando resta sempre lo stesso" è più surreale (nel senso nobile del termine) di "Tizio è/sono un susseguirsi di enti eterni che appaiono e scompaiono ma consentono una continuità del flusso di coscienza e di memoria"? Opinioni "estetiche"...
"Tizio cambia restando sempre lo stesso" è un paradosso basato sulla cosiddetta "anfibolia", uso ambiguo dei termini: ciò che cambia e ciò che resta lo stesso sono su due piani differenti, infatti ciò che cambia è il corpo, l'apparenza, etc., mentre ciò che resta lo stesso è l'identità (per come l'ho descritta parlando della "nave di Teseo" nell'omonimo topic, senza che vi annoi oltre!).
P.s. Appena posso cercherò di gustarmi quel video, grazie per il link!
Per quanto riguarda la questione della poliglossia posta da Sgiombo, ossia perché mai le lingue sono tante anziché una sola, noto solo che, anche se sono tante non significa che le tante parole usate per designare la stessa cosa non implica che queste parole vengano messe arbitrariamente a posteriori (tra l'altro è anche vero il contrario, si può usare un'unica parola per designare tante cose). Vuol solo dire che i significati si presentano in molti modi diversi (come inizia Aristotele il libro della Metafisica: "l'Essere si dice in molti modi" e i modi di dirlo potremmo pensare che sono gli enti), ma non c'è altro modo che la cosa (l'essente) si presenti se non attraverso l'espressione dei suoi significati (che debbano poi essere tutti o ne basti solo qualcuno è faccenda collegata a quella degli Eterni di Severino, l'importante comunque è non credere che quando se ne sono presentati solo alcuni, quei pochi siano tutto ciò che si può dire, questo è quello che ho chiamato astrazione e Severino pensiero astratto dell'astratto).
In fondo è vero: le cose significando sono poliglotte e insegnano con la loro presenza fisica i loro linguaggi agli uomini che le percepiscono, i quali (seguendo la distinzione di Phil) poi ne fanno delle lingue con cui parlarsi.
CitazioneOvvio che senza nome non possiamo parlare delle cose (ma quando mai avrei scritto quest' altra corbelleria?); ma le cose sono reali indipendentemente dagli eventuali nomi che si danno loro e dal fatto che se ne parli o meno (esempio delle numerosissime montagne su pianeti di altre galassie che nessuno vedrà e nominerà mai).
Conoscenza delle cose =/= le cose.
Il fatto che ci siano montagne che nessuno ha mai visto, come il fatto che quella montagna c'era anche prima che ci fosse un uomo a dire il suo nome è ancora nel significato della parola "montagna" che permette di pensarla ovunque si possano formare delle rocce e ci siano moti tettonici, la montagna non è una cosa in sé, ma un significato ed è del significato che solo si parla e con i cui segni si parla e anche si agisce.
La conoscenza della cosa è effettivamente la cosa solo se ne cogliamo tutti i significati, ossia tutte le relazione che accadendo essa instaura, ma questo, concordo, è impossibile ed è il motivo per cui avremo sempre qualcosa ancora da conoscere e da poter dire su qualsiasi cosa.
CitazioneA no? Dunque il fiume Po e l' Eridano sono due diversi corsi d' acqua?
E il Benaco e il Garda, l' Iseo e il Sebino, ecc.?
No, ma quei due nomi alludono a significati diversi del medesimo corso d'acqua (astratto come una pura entità fisica). Il fatto di chiamare quel corso d'acqua Po o Eridano indica a chi li chiama in un modo o a chi li chiama nell'altro una storia di significati diversi che non è lui a decidere arbitrariamente cosi da credere che chi lo chiama Po avrebbe benissimo potuto chiamarlo anche Eridano o viceversa. E' solo quando in questi nomi non se ne sente più il significato che diventano solo etichette interscambiabili e sulle quali ci si può anche mettere d'accordo su come segnare quel corso d'acqua, solo fisicamente inteso, sulla carta geografica.
E' chiaro poi che il "corso d'acqua" o la "cosa alta" esistono comunque li chiami, ma esistono anch'essi come significati: corso d'acqua e cosa alta sono pur sempre ancora parole con i loro significati, no? E sono proprio le parole che nominano le cose che solo consentono significandola la permanenza presso di noi di qualsiasi cosa.
CitazioneTautologicamente A non é non A a un tempo e luogo determinato; in altro tempo e luogo può benissimo diventare B nel pieno rispetto del principio di identità - non contraddizione.
Sgiombo, se A è sempre A, in nessun altro luogo o tempo può essere B che è non A. Puoi dirmi che A e B condividono degli aspetti in comune, ad esempio il nome (proprio perché cose diverse possono avere lo stesso nome quando ci si limita a considerarle per quella parte dei loro significati che condividono e quindi le si prende in astratto), ma se li consideri nella loro totalità di significato, ossia per quello che concretamente sono, A e B non sono lo stesso ente. Tu stesso ammetti ovviamente che il bambino Sgiombo non è l'adulto Sgiombo, ma se dici che oggi lo è diventato dici che quel bambino oggi è davvero quell'adulto proprio mentre riconosci che non lo è e non lo è in nulla tranne il nome, ma a cosa si riferisce quel nome che accomuna quei due diversi enti, il bambino e l'adulto?
Citazione di: Phil il 01 Ottobre 2016, 17:52:30 PM
L'assunto in corsivo è la congettura fondante che andrebbe ragionata/spiegata/dimostrata, non presupposta, altrimenti è inevitabile che i conti torneranno sempre (tramite petitio principii).
L'assunto in questione quindi è: totalità dell'ente = eternità dell'ente
Sia A un essente, ad esempio questa lampada accesa. se l'essente è (se questa lampada accesa è), è in tutti i suoi modi di essere, nessuno escluso (se non fosse in tutti i suoi modi di essere, sarebbe un altro essente, ad esempio una lampada spenta). Come si può allora dire che questa lampada accesa cessa di essere una lampada accesa (cessa di essere quello che è) per essere una lampada spenta senza passare da un ente all'altro? Non è forse una contraddizione pensare che questa lampada che quello è (nella totalità di quello che è) in quanto è accesa poi è spenta? E' qui che si può anche capire tutta la differenza tra il divenire e l'apparire: con il divenire si crede che la stessa lampada possa passare da accesa a spenta restando la stessa cosa al cui significato sostanziale i modi "acceso" o "spento" sono del tutto indifferenti e superflui, nell'apparire invece si dice che c'è (appare) una lampada accesa, al cui posto ne sopraggiunge una spenta, mentre quella accesa esce di scena pur continuando a essere (poi potremo chiederci cosa significa uscire di scena), ma quella spenta che ora appare non ha reso niente (o assorbito totalmente in se stessa) quella accesa che prima appariva.
CitazioneRicorderei che la logica prescinde dal fattore tempo, ma la vita no...
Certo, la vita si svolge nel tempo, solo il tempo è l'autore di ogni significato, ma questo non toglie che questo tempo è sempre e solo al presente, è esclusivamente nel presente che ci sono tutte le storie, tutti i discorsi e tutte le vite. La continuità di questa storia è garantita proprio dal suo essere presente, tutta qui in questo istante di significato, non di tempo. Se l'istante è di significato e non di tempo, tutto il discorso di Severino acquista un senso molto più chiaro e quell'infinita frammentazione di cui parlavo prima è risolta. Peraltro, se il tempo non esiste, l'istante non può che essere di significato.
CitazioneComunque, l'ente Phil-cadavere è eternamente e oggettivamente morto (quindi la morte non esce affatto di scena!), per cui fatemi le condoglianze finché sono vivo... o dovrei dire fate le condoglianze a qualcuno dei tanti Phil vivi ;)
il Phil cadavere è eterno quanto è eterno il Phil che vivo e vegeto legge sul computer queste parole (e non so sinceramente cosa abbiano in comune per poterli considerare lo stesso Phil) :D
CitazioneHo il sospetto che in questo sia l'estremismo metafisico di Severino: non un ente supremo, ma tutti gli enti sono supremi possedendo le caratteristiche assolute (eternità, immortalità...). Severino in fondo ha divinizzato gli enti (plurale obbligatorio) al punto che, proprio come con le divinità, essi non hanno un tempo ed uno spazio proprio, ma ogni tanto si concedono ad una rivelazione-manifestazione, sulla cui causa sarebbe interessante avere delucidazioni: perché l'ente eterno appare? cosa lo porta ad apparire?
Severino ha ultra divinizzato ogni ente, ogni ente, uomo compreso che è già Oltre Uomo (riferimento a Nietzsche) e Oltre Dio (come puoi sentire da lui stesso verso la fine della registrazione che ho linkato).
Cosa spinge l'ente ad apparire? il semplice fatto che è. L'apparire è modo dell'essere, come il non apparire, dunque l'essere in quanto è, comprende necessariamente sia il suo apparire che il suo non apparire, Ogni ente deve apparire e scomparire poiché è nel modo che gli è proprio.
CitazioneDov'è un ente quando non appare?
L'ente appare sempre in un cerchio dell'apparire o in un altro, quindi per Severino in qualche luogo è. I cerchi dell'apparire (quell'essere in scena o fuori scena di cui sopra) non sono niente di fantascientifico, nessun universo parallelo. Sono semplicemente la coscienza degli osservatori, sono gli stessi esseri umani, ogni essere umano in relazione a tutti gli altri, niente di più. Quando l'ente non appare alla mia coscienza è nella coscienza di qualche altro ente umano con cui sono direttamente o meno intrecciato, è la storia che a qualcun altro appare. Se mio nonno che è morto tanti anni fa non è qui, e quindi non appare, è per quell'ente maral bambino che pure è e che, pur non essendo il maral ormai vecchio di ora, qualcosa in comune con lui ce l'ha.
La cosa che mi lascia perplesso semmai è che nella Gloria l'ente deve apparire in ogni cerchio dell'apparire e nella Gioia della Gloria questo accade concretamente a ogni ente. Non so, forse questo può accadere nel momento in cui la Terra Isolata (questa nostra terra in cui gli enti si manifestano mutilati, quindi sopraggiungono non sopraggiungendo) può apparire compresa nel Destino.
Citazionesempre stando al mio modo di valutare; secondo il quale immanentizzare l'eternità nella manifestazione degli enti è uno dei gesti più filo-trascendentali che possano compiersi...).
Eppure noi non sperimentiamo mai la morte. Sperimentiamo solo il cessare di apparirci degli altri enti, il loro lasciarci. Questo è tutto quello che noi sperimentiamo concretamente e che astrattamente chiamiamo morire. forse è morire, cessare di essere, il concetto più di tutti trascendentale.
CitazioneRaffaello raffigura, Picasso sfigura (artisticamente parlando ;D ), Raffaello "rispetta", asseconda la percezione dell'occhio umano, Picasso la trascende proponendo un "astigmatismo stroboscopico"...
Picasso non dipinge così per vezzo o perché avesse difetti visivi, ma perché tenta di riflettere nell'immagine il significato di quello che realmente vede, esattamente come Raffaello. E' che il significato di quello che realmente si vede è diverso per Picasso e per Raffaello.
Citazione"Tizio cambia restando sempre lo stesso" è un paradosso basato sulla cosiddetta "anfibolia", uso ambiguo dei termini: ciò che cambia e ciò che resta lo stesso sono su due piani differenti, infatti ciò che cambia è il corpo, l'apparenza, etc., mentre ciò che resta lo stesso è l'identità (per come l'ho descritta parlando della "nave di Teseo" nell'omonimo topic, senza che vi annoi oltre!).
Appunto, il punto fondamentale è cos'è l'identità? Per Severino è l'intero dei modi di essere di ogni ente, nessun modo escluso, quello che è per te andrò a leggermelo nella "nave di Teseo".
Grazie per i tuoi interventi.
Rispondo a Maral
Ciò che permane di Tizio è ciò che lo rende un individuo, una realtà non-divisibile, ciò che lo rende distinto dagli altri individui, il "principium individuationis", un "per sè". La sua anima, intesa non cartesianamente come sostanza separata dal corpo, ma come sua forma, ciò che rende il corpo non materia informe, potenziale, ma corpo determinato, attualmente esistente. Questa anima personale andrebbe vista come il realizzarsi di un "progetto", che nell'uomo si costituisce come personalità che è il fine di un movimento che è già in atto sin dal nascita, una progressiva attualizzazione di potenzialità. Così come nella pianta la forma finale dell'albero è immutabile, in quanto è il fine (certo non cosciente in questo caso) del divenire già in atto nel seme. Ciò che non muta è cioè il fine a cui tende il processo di formazione spontaneo che attraversa l'ente, e che nel caso di enti finiti e imperfetti, può anche deviare e non realizzarsi completamente. Ciascuno di noi crescendo forma un modo d'essere personale distinto dagli altri che può in relazione a fattori esterni o interni essere realizzato in forme adeguate o meno. Non ha senso però chiedere in cosa consista il carattere immutabile in termini concettuali, se sia un tratto fisico o caratteriale esprimendolo in termini linguistici, perchè ciò che è definibile a parole è anche comunicabile, cioè potenzialmente appartenente ad altri enti, mentre ciò che costituisce la mia individualità sostanziale, considerata cioè in modo distinto dal resto, non può essere condivisa con altri enti. Il principio che rende l'individuo tale non possiamo nominarlo, sappiamo solo che c'è, a partire da un'esperienza interiore, l'autocoscienza, con cui riconosciamo come i nostri atti coscienti partano da un Io che si riconosce come lo stesso soggetto dei suoi atti presenti come la percezione o la volontà e dei suoi atti riferiti al passato, come i ricordi. Quest'unità soggettiva si può definire trascendentale in quanto è al di là di qualunque proprietà concettuale linguistica, che essendo potenzialmente comune a più enti appartiene al singolo individuo come accidentale. Il mio nome, il mio status universitario, familiare, la mia nazionalità, il mio luogo di residenza può mutare, rientrano nell'accidentalità, nella contingenza, ma resto sempre un Io, questa qualifica di soggetto, intesa formalmente resta essenzialmente costitutiva del mio essere. Eppure questa formalità non va vista come vuota astrattezza, ma è concreta, perchè concretamente in atto nel corso della mia esistenza, principio soggettiva dei miei atti, mentali, sentimentali, volontari... In altre parole l'immutabilità a cui mi riferivo non va vista come un'immutabilità assolutamente reale, una realtà del tutto immutabile, ma un'immutabilità che è più un' idea regolativa, il fine del divenire che interessa la nostra individualità che può più o meno realizzarsi. In un certo senso "diventiamo immutabili"
Citazione di: maral il 01 Ottobre 2016, 22:37:02 PMLa continuità di questa storia è garantita proprio dal suo essere presente, tutta qui in questo istante di significato, non di tempo. Se l'istante è di significato e non di tempo, tutto il discorso di Severino acquista un senso molto più chiaro e quell'infinita frammentazione di cui parlavo prima è risolta. Peraltro, se il tempo non esiste, l'istante non può che essere di significato.
Se "il tempo non esiste"(cit.), non può esistere nemmeno l'istante (come lo definiamo?), né il presente (e allora la memoria che abbiamo è solo lo scherzo di un Maligno?). Per me, quell'"infinita frammentazione", senza luogo (la congettura del "da qualche parte" per salvare l'eternità, non mi quadra) e senza tempo (vedi sotto), non è una buona alternativa logica (semmai estetizzata) al divenire.Ho ascoltato il primo intervento del video che hai linkato; Cacciari sostiene che "il pensiero di Severino
ha fondato l'eternità", ma forse, logicamente, è più corretto dire che "il pensiero di Severino
è fondato sull'eternità": la pietra angolare è l'eternità, il resto dell'impalcatura teoretica la presuppone e appoggia su di lei tutto il suo peso concettuale. Se Severino ha frammentato il monolite dell'essere parmenideo per trarne gli enti eterni da usare come mattoni, resta da valutare l'abitabilità di tale costruzione. E tale casa è secondo me inabitabile perché è basata su un fraintendimento: per Severino "A=A" significa "A è
sempre uguale ad A", ma in quella formalizzazione logica, in quanto tale, non c'è temporalità... e l'assenza di temporalità non è eternità (che è comunque un concetto, seppur radicale, riferito al tempo: dentro l'eternità è pensabile un prima e un dopo, il tempo c'è...).
Se infatti decliniamo quell'identità con il fattore tempo, diviso in momenti (t1, t2, t3...) otteniamo A
t1=A
t1, A
t2=A
t2, A
t3=A
t3... e se A è un seme (sviluppo l'esempio di Davintro), arriviamo ad un momento (che qui numeriamo arbitrariamente) t9, in cui A
t9=A
t9, ma stiamo parlando ormai di una pianta. E dire A
t9 è "il seme A nel suo nono momento" oppure è "una pianta B al suo primo momento"(B
t1), risulta, come ogni identità, sempre arbitrario, ma non per questo contraddittorio.
Per cui possiamo chiamarlo tranquillamente A
t9 o B
t1 senza ombra di contraddizione (il senso di una costante è attribuito a tavolino, per cui A
t9 = B
t1, proprio come dire "Severino = S" è uguale a "il filosofo di cui parliamo = F", ovvero S = F).
A partire da questa "confusione" (senza offesa per Severino) entriamo in una dimensione "zenoniana", paradossale e anti-esperenziale (nel senso che viene falsificata dall'esperienza) in cui risulta assurdo che la medesima lampada si possa accendere e spegnere, che io muoia, etc. ma il fondamento logico è instabile, il che non impedisce comunque di derivarne delle conseguenze (come quando si fa un castello di carte e si costruiscono piani su piani...).
P.s. Se vogliamo leggere questa eternità severiniana come applicazione della legge di conservazione della massa "nulla si crea, nulla di distrugge", bisogna anche ricordare che il motto prosegue con "ma tutto si trasforma", ovvero con l'inconorazione del divenire come "trama narrativa" dell'accadere.
Citazione di: maral il 01 Ottobre 2016, 21:05:41 PM
Per quanto riguarda la questione della poliglossia posta da Sgiombo, ossia perché mai le lingue sono tante anziché una sola, noto solo che, anche se sono tante non significa che le tante parole usate per designare la stessa cosa non implica che queste parole vengano messe arbitrariamente a posteriori (tra l'altro è anche vero il contrario, si può usare un'unica parola per designare tante cose). Vuol solo dire che i significati si presentano in molti modi diversi (come inizia Aristotele il libro della Metafisica: "l'Essere si dice in molti modi" e i modi di dirlo potremmo pensare che sono gli enti), ma non c'è altro modo che la cosa (l'essente) si presenti se non attraverso l'espressione dei suoi significati (che debbano poi essere tutti o ne basti solo qualcuno è faccenda collegata a quella degli Eterni di Severino, l'importante comunque è non credere che quando se ne sono presentati solo alcuni, quei pochi siano tutto ciò che si può dire, questo è quello che ho chiamato astrazione e Severino pensiero astratto dell'astratto).
In fondo è vero: le cose significando sono poliglotte e insegnano con la loro presenza fisica i loro linguaggi agli uomini che le percepiscono, i quali (seguendo la distinzione di Phil) poi ne fanno delle lingue con cui parlarsi.
CitazionePer quanto la traduzione da lingua a lingua non sia mai "perfetta" (ma nemmeno fra i parlanti la stessa lingua l' identità -delle connotazioni- dei concetti espressi dalle parole è mai "perfetta"; regola generale: nulla è perfetto in natura e men che meno nell' uomo e nel suo operato), tuttavia è sempre ragionevolmente possibile intendersi mediante di essa fra parlanti idiomi diversi.
Dunque quando un italiano dice, scrive o sente: "albero" intende sostanzialmente ciò che un inglese intende quando dice, scrive o sente: "tree" (anche se con qualche ineliminabile "residuo di diversità"; che peraltro è ineliminabile, al massimo con una modesta differenza meramente quantitativa, anche fra ciò che due italiani intendono per "albero" e ciò che due inglesi intendono per "tree"; anzi, è probabile che con i due diversi termini un botanico inglese e uno italiano intendano -connotino- concetti reciprocamente più affini che un botanico inglese e un ingegnere italiano; che magari progetta alberi motori).
Mi sembra che questo basti per negare la tua affermazione "siniana" che "le parole non sono il frutto di nessuna arbitrarietà, nessuno dà il nome alle cose come gli pare".
E' ovvio che gli enti (ed eventi!) si possono conoscere solo attraverso le parole con cuii ne predichiamo l' essere (o accadere).
Ma conoscere (il "presentarcisi") delle cose è diverso dalla realtà (l' essere/accadere) delle cose; e ovviamente può essere più o meno completo, integrale, ma mai perfettamente tale (includente la totalità degli "aspetti delle cose" o "considerabili nelle cose").
Dissento dall' antropomorfizzazione finale delle "cose" (se non come metafora; ma allora in questo caso, le cose non sarebbero realmente poliglotte).
CitazioneOvvio che senza nome non possiamo parlare delle cose (ma quando mai avrei scritto quest' altra corbelleria?); ma le cose sono reali indipendentemente dagli eventuali nomi che si danno loro e dal fatto che se ne parli o meno (esempio delle numerosissime montagne su pianeti di altre galassie che nessuno vedrà e nominerà mai).
Conoscenza delle cose =/= le cose.
Il fatto che ci siano montagne che nessuno ha mai visto, come il fatto che quella montagna c'era anche prima che ci fosse un uomo a dire il suo nome è ancora nel significato della parola "montagna" che permette di pensarla ovunque si possano formare delle rocce e ci siano moti tettonici, la montagna non è una cosa in sé, ma un significato ed è del significato che solo si parla e con i cui segni si parla e anche si agisce.
La conoscenza della cosa è effettivamente la cosa solo se ne cogliamo tutti i significati, ossia tutte le relazione che accadendo essa instaura, ma questo, concordo, è impossibile ed è il motivo per cui avremo sempre qualcosa ancora da conoscere e da poter dire su qualsiasi cosa.
Citazione
E' l' affermazione, la conoscenza del fatto, e non il fatto! (continui a confondere le due ben diverse "cose"!) che ci siano montagne che nessuno ha mai visto, come il fatto che quella montagna c'era anche prima che ci fosse un uomo a dire il suo nome ad essere ancora inevitabilmente contenuta nel significato della parola "montagna"; ribadisco: non il fatto che ci sono montagne, e fra di esse anche montagne che nessuno ha mai visto (e dunque reali senza la realtà della parola e del concetto "montagna" che le denoti o meno).
E' il significato della parola "montagna" che permette di pensarla, certo, ma sicuramente non è esso che le permette di essere reale, dal momento che in tantissimi casi montagne sono reali senza che nessuno le denoti con tale parola.
Per me la montagna non è una cosa in sé ma (un insieme di sensazioni o) fenomeni; tuttavia (se e quando accadono) reali (in quanto tali: "esse est percipi"!) indipendentemente dall' eventuale esistenza reale o meno (pensata, scritta o detta; e parimenti fenomenica) della parola "montagna" col suo significato, di cui la cosa costituita da quella montagna (fenomenica, non in sé) sia la denotazione.
Concordo che la nostra conoscenza delle cose non sarà mai perfetta, completa, integrale; ma non affatto che essa coincida effettivamente con le cose stesse.
CitazioneA no? Dunque il fiume Po e l' Eridano sono due diversi corsi d' acqua?
E il Benaco e il Garda, l' Iseo e il Sebino, ecc.?
No, ma quei due nomi alludono a significati diversi del medesimo corso d'acqua (astratto come una pura entità fisica). Il fatto di chiamare quel corso d'acqua Po o Eridano indica a chi li chiama in un modo o a chi li chiama nell'altro una storia di significati diversi che non è lui a decidere arbitrariamente cosi da credere che chi lo chiama Po avrebbe benissimo potuto chiamarlo anche Eridano o viceversa. E' solo quando in questi nomi non se ne sente più il significato che diventano solo etichette interscambiabili e sulle quali ci si può anche mettere d'accordo su come segnare quel corso d'acqua, solo fisicamente inteso, sulla carta geografica.
E' chiaro poi che il "corso d'acqua" o la "cosa alta" esistono comunque li chiami, ma esistono anch'essi come significati: corso d'acqua e cosa alta sono pur sempre ancora parole con i loro significati, no? E sono proprio le parole che nominano le cose che solo consentono significandola la permanenza presso di noi di qualsiasi cosa.
CitazioneGuarda che io, nato a Cremona, nel bel mezzo del fiume, ove da bambino mio padre mi portava a pescare (era ricchissimo delle più svariate specie di pesci, anche pregiatissime, come gli enormi storioni: tutt' altri tempi! A Cremona c' era che faceva il pescatore di professione e campava anche abbastanza bene!) ho sempre usato i due termini del tutto indifferentemente (non è che quando penso -o dico o scrivo- "Eridano" lo penso in modo sia pur minimamente diverso da quando penso "Po").
Ma di fatto chiunque chiama quel fiume del tutto indifferentemente con i due nomi alternativi: se lo si chiama con l' uno lo si sarebbe potuto benissimo chiamare con l' altro e viceversa (e così la maggior parte dei grandi laghi italiani e tantissime altre cose).
La permanenza presso di noi dei concetti, dei pensieri di qualsiasi cosa (reale o meno) solo nel caso di cose non reali (esempio: ippogrifi) è (si identifica con) le cose stesse "presso di noi"; invece nel caso di cose reali (esempio: cavalli) è tutt' altro che le cose stesse che ne sono denotate.
CitazioneTautologicamente A non é non A a un tempo e luogo determinato; in altro tempo e luogo può benissimo diventare B nel pieno rispetto del principio di identità - non contraddizione.
Sgiombo, se A è sempre A, in nessun altro luogo o tempo può essere B che è non A. Puoi dirmi che A e B condividono degli aspetti in comune, ad esempio il nome (proprio perché cose diverse possono avere lo stesso nome quando ci si limita a considerarle per quella parte dei loro significati che condividono e quindi le si prende in astratto), ma se li consideri nella loro totalità di significato, ossia per quello che concretamente sono, A e B non sono lo stesso ente. Tu stesso ammetti ovviamente che il bambino Sgiombo non è l'adulto Sgiombo, ma se dici che oggi lo è diventato dici che quel bambino oggi è davvero quell'adulto proprio mentre riconosci che non lo è e non lo è in nulla tranne il nome, ma a cosa si riferisce quel nome che accomuna quei due diversi enti, il bambino e l'adulto?
CitazioneSe A è sempre A, in nessun altro luogo o tempo può essere B che è non A.
Ma se A è A non sempre, bensì per un certo lasso di tempo finito (spero tu colga la differenza!), allora può benissimo essere diventata B in un diverso lasso di tempo finito.
E naturalmente A e B in questo caso possono benissimo condividere e di solito condividono in maggiore o minor misura, oltre al nome, degli aspetti in comune (se non altro l' aspetto astrattissimo di "essere", o meglio "accadere", "divenire", ovvero la "realtà" genericissimamente intesa).
E' una questione meramente linguistica, convenzionale chiamare sempre "Sgiombo" il me bambino e il me vecchio o meno.
E infatti il soprannome "Sgiombo" mi fu dato dai compagni di scuola del liceo: fino a sedici anni non ero affatto "Sgiombo" (pur essendo sempre io, ben vivo e reale!); poi cadde in disuso all' università, ove i compagni erano in gran parte diversi, e tornò ad essere in auge (tronai a essere chiamato "Sgiombo", ma solo dai frequentatori di Internet), quando lo scelsi come nomignolo (gli anglofili o meglio i non anglofobi -ma io sono amerikanofobo, nel senso degli USA- dicono "nick nane").
Comunque nessuno mi confonde irrimediabilmente con un altro e non sorgono malintesi insanabili per il fatto che in certe occasioni e/o in certi periodi della mia vita sono chiamato "Sgiombo" e in altri periodi o in altre occasioni negli stessi periodi sono chiamato "Giulio Bonali" (e in altri ancora, tipicamente burocratici, "Giulio Maria Bonali"): esistono facili "regole di traduzione" onde intendersi perfettamente su di me (per quanto umanamente possa darsi di perfezione).
(Ma come mi sento narcisisticamente "autobiografico" oggi!): chiedo scusa a tutti.
Comunque quel bambino è diventato (non: è) questo adulto (vecchio, per la precisione!), dunque per certi aspetti, in una certa misura, non è più lo stesso ente, mentre per altri aspetti, in un certa altra misura, lo è ancora (non è affatto vero che non lo sia in nulla salvo il nome: il mio anticonfrmismo è sempre tale! E mal che vada sarei sempre qualcosa di reale; se non io la materia -massa e/o energia- che costituisce il mio corpo; per la verità la mia persona, che è ben altra cosa, credo non sarà più, dopo la morte del mio corpo).
Sgiombo scrive:
"Ma come mi sento narcisisticamente "autobiografico" oggi!): chiedo scusa a tutti."
E' l'autunno Sgiombo, fa questo effetto di melanconica introspezione, di riaffiorare alla memoria degli "enti ricordi". Si potrebbe, severinianamente, anche definirlo come l'apparire dell'"ente autunno"... ;)
Citazione di: maral il 01 Ottobre 2016, 22:37:02 PM
L'ente appare sempre in un cerchio dell'apparire o in un altro, quindi per Severino in qualche luogo è. I cerchi dell'apparire (quell'essere in scena o fuori scena di cui sopra) non sono niente di fantascientifico, nessun universo parallelo. Sono semplicemente la coscienza degli osservatori, sono gli stessi esseri umani, ogni essere umano in relazione a tutti gli altri, niente di più. Quando l'ente non appare alla mia coscienza è nella coscienza di qualche altro ente umano con cui sono direttamente o meno intrecciato, è la storia che a qualcun altro appare. Se mio nonno che è morto tanti anni fa non è qui, e quindi non appare, è per quell'ente maral bambino che pure è e che, pur non essendo il maral ormai vecchio di ora, qualcosa in comune con lui ce l'ha.
Citazione
Mi sembra che si tratti semplicemente di uno "spostamento" e non di una autentica risoluzione del problema (come dire che la terra è sulle spalle di Atlante, il quale è sulla groppa dell' elefante, il quale è sul guscio della tartaruga...).
Il nonno di Maral, morto tani anni fa, continua ad essere reale ma non qui, cioè non appare a noi oggi, bensì è altrove (in un altro "cerchio"), e cioè appare a Maral-bambino.
Il quale pure è reale allo stesso modo del nonno, cioè continua ad essere reale ma non qui, cioè non appare a noi oggi, bensì è altrove (in un altro "cerchio"), e cioè appare a qualcun altro (suo coevo).
Siamo al punto di partenza: dov' é quell' "altrove" in cui è tuttora reale Maral-bambino e conseguentemente, apparendo a lui, il suo nonno (morto) da vivo?
Appare forse ai compagi di scuola del Maral-bambino?
Ma questi sono reali allo stesso modo del nonno di Maral e di Maral-bambino; ergo: non qui ma "in un altro cerchio", ovvero appaiono altrove....
La cosa che mi lascia perplesso semmai è che nella Gloria l'ente deve apparire in ogni cerchio dell'apparire e nella Gioia della Gloria questo accade concretamente a ogni ente. Non so, forse questo può accadere nel momento in cui la Terra Isolata (questa nostra terra in cui gli enti si manifestano mutilati, quindi sopraggiungono non sopraggiungendo) può apparire compresa nel Destino.
CitazioneRilevo in quest' ultimo discorso, peraltro anche indipendentemente da ciò a me del tutto incomprensibile (minchia! -mi si scusi la licenza poetica- i dogmi della chiesa Cattolica sono meno incomprensibili e astrusi!), una patente contraddizione:
"questa nostra terra in cui gli enti si manifestano mutilati, quindi sopraggiungono non sopraggiungendo" (sottolineatura mia).
Citazione di: Sariputra il 02 Ottobre 2016, 11:52:09 AM
E' l'autunno Sgiombo, fa questo effetto di melanconica introspezione, di riaffiorare alla memoria degli "enti ricordi". Si potrebbe, severinianamente, anche definirlo come l'apparire dell'"ente autunno"... ;)
Citazione(Spero mi si perdoni la contravvenzione alle regole del forum; fantozziana attenuante: ce n' é stata anche qualche altra sinimile).
Bellissima la "firma"!
Vado subito in Google a cercare qualche norizia sul suio autore.
Mi pare che le risposte di Davintro e Phil possano concordare su questo punto; l'identità (l'immutabile che sostanzia l'ente, per cui tutto il resto può variare, mentre l'ente resta lo stesso) è il progetto, ossia il disegno dell'individuo in potenza: il seme in atto è in potenza la pianta che sarà (il progetto della pianta) e la pianta in atto è la potenza del seme che fu, come il bambino in atto è in potenza l'uomo che sarà e l'adulto in atto è la potenza del bambino che fu. Questo discorso poggia sulla metafisica aristotelica che ha insegnato all'Occidente a pensare (e quindi ha dettato, che lo si voglia o meno, come leggere il mondo) e infatti lo stesso discorso è della scienza attuale che vede le cose alla stessa maniera, anzi, sia nella pianta che nell'uomo e in ogni essere vivente, a differenza di Davintro, identifica e nomina precisamente quella potenza con il genoma che esprime il progetto.
Il problema però, come nota Severino, è che il concetto di potenza ripete la stessa contraddizione del divenire (infatti divenire è potenza, la sola potenza): essere in potenza significa essere non essendo ciò che si è, ma potendolo diventare, infatti se il seme è in potenza la pianta che sarà non è il seme che realmente è (in atto), ma lo si considera come se lo potesse diventare. E' chiaro che se A è A resta contraddizione dire che A è B (ove B non è A) e dire che A è A ed è B in potenza (o per progetto che lo vuole far diventare B), non è che rendere più evidente la medesima contraddizione.
E' chiaro che per Severino A=A significa un'identità assoluta, A, qualsiasi cosa concretamente sia, non può mai essere diverso da se stesso, può diventare diverso da se stesso solo annientandosi come A. Con questo la memoria non è lo scherzo di un maligno, ma è fenomeno autentico dell'apparire che riguarda il presente, di cui il passato e il futuro non sono che presenti modi di essere. L'istante temporale infatti non può esistere realmente se non come istante di significato che è qui, adesso e perciò in eterno pur mostrandosi e nascondendosi nel gioco dell'apparire. Questo presente non è presente, se presente lo si vede in contrapposizione con passato e futuro, ingloba tutto e semplicemente è.
Nell'esempio che fa Phil per cui possiamo dire a un certo punto di una serie in progressione che il seme al tempo t9 è la pianta al tempo t1 è una contraddizione in quanto se è vero che il seme al tempo t 9 è la pianta al tempo t1, il seme al tempo t9 non è il seme al tempo t1 ove non era pianta al tempo t1, dunque non possiamo dire che A(t1) e A(t9) sono lo stesso seme. A ogni istante ogni seme è sempre uguale a se stesso e fra t1 e t9 ci sono semplicemente 9 semi diversi ognuno identico a se stesso, non un unico seme che si trasforma 9 volte.
Se ancora diciamo "Severino è un filosofo" invece non ci contraddiciamo, poiché la frase è vera (e Severino lo spiega lungamente) solo se significa che "Severino come filosofo è quel filosofo che è Severino come filosofo", il che è ovviamente diverso dal dire che Severino diventa il filosofo che prima non era.
Se si vuole trovare un parallelo tra la concezione severiniana e una teoria fisica non credo sia nella legge di conservazione della massa-energia da cercare (che invece fa riferimento alla concezione aristotelica di sostanza); ma nel modo con cui la fisica classica e soprattutto quella relativistica descrivono il tempo: Il tempo è qui rappresentato come una linea spaziale, in cui ogni punto è raggiungibile partendo da ogni punto della linea. Ossia ogni istante del tempo è un luogo esistente dello spazio, dunque passato e futuro non sono altro per il fisico relativista (ma anche per quello classico, solo che non se ne era ancora reso conto) che momenti spaziali tutti insieme presenti.
Sgiombo, in breve, ho già detto che esistono molti modi diversi per dire la stessa cosa (ognuno dei quali si riferisce a un aspetto particolare di quella cosa e ai contesti diversi in cui esso risalta particolarmente), così come può esistere un solo modo di nominare molte cose diverse (partendo da qualcosa in comune tra loro ed è esattamente quando si usano i nomi comuni come cane, gatto, uomo), ma nessuno di questi nomi è arbitrario né convenzionale. Passeggiando in un parco Tizio non ha mai detto a Caio "guarda, un tree!", e Caio ha risposto "no guarda che quello è un albero, mi piace di più chiamarlo così", proprio come passeggiando lungo un corso d'acqua Sempronio ha mai detto "questo è l'Eridano!", subito contestato da un altro a cui veniva più facile chiamarlo Po, per cui alla fine si sono messi democraticamente d'accordo che potevano chiamarlo in entrambi i modi. Ogni denominazione ha la sua necessità originaria che deriva da ciò che nomina nei particolari posti in evidenza dai contesti in cui appare e il nome ne è subito il riassunto pubblico, detto ad alta voce per tutti.
Tu continui a dirmi che il nome non è la cosa, e chi lo nega! Ma resta il fatto che nome (quanti ce ne possano essere per quella cosa) e cosa sono sempre strettamente legati fin dal principio, non sono la stessa cosa, ma vanno sempre in parallelo, dove c'è l'una c'è l'altro, perché il nome dà alla cosa il significato e non c'è cosa senza significato se è vero che c'è qualcosa, qualsiasi cosa essa sia, dato che solo il nome può dire cos'è.
Chi scala il Monte Bianco, non scala il nome "Monte Bianco", ma scala quello che solo quel nome "Monte Bianco" significa e rappresenta, quindi, in tal senso, è proprio quel nome che scala, perché comunque ne scala il significato che solo quel nome e non un altro ci mostra, con tutte le implicazioni di significato che quel nome possiede e lo lega ad altre parole, per quanto ti possa sembrare assurdo.
Capisco che il tuo intento è mantenere una salda presa sulla realtà delle cose, non confondendo cavalli e ippogrifi dato che ad entrambi si può dare un nome, quindi sai mai che a qualcuno potesse passare per la testa di galoppare in cielo su un ippogrifo dato che ha un nome e dei significati, ma proprio perché il nome è legato alla cosa che nomina attraverso il suo significato questa confusione è impossibile, non perché il nome è una pura etichetta che uno mette a piacere come gli pare e dove gli pare, d'accordo o in disaccordo con gli altri, d'accordo o in disaccordo con la realtà.
Citazione di: maral il 02 Ottobre 2016, 22:04:39 PML'istante temporale infatti non può esistere realmente se non come istante di significato che è qui, adesso e perciò in eterno pur mostrandosi e nascondendosi nel gioco dell'apparire.
Non vorrei insistere, ma il punto cieco mi sembra proprio il "gioco dell'apparire"(cit.), come funziona l'avvicendarsi degli enti?
Ha ancora senso parlare di "istante" quando non c'è una durata? Quanto dura la manifestazione dell'ente?
Non può avere durate arbitrarie perché è autonomo, in quanto eterno... e, soprattutto, non potrò mai sapere la durata "terrena" di nessun ente perchè non so nemmeno quanto duro io come osservatore dell'ente: qui crolla tutta la gnoseologia... e persino ogni "senso" della percezione e dell'emozione...
L'ente-Phil che mi sostituirà fra poco (quando?) sarà un mio identico ma con la memoria aumentata di una "puntata"? Nessuno può saperlo, perché per saperlo questo qualcuno dovrebbe durare abbastanza da assistere sia al dissolversi del'ente Phil-1 che all'apparire dell'ente Phil-2 e poi interrogarlo: qui crolla ogni episteme...
L'ente-Phil che deve compiere una scelta relazionandosi ad un altro ente-uomo, non è lo stesso ente che attuerà la scelta presa: qui crolla ogni etica, ogni politica, ogni socialità (chi va in carcere è lo stesso ente che è stato condannato?).
Prospettiva suggestiva quella dell'eterna intermittenza degli enti eterni, ma è piuttosto contraddittoria con l'esperienza e mi sembra che, per tutelare filosoficamente il concetto di l'eternità, renda impraticabile e paradossale gran parte del pensiero "pratico" (che nondimeno continua a "funzionare"...).
Citazione di: maral il 02 Ottobre 2016, 22:45:40 PM
Sgiombo, in breve, ho già detto che esistono molti modi diversi per dire la stessa cosa (ognuno dei quali si riferisce a un aspetto particolare di quella cosa e ai contesti diversi in cui esso risalta particolarmente), così come può esistere un solo modo di nominare molte cose diverse (partendo da qualcosa in comune tra loro ed è esattamente quando si usano i nomi comuni come cane, gatto, uomo), ma nessuno di questi nomi è arbitrario né convenzionale. Passeggiando in un parco Tizio non ha mai detto a Caio "guarda, un tree!", e Caio ha risposto "no guarda che quello è un albero, mi piace di più chiamarlo così", proprio come passeggiando lungo un corso d'acqua Sempronio ha mai detto "questo è l'Eridano!", subito contestato da un altro a cui veniva più facile chiamarlo Po, per cui alla fine si sono messi democraticamente d'accordo che potevano chiamarlo in entrambi i modi. Ogni denominazione ha la sua necessità originaria che deriva da ciò che nomina nei particolari posti in evidenza dai contesti in cui appare e il nome ne è subito il riassunto pubblico, detto ad alta voce per tutti.
Tu continui a dirmi che il nome non è la cosa, e chi lo nega! Ma resta il fatto che nome (quanti ce ne possano essere per quella cosa) e cosa sono sempre strettamente legati fin dal principio, non sono la stessa cosa, ma vanno sempre in parallelo, dove c'è l'una c'è l'altro, perché il nome dà alla cosa il significato e non c'è cosa senza significato se è vero che c'è qualcosa, qualsiasi cosa essa sia, dato che solo il nome può dire cos'è.
Chi scala il Monte Bianco, non scala il nome "Monte Bianco", ma scala quello che solo quel nome "Monte Bianco" significa e rappresenta, quindi, in tal senso, è proprio quel nome che scala, perché comunque ne scala il significato che solo quel nome e non un altro ci mostra, con tutte le implicazioni di significato che quel nome possiede e lo lega ad altre parole, per quanto ti possa sembrare assurdo.
Capisco che il tuo intento è mantenere una salda presa sulla realtà delle cose, non confondendo cavalli e ippogrifi dato che ad entrambi si può dare un nome, quindi sai mai che a qualcuno potesse passare per la testa di galoppare in cielo su un ippogrifo dato che ha un nome e dei significati, ma proprio perché il nome è legato alla cosa che nomina attraverso il suo significato questa confusione è impossibile, non perché il nome è una pura etichetta che uno mette a piacere come gli pare e dove gli pare, d'accordo o in disaccordo con gli altri, d'accordo o in disaccordo con la realtà.
CitazioneIl dissenso non potrebbe essere più completo e integrale.
Riassumo le mie convinzioni per l' ultima volta (almeno in questa discussione), a meno di nuove argomentazioni da parte tua (stiamo diventando -o lo siamo sempre stati e lo saremo sempre?- ripetitivi).
Per lo stesso motivo rinuncio a reiterare critiche già espresse ad affermazioni già proposte in replica a Phil.
Anche se solitamente i sinonimi non sono perfettamente tali, i casi del del principale fiume e dei maggiori laghi italiani dimostrano che possono benissimo esistere ed esistono di fatto casi nei quali si usano diversi vocaboli per dire esattamente la stessa cosa (senza che ognuno di essi si riferisca a un aspetto particolare di quella cosa e ai contesti diversi in cui esso viene consdetata).
Il fatto stesso che le stesse cose possono essere denominate in diversi modi nelle diverse lingue dimostra a sufficienza che non é vero che ogni denominazione ha la sua necessità originaria che deriva da ciò che nomina nei particolari posti in evidenza dai contesti in cui appare, bensì che é del tutto contingente e convenzionale (nulla di rilevante cambia negli oggetti che in italiano sono detti "alberi" e in inglese "trees" e in altre lingue in altri modi ancora, né nelle circostanze in cui appaiono, a necessitare la particolare denominazione propria di ciascuna lingua).
Tu continui a confondere le cose reali anche se non denominate, pensate, predicate, conosciute con i nomi e i concetti delle cose.
Il nome ha un significato o connotazione che il parlante o pensante o scrivente attribuisce alla cosa, veracemente se questa realmente esiste; e non viceversa la cosa reale attribuisce il significato al nome: e infatti quale cosa reale attribuirebbe il significato al nome "ippogrifo Pegaso" (il quale pure esiste)?.
E inoltre il nome può avere una denotazione reale o meno (cavalli versus ippogrifi).
Di qualsiasi cosa il nome può dire cos'è (nel caso sia impiegato in predicati veri), ma ci possono benissimo essere cose reali (e non essere pensate, conosciute: due ben diverse cose che continui a confondere) senza significato di un nome che le connoti (solito esempio delle infinite montagne su stelle lontane che nessuno ha mai visto e denominato, attribuendo un corrispondente significato a un corrispondente nome).
Chi scala il monte Bianco in nessun senso veracemente (casomai falsamente) scala il nome monte Bianco: non scala una parola detta scritta o pensata ma una montagna (la più alta d' Itala).
Prova a dire a Reinold Messner che ha scalato sette o otto nomi di montagne superiori agli 8ooo metri!
Se fosse come dici tu nessun assassino sarebbe da condannare, poiché tutti si limiterebbero a uccidere parole (che -ammesso che significi qualcosa- non credo sia un reato da galera).
Fra l' atro chi attraversa a nuoto il Po attraversa una cosa reale che non solo quel nome, ma anche quello "Eridano" significa esattamente allo stesso modo e nelle stesse circostanze.
I nomi sono "le etichette" arbitrarie dei (significati dei) concetti che connotano.
E non si possono cavalcare ippogrifi nel cielo solo perché le cose dette "ippogrifo" non esistono, e non perché il nome "ippogrifo" (ovviamente, come tutti i nomi, anche quello di "cavallo", che denota una cosa esistente e dunque cavalcabile) è legato alla cosa che nomina attraverso il suo significato (altrimenti non si potrebbe nemmeno cavalcare un cavallo).
Citazione di: Phil il 02 Ottobre 2016, 23:18:53 PM
Non vorrei insistere, ma il punto cieco mi sembra proprio il "gioco dell'apparire"(cit.), come funziona l'avvicendarsi degli enti?
Il gioco dell'apparire è dovuto alla contraddizione che è insita nella totalità dell'ente (totalità che è necessaria se l'ente è ciò che è, perché può esserlo solo nella totalità di ciò che è). Ma questa totalità può essere colta solo tautologicamente dal pensiero astratto, concretamente no, non può apparire, dunque può apparire solo in termini formali, anche se a questi termini formali deve corrispondere una totalità e quindi la necessità del suo totale apparire. Dunque c'è una contraddizione ed è quella che Severino chiama contraddizione C, che si ripete continuamente ed è questa contraddizione che continuamente determina i sopraggiungere degli eterni nel loro apparire. La durata e dunque l'istante in cui è ascritto il significare che appare dell'ente è determinata dal contesto in cui appare, ove il contesto è la rete di relazioni che lega ogni ente a ogni altro ente.
L'ente Phil che sostituirà l'attuale ente Phil (che non diventa niente, ma resta quello che è) apparirà con l'apparire di un significato diverso che avrà, in questo contesto di significato, qualcosa di simile al precedentemente apparso. E questo non dipende certamente dalla volontà o dalla capacità cosciente di un ente Phil che possa prevederlo. Certamente crolla qui ogni senso gnoseologico, esperenziale, epistemico e morale, e crolla in quanto ogni senso che l'Occidente riconosce, direbbe Severino, è fondato sul Divenire, compreso il senso di quegli enti privilegiati (mitici, razionali o valoriali) che si pensano eterni sperando che ci offrano riparo dal Divenire , ma che ovviamente uno dopo l'altro il Divenire abbatte sempre, poiché esso è la fede e la follia suprema che vuole che ciò che è (l'essente) possa essere (e quindi diventare) niente passando così da una forma all'altra pur rimanendo lo stesso. Ma anche tale fede che è la fede della Terra Isolata (isolata in quanto in essa si intende isolare una parte dell'ente per prenderla come totalità, come se fosse l'intero di quell'ente stesso), peraltro è un eterno, è l'errore eterno sempre essente, proprio come ogni altro ente (e come ogni altro ente, in ogni ente esso sorge e tramonta).
Ps non per nulla Sini dice che non è opportuno leggere in pubblico certi passi di "Dike" per quanto significativi, si rischia di passare per matti totali di fronte al senso comune delle cose.:)
CitazioneTu continui a confondere le cose reali anche se non denominate, pensate, predicate, conosciute con i nomi e i concetti delle cose.
Sgiombo, come si fa a non confondere le cose reali se non appunto denominandole, pensandole e predicandole? Come si fa a non confondere le cose reali (ove "cosa reale" è pur sempre un nome, come lo è "cosa irreale" e la stessa differenza che corre tra loro) se non nel significato che il nome ci riflette?
Noi, esseri umani, è sempre con dei significati che abbiamo a che fare e i nomi sono i segni e i segni accadono significando, e significando qualcosa dicono e altro nascondono sempre, ma non perché noi decidiamo razionalmente di farli significare quello che significano quando potrebbero tranquillamente significare qualsiasi altra cosa ci passasse per la testa. Un monte sarà sempre un monte perché c'è una parola "monte" che non è nata pescando a caso due sillabe e che ci dice cos'è, come si presenta e ciò che implica in oggetto.
Mah.....ho l'impressione che ognuno abbia detto nella discussione qualcosa di giusto.
Forse l'identità è semplicemente nel "sono",così asciutto ,scabro, senza attributi, proprietà,semplicemente
ontologico. Il problema è che non basta a se stesso, cosa potrebbe voler dire "sono" se non mi conosco se
non so definirmi.La nave direbbe "sono", Teseo direbbe "sono" ogni cosa potrebbe dire "sono".
il problema passa dall'ontologia alla sua contraddizione gnoseologica aprendosi alla definizione linguistica, agli attributi, proprietò, perchè quei "sono" devono essere separati per definire ogni cosa, e descrivere è scindere quel "sono" dagli altri "sono".La convenzione potrebbe essere la relazione che dichiara che una nave ,anzi proprio quella nave è di Teseo e non di altri.L'appartenenza dichiara una relazione e unisce gnoseologicamente una storia:E la storia necessita di un divenire, del tempo.
Per quanto la nave e Teseo possano mutare storicamente, ontologicamente rimangono immutabili,sono e saranno sempre loro identitariamente.Il processo gnoseologico, ovvero di conoscenza, quindi implicante il tempo, determina mutamenti, il fatto che parti della navi o totalmente, ma mai nello stesso tempo mutano in toto, mantiene l'origine ontologica dell'identità.Ed è proprio la memoria, ovvero la storia, che permette di paragonarci al passato,con il presente e il futuro.Dire che siamo cambiati, presuppone un origine di paragone.
C'è qualcosa di severiniano in tutto questo, è come se l'identità necessita di una contraddizione,Non bastando il "sono" è come se l'identità chiedesse a se stessa di riconoscersi, aprendosi alla conoscenza, linguistica, narrativa, relazionale.E per quanto possa perdersi nei meandri del destino, della sua storia o delle storie nel caso della nave e di Teseo, persino nella stessa memoria, nella sua coscienza, nella sua volontà, rimane anche all'immemore che non sa( e quindi non può riconoscersi nè riconoscere) quel "sono" ontologico.
Come dice Jean, la nave marcirà, Teseo morirà,finiscono la loro cognizione, la loro storia,la loro memoria ma tutte legate al loro agire,alla volontà, ma non finisce la memoria convenzionale di chi può ricordarli e di nuovo rinarrarli.
In fondo Pirandello dà vita narrando ai suoi personaggi, e linguisticamente, convenzionalmente comunica al lettore la loro storia.Noi siamo memoria di uno smemorato quando gli raccontiamo la sua storia anche se lui non può ricordare.siamo noi a quel punto parte di lui ,ma in lui rimarrà sempre ontologicamente il "sono" anche se non sarà in grado di riconoscersi.
Citazione di: maral il 04 Ottobre 2016, 23:30:13 PM
CitazioneTu continui a confondere le cose reali anche se non denominate, pensate, predicate, conosciute con i nomi e i concetti delle cose.
Sgiombo, come si fa a non confondere le cose reali se non appunto denominandole, pensandole e predicandole? Come si fa a non confondere le cose reali (ove "cosa reale" è pur sempre un nome, come lo è "cosa irreale" e la stessa differenza che corre tra loro) se non nel significato che il nome ci riflette?
Noi, esseri umani, è sempre con dei significati che abbiamo a che fare e i nomi sono i segni e i segni accadono significando, e significando qualcosa dicono e altro nascondono sempre, ma non perché noi decidiamo razionalmente di farli significare quello che significano quando potrebbero tranquillamente significare qualsiasi altra cosa ci passasse per la testa. Un monte sarà sempre un monte perché c'è una parola "monte" che non è nata pescando a caso due sillabe e che ci dice cos'è, come si presenta e ciò che implica in oggetto.
CitazioneReitero le stesse obiezioni alle stesse affermazioni proprio perché "tirato per i capelli".
Denominando diversamente (in modo del tutto arbitrario) le cose reali (denotate da concetti) si può cercare di evitare di confondere le une cose reali con le altre cose reali (ma si può sempre sbagliare).
Ma quel che tu continui a confondere sono le cose reali (genericamente intese, non distinte fra loro) e i concetti (genericamente intesi, non distinti fra loro) con i quali le pensiamo, che ad esse si riferiscono, di cui (se si tratta di cose sono veramente reali e non puramente immaginarie) esse sono le denotazioni.
E' ovvio che noi umani pensiamo per concetti dotati di significato ("abbiamo direttamente a che fare" con dei significati), ma possiamo pensare puri concetti mentali -"enti (ed eventi) di pensiero", immaginari- oppure enti (ed eventi) reali anche indipendentemente dall' essere eventualmente pure pensati, i quali ultimi sono denotati da concetti simbolizzati da vocaboli (arbitrariamente scelti e convenzionalmente condivisi), ma con tali concetti non si identificano affatto (esistendo o accadendo anche in assenza dei concetti stessi, di noi che li pensiano).
Noi decidiamo razionalmente (e arbitrariamente) di far significare alle parole quello che significano quando potrebbero tranquillamente significare qualsiasi altra cosa ci passasse per la testa: potremmo benissimo chiamare "fiiumi" le montagne e viceversa, che tutto filerebbe liscio, ci intenderemmo benissimo (altrtettanto bene di come ci intendamo chiamando "montagne" le montagne e "fiumi" i fiumi), e le cose resterebbero le stesse: le montagne montagne, i fiumi fiumi.
Nessuna montagna ha mai detto ad alcuno: "Il mio mome é <<montagna>> e così dovete chiamarmi e non altrimenti", né alcun fiume o alcun altra cosa.
(Quando avrò tempo risponderò ad atlre tue obiezioni a Phil da cui dissento; ora non posso).
Citazione di: maral il 04 Ottobre 2016, 23:09:54 PM
Citazione di: Phil il 02 Ottobre 2016, 23:18:53 PM
Non vorrei insistere, ma il punto cieco mi sembra proprio il "gioco dell'apparire"(cit.), come funziona l'avvicendarsi degli enti?
Il gioco dell'apparire è dovuto alla contraddizione che è insita nella totalità dell'ente (totalità che è necessaria se l'ente è ciò che è, perché può esserlo solo nella totalità di ciò che è). Ma questa totalità può essere colta solo tautologicamente dal pensiero astratto,
CitazioneMa prché mai (e come?) nella "totalità dell' ente" dovrebbe "essere insita la contraddizione"?
La contraddizione può darsi di un predicato o discorso (o al limite di un concetto) se vi é implicata un' affermazione e la sua negazione contemporaneamente; un ente può essere (o accadere, o divenire) realmente o meno, non essere logicamente coerente o contraddittorio (a meno che l' ente predichi, "significhi" qualcosa come mi sembra tu continui a sostenere accada necessariamente di qualsiasi ente, non solo dei simboli), ma palesemente (per definizione) ciò non é di enti che non siano simboli (verbali o al limite di altra natura); e comunque se anche la si desse di un ente -ammesso e non concesso da parte mia- la contraddizione sarebbe di ciò che l' ente dicesse o significasse, e non di ciò che fosse.
Poi dire che questa totalità (contraddittoria!) possa essere colta solo tautologicamente dal pensiero astratto mi sembra per così dire una "contraddizione al quadrato": la pretesa che la tautologia stessa, che ne é l' esatto contrario, sia contraddittoria!
Se per te una tautologia può essere contraddittoria, allora parliamo proprio due lingue diverse e non intertraducibili!
(E forse é meglio porre termine qui a un tentativo di comunicare -almeno su questi argoimenti- sicuramente destinato a fallire).
Ps non per nulla Sini dice che non è opportuno leggere in pubblico certi passi di "Dike" per quanto significativi, si rischia di passare per matti totali di fronte al senso comune delle cose.:)
CitazioneCome lo capsico (unicamente limiatatamente a questa affermazione, sia chiaro)!
chiedo venia: il mio ultimo post non è nella collocazione propria di questa discussione ,ma in quella della "nave di Teseo"
Citazione di: sgiombo il 05 Ottobre 2016, 13:05:22 PM
Noi decidiamo razionalmente (e arbitrariamente) di far significare alle parole quello che significano quando potrebbero tranquillamente significare qualsiasi altra cosa ci passasse per la testa
Non so Sgiombo, forse tu, io non ho mai deciso di far significare a nessuna parola che normalmente uso quello che per me significa.
Che le cose reali esistano prima di tutto in sé e per sé, prima di apparirci nel significato che i loro nomi ci esprimono è forse necessario, ma dopotutto anche dire che quelle delle cose sono reali e che esistono in sé e per sé restano sempre significati. Anche "cosa" per quanto sia un termine generalissimo è un significato.
Secondo me la cosa e la parola restano proprio come due facce della stessa medaglia, diverse, ma inseparabili in un determinato contesto che non siamo comunque noi a scegliere e che può sempre cambiare.
Citazione di: maral il 05 Ottobre 2016, 23:18:00 PM
Citazione di: sgiombo il 05 Ottobre 2016, 13:05:22 PM
Noi decidiamo razionalmente (e arbitrariamente) di far significare alle parole quello che significano quando potrebbero tranquillamente significare qualsiasi altra cosa ci passasse per la testa
Non so Sgiombo, forse tu, io non ho mai deciso di far significare a nessuna parola che normalmente uso quello che per me significa.
CitazioneForse tu no, ma le comunità dei parlanti sì: così é nato il linguaggio e si evolvono le lingue (o credi che le abbia insegnate una qualche divinità o che le cose stesse abbiano detto: "chiamatemi "così" e non "cosà"?).
Che le cose reali esistano prima di tutto in sé e per sé, prima di apparirci nel significato che i loro nomi ci esprimono è forse necessario, ma dopotutto anche dire che quelle delle cose sono reali e che esistono in sé e per sé restano sempre significati. Anche "cosa" per quanto sia un termine generalissimo è un significato.
CitazioneAppunto: dire che le cose reali esistono é un fatto, mentre l' esistenza reale delle cose é un altro, ben diverso fatto (e spessissimo si dà l' uno e non l' altro o viceversa)!
Secondo me la cosa e la parola restano proprio come due facce della stessa medaglia, diverse, ma inseparabili in un determinato contesto che non siamo comunque noi a scegliere e che può sempre cambiare.
Citazione
http://www.francescomorante.it/pag_3/313bb.htm
CECI N' EST PAS UNE PIPE
(Magritte)
(Purtroppo non sono riuscito a copiare-incollare il dipinto, che determina un "eccesso di caratteri")
E infatti non é una pipa reale, ma una "pipa", cioé la rappresentazione di una pipa reale, qualcosa che intende farla considerare teoricamente, che la "sostituisce" nei pensieri e ragionamenti umani .
E in generale i concetti, arbitrariamente e convenzionalmente simboleggiati dalle parole, non sono affatto le cose reali che denotano, di cui parlano le proposizioni che i concetti stessi compongono, bensì ne sono una sorta di "rappresentazione", qualcosa che intende farle considerare teoricamente, che le "sostituisce" nei pensieri e ragionamenti umani.
Qualsiasi concetto di qualsiasi "cosa" é altro dalla corrispettiva cosa che ne può eventualmete costituire la denotazione reale.
E possono esistere (o accadere) cose reali senza che ne esista (che accada che se ne pensi) un rispettivo concetto di "cosa" (simboleggiato da una parola arbitrariamente e convenzionalmente "affibbiatagli"; solito esempio delle motagne su pianeti mai abitati o esplorati da soggetti di sensazione e pensiero); così come possono esistere (può accadere che si pensino) concetti senza che ne esistano o accadano (di essi) denotazioni reali (solito esempio degli ippogrifi).
Ma dove sarebbe l' altra faccia della medaglia (la cosa reale) della parola "ippogrifo"?
E l' altra faccia della medaglia (la parola) di una delle infinite cose reali costituite dalle infinite montagne che nessuno ha visto, denominato, pensato sui pianeti disabitati e inesplorati di galassie lontane?
Citazione di: sgiombo il 06 Ottobre 2016, 08:09:19 AM
Forse tu no, ma le comunità dei parlanti sì: così é nato il linguaggio e si evolvono le lingue (o credi che le abbia insegnate una qualche divinità o che le cose stesse abbiano detto: "chiamatemi "così" e non "cosà"?).
Forse una qualche mitologica comunità di parlanti, perché che io sappia non vi è nessuna traccia di una comunità i cui membri, senza avere alcun linguaggio, si mettano a inventarne uno convenzionando su di esso.
CitazioneAppunto: dire che le cose reali esistono é un fatto, mentre l' esistenza reale delle cose é un altro, ben diverso fatto (e spessissimo si dà l' uno e non l' altro o viceversa)!
E come fanno le cose reali a esistere se la loro esistenza reale non ha luogo?
CitazioneCECI N' EST PAS UNE PIPE
Certo, l'immagine di una pipa non è una pipa, esattamente come il termine "pipa" non è la cosa che quel termine indica, è solo il suo segno. Questo però non significa che quel segno possiamo decidere di cambiarlo quando e come ci pare, né inventarcelo dal nulla di punto in bianco. Nel momento in cui la cosa si presenta si presenta in un significato (e non in tutti i significati) che gli è proprio e quel significato è tradotto da un nome e proprio in quel nome (
che non è la cosa) appare in oggetto l'accadere di quella cosa.
Che ci siano montagne in luoghi mai visitati dall'uomo fa parte del significato che l'uomo (e solo l'uomo) dà al termine "montagna", proprio come che non ci possano essere ippogrifi fa parte del significato che l'uomo dà al termine "ippogrifo", ove "l'uomo", in entrambi i casi, non è né questo né quell'uomo, ma la comunità umana nelle condizioni storiche, tecniche e culturali da cui si trova espressa e in cui realmente accade solo ciò che in quel contesto di significati può apparire.
Citazione di: maral il 10 Ottobre 2016, 14:28:58 PM
Citazione di: sgiombo il 06 Ottobre 2016, 08:09:19 AM
Forse tu no, ma le comunità dei parlanti sì: così é nato il linguaggio e si evolvono le lingue (o credi che le abbia insegnate una qualche divinità o che le cose stesse abbiano detto: "chiamatemi "così" e non "cosà"?).
Forse una qualche mitologica comunità di parlanti, perché che io sappia non vi è nessuna traccia di una comunità i cui membri, senza avere alcun linguaggio, si mettano a inventarne uno convenzionando su di esso.
CitazioneOvvio: non vi é alcuna traccia dell' inizio del linguaggio, comunque sia avvenuto!
Ma di fatto il linguaggio é un insieme di arbitrari e convenzionalmente accettati simboli verbali e delle regole grammaticali e sintattiche del loro impiego.
CitazioneAppunto: dire che le cose reali esistono é un fatto, mentre l' esistenza reale delle cose é un altro, ben diverso fatto (e spessissimo si dà l' uno e non l' altro o viceversa)!
E come fanno le cose reali a esistere se la loro esistenza reale non ha luogo?
CitazioneInfatti non ho scritto: L' avere luogo delle cose reali é un fatto, mentre l' esistenza reale delle cose é un altro, ben diverso fatto (e spessissimo si dà l' uno e non l' altro o viceversa)!
Bensì: dire che le cose reali esistono é un fatto, mentre l' esistenza reale delle cose é un altro, ben diverso fatto (e spessissimo si dà l' uno e non l' altro o viceversa)!
L' affermazione che mi attribuisci e quella che ho effettivamente sostenuto mi sembrano completamente diverse!
Non so più come cercare di fartelo capire: un fatto è l' esistere delle cose (enti ed eventi) reali, cioè l' "avere luogo" delle loro esistenze (del loro accadere) nella realtà, un' altro ben diverso (eventuale) fatto è il pensare, il dire, il considerare teoricamente le cose (reali o meno): l' uno di questi due generi completamente diversi di fatti può accadere insieme all' altro (dicesi "conoscenza vera"), ma può anche benissimo accadere e di fatto accade anche senza che accada l' altro: se tu non cogli questa enorme differenza è inutile continuare a discutere: continua pure a considerare assurde farneticazioni quanto io sostengo perché non c' è modo da parte mia di farti comprendere che non lo sono.
CitazioneCECI N' EST PAS UNE PIPE
Certo, l'immagine di una pipa non è una pipa, esattamente come il termine "pipa" non è la cosa che quel termine indica, è solo il suo segno. Questo però non significa che quel segno possiamo decidere di cambiarlo quando e come ci pare, né inventarcelo dal nulla di punto in bianco. Nel momento in cui la cosa si presenta si presenta in un significato (e non in tutti i significati) che gli è proprio e quel significato è tradotto da un nome e proprio in quel nome (che non è la cosa) appare in oggetto l'accadere di quella cosa.
Che ci siano montagne in luoghi mai visitati dall'uomo fa parte del significato che l'uomo (e solo l'uomo) dà al termine "montagna", proprio come che non ci possano essere ippogrifi fa parte del significato che l'uomo dà al termine "ippogrifo", ove "l'uomo", in entrambi i casi, non è né questo né quell'uomo, ma la comunità umana nelle condizioni storiche, tecniche e culturali da cui si trova espressa e in cui realmente accade solo ciò che in quel contesto di significati può apparire.
CitazioneNon ho mai visto e sentito una pipa dire a chichessia (o apparire dicendo a chichessia): <<mi raccomando, chiamami "pipa", perché se invece mi chiamassi -che ne so- "apip" mi offenderei tantissimo e renderei disgustoso il tabacco che fumerai usandomi>>.
Le cose si presentano ai nostri sensi nel loro accadere e non nel (l' accadere e inoltre) significare alcunché, a meno che non si tratti di un peculiarissimo genere di cose che sono i simboli, arbitrariamente e convenzionalmente dotati di significato da parte degli uomini.
Casomai l' uomo da un significato "a montagne mai viste" nel pensare, nel sapere (da parte per l' appunto dell' uomo) che quelle montagne esistono, ma questo significato non l' ha l' esistenza reale di quelle montagne, che semplicemente accadrebbe (e basta) anche se nessuno lo pensasse.
Ma se non esistono ippogrifi come cose reali indipendentemente dal pensarli, allora non è vera la tua affermazione "Secondo me la cosa e la parola restano proprio come due facce della stessa medaglia, diverse, ma inseparabili in un determinato contesto che non siamo comunque noi a scegliere e che può sempre cambiare": la parola "ippogrifo" non ha un' "altra faccia della medaglia" costituita da alcun ippogrifo reale (una cosa ippogrifo: faccia "B"), oltre al pensiero dell' ippogrifo (faccia "A").
Ma continuare a ripetere sempre le stesse cose non mi sembra utile né tantomeno dilettevole, quindi stavolta mi asterrò davvero dal replicare dato che da almeno quattro o cinque volte sia tu che io non facciamo che ripetere sempre inutilmente le stesse affermazioni (ovvio che in questo caso chi tace non acconsente).
Citazione di: sgiombo il 10 Ottobre 2016, 20:59:07 PM
Ovvio: non vi é alcuna traccia dell' inizio del linguaggio, comunque sia avvenuto!
Ma di fatto il linguaggio é un insieme di arbitrari e convenzionalmente accettati simboli verbali e delle regole grammaticali e sintattiche del loro impiego.
E allora dove sta la verità di questo fatto che sostieni incontrovertibile?
Se il tuo discorso vuol dire: esistono cose reali la cui esistenza può apparirci o meno significando qualcosa oppure nulla sono perfettamente d'accordo, se vuol dire esistono cose che ci appaiono significando, senza avere realtà alcuna, no (e questo vale pure per gli ippogrifi se "ippogrifo" significa qualcosa, anche se non me lo ritroverò mai in carne ed ossa davanti al naso, poiché ritrovare in carne e ossa sono solo un modo che hanno le cose di significare) .
Prendiamo ad esempio la frase, che mi pare rispecchi quello che affermi:
"
la natura è come è, indipendentemente da come la diciamo che sia". Ma questa è comunque una frase, è qualcosa che viene da noi detto della natura, dunque, se è vera la natura è indipendente da questo stesso dire. Capisci la contraddizione? Si sta dicendo che quello che si dice, essendo arbitrario, non ha alcuna relazione con quello che è, ma allora questo vale anche per questa affermazione perbacco, dato che la si sta dicendo! Che relazione può mai avere questa stessa frase con la natura per come è?
Questo però non significa assolutamente che l'esistenza della natura dipende da quello che diciamo come se fosse l'ovvia e unica alternativa a quanto prima detto. Ciò che è non dipende da ciò che ne diciamo, ma il suo modo di
poterci apparire in qualche modo sì (apparirci come quel monte, quel cavallo e pure come tutte le immagini di fantasia o in carne e ossa in cui può apparirci nei contesti e secondo i modi in cui si manifesta il loro significato). E ciò che diciamo non lo inventiamo mai noi (come Walter Chiari inventava la parola "Sarchiapone" nel famoso sketch che credo ricorderai), proprio in quanto ci appare e non siamo noi a far apparire ciò che appare nel modo in cui appare, non lo costruiamo mai a tavolino, non lo disegniamo come vogliamo
ad libitum, ma è quello stesso apparirci che ci presenta ciò che realmente è (e non sappiamo cosa sia se non ci appare in qualche modo) nei modi in cui in quel contesto si manifesta.
Citazione di: maral il 13 Ottobre 2016, 11:51:43 AM
Citazione di: sgiombo il 10 Ottobre 2016, 20:59:07 PM
Ovvio: non vi é alcuna traccia dell' inizio del linguaggio, comunque sia avvenuto!
Ma di fatto il linguaggio é un insieme di arbitrari e convenzionalmente accettati simboli verbali e delle regole grammaticali e sintattiche del loro impiego.
E allora dove sta la verità di questo fatto che sostieni incontrovertibile?
CitazioneE allora dove sta la dimostrazione che l' uno o l' altro di questi fatti (non esservi traccia dell' inizio del linguaggio e convenzionalità dei simboli verbali dei concetti) non sarebbe incontrovertibile?
Se il tuo discorso vuol dire: esistono cose reali la cui esistenza può apparirci o meno significando qualcosa oppure nulla sono perfettamente d'accordo, se vuol dire esistono cose che ci appaiono significando, senza avere realtà alcuna, no (e questo vale pure per gli ippogrifi se "ippogrifo" significa qualcosa, anche se non me lo ritroverò mai in carne ed ossa davanti al naso, poiché ritrovare in carne e ossa sono solo un modo che hanno le cose di significare) .
CitazioneCos' altro ho mai sostenuto se non che esistono cose reali che non significano nulle a altre (i simboli) che significano (per assunzione arbitraria) qualcosa?
Se intendi questo con "cose reali la cui esistenza può apparirci o meno significando qualcosa oppure nulla" siamo d' accordo (ma non mi pareva...).
Non ho mai affermato la contraddizione: "ci sono cose reali che significano qualcosa (simboli) senza essere reali" ma casomai che ci sono cose reali che sono simboli verbali, come "ippogrifo", che significano un concetto (hanno ovviamente una connotazione) senza avere una denotazione reale (simboli verbali il cui significato è reale unicamente in quanto oggetto di pensiero; e dunque non ti ritroverai mai i significati di questi simboli verbali -del tipo di "ippogrifo"- in carne e ossa davanti al naso).
Prendiamo ad esempio la frase, che mi pare rispecchi quello che affermi:
"la natura è come è, indipendentemente da come la diciamo che sia". Ma questa è comunque una frase, è qualcosa che viene da noi detto della natura, dunque, se è vera la natura è indipendente da questo stesso dire. Capisci la contraddizione? Si sta dicendo che quello che si dice, essendo arbitrario, non ha alcuna relazione con quello che è, ma allora questo vale anche per questa affermazione perbacco, dato che la si sta dicendo! Che relazione può mai avere questa stessa frase con la natura per come è?
CitazioneMa quale contraddizione?
"La natura è come è, indipendentemente da come la diciamo che sia" non significa che parliamo della natura e inoltre contemporaneamente non parliamo della natura, bensì che la natura è ciò che è, sia se e quando include il fatto che parliamo della natura (di cui siamo parte), sia se e quando non include il fatto che parliamo della natura.
Questo però non significa assolutamente che l'esistenza della natura dipende da quello che diciamo come se fosse l'ovvia e unica alternativa a quanto prima detto.
Ciò che è non dipende da ciò che ne diciamo, ma il suo modo di poterci apparire in qualche modo sì (apparirci come quel monte, quel cavallo e pure come tutte le immagini di fantasia o in carne e ossa in cui può apparirci nei contesti e secondo i modi in cui si manifesta il loro significato). E ciò che diciamo non lo inventiamo mai noi (come Walter Chiari inventava la parola "Sarchiapone" nel famoso sketch che credo ricorderai), proprio in quanto ci appare e non siamo noi a far apparire ciò che appare nel modo in cui appare, non lo costruiamo mai a tavolino, non lo disegniamo come vogliamo ad libitum, ma è quello stesso apparirci che ci presenta ciò che realmente è (e non sappiamo cosa sia se non ci appare in qualche modo) nei modi in cui in quel contesto si manifesta.
CitazioneSe "ciò che è non dipende da ciò che ne diciamo, ma il suo modo di poterci apparire in qualche modo sì" significa che ciò che è non dipende da ciò che ne diciamo, ma il nostro pensarlo (=il suo modo di poterci apparire in qualche modo) sì, sono ovviamente d' accordo: è una tautologia!
Io non ho mai visto alcunché di naturale (di non fatto appositamente, intenzionalmente in siffatto modo da uomini) che apparisse alla mia vista insieme a una scritta (o alla pronuncia di un vocalizzo) costituita (-o) dalla parola (in che lingua?!?!?!) con cui si è invece deciso arbitrariamente (essendo più o meno esplicitamente consapevoli dei questa decisione arbitraria a seconda dei casi) di chiamarla (proprio come nello sketch si è finto fosse stato deciso di chiamare così l' inesistente sarchiapone: l' unica differenza, fra il sarchiapone e il mio gatto Attila è che il primo non esiste, il secondo per mia fortuna sì: non riguarda in alcun modo la loro rispettiva denominazione, la quale, nella realtà nel secondo caso, nella finzione artistica nel primo, è stata comunque arbitraria).
Che non siamo noi a far apparire ciò che appare nel modo in cui appare, non lo costruiamo mai a tavolino, non lo disegniamo come vogliamo ad libitum, ecc. sono ovviamente d' accordo (altra tautologia).
Ma l' apparirci di ciò che ci appare =/= il denominare ciò che ci appare.
Scusa Sgiombo, ma dicendo che la natura è come è, indipendentemente da come la diciamo, stiamo dicendo proprio qualcosa della natura e non è nemmeno una tautologia, (la tautologia sarebbe che la natura è la natura, senza ulteriori specificazioni su ciò che è o non è, che se ci si mettono vanno ad aggiungersi debitamente o indebitamente). Ma il punto è che proprio assumendo per vera tale affermazione essa si dimostra completamente insignificante (ossia se è vera è falsa). Se la natura è indipendentemente da come la diciamo, ora che diciamo questo della natura, stiamo dicendo qualcosa da cui la natura è del tutto indipendente, proprio per come la si è detta.
CitazioneIo non ho mai visto alcunché di naturale (di non fatto appositamente, intenzionalmente in siffatto modo da uomini) che apparisse alla mia vista insieme a una scritta (o alla pronuncia di un vocalizzo) costituita (-o) dalla parola (in che lingua?!?!?!) con cui si è invece deciso arbitrariamente (essendo più o meno esplicitamente consapevoli dei questa decisione arbitraria a seconda dei casi) di chiamarla (proprio come nello sketch si è finto fosse stato deciso di chiamare così l' inesistente sarchiapone: l' unica differenza, fra il sarchiapone e il mio gatto Attila è che il primo non esiste, il secondo per mia fortuna sì: non riguarda in alcun modo la loro rispettiva denominazione, la quale, nella realtà nel secondo caso, nella finzione artistica nel primo, è stata comunque arbitraria).
Niente appare con una scritta con il suo nome sotto, ma questo non significa che i nomi li mettiamo noi come ci pare e infatti neppure questo accade. Hai forse mai messo a tuo arbitrio dei nomi a delle cose o non li hai forse appresi? Pensi che gli uomini di decine di migliaia di anni or sono si siano messi a pronunciare fonemi a caso e poi si siano messi d'accordo su cosa dovessero significare? E con che linguaggio lo avrebbero fatto? Con gli stessi fonemi su cui dovevano ancora concordare?
I nomi vengono dal contesto culturale e sociale che conosce i significati che ha imparato a conoscere nel vedere e usare le cose. I nomi variano, certo, a seconda di cosa si vede, come lo si percepisce e lo si usa, a seconda di quale parte della cosa appare o meno come rilevante e per questo quando qualcuno dice un nome che non conosco ("sarchiapone" ad esempio), è ovvio che cerco e immagino la cosa che quel nome penso indichi, non denotandola, ma
evocandola sulla base di riferimenti ad altri suoni di cui già so e sappiamo il significato.
P.S. tra l'altro pare che il sarchiapone esista, in dialetto napoletano e abruzzese, ma non è un animale.
Citazione di: maral il 13 Ottobre 2016, 17:24:07 PM
Scusa Sgiombo, ma dicendo che la natura è come è, indipendentemente da come la diciamo, stiamo dicendo proprio qualcosa della natura e non è nemmeno una tautologia, (la tautologia sarebbe che la natura è la natura, senza ulteriori specificazioni su ciò che è o non è, che se ci si mettono vanno ad aggiungersi debitamente o indebitamente). Ma il punto è che proprio assumendo per vera tale affermazione essa si dimostra completamente insignificante (ossia se è vera è falsa). Se la natura è indipendentemente da come la diciamo, ora che diciamo questo della natura, stiamo dicendo qualcosa da cui la natura è del tutto indipendente, proprio per come la si è detta.
CitazioneDi qualunque "cosa" (soggetto di predicato; anche della natura) dire (predicare) che é come é (ovvero ciò che é) é una tautologia.
E infatti io non mi sono limitato a questa tautologia, ho invece affermato che é come é indipendentemente dal se e come la si pensa essere: appunto, la natura é ciò che é ovvero come é indipendentemente dal fatto che questa affermazione venga avanzata o meno (lo sarebbe anche se non lo dicessi: senza che ne faccia parte questo pensiero o facendone parte questo pensiero, in entrambi i casi tautologicamente sarebbe come é).
CitazioneIo non ho mai visto alcunché di naturale (di non fatto appositamente, intenzionalmente in siffatto modo da uomini) che apparisse alla mia vista insieme a una scritta (o alla pronuncia di un vocalizzo) costituita (-o) dalla parola (in che lingua?!?!?!) con cui si è invece deciso arbitrariamente (essendo più o meno esplicitamente consapevoli dei questa decisione arbitraria a seconda dei casi) di chiamarla (proprio come nello sketch si è finto fosse stato deciso di chiamare così l' inesistente sarchiapone: l' unica differenza, fra il sarchiapone e il mio gatto Attila è che il primo non esiste, il secondo per mia fortuna sì: non riguarda in alcun modo la loro rispettiva denominazione, la quale, nella realtà nel secondo caso, nella finzione artistica nel primo, è stata comunque arbitraria).
Niente appare con una scritta con il suo nome sotto, ma questo non significa che i nomi li mettiamo noi come ci pare e infatti neppure questo accade. Hai forse mai messo a tuo arbitrio dei nomi a delle cose o non li hai forse appresi?
CitazioneOvviamente li ho appresi (a parte "Asiafrica"): mica sono un grande poeta o un autore di scoperte scientifiche!
Dante e Galileo e tanti altri hanno coniato ex novo del tutto arbitrariamente più di una parola.
O credi che Galileo "Pianeti Medicei" l' abbia letto al telescopio scritto su uno dei satelliti di Giove a mo' di etichetta su una merce del supermercato?!?!?!
E Amerigo Vespucci (o chi per esso) "America" l' abbia letto sulla collina di Hollywood come la scritta (peraltro altrettanto arbitrariamente arbitrariamente appostavi da qualcun altro) "Hollywood"?!?!?!
Pensi che gli uomini di decine di migliaia di anni or sono si siano messi a pronunciare fonemi a caso e poi si siano messi d'accordo su cosa dovessero significare? E con che linguaggio lo avrebbero fatto? Con gli stessi fonemi su cui dovevano ancora concordare?
CitazioneCerto, ovviamente, con i fonemi che stavano arbitrariamente inventando!
L' accordo l' hanno probabilmente trovato spontaneamente, senza istituire una apposita "commissione per lo stabilimento dei fonemi" (cosa che invece accadde quando fu inventata la lingua indonesiana, attualmente parlata da centinaia di milioni di persone).
I nomi vengono dal contesto culturale e sociale che conosce i significati che ha imparato a conoscere nel vedere e usare le cose.
CitazioneChe ha imparato a simboleggiare le varie cose (i concetti denotanti cose; oltre a quelli puramente immaginari, privi di denotazione reale) con parole arbitrariamente stabilite.
I nomi variano, certo, a seconda di cosa si vede, come lo si percepisce e lo si usa, a seconda di quale parte della cosa appare o meno come rilevante e per questo quando qualcuno dice un nome che non conosco ("sarchiapone" ad esempio), è ovvio che cerco e immagino la cosa che quel nome penso indichi, non denotandola, ma evocandola sulla base di riferimenti ad altri suoni di cui già so e sappiamo il significato.
P.S. tra l'altro pare che il sarchiapone esista, in dialetto napoletano e abruzzese, ma non è un animale.
CitazionePerfettamente coerente con l' arbitrarietà dei nomi delle cose e non con il preteso, mitico "apparire delle cose con i loro nomi già incoporati".
Citazione di: sgiombo il 13 Ottobre 2016, 18:22:56 PM
Citazione di: maral il 13 Ottobre 2016, 17:24:07 PM
Pensi che gli uomini di decine di migliaia di anni or sono si siano messi a pronunciare fonemi a caso e poi si siano messi d'accordo su cosa dovessero significare? E con che linguaggio lo avrebbero fatto? Con gli stessi fonemi su cui dovevano ancora concordare?
CitazioneCerto, ovviamente, con i fonemi che stavano arbitrariamente inventando!
L' accordo l' hanno probabilmente trovato spontaneamente, senza istituire una apposita "commissione per lo stabilimento dei fonemi" (cosa che invece accadde quando fu inventata la lingua indonesiana, attualmente parlata da centinaia di milioni di persone).
CitazioneQuesta storia dell' invenzione artificiale della lingua indonesiana l' avevo sentita dire qualche tempo e la ricordavo male; ho fatto un rapido giro in Google e ho constatato che é una bufala.
Tuttavia ciò non cambia la sostanza delle questione.
In compenso ti posso fare l' esempio dei nomi italiani delle località sudtirolesi (fra l' altro la stessa denominazione di "Alto Adige"; o Vipiteno per Stertnzig o giù di lì, non so di preciso), che furono inventati di sana pianta durante il fascismo (noto, fra le altre sue colpe, per l' esasperato imperialismo e nazionalismo d' accatto) e "decretati per legge", ed oggi sono di fatto comunemente usati (perfino da gran parte delle popolazioni locali, accanto ai corrispondenti tponimi tedeschi).
Citazione di: sgiombo il 13 Ottobre 2016, 18:22:56 PM
Di qualunque "cosa" (soggetto di predicato; anche della natura) dire (predicare) che é come é (ovvero ciò che é) é una tautologia.
E infatti io non mi sono limitato a questa tautologia, ho invece affermato che é come é indipendentemente dal se e come la si pensa essere: appunto, la natura é ciò che é ovvero come é indipendentemente dal fatto che questa affermazione venga avanzata o meno (lo sarebbe anche se non lo dicessi: senza che ne faccia parte questo pensiero o facendone parte questo pensiero, in entrambi i casi tautologicamente sarebbe come é).
La tautologia al massimo può essere: "la natura è come è", ma se ci aggiungi che è "indipendente da come la si dice o la si pensa" non è più una tautologia, perché nella tautologia non c'è nulla che implichi che essendo com'è il "com'è" non comprenda come la si dice e la si pensa. Introduci quindi una specificazione (di cui sei lecitamente convinto) che però non è implicita nella semplice tautologia A=A. Stai dicendo qualcosa in più, ossia come è A (ossia specifichi la natura di A), stai dicendo che A è questo e non quello. Ma soprattutto è una evidente contraddizione dato che lo dici, mentre sostieni che la natura è indipendente da come la si dice, quindi compreso anche come la stai dicendo tu, a meno che non intendi il tuo dire sulla natura escluso dalla regola che tu stesso hai enunciato.
CitazioneOvviamente li ho appresi (a parte "Asiafrica"): mica sono un grande poeta o un autore di scoperte scientifiche!
Dante e Galileo e tanti altri hanno coniato ex novo del tutto arbitrariamente più di una parola.
O credi che Galileo "Pianeti Medicei" l' abbia letto al telescopio scritto su uno dei satelliti di Giove a mo' di etichetta su una merce del supermercato?!?!?!
E Amerigo Vespucci (o chi per esso) "America" l' abbia letto sulla collina di Hollywood come la scritta (peraltro altrettanto arbitrariamente arbitrariamente appostavi da qualcun altro) "Hollywood"?!?!?!
Ma nessuno ha mai inventato le parole scegliendole liberamente a caso, ma sempre secondo un significato nato da altri nomi con i loro significati. Asiafrica è la combinazione di Asia e Africa, nomi che hanno già un preciso significato sulla base del quale intendo cosa indichi con quel nome, lo stesso "Pianeti Medicei", mica Galileo si è messo a emettere suoni a caso e poi ne ha scelta una combinazione a piacere tra le tante che gli uscivano dalla bocca per chiamare così quelle cose che vedeva con il cannocchiale, e Amerigo Vespucci (se davvero fu lui) ha chiamato l'America così in relazione al suo nome, quindi anche qui il motivo c'era. Poteva chiamarla diversamente? Forse, ma quel nome riflette la sua reale relazione con la cosa che ha nominato, proprio così e non in altro modo e nasce già con un preciso e chiaro significato.
CitazioneCerto, ovviamente, con i fonemi che stavano arbitrariamente inventando!
L' accordo l' hanno probabilmente trovato spontaneamente, senza istituire una apposita "commissione per lo stabilimento dei fonemi" (cosa che invece accadde quando fu inventata la lingua indonesiana, attualmente parlata da centinaia di milioni di persone).
E come hanno fatto a trovare l'accordo spontaneamente se ognuno si creava i suoi fonemi a caso senza che ve ne fossero altri per intendersi? Con quali fonemi si capivano per potersi mettere d'accordo?
CitazioneChe ha imparato a simboleggiare le varie cose (i concetti denotanti cose; oltre a quelli puramente immaginari, privi di denotazione reale) con parole arbitrariamente stabilite.
Nessun nome è privo di significato e nessun significato è immaginario (se per immaginario intendi del tutto arbitrario e quindi insignificante), a intenderlo per quello che davvero significa.
CitazionePerfettamente coerente con l' arbitrarietà dei nomi delle cose e non con il preteso, mitico "apparire delle cose con i loro nomi già incoporati".
Eppure anche in quello sketch, il motivo per dire "sarchiapone" c'era:
https://it.wikipedia.org/wiki/Sarchiapone v. origine del termine. E quel motivo dà la realtà della cosa che ha come nome sarchiapone nel contesto in cui si è usato quel nome, ossia cosa davvero è.
CitazioneIn compenso ti posso fare l' esempio dei nomi italiani delle località sudtirolesi (fra l' altro la stessa denominazione di "Alto Adige"; o Vipiteno per Stertnzig o giù di lì, non so di preciso), che furono inventati di sana pianta durante il fascismo (noto, fra le altre sue colpe, per l' esasperato imperialismo e nazionalismo d' accatto) e "decretati per legge", ed oggi sono di fatto comunemente usati (perfino da gran parte delle popolazioni locali, accanto ai corrispondenti tponimi tedeschi).
Ma ti sembra che "Alto Adige" o "Vipiteno" usati per sostituire i nomi tedeschi siano stati scelti così, arbitrariamente emettendo suoni a caso con la bocca? O non rappresentavano piuttosto qualcosa (e qualcosa di ben reale e significativo) di quello che indicavano?
Citazione di: maral il 15 Ottobre 2016, 00:01:59 AM
Citazione di: sgiombo il 13 Ottobre 2016, 18:22:56 PM
Di qualunque "cosa" (soggetto di predicato; anche della natura) dire (predicare) che é come é (ovvero ciò che é) é una tautologia.
E infatti io non mi sono limitato a questa tautologia, ho invece affermato che é come é indipendentemente dal se e come la si pensa essere: appunto, la natura é ciò che é ovvero come é indipendentemente dal fatto che questa affermazione venga avanzata o meno (lo sarebbe anche se non lo dicessi: senza che ne faccia parte questo pensiero o facendone parte questo pensiero, in entrambi i casi tautologicamente sarebbe come é).
La tautologia al massimo può essere: "la natura è come è", ma se ci aggiungi che è "indipendente da come la si dice o la si pensa" non è più una tautologia, perché nella tautologia non c'è nulla che implichi che essendo com'è il "com'è" non comprenda come la si dice e la si pensa. Introduci quindi una specificazione (di cui sei lecitamente convinto) che però non è implicita nella semplice tautologia A=A. Stai dicendo qualcosa in più, ossia come è A (ossia specifichi la natura di A), stai dicendo che A è questo e non quello. Ma soprattutto è una evidente contraddizione dato che lo dici, mentre sostieni che la natura è indipendente da come la si dice, quindi compreso anche come la stai dicendo tu, a meno che non intendi il tuo dire sulla natura escluso dalla regola che tu stesso hai enunciato.
Citazione
E infatti io che cosa ho scritto?
Ho scritto proprio che "Di qualunque "cosa" (soggetto di predicato; anche della natura) dire (predicare) che é come é (ovvero ciò che é) é una tautologia, mentre io non mi limito a una tautologia, la mia tesi che vi aggiunge "indipendente da come la si dice o la si pensa" è più di una tautologia.
Non dico che la natura è "indipendente da come la si dice (quindi compreso anche come la sto dicendo io)", bensì che è come è indipendentemente dal fatto che il suo essere come è comprenda (ipoteticamente, fra l' altro) me che lo dico (che parlo della natura) oppure (come ipotesi alternativa) che non lo (mi) comprenda.
C' è una bella differenza fra la contraddizione che mi attribuisci e ciò che effettivamente sostengo!
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CitazioneOvviamente li ho appresi (a parte "Asiafrica"): mica sono un grande poeta o un autore di scoperte scientifiche!
Dante e Galileo e tanti altri hanno coniato ex novo del tutto arbitrariamente più di una parola.
O credi che Galileo "Pianeti Medicei" l' abbia letto al telescopio scritto su uno dei satelliti di Giove a mo' di etichetta su una merce del supermercato?!?!?!
E Amerigo Vespucci (o chi per esso) "America" l' abbia letto sulla collina di Hollywood come la scritta (peraltro altrettanto arbitrariamente arbitrariamente appostavi da qualcun altro) "Hollywood"?!?!?!
Ma nessuno ha mai inventato le parole scegliendole liberamente a caso, ma sempre secondo un significato nato da altri nomi con i loro significati. Asiafrica è la combinazione di Asia e Africa, nomi che hanno già un preciso significato sulla base del quale intendo cosa indichi con quel nome, lo stesso "Pianeti Medicei", mica Galileo si è messo a emettere suoni a caso e poi ne ha scelta una combinazione a piacere tra le tante che gli uscivano dalla bocca per chiamare così quelle cose che vedeva con il cannocchiale, e Amerigo Vespucci (se davvero fu lui) ha chiamato l'America così in relazione al suo nome, quindi anche qui il motivo c'era. Poteva chiamarla diversamente? Forse, ma quel nome riflette la sua reale relazione con la cosa che ha nominato, proprio così e non in altro modo e nasce già con un preciso e chiaro significato.
CitazioneTi ho già detto che le parole non si scelgono a caso (generalmente; a meno che non si decida deliberatamente di farlo), bensì arbitrariamente per determinate motivazioni (le più disparate).
Anche qui c' è una bella differenza!
Asia e Africa hanno già i loro significati perché qualcuno prima di me arbitrariamente e non casualmente glieli ha attribuiti.
Infatti Galileo ha scelto il nome per i satelliti di Giove arbitrariamente ma non a casaccio (direi alquanto "ruffianamente").
Idem per Amerigo Vespucci (se è stato lui, alquanto "narcisisticamente": poteva benissimo chiamarla in qualsiasi altro modo ma arbitrariamente ha pensato bene di autocelebrarsi).
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CitazioneCerto, ovviamente, con i fonemi che stavano arbitrariamente inventando!
L' accordo l' hanno probabilmente trovato spontaneamente, senza istituire una apposita "commissione per lo stabilimento dei fonemi" (cosa che invece accadde quando fu inventata la lingua indonesiana, attualmente parlata da centinaia di milioni di persone).
E come hanno fatto a trovare l'accordo spontaneamente se ognuno si creava i suoi fonemi a caso senza che ve ne fossero altri per intendersi? Con quali fonemi si capivano per potersi mettere d'accordo?
CitazioneNon vedo il problema: uno prova con un suono più o meno articolato, un ' altro con un altro suono, intendendosi a gesti, indicando la cosa da denominare, finché si convincono di usare tutti uno (o in teoria più: sinonimi) dei vari fonemi alternativi (anzi, probabilmente il primo proposto il più delle volte sarà stato quello accettato; come il nome "canguro" fu dato a questo animale per un malinteso, essendo il primo casualmente -ed erroneamente- udito dagli occidentali in presenza della bestia, "indicata a dito"; se per caso "non capisco" nella lingua degli aborigeni si fosse detto "ostrogolamo", chiameremmo -noi occidentali- quegli animali "ostrogolami").
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CitazioneChe ha imparato a simboleggiare le varie cose (i concetti denotanti cose; oltre a quelli puramente immaginari, privi di denotazione reale) con parole arbitrariamente stabilite.
Nessun nome è privo di significato e nessun significato è immaginario (se per immaginario intendi del tutto arbitrario e quindi insignificante), a intenderlo per quello che davvero significa.
CitazioneTautologia!
Fa parte del significato di "nome", trattandosi di una parola, un simbolo verbale, che significhi qualcosa (se un fonema, un vocalizzo più o meno articolato, come "trallallerollerollà", non ha un significato, allora per definizione non è una parola, un simbolo verbale).
Se fosse vero che nessun significato (di alcun nome) fosse immaginario vedremmo comunemente svolazzare nel cielo stormi di ippogrifi.
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CitazionePerfettamente coerente con l' arbitrarietà dei nomi delle cose e non con il preteso, mitico "apparire delle cose con i loro nomi già incoporati".
Eppure anche in quello sketch, il motivo per dire "sarchiapone" c'era: https://it.wikipedia.org/wiki/Sarchiapone v. origine del termine. E quel motivo dà la realtà della cosa che ha come nome sarchiapone nel contesto in cui si è usato quel nome, ossia cosa davvero è.
CitazioneInfatti arbitrario =/= immotivato.
Ma se, altrettanto arbitrariamente, Walter Chiari avesse parlato che ne so?- di "ostrogolamo" avrebbe funzionato lo stesso, sarebbe stato ugualmente divertente (oltre che istruttivo sulla natura umana)!
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CitazioneIn compenso ti posso fare l' esempio dei nomi italiani delle località sudtirolesi (fra l' altro la stessa denominazione di "Alto Adige"; o Vipiteno per Stertnzig o giù di lì, non so di preciso), che furono inventati di sana pianta durante il fascismo (noto, fra le altre sue colpe, per l' esasperato imperialismo e nazionalismo d' accatto) e "decretati per legge", ed oggi sono di fatto comunemente usati (perfino da gran parte delle popolazioni locali, accanto ai corrispondenti tponimi tedeschi).
Ma ti sembra che "Alto Adige" o "Vipiteno" usati per sostituire i nomi tedeschi siano stati scelti così, arbitrariamente emettendo suoni a caso con la bocca? O non rappresentavano piuttosto qualcosa (e qualcosa di ben reale e significativo) di quello che indicavano?
CitazioneSono stati scelti arbitrariamente e non a casaccio, cioè non emettendo suoni a caso con la bocca bensì con un preciso intento (grettamente nazionalistico e imperialistico), ma non per questo meno arbitrariamente, ad libitum di chi allora deteneva il potere, alla faccia delle aspirazioni della stragrande maggioranza delle popolazioni che abitavano quelle terre.
Continui a confondere "arbitrario" con "casuale"!
Il significato di arbitrario è legato a un punto di discussione filosofica basilare e molto più generale: l'esistenza del libero arbitrio. Nello specifico la domanda è se vi sia o meno libero arbitrio nella scelta dei nomi e nel linguaggio. Ancora più radicalmente il problema coinvolge l'effettiva esistenza di un soggetto (un io) che in quanto tale possa esercitare delle scelte (con riferimento alla critica di Spinoza a Cartesio).
Tu dici che "arbitrario" non significa "immotivato" né "casuale" e sono d'accordo, ma quali sono
i motivi che portano il soggetto a una certa scelta anziché a un'altra? Li sceglie lui, fermo restando che avrebbe potuto scegliere in modo diverso? A me sembra piuttosto evidente che non li scegli lui tra una serie equivalente (casuale) di possibilità, ma li determina nella loro prevalenza il contesto in cui esiste e questo contesto esprime già un accordo tra i soggetti che vivono in esso, poiché usano gli stessi strumenti, esercitano le stesse prassi, hanno in comune gli stessi riferimenti simbolici e quindi le stesse conoscenze e prospettive di significato. Nel caso specifico dei nomi e del linguaggio quando dico che la cosa si mostra con il suo nome non dico nulla di metafisicamente arcano, ma semplicemente che la cosa viene subito colta nel suo significare collettivo, intersoggettivo e questo significare è espresso pubblicamente da un nome che emerge e trae il suo senso comunicabile dall'insieme dei parlanti senza che vi sia nulla di arbitrario o concordato per tentativi. Nessuno dei parlanti esercita delle scelte, nessuno dei parlanti agisce arbitrariamente e nessuno dei parlanti in quel contesto è poi chiamato a stipulare accordi con altri parlanti per potersi intendere, perché si intende già e quel nome solo rende pubblica quell'intesa.
E' proprio in questo modo che noi ci parliamo ed è sempre stato così, poiché
l'essere umano nasce con il linguaggio, non nasce prima del linguaggio per istituirlo in seguito concordando sui termini da usare. Nessun uomo, nessun ominide, nessuna scimmia che potesse parlare ha mai originariamente stabilito alcun accordo, né ha mai scelto o inventato alcun segno (vocale o di altro tipo) a suo arbitrio, perché è stato il contesto in cui viveva a imporglielo mentre in quel contesto, e non nel vuoto assoluto, qualcosa accadendo emergeva già con il suo significato particolare, ossia con quella particolare espressione prospettica in cui si mostrava accadendo. Il nome non è originariamente che il segno sonoro pubblico (che coinvolge tutti gli udenti parlanti) di qualcosa che accade in un certo modo (proprio come una forma e un colore con tutto il loro significato emotivo sono segni visivi e soggettivi di quel medesimo accadere) e questo suono ci dice
a tutti che qui e ora quel qualcosa significa (è un simbolo per) questo e non quest'altro.
E proprio poiché quel suono simbolo di un particolare accadere lo sentiamo intimamente nostro nella sua originaria risonanza pubblica e collettiva che possiamo poi credere a posteriori che quella cosa avremmo potuto indifferentemente chiamarla in modo diverso, ma non è così e non è così perché così è stata chiamata e potrà essere chiamata (al futuro, non al condizionale passato) in modo diverso quando il contesto in cui accade la farà apparire in modo diverso e questo "modo diverso" sarà allora
necessariamente e non arbitrariamente espresso da un nuovo nome che ne darà un significato collettivo, pubblico e per nulla arbitrario.
Per quanto riguarda la tautologia, filosoficamente ognuno è libero di uscirne, ma se ne esce deve dimostrare di non contraddirsi. La frase che avevo indicato come contraddittoria è "la natura è come è, indipendentemente da come la si dice", dato che in tutta evidenza, mentre proclamiamo la natura essere indipendente da come la si dice, la si dice tale pretendendo che quanto si dice dica come è certamente la natura!
Ma ora precisi:
CitazioneNon dico che la natura è "indipendente da come la si dice (quindi compreso anche come la sto dicendo io)", bensì che è come è indipendentemente dal fatto che il suo essere come è comprenda (ipoteticamente, fra l' altro) me che lo dico (che parlo della natura) oppure (come ipotesi alternativa) che non lo (mi) comprenda
Allora se semplicemente intendi dire che la natura è come è, che comprenda o meno il "come la si dice", che fine fa il "come la si dice" su cui stiamo discutendo e quindi dicendo? e che fine fa tutta quello che pensiamo di poter dire e quindi di sapere e spiegare sulla natura? Wittgenstein arrivò a concludere che ciò di cui non si può dire (in questo caso la natura) bisogna tacere, ma anche così aveva detto troppo, quindi non resterebbe che un assoluto silenzio, forse il silenzio assoluto dell'Essere. E' questa la realtà? Se lo è, a questa domanda può solo seguire, per coerenza, il silenzio.
Citazione di: maral il 16 Ottobre 2016, 10:43:05 AM
Il significato di arbitrario è legato a un punto di discussione filosofica basilare e molto più generale: l'esistenza del libero arbitrio. Nello specifico la domanda è se vi sia o meno libero arbitrio nella scelta dei nomi e nel linguaggio. Ancora più radicalmente il problema coinvolge l'effettiva esistenza di un soggetto (un io) che in quanto tale possa esercitare delle scelte (con riferimento alla critica di Spinoza a Cartesio).
Tu dici che "arbitrario" non significa "immotivato" né "casuale" e sono d'accordo, ma quali sono i motivi che portano il soggetto a una certa scelta anziché a un'altra? Li sceglie lui, fermo restando che avrebbe potuto scegliere in modo diverso? A me sembra piuttosto evidente che non li scegli lui tra una serie equivalente (casuale) di possibilità, ma li determina nella loro prevalenza il contesto in cui esiste e questo contesto esprime già un accordo tra i soggetti che vivono in esso, poiché usano gli stessi strumenti, esercitano le stesse prassi, hanno in comune gli stessi riferimenti simbolici e quindi le stesse conoscenze e prospettive di significato. Nel caso specifico dei nomi e del linguaggio quando dico che la cosa si mostra con il suo nome non dico nulla di metafisicamente arcano, ma semplicemente che la cosa viene subito colta nel suo significare collettivo, intersoggettivo e questo significare è espresso pubblicamente da un nome che emerge e trae il suo senso comunicabile dall'insieme dei parlanti senza che vi sia nulla di arbitrario o concordato per tentativi. Nessuno dei parlanti esercita delle scelte, nessuno dei parlanti agisce arbitrariamente e nessuno dei parlanti in quel contesto è poi chiamato a stipulare accordi con altri parlanti per potersi intendere, perché si intende già e quel nome solo rende pubblica quell'intesa.
E' proprio in questo modo che noi ci parliamo ed è sempre stato così, poiché l'essere umano nasce con il linguaggio, non nasce prima del linguaggio per istituirlo in seguito concordando sui termini da usare. Nessun uomo, nessun ominide, nessuna scimmia che potesse parlare ha mai originariamente stabilito alcun accordo, né ha mai scelto o inventato alcun segno (vocale o di altro tipo) a suo arbitrio, perché è stato il contesto in cui viveva a imporglielo mentre in quel contesto, e non nel vuoto assoluto, qualcosa accadendo emergeva già con il suo significato particolare, ossia con quella particolare espressione prospettica in cui si mostrava accadendo. Il nome non è originariamente che il segno sonoro pubblico (che coinvolge tutti gli udenti parlanti) di qualcosa che accade in un certo modo (proprio come una forma e un colore con tutto il loro significato emotivo sono segni visivi e soggettivi di quel medesimo accadere) e questo suono ci dice a tutti che qui e ora quel qualcosa significa (è un simbolo per) questo e non quest'altro.
E proprio poiché quel suono simbolo di un particolare accadere lo sentiamo intimamente nostro nella sua originaria risonanza pubblica e collettiva che possiamo poi credere a posteriori che quella cosa avremmo potuto indifferentemente chiamarla in modo diverso, ma non è così e non è così perché così è stata chiamata e potrà essere chiamata (al futuro, non al condizionale passato) in modo diverso quando il contesto in cui accade la farà apparire in modo diverso e questo "modo diverso" sarà allora necessariamente e non arbitrariamente espresso da un nuovo nome che ne darà un significato collettivo, pubblico e per nulla arbitrario.
Per quanto riguarda la tautologia, filosoficamente ognuno è libero di uscirne, ma se ne esce deve dimostrare di non contraddirsi. La frase che avevo indicato come contraddittoria è "la natura è come è, indipendentemente da come la si dice", dato che in tutta evidenza, mentre proclamiamo la natura essere indipendente da come la si dice, la si dice tale pretendendo che quanto si dice dica come è certamente la natura!
CitazioneNon sono d' accordo.
Per me indipendentemente dal fatto che esista il libero arbitrio o che si tratti di un' illusione, la questione circa i significati dei simboli verbali e dell' attribuzione dei simboli verbali ai (significanti i) concetti è quella se l' attribuzione degli uni agli altri è imposta in qualche misterioso modo dalle cose che (eventualmente, non sempre necessariamente: solito concetto di "ippogrifo") costituiscono le denotazioni reali dei concetti, come sostieni tu, oppure se è scelta indipendentemente da coercizioni estrinseche (per un determinismo intrinseco ai soggetti umani parlanti, cioè deterministicamente, oppure liberoarbitrariamente cioè indeterministicamente: non fa differenza nella fattispecie), ovvero arbitrariamente, ad libitum, come sostengo io.
I motivi che inducono i parlanti a scegliere determinati simboli verbali per determinati concetti, dotati di denotazioni reali (es.: cavalli) o meno (es.: ippogrifi), possono essere i più disparati; in teoria potrebbe anche accadere che si decida di tirare a sorte.
Sono costretto a ripetere che per definizione le "cose" in generale non significano nulla (né collettivamente, intersoggettivamente, né privatamente, individualisticamente): sono (accadono), se e quando sono (accadono), "e basta"!
Sono solo certe determinate assai peculiari cose, cioè i simboli (e non tutte le altre cose che simboli non sono), a possedere un significato (o anche più di uno, variabile arbitrariamente e determinatamente a seconda degli usi e dei contesti).
Se "Nessuno dei parlanti esercita delle scelte, nessuno dei parlanti agisce arbitrariamente e nessuno dei parlanti in quel contesto è poi chiamato a stipulare accordi con altri parlanti per potersi intendere, perché si intende già e quel nome solo rende pubblica quell'intesa", da dove salta fuori quel nome? Dal cappello del prestigiatore? Da Dio? Dal nulla?
In realtà salta fuori dal fatto che qualcuno lo propone, prova ad adoperarlo e gli altri o immediatamente lo accettano (arbitrariamente), oppure se ne vengono proposti più d' uno, per un po' li si prova un po' tutti, per poi finire per adottarne uno solo (o pochissimi di alternativi, come talora succede: sinonimi).
La nascita del linguaggio è un processo del quale siamo ben lungi dal possedere una teoria scientifica verificata e universalmente accattata.
Personalmente propendo per la tesi che di innate (conseguentemente all' evoluzione biologica) ci siano solo le capacità intellettive, raziocinative e simboliche umane, e che il linguaggio sia un' invenzione, una delle prime, importantissima, decisiva manifestazione dell' "innesto" sulla "storia naturale" della "storia umana", dell' integrazione, nella nostra specie, dell' evoluzione culturale sulla base della pregressa e perdurante evoluzione biologica.
E che si sia trattato di un' invenzione collettiva, sociale e non individuale (non di un Robinson Crusoe che non aveva nessuno con cui comunicare) mi sembra ovvio.
Questa della presunta "imposizione dei segni (vocali o di altro tipo) ai parlanti da parte del contesto in cui vivevano" è qualcosa di assolutamente misterioso e incomprensibile: cos' è concretamente accaduto, che si è sentita una voce (dal tono tra il basso e il baritonale e dal timbro possente e un tantino retorico simile a quella di Dio nei film hollywoodiani sulla Bibbia) che stentoreamente proclamava: "questo si chiama 'albero', quest' altro si chiama 'sasso', ecc."? Oppure è accaduta la comparsa di una specie di enorme "fumetto" a caratteri cubitali nel cielo con la scritta "albero" e una freccia verso un albero, ecc.?
O cos' altro è accaduto (di umanamente comprensibile)?
Non vedo in che cosa potrebbe consistere il "contesto che imporrebbe i nomi alle cose" ed eventualmente ne imporrebbe le variazioni nel tempo, se non (alternativamente):
a) I parlanti che provano a cercare un nome per un concetto (inizialmente per concetti di oggetti concreti) e prima o poi si accordano arbitrariamente (variante naturale).
b) Dio che lo comunica verbalmente o per iscritto (necessariamente e non ad arbitrio umano).
c) Voci impersonali che risuonano o scritte che spontaneamente si formano nel celo o su apposti cartelli che compaiono con uguale spontaneità (necessariamente e non ad arbitrio umano).
d) D) Altri fantasiosi eventi sopra- o preter- naturali (che impongono i nomi alle cose necessariamente e non ad arbitrio umano).
I nomi possono essere imposti alle cose necessariamente e non ad arbitrio umano solo attraverso eventi sopra- o preter- naturali; non riesco a immaginare in che modo naturalmente.
E personalmente opto per il naturalismo degli eventi, ergo: per l' assegnazione umana arbitraria dei rispettivi vocaboli ai concetti.
La frase "la natura è come è, indipendentemente da come la si dice" non è affatto contraddittoria.
Proclamando la natura essere come é indipendentemente da come la si dice, la si dice tale (essere come è indipendentemente da come la si dice) pretendendo del tutto correttamente, coerentemente, logicamente che quanto si dice dica qualcosa della natura e del parlare della natura (e non pretendendo affatto di parlare della natura non parlando della natura o di non parlare della natura parlando della natura). Certo! Dove sarebbe mai la contraddizione?
Sarebbero contraddittorie casomai le frasi "la natura è come non è, indipendentemente da come la si dice"; oppure "la natura non è come è, indipendentemente da come la si dice"; oppure il parlare della natura è ciò che è non parlando della natura (se questo significassero, ma non è per niente chiaro, le parole "indipendentemente dal parlare della natura").
Ma ora precisi:
CitazioneNon dico che la natura è "indipendente da come la si dice (quindi compreso anche come la sto dicendo io)", bensì che è come è indipendentemente dal fatto che il suo essere come è comprenda (ipoteticamente, fra l' altro) me che lo dico (che parlo della natura) oppure (come ipotesi alternativa) che non lo (mi) comprenda
Allora se semplicemente intendi dire che la natura è come è, che comprenda o meno il "come la si dice", che fine fa il "come la si dice" su cui stiamo discutendo e quindi dicendo? e che fine fa tutta quello che pensiamo di poter dire e quindi di sapere e spiegare sulla natura? Wittgenstein arrivò a concludere che ciò di cui non si può dire (in questo caso la natura) bisogna tacere, ma anche così aveva detto troppo, quindi non resterebbe che un assoluto silenzio, forse il silenzio assoluto dell'Essere. E' questa la realtà? Se lo è, a questa domanda può solo seguire, per coerenza, il silenzio.
CitazioneInfatti intendo dire che la natura è come è, che comprenda o meno il "come la si dice"; il "come la si dice" fa la fine -per così dire, per usare le tue parole- che il suo accadere o meno è irrilevante circa il fatto che la natura è come è.
Essa è come è sia che comprenda il dirla in un qualche modo, sia che non lo comprenda: non è l' eventuale dire che la natura è vuota (costituita dal nulla; per assurdo, poiché il dirlo è già qualcosa), oppure che è fissa "a la Parmenide" o "a la Severino", oppure che diviene deterministicamente, oppure che muta caoticamente, indeterministicamente, ecc., che fa sì che la natura sia vuota (costituita dal nulla), oppure che sia fissa "a la Parmenide" o "a la Severino", oppure che divenga deterministicamente, oppure che muti caoticamente, indeterministicamente, ecc. o meno (sarebbe troppo comodo: penserei subito che sia piena di donne bellissime disposte ad accontentarmi in tutto e per tutto e automaticamente sarei un grandissimo tombeur de femmes!).
E quanto pare la realtà non è (costituita da-) il nulla.
E si può benissimo parlarne, correttamente, veracemente o meno)..
CitazioneSono costretto a ripetere che per definizione le "cose" in generale non significano nulla (né collettivamente, intersoggettivamente, né privatamente, individualisticamente): sono (accadono), se e quando sono (accadono), "e basta"!
Sono le cose in generale e prive di significato (ossia le cose in sé) che non esistono proprio (nel senso letterale che non appaiono in alcun modo).
Questo non significa che non siano, accadono con grande probabilità tantissime cose in questo preciso istante che non ci appaiono, ma quelle innumerevoli cose prive di significato e di nome, sono lo sfondo su cui qualcosa invece appare e apparendo esiste per noi tutti e non in sé, non "oggettivamente". Lo schermo che immagino tu abbia davanti agli occhi, mentre leggi queste mie righe (e su cui ho ora attirato la tua attenzione per fartelo apparire dallo sfondo in cui non appariva) non è originariamente una cosa in sé senza significato e senza nome, ma, nel momento in cui appare appare già con il suo significato che dice cos'è. E questo significato ha come simbolo pubblico (per tutti noi), quel nome che ben prima di denotarlo e definirlo, lo connota e lo evoca.
Citazioneda dove salta fuori quel nome? Dal cappello del prestigiatore? Da Dio? Dal nulla?
Salta fuori originariamente dal contesto dei parlanti che vivono insieme e praticano quotidianamente le stesse cose.
Come ipotesi potrei dire che forse accade qualcosa di simile al canto degli uccelli o ai vari versi che emettono i cani e i lupi a seconda delle situazioni. Un cane non inventa che un suono latrante ha un certo significato, guaire un altro ecc., esattamente come nessun bambino si inventa il suono del pianto o del riso per poi mettersi d'accordo con gli altri sul suo significato. La comunità di appartenenza riprende quei suoni e risponde con altri suoni complementari (succede anche ai genitori con i bambini piccoli, finché non decidono di interpretare il loro ruolo sociale di correttori). Nell'essere umano ci sono possibilità di fonazione assai superiori a quelle di qualsiasi altro essere vivente, ma non solo, c'è soprattutto una capacità simbolica condivisa, che vive di una simbologia comune di significati. Così la combinazione dei suoni che un uomo emette (che non sceglie lui, così come non si sceglie né si concorda su che suono emettere quando si ride o si piange, né lo si impara perché si sia udito nel cielo una risata stridula o baritonale con sotto scritto "
questo è il suono da riprodurre quando sei allegro") può presentarsi a tutti come un simbolo per quella situazione, per quell'accadimento e acquisire una capacità evocatrice autonomamente persistente. La parola, il nome è un'evocazione per qualcosa che non c'è, significa "
chiamare insieme la presenza di ciò che manca". Il nome non è mai la cosa che denota proprio per questo, anche se questa cosa è lì presente, il nome la chiama e la chiama perché quello che chiama non c'è mai davvero. In origine, come avevo già detto, forse il linguaggio è stato solo una specie di balbettamento da ripetere ritualmente insieme accogliendone il significato, senza scegliere cosa dovesse significare, già significava evocando per risonanza tra parlanti che vivevano intimamente insieme senza dover concordare nulla per capirsi. Forse il linguaggio è nato come un canto evocativo e ritualmente ripetuto, un canto le cui espressioni foniche prese di per sé non significavano nulla (solo una modulazione vocale, che gli altri potevano sentire), finché non ci si è messo a cantarlo insieme facendosi anche il contrappunto e insieme variandolo qua e là, ma non troppo.
CitazioneLa frase "la natura è come è, indipendentemente da come la si dice" non è affatto contraddittoria
Ripeto, dato che "la natura è come è, indipendentemente da come la si dice" è una frase che
dici riguardo alla natura, se è vera, la natura per come è, è indipendente pure da questa frase che dici di essa, la natura è cioè indipendente dall'essere indipendente da come la si dice (dato che lo dici). Basterebbe allora dire "la natura è come è" (per quanto anche questo è sempre qualcosa che solo si dice, ma almeno fino a qui non sembra contraddittorio), ma dirlo non vuol dire nulla (Anche se Severino ci vedrebbe la prova dell'eternità della natura per come è), dato che qualsiasi cosa, pure gli ippogrifi, sono come sono (e in qualche modo sono, anche se qui e ora non ce li troviamo davanti in carne e ossa. Perché come non appaiono cose senza significato, così non possono apparire significati senza qualcosa a cui poterli riferire fossero anche solo immagini di un sogno o giochi della fantasia nostri o altrui). Ma se il come si dice la natura è del tutto irrilevante dato che conta solo come è, tanto vale non dire nulla (anzi meglio non dire nulla evitando di dire come la natura non è credendo, per averlo detto, che lo sia), ma allora perché continuiamo a dirla, a spiegarla e a interpretarla? Non è che qualcuno (o più probabilmente tutti) pensa di dirla, nel modo suo, proprio per come è, ossia per come gliela hanno detta essere come è? Sempre si ritiene (tu, io, chiunque altro, fosse anche il più relativista e scettico) che come la si dice (come il contesto ha insegnato a dire) dica come davvero stanno le cose. E in base a cosa si può pensarlo?
Citazione di: maral il 17 Ottobre 2016, 23:50:26 PM
CitazioneSono costretto a ripetere che per definizione le "cose" in generale non significano nulla (né collettivamente, intersoggettivamente, né privatamente, individualisticamente): sono (accadono), se e quando sono (accadono), "e basta"!
Sono le cose in generale e prive di significato (ossia le cose in sé) che non esistono proprio (nel senso letterale che non appaiono in alcun modo). Questo non significa che non siano, accadono con grande probabilità tantissime cose in questo preciso istante che non ci appaiono, ma quelle innumerevoli cose prive di significato e di nome, sono lo sfondo su cui qualcosa invece appare e apparendo esiste per noi tutti e non in sé, non "oggettivamente". Lo schermo che immagino tu abbia davanti agli occhi, mentre leggi queste mie righe (e su cui ho ora attirato la tua attenzione per fartelo apparire dallo sfondo in cui non appariva) non è originariamente una cosa in sé senza significato e senza nome, ma, nel momento in cui appare appare già con il suo significato che dice cos'è. E questo significato ha come simbolo pubblico (per tutti noi), quel nome che ben prima di denotarlo e definirlo, lo connota e lo evoca.
Citazione
Esistere in quanto apparenze, cioè come fenomeni, percezioni coscienti, ed esistere in sé sono due possibili reciprocamente alternative condizioni delle "cose" assolutamente da non confondere.
Ma anche limitatamente ai fenomeni (le cose che appaiono) è possibilissimo che accada e di fatto accade (se dobbiamo credere alla memoria; senza di che non è possibile ragionare su realtà e conoscenza: si può solo restare a constatare il presente) che vi siano "cose" reali (enti ed eventi fenomenici, reali in quanto insiemi di sensazioni coscienti) non accompagnati inoltre da- (-le sensazioni fenomeniche costituenti) il pensiero, la predicazione del loro accadere, id est (per definizione) la loro conoscenza, ovvero senza che siano conosciute (ad esempio vari pedoni che stamane mentre guidavo per raggiungere il poliambulatorio ove presto servizio, tutto intento a pensare al difficile lavoro che mi attendeva, come tutti i giorni camminavano sui marciapiedi vicino alla carreggiata da me percorsa).
E allo stesso modo è possibilissimo che accadano e di fatto accadono (le sensazioni fenomeniche de-) i pensieri di "cose" pensate (concetti; magari predicati falsamente essere o accadere realmente) non accompagnate inoltre da riferimenti o denotazioni reali dei concetti stessi, id est (per definizione) pensieri di "cose" non reali, "cose" pensate e non reali.
Non vedo come "cose" che non appaiono" possono in alcun modo essere "lo sfondo" di alcunché: contraddizione!
Nel momento in cui lo schermo del computer appare a qualcuno appare come mero insieme assolutamente insignificante di sensazioni fenomeniche coscienti (solo se si legge quanto vi è scritto appare significare qualcosa, ma solo indirettamente, come portatore di simboli dotati di significato; non comunque come di per sé significante alcunché:
Infatti apparirebbe benissimo anche a un selvaggio (purché non fosse cieco) che assolutamente non sapesse cosa sia e magari pensasse trattarsi di qualcosa di magico.
Ma anche a me (al contrario delle parole che vi sono scritte, le quali però sono simboli) appare senza significare alcunché; il significato che diche che cosa è non è affatto lo schermo stesso, bensì la parola (il simbolo verbale) "schermo" arbitrariamente impostagli; che se invece fosse stato denominato -che ne so?- "arturo" non cambierebbe proprio assolutamente nulla nello schermo stesso e nella nostra conoscenza di esso (come infatti nulla cambia negli schermi degli anglofoni, chiamati invece "screen(s)" e nella loro conoscenza di essi).
Il termine "schermo" oltre a connotare qualsiasi schermo reale o anche immaginario, nel caso dello schermo reale del mio computer che ora è qui davanti a me, lo denota pure in quanto referente real (e non solo pensato).
Citazioneda dove salta fuori quel nome? Dal cappello del prestigiatore? Da Dio? Dal nulla?
Salta fuori originariamente dal contesto dei parlanti che vivono insieme e praticano quotidianamente le stesse cose.
Come ipotesi potrei dire che forse accade qualcosa di simile al canto degli uccelli o ai vari versi che emettono i cani e i lupi a seconda delle situazioni. Un cane non inventa che un suono latrante ha un certo significato, guaire un altro ecc., esattamente come nessun bambino si inventa il suono del pianto o del riso per poi mettersi d'accordo con gli altri sul suo significato. La comunità di appartenenza riprende quei suoni e risponde con altri suoni complementari (succede anche ai genitori con i bambini piccoli, finché non decidono di interpretare il loro ruolo sociale di correttori). Nell'essere umano ci sono possibilità di fonazione assai superiori a quelle di qualsiasi altro essere vivente, ma non solo, c'è soprattutto una capacità simbolica condivisa, che vive di una simbologia comune di significati. Così la combinazione dei suoni che un uomo emette (che non sceglie lui, così come non si sceglie né si concorda su che suono emettere quando si ride o si piange, né lo si impara perché si sia udito nel cielo una risata stridula o baritonale con sotto scritto "questo è il suono da riprodurre quando sei allegro") può presentarsi a tutti come un simbolo per quella situazione, per quell'accadimento e acquisire una capacità evocatrice autonomamente persistente. La parola, il nome è un'evocazione per qualcosa che non c'è, significa "chiamare insieme la presenza di ciò che manca". Il nome non è mai la cosa che denota proprio per questo, anche se questa cosa è lì presente, il nome la chiama e la chiama perché quello che chiama non c'è mai davvero. In origine, come avevo già detto, forse il linguaggio è stato solo una specie di balbettamento da ripetere ritualmente insieme accogliendone il significato, senza scegliere cosa dovesse significare, già significava evocando per risonanza tra parlanti che vivevano intimamente insieme senza dover concordare nulla per capirsi. Forse il linguaggio è nato come un canto evocativo e ritualmente ripetuto, un canto le cui espressioni foniche prese di per sé non significavano nulla (solo una modulazione vocale, che gli altri potevano sentire), finché non ci si è messo a cantarlo insieme facendosi anche il contrappunto e insieme variandolo qua e là, ma non troppo.
CitazioneDire che "Salta fuori originariamente dal contesto dei parlanti che vivono insieme e praticano quotidianamente le stesse cose" non può significare altro che il fatto che costoro arbitrariamente (per una loro libera scelta, non imposta loro da nessuno) convengono di assegnare quel nome a quella cosa.
Il pianto di un bambino è un evento non simbolico (anche se un adulto comprende benissimo che è causato da dolore): c' è una bella differenza fra il pianto di un bambino di pochi mesi che ha il mal di pancia (o il latrato di un cane) da una parte e le parole di uno di tre anni che dice "ho mal di pancia" (non nel mal di pancia, ma del dirlo da una parte e nel piangere dall' altra).
I singhiozzi di un bimbo non sono arbitrari e convenzionali (non potrebbero essere sostituiti da risate), le parole "dolore e "pancia" no: potrebbero benissimo essere sostituite da altre parole (per esempio "male fisico" o "algia" e "addome": il pianto o il latrato non sono convenzionalmente inventati ad libitum, certo (non può piangere o latrare in diverse lingue), ma le parole "mal di pancia" invece lo sono (il concetto può essere significato da diverse parole in diverse lingue).
la combinazione dei suoni che un uomo emette parlando la sceglie lui ad libitum, eccome: infatti se si rivolge a uno che parla italiano sceglie liberamente la parola "cane", se a un anglofobo la parola "dog", a un francofono senza essere costretto da nessuno (se non alla sua propria volontà di comunicare, ergo liberamente, liberamente volendo comunicare) la parola "chien", ecc.
Il ridere è istintivo, perfettamente d' accordo.
Ma invece il dire "sono allegro" è conseguenza di una arbitraria convenzione linguistica oppure si è udito dalla voce baritonale del Dio dei film di Hollywood sulla Bibbia, oppure è un istinto innato come il ridere (in quest' ultimo caso i parlanti le diverse lingue dovrebbero avere corredi genetici diversi, le lingue verrebbero ereditate "mendelianamente" e i poliglotti avrebbero materiale genetico in eccesso, un po' come gli affetti da mongolismo; non uso eufemismi non avendo mai attribuito a questo termine e a chi è affetto da questa patologia alcunchè di offensivo o vergognoso, allo stesso modo in cui uso tranquillamente il termine "negro").
Sono costretto a segnalare un' altra contraddizione. "anche se questa cosa è lì presente, il nome la chiama e la chiama perché quello che chiama non c'è mai davvero".
Non vedo alcuna inconciliabilità degli accenni ipotetici che proponi sull' origine del linguaggio con una scelta arbitraria e convenzionale.
CitazioneLa frase "la natura è come è, indipendentemente da come la si dice" non è affatto contraddittoria
Ripeto, dato che "la natura è come è, indipendentemente da come la si dice" è una frase che dici riguardo alla natura, se è vera, la natura per come è, è indipendente pure da questa frase che dici di essa, la natura è cioè indipendente dall'essere indipendente da come la si dice (dato che lo dici). Basterebbe allora dire "la natura è come è" (per quanto anche questo è sempre qualcosa che solo si dice, ma almeno fino a qui non sembra contraddittorio), ma dirlo non vuol dire nulla (Anche se Severino ci vedrebbe la prova dell'eternità della natura per come è), dato che qualsiasi cosa, pure gli ippogrifi, sono come sono (e in qualche modo sono, anche se qui e ora non ce li troviamo davanti in carne e ossa. Perché come non appaiono cose senza significato, così non possono apparire significati senza qualcosa a cui poterli riferire fossero anche solo immagini di un sogno o giochi della fantasia nostri o altrui). Ma se il come si dice la natura è del tutto irrilevante dato che conta solo come è, tanto vale non dire nulla (anzi meglio non dire nulla evitando di dire come la natura non è credendo, per averlo detto, che lo sia), ma allora perché continuiamo a dirla, a spiegarla e a interpretarla? Non è che qualcuno (o più probabilmente tutti) pensa di dirla, nel modo suo, proprio per come è, ossia per come gliela hanno detta essere come è? Sempre si ritiene (tu, io, chiunque altro, fosse anche il più relativista e scettico) che come la si dice (come il contesto ha insegnato a dire) dica come davvero stanno le cose. E in base a cosa si può pensarlo?
CitazioneInfatti la natura é come è indipendentemente dalla frase "la natura è come è, ecc.": la natura è come è sia che se ne parli in qualsiasi modo, sia che non se ne parli; non è come è dipendentemente dal modo di parlarne; ad esempio per dirne che è deterministica o meno, comprendente ippogrifi o meno: non è che dicendo che comprende gli ippogrifi accada che esistano in essa ippogrifi (questo potrebbe farlo solo Dio, se esistesse!).
La tautologia "la natura è come è" non basta affatto per sostenere contro di te che non è il parlarne che la fa essere come è: in quest' ultima mia affermazione, che infatti non è una mera tautologia c' è "qualcosa di più" che ritengo molto importante a livello ontologico e gnoseologico, e che constato tu continui a ignorare, confondendo due ben diverse nozioni, quelle di "realtà" e di "pensiero circa la realtà (o meno)".
Infatti concordo che gli ippogrifi in qualche modo sono; ma il problema è proprio nel modo (meramente immaginario) in cui "sono" gli ippogrifi), ben diverso da quello (reale) in cui "sono" i cavalli.
Sono costretto a ripetere che la stragrande maggioranza delle cose che appaiono, non essendo simboli, sono senza significato, non significano alcunché: "sono (apparenze fenomeniche) e basta"!
E ovviamente i significati sono significati "di qualcosa" (questa sì che è un' altra tautologia!), ma la questione è: questi significati sono mere connotazioni mentali, di pensiero oppure sono anche denotazioni di cose (enti ed eventi) reali?
Tanto vale non dire nulla se non si ha interesse a conoscere la realtà (in generale; e in particolare la realtà naturale): ma questo non è il mio caso!
Il nome è irrilevante per la natura, che tanto non ne dipende nel suo modo di essere, ma è rilevantissimo per la conoscenza della natura, essendo necessario per pensarne, descriverne predicarne il modo di essere (predicazione che, se adeguata, veritiera, per definizione ne costituisce appunto la conoscenza).
Ed è appunto compito della filosofia indagare se e come (a quali condizioni, entro quali limiti, in che senso, ecc.) ciò possa accadere.
Citazione di: sgiombo il 18 Ottobre 2016, 14:02:01 PM
Esistere in quanto apparenze, cioè come fenomeni, percezioni coscienti, ed esistere in sé sono due possibili reciprocamente alternative condizioni delle "cose" assolutamente da non confondere.
Certamente, ma dato che di ogni cosa si può conoscere solo nell'interpretazione di ciò che appare e per come il contesto ce lo fa apparire nel suo essere segno, la cosa in sé resta del tutto inconoscibile ed è anche assurdo pretendere di conoscerla e di dirla. In realtà la distinzione non la facciamo mai tra l'apparenza e la cosa in sé, ma tra le apparenze che hanno valore soggettivo individuale e privato e le apparenze che hanno valore condiviso, pubblico e comune, cercando sempre di ricondurre le prime alle seconde. E dare un nome alle cose significa appunto questo: presentare con una valenza pubblica (a tutti udibile) ciò che si sente individualmente.
Forse vi saranno pure, come dici, "
cose reali non accompagnate inoltre da- (-le sensazioni fenomeniche costituenti) il pensiero, la predicazione del loro accadere, id est (per definizione) la loro conoscenza, ovvero
senza che siano conosciute", ma resta il fatto che pure queste "cose reali" le stiamo predicando esistenti solo in quanto le pensiamo e ce le diciamo. I pedoni che stanno raggiungendo il poliambulatorio li puoi concepire in quanto li pensi e li puoi pensare solo in quanto li hai precedentemente e ripetutamente visti, in qualche modo ti si sono presentati e ti sono apparsi nel significato che di loro conservi. Non c'è nulla che esca dal significato e dall'interpretazione di esso. quei pedoni non sono cose in sé, ma significati per te, la cui realtà non è per nulla "oggettiva", ma è data da una condivisione pubblica, condivisione pubblica che invece verrebbe certo a mancare se tu pensassi che un ippogrifo stesse volando verso il poliambulatorio. Quello che fa la differenza non è la realtà in sé (assoluta) della cosa, ma il trovarla insieme e pubblicamente condivisibile quando se ne parla e la si nomina. E questa condivisibilità è prodotta dal contesto in cui insieme esistiamo e operiamo, non da noi, è sempre e solo a partire da questo contesto che noi giudichiamo ciò che ha senso reale e ciò che non lo ha.
Tutto quello che immaginiamo e pensiamo è rappresentazione di qualcosa che realmente accade, altrimenti, se fosse immagine del nulla, anche l'immagine sarebbe nulla, non si può immaginare il nulla, Ma appunto sono queste rappresentazioni che godono di maggiore o minore credibilità nel momento e nel luogo in cui si presentano, sono esse a determinare in noi un senso e la stessa rappresentazione di ciò che immaginiamo di essere, riassunta dal nostro nome. Le cose pensate che non sono non reali sono solo interpretazioni di eventi reali che noi possiamo pensare nel contesto in cui esistiamo, solo come non reali
CitazioneNon vedo come "cose" che non appaiono" possono in alcun modo essere "lo sfondo" di alcunché: contraddizione!
Non appaiono come cose-figure, ma appaiono come sfondo. La cosa non appare rispetto al nulla, poiché non vi è il nulla, vi è il nascosto e il nascosto delle cose è appunto lo sfondo ed è rispetto a questo sfondo che gli eventi che appaiono prendono forma, così come una figura tracciata con una matita nera prende forma sullo sfondo di una superficie bianca costituita da una miriade di punti diversamente bianchi (mescolati ad altri punti neri) che non appaiono.
Lo schermo di un computer può apparire a un selvaggio solo se in quella cosa (che noi vediamo apparire nel significato di schermo di un computer) ha per lui un significato, che non sarà certamente il nostro, ma deve esserci, altrimenti non lo vede, proprio come noi non vediamo un ramoscello spezzato nella foresta, mentre il selvaggio lo vede e lo interpreta per quello che significa. Non appare non perché si soffre di disturbi visivi, non perché si è ciechi alle cose in sé, ma perché si è ciechi al loro significato e dunque, come insignificanti, esse costituiscono lo sfondo su cui altro da esse appare.
Ed è proprio questo apparire che nell'essere umano è nel richiamo di un nome. Un nome che non è mai arbitrario, poiché è legato al significato stesso per come esso si manifesta e deve essere richiamato con
il suo nome, non qualsiasi. La parola non è la cosa, ma è ciò che la fa pubblicamente apparire chiamandola per come appare.
Potremmo chiamare quello schermo come vogliamo, ma invece è proprio "schermo" che lo chiamiamo e non "arturo" e se volessimo chiamarlo in altro modo, solo riferendoci a "schermo" potremmo dirci cos'è: il problema irrisolto del linguaggio che nasce dalla sua assenza (il problema in generale della semiologia, un problema che si è scoperto ormai da un secolo) è che ci vuole un linguaggio per costruire qualsiasi linguaggio, dunque non c'è alcuna origine del linguaggio prima della quale non c'era nessun linguaggio.
I nomi che indicano (più o meno) le stesse cose sono diversi nelle diverse lingue non perché sono arbitrari, ma, esattamente al contrario, perché le cose che considerano non prescindono dai contesti storici, sociali e culturali che in un determinato luogo e tempo hanno portato a chiamarle (e quindi intenderle) così.
CitazioneDire che "Salta fuori originariamente dal contesto dei parlanti che vivono insieme e praticano quotidianamente le stesse cose" non può significare altro che il fatto che costoro arbitrariamente (per una loro libera scelta, non imposta loro da nessuno) convengono di assegnare quel nome a quella cosa.
Assolutamente no. Dire che salta fuori dal contesto dei parlanti non implica per nulla alcuna scelta in merito, alcuna volontà che decida di farlo saltar fuori, questo nome anziché un altro.
Il pianto di un bambino non è simbolico per il bambino, per il quale non esiste nemmeno il bambino che ha fame, esiste solo fame-bambino-pianto tutto insieme, ma è simbolico per noi. E' segno del suo aver fame e a questo segno in genere rispondiamo, senza bisogno di vocabolari o interpreti (forse oggi un po' meno, dato che riusciamo sempre meno a cavarcela senza de-finizioni). Il pianto di un bambino non è ancora così diverso dall'uggiolare di un cane che ha il mal di pancia, ma è un segno, l'elemento primordiale di un linguaggio.
Il dire (il dire di qualsiasi linguaggio) nasce da una necessità che lega il segno a quello che accade, è espressione che evoca propriamente quello che si sente (pur non essendo quello che si sente, ma appunto il segno) e nasce da quello che effettivamente si sente, non dalla nostra arbitrarietà. Un bambino di tre anni che piagnucolando ha imparato a dire anche "ho mal di pancia" non ha inventato alcun linguaggio, perché infatti nessun linguaggio è mai stato inventato da nessuno, adulto o bambino che fosse, ma ogni linguaggio si forma a partire dal contesto sociale in cui si vive, senza che nessuno lo voglia.
Continui a dire che i nomi delle cose sono convenzionali (pur non essendovi traccia di alcuna convenzione, pur essendo la storia delle convenzioni una pura mitologia) perché le stesse cose si potrebbero benissimo chiamare in modo diverso, ma resta il fatto che non le chiamiamo in modo diverso e se un giorno le chiameremo in modo diverso sarà solo perché i contesti che ne esprimono i significati cambiano, dunque cambiano anche le cose, dato che solo nei loro significati esse esistono.
Certo, pancia si può dire anche addome, ma i contesti in cui si dice "addome" invece di "pancia" o "algia" invece di "dolore fisico" sono ben diversi e sono i rapporti sociali a determinarli. Noi possiamo chiamare la stessa cosa in modi diversi in relazione alla capacità che abbiamo di comprenderla in modi diversi, non in relazione alla nostra arbitraria volontà di chiamarla in un modo o nell'altro. E' la stessa cosa che accade quando impariamo un'altra lingua: infatti non impariamo solo dei segni fonici arbitrari, ma la cultura e il modo di pensare di un popolo. Non è una questione di genetica, ma di cultura, che è pe certi versi più fondamentale della stessa genetica (essendo la stessa visione genetica un risultato culturale). In questo senso i poliglotti possono davvero accedere a modi di essere, non certo solo a segni arbitrari.
Sono costretto a segnalare un' altra contraddizione. "anche se questa cosa è lì presente, il nome la chiama e la chiama perché quello che chiama non c'è mai davvero"
Non c'è contraddizione, perché il nome non è la cosa che chiama. Il "cavallo" evoca un cavallo che anche se ci fosse un cavallo in carne e ossa qui davanti, non è quel cavallo in carne e ossa. E' sempre un assenza che il nome comunque evoca chiamandola.
CitazioneNon vedo alcuna inconciliabilità degli accenni ipotetici che proponi sull' origine del linguaggio con una scelta arbitraria e convenzionale.
L'inconciliabilità sta nel pensare che quel mettersi insieme ad esempio a modulare ritmicamente la voce partecipando di un'immediata comprensione comune sia una scelta arbitraria e convenzionale e non che tale possa apparire solo a posteriori
CitazioneInfatti la natura é come è indipendentemente dalla frase "la natura è come è, ecc.": la natura è come è sia che se ne parli in qualsiasi modo, sia che non se ne parli; non è come è dipendentemente dal modo di parlarne; ad esempio per dirne che è deterministica o meno, comprendente ippogrifi o meno: non è che dicendo che comprende gli ippogrifi accada che esistano in essa ippogrifi (questo potrebbe farlo solo Dio, se esistesse!).
Dunque vale anche il contrario: non è che dicendo che non comprende gli ippogrifi accade che non esistano in essi ippogrifi? (non è che sia attaccato agli ippogrifi, è solo per rilevare l'assurdità di un certo realismo ingenuo per cui le cose e le cose dette sono sempre ben separabili per una mente ben raziocinante. Ingenuità che si rivela appunto in quella aggiunta: "la natura è indipendente da come la si dice", ma perdinci è così che la stai dicendo! E se la dici così, proprio perché lo dici e dando ragione a quello che hai detto, non vale nulla.
Citazionein quest' ultima mia affermazione, che infatti non è una mera tautologia c' è "qualcosa di più" che ritengo molto importante a livello ontologico e gnoseologico, e che constato tu continui a ignorare, confondendo due ben diverse nozioni, quelle di "realtà" e di "pensiero circa la realtà (o meno)".
Ma infatti: come se ci fosse una realtà dalla quale tutto è dicibile con verità! E dove sta questa realtà? Non sta forse solo nei discorsi che ne facciamo? non sta forse solo nel nostro attuale, contingentissimo dire di essa che pretende di dire che le cose stanno così e cosà perché sono così e cosà?
Noi non ci inventiamo mai nulla, le nostre idee, le nostre immagini, i sogni , le fantasie più assurde sono risultati, effetti necessari e reali di quello che c'è e quello che c'è è così che ci incontra.
Il sogno più assurdo non sono gli ippogrifi, ma un io che possa volere e sappia decidere dall'alto della sua visione panoramica cosa è assolutamente (oggettivamente) vero o no. Eppure anche questa mostruosità fantastica, questa chimera ben più assurda di qualunque chimera-animale-divinità, esprime una realtà, esprime un reale significato, sia pure con conseguenze sempre terribilmente nefaste.
CitazioneIl nome è irrilevante per la natura, che tanto non ne dipende nel suo modo di essere, ma è rilevantissimo per la conoscenza della natura, essendo necessario per pensarne, descriverne predicarne il modo di essere (predicazione che, se adeguata, veritiera, per definizione ne costituisce appunto la conoscenza).
Ed è appunto compito della filosofia indagare se e come (a quali condizioni, entro quali limiti, in che senso, ecc.) ciò possa accadere
Sì mai noi, comunque siamo nella natura, la scienza e la tecnico sono nella natura del mondo. Quindi se il nome per esse è rilevante, è rilevante pure per la natura di cui fanno parte. Non è che la scienza ci possa lanciare ad altezze siderali da cui godere tutto lo spettacolo della natura, come se non vi appartenessimo. La filosofia è questo che può e deve dirci, non se gli ippogrifi sono veri o no, ma perché un significato acquista senso reale e un altro lo perde e soprattutto ricordarci che il vertice del nostro sapere può solo essere sapere di non sapere, come già si era espresso Socrate più di 2 mila anni fa, contro tutte le pretesi di quelli (e in primo luogo noi stessi) che credono di sapere di sapere, mentre solo non sanno di non sapere.
Citazione di: maral il 18 Ottobre 2016, 16:58:01 PM
Citazione di: sgiombo il 18 Ottobre 2016, 14:02:01 PM
Esistere in quanto apparenze, cioè come fenomeni, percezioni coscienti, ed esistere in sé sono due possibili reciprocamente alternative condizioni delle "cose" assolutamente da non confondere.
Certamente, ma dato che di ogni cosa si può conoscere solo nell'interpretazione di ciò che appare e per come il contesto ce lo fa apparire nel suo essere segno, la cosa in sé resta del tutto inconoscibile ed è anche assurdo pretendere di conoscerla e di dirla. In realtà la distinzione non la facciamo mai tra l'apparenza e la cosa in sé, ma tra le apparenze che hanno valore soggettivo individuale e privato e le apparenze che hanno valore condiviso, pubblico e comune, cercando sempre di ricondurre le prime alle seconde. E dare un nome alle cose significa appunto questo: presentare con una valenza pubblica (a tutti udibile) ciò che si sente individualmente.
Forse vi saranno pure, come dici, "cose reali non accompagnate inoltre da- (-le sensazioni fenomeniche costituenti) il pensiero, la predicazione del loro accadere, id est (per definizione) la loro conoscenza, ovvero senza che siano conosciute", ma resta il fatto che pure queste "cose reali" le stiamo predicando esistenti solo in quanto le pensiamo e ce le diciamo. I pedoni che stanno raggiungendo il poliambulatorio li puoi concepire in quanto li pensi e li puoi pensare solo in quanto li hai precedentemente e ripetutamente visti, in qualche modo ti si sono presentati e ti sono apparsi nel significato che di loro conservi. Non c'è nulla che esca dal significato e dall'interpretazione di esso. quei pedoni non sono cose in sé, ma significati per te, la cui realtà non è per nulla "oggettiva", ma è data da una condivisione pubblica, condivisione pubblica che invece verrebbe certo a mancare se tu pensassi che un ippogrifo stesse volando verso il poliambulatorio. Quello che fa la differenza non è la realtà in sé (assoluta) della cosa, ma il trovarla insieme e pubblicamente condivisibile quando se ne parla e la si nomina. E questa condivisibilità è prodotta dal contesto in cui insieme esistiamo e operiamo, non da noi, è sempre e solo a partire da questo contesto che noi giudichiamo ciò che ha senso reale e ciò che non lo ha.
Tutto quello che immaginiamo e pensiamo è rappresentazione di qualcosa che realmente accade, altrimenti, se fosse immagine del nulla, anche l'immagine sarebbe nulla, non si può immaginare il nulla, Ma appunto sono queste rappresentazioni che godono di maggiore o minore credibilità nel momento e nel luogo in cui si presentano, sono esse a determinare in noi un senso e la stessa rappresentazione di ciò che immaginiamo di essere, riassunta dal nostro nome. Le cose pensate che non sono non reali sono solo interpretazioni di eventi reali che noi possiamo pensare nel contesto in cui esistiamo, solo come non reali
CitazioneContinui a confondere la realtà con la conoscenza della realtà.
Continui ad attribuire indebitamente alle cose (tutte, e non solo a quelle particolari cose che son i simboli) un preteso "essere segno" ( e 'dde che?)..
Ma i nomi che si danno alle cose onde presentare con una valenza pubblica (a tutti udibile) ciò che si sente individualmente sono arbitrari (anche se spesso non casuali) e pubblicamente, convenzionalmente accettati.
Non capisco la pretesa obiezione (a quale mai mia affermazione?!?!?!) "resta il fatto che pure queste "cose reali" le stiamo predicando esistenti solo in quanto le pensiamo e ce le diciamo.", che mi sembra evidente espressione della solita confusione fra realtà e pensiero della realtà.
Quei pedoni non sono cose in sé (bensì apparenze fenomeniche: "esse est percipi"!); e inoltre sono significati nel senso di denotazioni reali del concetto da me pensato "quei pedoni" (non così gli ippogrifi!). E non mi sono affatto apparsi nel significato che ne conservo, mi sono apparsi (e basta) come (insiemi di) percezioni fenomeniche: il significato (denotazione reale in questo caso, non in quello degli ippogrifi), l' ho attribuito poi io alle parole "quei pedoni" seguendo una convenzione arbitraria dei parlanti italiano quando le ho ho pensate e poi dette o scritte.
Quello che fa la differenza è la realtà o meno di ciò che si pensa; l' intersoggettività può essere assunta (indimostrabilmente) come una caratteristica del mondo materiale naturale (fenomenico, non in sé: qui sfondi una porta spalancatissima), necessaria perché sia scientificamente conoscibile; ma non esiste solo la conoscenza scientifica.
Se "Tutto quello che immaginiamo e pensiamo è rappresentazione di qualcosa che realmente accade", allora evidentemente (per te) esistono realmente gli ippogrifi e accade realmente lo svolazzare nel cielo di stromi di ippogrifi.
Non sono d' accordo. Per me Tutto quello che immaginiamo e pensiamo è rappresentazione che realmente accade di qualcosa che a volte (come nel caso dell' immaginare e pensare gli ippogrifi) non accade.
Continui a confondere il concetto, il pensiero (o l' immagine) che c' è, accade realmente (anche quello o quella degli ippogrifi) con la cosa pensata che (come é nel caso degli ippogrifi) può anche non esserci, non accadere realmente.
CitazioneNon vedo come "cose" che non appaiono" possono in alcun modo essere "lo sfondo" di alcunché: contraddizione!
Non appaiono come cose-figure, ma appaiono come sfondo. La cosa non appare rispetto al nulla, poiché non vi è il nulla, vi è il nascosto e il nascosto delle cose è appunto lo sfondo ed è rispetto a questo sfondo che gli eventi che appaiono prendono forma, così come una figura tracciata con una matita nera prende forma sullo sfondo di una superficie bianca costituita da una miriade di punti diversamente bianchi (mescolati ad altri punti neri) che non appaiono.
Lo schermo di un computer può apparire a un selvaggio solo se in quella cosa (che noi vediamo apparire nel significato di schermo di un computer) ha per lui un significato, che non sarà certamente il nostro, ma deve esserci, altrimenti non lo vede, proprio come noi non vediamo un ramoscello spezzato nella foresta, mentre il selvaggio lo vede e lo interpreta per quello che significa. Non appare non perché si soffre di disturbi visivi, non perché si è ciechi alle cose in sé, ma perché si è ciechi al loro significato e dunque, come insignificanti, esse costituiscono lo sfondo su cui altro da esse appare.
Ed è proprio questo apparire che nell'essere umano è nel richiamo di un nome. Un nome che non è mai arbitrario, poiché è legato al significato stesso per come esso si manifesta e deve essere richiamato con il suo nome, non qualsiasi. La parola non è la cosa, ma è ciò che la fa pubblicamente apparire chiamandola per come appare.
Potremmo chiamare quello schermo come vogliamo, ma invece è proprio "schermo" che lo chiamiamo e non "arturo" e se volessimo chiamarlo in altro modo, solo riferendoci a "schermo" potremmo dirci cos'è: il problema irrisolto del linguaggio che nasce dalla sua assenza (il problema in generale della semiologia, un problema che si è scoperto ormai da un secolo) è che ci vuole un linguaggio per costruire qualsiasi linguaggio, dunque non c'è alcuna origine del linguaggio prima della quale non c'era nessun linguaggio.
I nomi che indicano (più o meno) le stesse cose sono diversi nelle diverse lingue non perché sono arbitrari, ma, esattamente al contrario, perché le cose che considerano non prescindono dai contesti storici, sociali e culturali che in un determinato luogo e tempo hanno portato a chiamarle (e quindi intenderle) così.
CitazioneDunque le cose che fanno da sfondo appaiono.
Ma come fanno le cose che appaiono come sfondo ad apparire (sia pure come sfondo) se contraddittoriamente sono "il nascosto delle cose"?
Gli infiniti punti bianchi della pagina appaiono anch' essi, altrimenti non apparirebbe (relativamente ad essi) nemmeno la figura disegnata: "ominis determinatio est negatio".
Il selvaggio ( e non solo) può benissimo vedere lo schermo del computer senza pensarci (ad esempio perché concentrato a pensare a tutt' altro), e anche in questo caso lo schermo gli apparirebbe ugualmente (se fosse davanti ai suoi occhi aperti e lui non fosse cieco).
E comunque se lo pensasse verbalmente chiamandolo -che ne so?- "canguro" non sarebbero le circostanze del suo apparire ma l' aborigeno arbitrariamente a dare alla parola "canguro" -e non alla cosa computer- il significato (denotazione).
Non son per nulla d' accordo che ci vuole un linguaggio per costruire qualsiasi linguaggio, dunque non c'è alcuna origine del linguaggio prima della quale non c'era nessun linguaggio.
Se così fosse il linguaggio non potrebbe esistere, non esisterebbe; oppure sarebbe sempre esistito in eterno "ab omnia secula seculorum" (e allora l' umanità sarebbe eterna; oppure ce l' avrebbe insegnato Dio).
Le diversità delle parole delle diverse lingue possono anche (non necessariamente) non essere casuali ma conseguire le più svariate circostanze, eventualmente anche intenzionali, ma sicuramente sono arbitrarie (altrimenti bisognerebbe sempre invocare la famosa "voce baritonale, ecc." o il famoso "cartellino a mo' di prezzo delle merci al supermercato"...
CitazioneDire che "Salta fuori originariamente dal contesto dei parlanti che vivono insieme e praticano quotidianamente le stesse cose" non può significare altro che il fatto che costoro arbitrariamente (per una loro libera scelta, non imposta loro da nessuno) convengono di assegnare quel nome a quella cosa.
Assolutamente no. Dire che salta fuori dal contesto dei parlanti non implica per nulla alcuna scelta in merito, alcuna volontà che decida di farlo saltar fuori, questo nome anziché un altro.
Il pianto di un bambino non è simbolico per il bambino, per il quale non esiste nemmeno il bambino che ha fame, esiste solo fame-bambino-pianto tutto insieme, ma è simbolico per noi. E' segno del suo aver fame e a questo segno in genere rispondiamo, senza bisogno di vocabolari o interpreti (forse oggi un po' meno, dato che riusciamo sempre meno a cavarcela senza de-finizioni). Il pianto di un bambino non è ancora così diverso dall'uggiolare di un cane che ha il mal di pancia, ma è un segno, l'elemento primordiale di un linguaggio.
Il dire (il dire di qualsiasi linguaggio) nasce da una necessità che lega il segno a quello che accade, è espressione che evoca propriamente quello che si sente (pur non essendo quello che si sente, ma appunto il segno) e nasce da quello che effettivamente si sente, non dalla nostra arbitrarietà. Un bambino di tre anni che piagnucolando ha imparato a dire anche "ho mal di pancia" non ha inventato alcun linguaggio, perché infatti nessun linguaggio è mai stato inventato da nessuno, adulto o bambino che fosse, ma ogni linguaggio si forma a partire dal contesto sociale in cui si vive, senza che nessuno lo voglia.
Continui a dire che i nomi delle cose sono convenzionali (pur non essendovi traccia di alcuna convenzione, pur essendo la storia delle convenzioni una pura mitologia) perché le stesse cose si potrebbero benissimo chiamare in modo diverso, ma resta il fatto che non le chiamiamo in modo diverso e se un giorno le chiameremo in modo diverso sarà solo perché i contesti che ne esprimono i significati cambiano, dunque cambiano anche le cose, dato che solo nei loro significati esse esistono.
Certo, pancia si può dire anche addome, ma i contesti in cui si dice "addome" invece di "pancia" o "algia" invece di "dolore fisico" sono ben diversi e sono i rapporti sociali a determinarli. Noi possiamo chiamare la stessa cosa in modi diversi in relazione alla capacità che abbiamo di comprenderla in modi diversi, non in relazione alla nostra arbitraria volontà di chiamarla in un modo o nell'altro. E' la stessa cosa che accade quando impariamo un'altra lingua: infatti non impariamo solo dei segni fonici arbitrari, ma la cultura e il modo di pensare di un popolo. Non è una questione di genetica, ma di cultura, che è pe certi versi più fondamentale della stessa genetica (essendo la stessa visione genetica un risultato culturale). In questo senso i poliglotti possono davvero accedere a modi di essere, non certo solo a segni arbitrari.
Sono costretto a segnalare un' altra contraddizione. "anche se questa cosa è lì presente, il nome la chiama e la chiama perché quello che chiama non c'è mai davvero"
Non c'è contraddizione, perché il nome non è la cosa che chiama. Il "cavallo" evoca un cavallo che anche se ci fosse un cavallo in carne e ossa qui davanti, non è quel cavallo in carne e ossa. E' sempre un assenza che il nome comunque evoca chiamandola.
Citazione
Beh, se i nomi delle cose non fossero frutto di convenzione arbitraria che altro potrebbe significare che "Saltano fuori originariamente dal contesto dei parlanti che vivono insieme e praticano quotidianamente le stesse cose"? Che saltano fuori da qualche cappello di qualche prestigiatore? Che sono detti dalla solita voce baritonale? Che sono scritti sulle solite etichette da supermercato?
Il pianto del bambino può essere detto "simbolico per noi" solo metaforicamente; metafora da tradurre nell' affermazione letterale "Noi capiamo che è causato da dolore (da fame? Dolore di pancia? Di testa? Perché si sente trascurato dalla mamma? Ecc.?).
Il bimbo di tre anni ovviamente non inventa la frase "ho il mal di pancia", ma l' ha imparata come insieme di segni verbali arbitrari e convenzionali, arbitrariamente e convenzionalmente messi in reciproche relazioni sintattiche.
Solo qualche genitore snaturato potrebbe non voler insegnare a parlare a suo figlio: tutti quelli mentalmente sani lo vogliono.
C' è traccia documentale inoppugnabile (altro che "mitologia"!) di tantissime attribuzioni arbitrarie e convenzionali di nomi a cose; per esempio dei nomi italiani (che non sono mere traduzioni, tutt' altro: Sud Tyrol -o come che si dica e scriva in tedesco- si traduce "Tirolo Meridionale"!) al Tirolo Meridionale e a quasi tutte (nelle intenzioni di chi l' ha arbitrariamente convenuto di tutte) le sue località.
Il "contesto naturale" del Sud Tirolo non è cambiato per il fatto di essere stato denominato "Alto Adige" (è un pochino cambiato contemporaneamente per ben altri motivi: anche se Severino non è d' accordo "panta rei").
Che si di solito e non affatto necessariamente si dica "pancia" e "addome" in contesti diversi non muta l' arbitrarietà (che non necessariamente = casualità) di tali parole.
(Senza falsa modestia) Non è certo a me che puoi insegnare l' importanza sociale della cultura e la sua prevalenza per molti fondamentali aspetti sulla genetica.
Ma tutti i condizionamenti culturali che possono determinare l' affermarsi delle diverse parole nelle diverse lingue non ne inficiano affatto l' arbitrarietà e convenzionalità.
Bene: allora ammetti (ma contraddittoriamente a ripetute altre tue affermazioni) che il nome "cavallo" non è la cosa che denota.
Ma non è vero che "é sempre un assenza che il nome comunque evoca chiamandola": il nome "cavallo" può benissimo denotare e spessissimo di fatto denota un cavallo presente (o credi che in presenza di un cavallo non si possa dire "questo è un cavallo" (ma solo in sua assenza)?).
CONTINUA
Citazione di: maral il 18 Ottobre 2016, 16:58:01 PMCONTINUAZIONE
CitazioneNon vedo alcuna inconciliabilità degli accenni ipotetici che proponi sull' origine del linguaggio con una scelta arbitraria e convenzionale.
L'inconciliabilità sta nel pensare che quel mettersi insieme ad esempio a modulare ritmicamente la voce partecipando di un'immediata comprensione comune sia una scelta arbitraria e convenzionale e non che tale possa apparire solo a posteriori
CitazioneIntanto la comprensione frequentemente non è affatto immediata, di solito ci vogliono un po' di tempo e qualche sforzo per raggiungerla.
Inoltre se non è una scelta convenzionale ma tale può solo apparire (falsamente) a posteriori, sono sempre in attesa di sapere che cosa significhino (di diverso dalla voce baritonale, dall' etichetta merceologica o dal solito cappello del perstigiatore) queste parole.
CitazioneInfatti la natura é come è indipendentemente dalla frase "la natura è come è, ecc.": la natura è come è sia che se ne parli in qualsiasi modo, sia che non se ne parli; non è come è dipendentemente dal modo di parlarne; ad esempio per dirne che è deterministica o meno, comprendente ippogrifi o meno: non è che dicendo che comprende gli ippogrifi accada che esistano in essa ippogrifi (questo potrebbe farlo solo Dio, se esistesse!).
Dunque vale anche il contrario: non è che dicendo che non comprende gli ippogrifi accade che non esistano in essi ippogrifi? (non è che sia attaccato agli ippogrifi, è solo per rilevare l'assurdità di un certo realismo ingenuo per cui le cose e le cose dette sono sempre ben separabili per una mente ben raziocinante. Ingenuità che si rivela appunto in quella aggiunta: "la natura è indipendente da come la si dice", ma perdinci è così che la stai dicendo! E se la dici così, proprio perché lo dici e dando ragione a quello che hai detto, non vale nulla.
CitazioneCerto!
Ovviamente se non esistono in natura ippogrifi non è certo perché qualcuno ha detto che la natura non comprende gli ippogrifi (non esisterebbero anche se -per assurdo- tutti dicessero che esistono.
Non vedo alcuna ingenuità nel distinguere due "cose" così diverse come enti ed eventi reali da una parte ed enti ed eventi immaginari dall' altra: trovo casomai ingenuo (ed errato, falso) il confonderli, come se avessero la stessa valenza ontologica!
Ma che male c' è e perché mai quel che dico non varrebbe nulla se dico che la natura è come è indipendentemente da coma la si dice (e in particolare da come personalmente ora la dico essere)?
Citazionein quest' ultima mia affermazione, che infatti non è una mera tautologia c' è "qualcosa di più" che ritengo molto importante a livello ontologico e gnoseologico, e che constato tu continui a ignorare, confondendo due ben diverse nozioni, quelle di "realtà" e di "pensiero circa la realtà (o meno)".
Ma infatti: come se ci fosse una realtà dalla quale tutto è dicibile con verità! E dove sta questa realtà? Non sta forse solo nei discorsi che ne facciamo? non sta forse solo nel nostro attuale, contingentissimo dire di essa che pretende di dire che le cose stanno così e cosà perché sono così e cosà?
Noi non ci inventiamo mai nulla, le nostre idee, le nostre immagini, i sogni , le fantasie più assurde sono risultati, effetti necessari e reali di quello che c'è e quello che c'è è così che ci incontra. Il sogno più assurdo non sono gli ippogrifi, ma un io che possa volere e sappia decidere dall'alto della sua visione panoramica cosa è assolutamente (oggettivamente) vero o no. Eppure anche questa mostruosità fantastica, questa chimera ben più assurda di qualunque chimera-animale-divinità, esprime una realtà, esprime un reale significato, sia pure con conseguenze sempre terribilmente nefaste.
CitazioneNon ho mai affermato che esiste "una realtà dalla quale tutto è dicibile con verità": casomai il contrario!!!
Nei discorsi che ne facciamo sta il nostro pensiero (se vero, la nostra conoscenza) della realtà, che tu continui a confondere con la realtà.
Da empirista sottoscrivo in pieno l' affermazione "Noi non ci inventiamo mai nulla, le nostre idee, le nostre immagini, i sogni , le fantasie più assurde sono risultati, effetti (...) reali di quello che c'è".
Ma quando e dove mai avrei parlato di "un io che possa volere e sappia decidere dall'alto della sua visione panoramica cosa è assolutamente (oggettivamente) vero o no"?????
(Frase ovviamente sensata, ma falsissima).
Dare arbitrariamente nomi alle cose è ben altra, diversissima cosa che pretendere di decidere cosa è assolutamente (oggettivamente) vero o no!
CitazioneIl nome è irrilevante per la natura, che tanto non ne dipende nel suo modo di essere, ma è rilevantissimo per la conoscenza della natura, essendo necessario per pensarne, descriverne predicarne il modo di essere (predicazione che, se adeguata, veritiera, per definizione ne costituisce appunto la conoscenza).
Ed è appunto compito della filosofia indagare se e come (a quali condizioni, entro quali limiti, in che senso, ecc.) ciò possa accadere
Sì mai noi, comunque siamo nella natura, la scienza e la tecnico sono nella natura del mondo. Quindi se il nome per esse è rilevante, è rilevante pure per la natura di cui fanno parte. Non è che la scienza ci possa lanciare ad altezze siderali da cui godere tutto lo spettacolo della natura, come se non vi appartenessimo. La filosofia è questo che può e deve dirci, non se gli ippogrifi sono veri o no, ma perché un significato acquista senso reale e un altro lo perde e soprattutto ricordarci che il vertice del nostro sapere può solo essere sapere di non sapere, come già si era espresso Socrate più di 2 mila anni fa, contro tutte le pretesi di quelli (e in primo luogo noi stessi) che credono di sapere di sapere, mentre solo non sanno di non sapere.
CitazioneMa quando mai avrei negato che "noi, comunque siamo nella natura, la scienza e la tecnica sono nella natura del mondo" o affermato che "la scienza ci può lanciare ad altezze siderali da cui godere tutto lo spettacolo della natura, come se non vi appartenessimo"?!?!?!
Ma la natura è del tutto indifferente a noi e alla nostra conoscenza di essa, e ai nomi che usiamo per parlarne e conoscerla.
Con tutto il rispetto per Socrate, ed essendo ben lungi dal soffrire di delirio di onnipotenza (fra l' altro ritenendo lo scetticismo non superabile razionalmente ma solo assumendo fideisticamente la verità alcune tesi indimostrabili né direttamente constatabili empiricamente, come ho ripetutamente affermato a chiare lettere nel forum), credo che (a tale condizione indimostrabile) qualcosa possa pur essere conosciuto.
Citazione di: sgiombo il 18 Ottobre 2016, 20:16:28 PM
CitazioneContinui a confondere la realtà con la conoscenza della realtà.
Continui ad attribuire indebitamente alle cose (tutte, e non solo a quelle particolari cose che son i simboli) un preteso "essere segno" ( e 'dde che?)..
Sgiombo puoi dirmi cos'è questa "Realtà" a cui sei così attaccato senza fare appello alla conoscenza che ritieni di averne fino al punto di poter dire che non è la conoscenza che di essa abbiamo? Cos'è la realtà fuori dal significato che hai appreso? Certo che le cose appaiono come segni per altre cose, continuamente e solo come segni possono apparire. Appaiono nel loro significato, che vuol dire appunto essere fatte a segno, reciprocamente. E in questo non c'è assolutamente nulla di arbitrario. Dimmi un solo nome di cosa che hai inventato tu arbitrariamente che non significasse già qualcosa che si possa intendere. Noi non scegliamo proprio nulla, men che meno i significati. Niente è arbitrario, nemmeno ciò che appare più contingente, nemmeno l'"arbitrarietà" stessa se questa parola ha un significato.
La realtà è tale in virtù del significato che le attribuiamo, non certo perché ciò che io, tu noi, consideriamo reale sia reale in sé e per sé- Come potremmo solo vederla o concepirla se non avesse significato? O pensi forse che noi percepiamo le cose in sé e poi ci appiccichiamo sopra un cartellino concordato con scritto cosa significano e che nome hanno? "Esse est percipi" nella misura in cui percipiendo diamo al percepito un significato, nella misura in cui la mente interpreta mentre percepisce. Percepire è già interpretare e non c'è nulla di confuso in questo. La cosa sta solo nel suo essere per noi e noi per essa, non ci sono io, non ci sei tu, non c'è la sedia su cui siedi, se non nel significato in cui la conosci sedendoci sopra e proprio perché non è un significato arbitrario, non cadi a terra quando ti ci siedi sopra.
Nessun significato è originariamente una denotazione, la denotazione viene dopo, molto dopo, quando si cominciano a scrivere i vocabolari. La denotazione è l'atto finale, non quello iniziale ed è atto dell'osservatore per fermare il continuo scorrere e passare oltre dei significati. E' per questo che la denotazione è una grande opera comune e pubblica, ma non si parte da quella.
I pedoni sono significati quanto gli ippogrifi, ma nel contesto comune a cui partecipiamo (determinato da una storia immensa che ci ha preceduti e che ci seguirà) il significato "pedone", ci pare ammissibile, quello di "ippogrifo" no e non dipende da noi, non siamo noi a stabilire cosa è ammissibile e cosa no. Questo è il punto fondamentale che distingue ciò che chiamiamo realtà, da ciò che riteniamo fantasticheria. Nessuno di noi può decidere cosa fare apparire e cosa no, non solo cosa toccare, ma nemmeno cosa sognare, che nome dare e che nome non dare, perché noi stessi siamo parte del gioco dei significati, non stiamo sopra di esso. E per questo, solo per questo puoi dire che i pedoni ti sono apparsi e basta, ti sono apparsi nel significato di "pedoni" e non in quello di "ippogrifi", ma sempre e solo con significati abbiamo a che fare.
Quello che fa la differenza per quanto consideriamo reale o meno sono i contesti pubblici e collettivi in cui esistiamo come significati da essi espresso, il modo che abbiamo di stare insieme e insieme operare, conseguenza dei modi di operare e di stare insieme di chi ci ha preceduto e che sono sullo sfondo.
Gli ippogrifi non c'entrano nulla, non sono per nulla straordinari, abbiamo scoperto cose ben più incredibili degli ippogrifi! abbiamo scoperto i batteri! Ti rendi conto? E li consideriamo cose normali, esistono perdiana, a miliardi di miliardi! Ed esistono perché il contesto in cui ci troviamo ci permette di considerarli esistenti. Vai tu a raccontare a un antico egizio (o a un cavernicolo o a un indigeno della foresta amazzonica) che il mondo è pieno di batteri, ti prenderà per matto completo ben di più che se gli raccontassi di ippogrifi e avrebbe ragione! Ma non perché i batteri non esistono, ma perché per lui un significato simile è inconcepibile, esattamente come per te è attualmente inconcepibile la realtà di un ippogrifo. Ma, lo ripeto ancora, non sei né tu né lui a decidere cosa è concepibile e cosa no, cosa appare credibile e cosa no. Diamine 3000 anni di filosofia almeno questo ce lo avranno pure insegnato! Dopo tremila anni a cercare di trovare cosa fosse vero in sé, a inventarsi ogni sorta di "veri in sé" sempre più astratti e impalpabili almeno a questo ci siamo arrivati. di res cogitans e di esse est percipi. I pedoni stanno tutto nel loro significato che si traduce nel loro nome, esattamente come te, il tuo nome è ciò che pubblicamente e pure a te stesso resta il tuo significato stabile, perché nient'altro di te è rimasto invariato, proprio come la nave di Teseo, che è sempre la nave di Teseo, perché solo quel nome (pubblico) è rimasto nei secoli lo stesso. nient'altro resta nell'identità che un nome.
CitazioneMa come fanno le cose che appaiono come sfondo ad apparire (sia pure come sfondo) se contraddittoriamente sono "il nascosto delle cose"?
Infatti non ti appaiono come cose finché non ci presti attenzione. Guarda la miriade di pixel bianchi sullo schermo del computer. Ora ti appaiono come cose e puoi dire che esse costituivano lo sfondo su cui prima, quando non ci facevi caso, ti apparivano invece dei caratteri scritti, che ora a loro volta, non sono dei caratteri scritti, ma dei punti neri sul cui sfondo appare la parte di schermo bianco.
Il selvaggio non vede assolutamente lo schermo che vedi tu, vede qualcosa a cui attribuisce il significato che a quella cosa dà la sua cultura (fatta di modi di fare e di pensare che lui pratica e non tu) e se la sua cultura non ha significati a cui assimilare quello che tu chiami schermo secondo la tua cultura, lui non lo vede e non gli dà nome. Se invece assomiglia a qualcosa per cui la sua cultura ha un significato le darà un nome simile che richiama quel significato che lui conosce e quindi non lo chiamerà "schermo di computer" che per lui non significa assolutamente nulla. E nessuno in questo dare i nomi si inventa assolutamente nulla, né tu che hai il significato di "schermo di computer", né lui che non ce l'ha.
CitazioneSe così fosse il linguaggio non potrebbe esistere, non esisterebbe; oppure sarebbe sempre esistito in eterno "ab omnia secula seculorum" (e allora l' umanità sarebbe eterna; oppure ce l' avrebbe insegnato Dio).
Il linguaggio esiste con l'uomo (non con Dio, Dio non c'entra nulla con il linguaggio, a meno di non pensarlo come il creatore di tutto, uomo compreso, come il Verbo originario). L'uomo è l'animale che parla, come il pesce è l'animale che nuota nell'acqua e l'uccello quello che vola nel cielo, Non è che prima è nato il pesce e poi piano piano il pesce ha imparato a nuotare magari concordando con gli altri pesci quali movimenti fare con le pinne.
Non c'è nessuna voce baritonale (come non c'è un Dio Pesce che dal profondo del mare insegna agli altri pesci a nuotare), semplicemente una voce comune, che non denota, ma connota a tutti i parlanti che riuniti insieme sentono e capiscono partecipando delle situazioni (proprio come un bambino sente la voce della mamma e sa già cosa vuol dire) è un canto fatto insieme e accompagnato da gesti, un rito che evoca una storia, un accadere, un significare con il ritmo variato della sua sillabazione. Questo è il primo linguaggio. Nessuno che stabilisce parole e cosa vogliono dire e cosa no, ma tutti che ascoltando, lo sentono insieme, vivendo insieme, partecipando della stessa comunità, delle stesse tecniche e modi di fare e quindi degli stessi significati. Nessuna libera scelta, ma la conseguenza di esistere insieme facendo cose insieme (cacciando insieme, nutrendosi insieme), in reciproco e costante contatto, del tutto immanente.
CitazioneIl bimbo di tre anni ovviamente non inventa la frase "ho il mal di pancia", ma l' ha imparata come insieme di segni verbali arbitrari e convenzionali, arbitrariamente e convenzionalmente messi in reciproche relazioni sintattiche.
Non solo il bambino di tre anni, ma nessuno ha mai inventato arbitrariamente e convenzionalmente quella frase, bambino, adulto o vecchio che fosse. Chi sarebbe stato quello che avendo mal di pancia si è inventato che si doveva dirlo così dopo essersi messo d'accordo con altri anche loro con il mal di pancia che invece chiamavano "ben di testa"?
I nomi che tu dici arbitrari non lo sono per nulla, hanno sempre un significato determinato dal contesto. L'Alto Adige corrisponde al Sud Tirolo solo geograficamente, per tutto il resto è altra cosa, soprattutto si è voluto sottolineare con quel nome che doveva essere un'altra cosa, proprio perché una regione non è mai solo un luogo geografico (e certamente non è per nulla "in natura" un luogo geografico, lo è solo in astratto e solo per un geografo), ma anche in questa volontà vi è stata una precisa necessità di contesto storico e culturale.
CitazioneBene: allora ammetti (ma contraddittoriamente a ripetute altre tue affermazioni) che il nome "cavallo" non è la cosa che denota.
L'ho detto fin dall'inizio e non c'è alcuna contraddizione. Il nome non è certamente la cosa che denota, ma ne è la necessaria e mai arbitraria evocazione. E se la evoca la chiama, e se la chiama è perché non c'è. Il nome "cavallo" evoca un cavallo che non è quel cavallo che hai sotto gli occhi, perché quel cavallo che hai sotto gli occhi non ha alcun bisogno di essere chiamato alla presenza, è lì, davanti a te, non serve che lo chiami, dunque il cavallo che chiami "cavallo" non è quello che è lì.
Citazione di: sgiombo il 18 Ottobre 2016, 20:25:31 PM
Ma che male c' è e perché mai quel che dico non varrebbe nulla se dico che la natura è come è indipendentemente da coma la si dice (e in particolare da come personalmente ora la dico essere)?Citazione
Semplicemente perché appunto lo stai dicendo e sei tu stesso che dici che quello che si dice non ha nessuna rilevanza su come è la natura.
Citazione[/font][/size][/color]Dare arbitrariamente nomi alle cose è ben altra, diversissima cosa che pretendere di decidere cosa è assolutamente (oggettivamente) vero o no!
Ma è lecito pretenderlo? Esiste a tuo avviso questa realtà in sé a cui si deve fare riferimento?
Citazione[/font][/size][/color]Ma la natura è del tutto indifferente a noi e alla nostra conoscenza di essa, e ai nomi che usiamo per parlarne e conoscerla.
E questo mi è del tutto incomprensibile. Se noi siamo la natura, dato che ne siamo parte, non possiamo esserne fuori. Cosa vuol dire che la natura è indifferente a noi? noi non siamo altro da essa. E' la natura che dà i nomi attraverso noi, che siamo quella parte di natura che da significati e nomi. Vuoi dire che la natura è indifferente a se stessa? Ma non lo è, ci siamo noi che siamo natura e non siamo ad essa indifferenti e di sicuro non lo siamo a noi stessi!
Noi siamo la natura non indifferente. E ti par poco?
Risposte alle ultime obiezioni di MaralCitazione
Non ritengo razionalmente superabile lo scetticismo.
Dunque che una realtà sia conoscibile non ho certezza.
Ma se (ipoteticamente) la è, allora essa è costituita (per lo meno anche) da ciò che immediatamente accade ed è constato, sensazioni fenomeniche coscienti ("extensae" e "cogitantes").
Essa comprende determinate cose molto peculiari, dette "simboli", come le parole, i segnali stradali, le icone dei desktop de computer, ecc., cui sono attribuiti (arbitrariamente; e di solito convenzionalmente accettati) significati; e inoltre tutte le altre cose che non sono simboli, le quali invece non hanno alcun significato: appaiono come (insiemi e successioni di) sensazioni fenomeniche e basta!
Il significato è qualcosa di proprio dei simboli verbali con i quali penso (e fatto salvo l' insuperabile dubbio scettico potrei forse conoscere) la realtà, e non della realtà stessa mediante i simboli verbali pensata (e forse conosciuta, almeno entro certi limiti).
I simboli appaiono con il loro significato, tutte le altre cose (a meno che esista anche una realtà in sé o noumeno) appaiono e basta.
"Asiafrica" l' ho inventato (bello o brutto, intelligente o stupido che sia) e non esistendo (per ciò che è: non esistendo come simbolo) precedentemente alla mia invenzione, non poteva a maggio ragione significare alcunché.
Idem per l' "Alto Adige", inventato di sana pianta dai burocrati del governo fascista (o di qualche precedente governo nazionalista, non ricordo bene).
Certo!
Noi percepiamo le cose e basta e poi metaforicamente ci appiccichiamo proprio sopra un cartellino concordato con scritto cosa significano e che nome hanno (fuor di metafora: attribuiamo loro arbitrariamente e convenzionalmente un nome).
Ognuno di noi percepisce continuamente un' infinità di cose senza pensarci né interpretale in alcun modo, per esempio quando è alla guida del proprio veicolo su un percorso abituale.
Come si arrivi di fatto alla denotazione reale è ininfluente circa il fatto che ci sono concetti (pedoni) che ce l' hanno e concetti (ippogrifo) che non ce l' hanno; e questo -certo!- non dipende da noi.
Nessuno di noi può decidere cosa fare apparire e cosa no, non solo cosa toccare, ma nemmeno cosa sognare, certo!
Ma che nome dare e che nome non dare a ciò che appare, tocchiamo e sognamo, lo possiamo decidere eccome!
Ma tu ti rendi conto che i batteri esistono realmente (anche se un cavernicolo si può mettere a ridere sentendolo dire) e gli ippopgrifi no, e che questa è una differenza enorme?
Non potrò mai morire per un calcio in testa da parte di un ippogrifo, mentre potrei benissimo morire (e non necessariamente per pretesa "malasanità", come pensano giornalisti e cretini in generale; e anche più probabilmente potrà morire il cavernicolo che se la rideva) per una polmonite!
E non certo perché i batteri (come i pedoni) starebbero tutti nel loro nome, che altrimenti per non ammalarsi basterebbe chiamarli "gatti" o "fiori" o magari "nulla"!
Il selvaggio vede lo stesso schermo che vedo io, semplicemente non sa cosa sono i pixel.
Se il linguaggio nasce come una voce comune, che non denota, ma connota a tutti i parlanti che riuniti insieme sentono e capiscono partecipando delle situazioni (proprio come un bambino sente la voce della mamma; e per la verità non sa già -prima che glielo si insegni- cosa vuol dire) ecc. ecc., allora) ciò non può significare altro che) le parole vengono arbitrariamente stabilite e convenzionalmente accettate dagli inventori del linguaggio.
Col nome "Alto Adige" si è solo voluto stabilire che il Tirolo Meridionale era italiano: nessuna montagna, nessun sasso, nessun microbo del Tirolo Meridionale è cambiato in conseguenza del cambio del nome: la denotazione è esattamente la stessa!
Dici che:
"Il nome non è certamente la cosa che denota, ma ne è la necessaria e mai arbitraria evocazione. E se la evoca la chiama, e se la chiama è perché non c'è."
Quindi secondo te, essendo realmente davanti a un cavallo chi dice "questo è un cavallo" chiama un cavallo che lì davanti a lui non c' è: contraddizione plateale!
E che male c' è e perché mai quel che dico non varrebbe nulla se sono io stesso che dico che quello che si dice non ha nessuna rilevanza su come è la natura?
Domandi:
"Ma è lecito pretenderlo? Esiste a tuo avviso questa realtà in sé a cui si deve fare riferimento?"
Rispondo: poiché ritengo lo scetticismo non razionalmente superabile, lo credo per fede (tutte le persone comunemente ritenute sane di mente per lo meno si comportano come se lo credessero), essendo indimostrabile né tantomeno mostrabile, constatabile.
Che la natura è indifferente a noi (essendo noi nient' altro che una parte di essa) significa che ad esempio sé è determinstica é deterministica anche se noi diciamo che è indeterministica, che se diviene diviene malgrado Parmenide e Severino lo neghino, che se non comprende ippogrifi non li comprende anche se molteplici miti lo affermano.
Citazione di: sgiombo il 21 Ottobre 2016, 11:28:11 AM
Essa comprende determinate cose molto peculiari, dette "simboli", come le parole, i segnali stradali, le icone dei desktop de computer, ecc., cui sono attribuiti (arbitrariamente; e di solito convenzionalmente accettati) significati; e inoltre tutte le altre cose che non sono simboli, le quali invece non hanno alcun significato: appaiono come (insiemi e successioni di) sensazioni fenomeniche e basta!
Il problema è qui Sgiombo: quali sono queste cose che appaiono come successioni di sensazioni che non hanno significato se nel momento stesso in cui solo le richiami alla mente è solo nel loro significato che puoi richiamarle? Non solo i segnali stradali o le icone sul desktop del computer (che sono pur sempre cose, oltre che segni convenzionali), ma anche un albero, una pietra, un animale in quanto tali sono segni e fatti a segno e solo per questo possono esistere come "albero", "pietra" e "animale", esistere per noi a cui da esse veniamo fatti segno. E il nome rappresenta il loro condiviso e pubblico significare che non è semplicemente convenzionato, ma è il risultato di una storia immensa, antica quanto l'umanità che al presente, in questo luogo dà questi nomi, in altro tempo e luogo ne dà altri, ma che non siamo noi a scegliere. Anche "Alto Adige", al posto di "Sud Tirol" è il risultato di una situazione storica, non si sceglie "Alto Adige" solo per fare dispetto a chi vuole chiamarlo "Sud Tirol" o viceversa, ma in ragione del contesto storico per cui si sente necessario far dispetto, non si sceglie arbitrariamente. E l'Alto Adige non è il Sud Tirol, non è letteralmente la stessa cosa, anche se geograficamente coincidono perfettamente, anche se i sassi e le piante e gli animali sono gli stessi comunque si chiamino quelle zone. Il significato e quindi il modo di essere di quelle zone, è diverso, poiché se non fosse diverso, per nessuna ragione se ne sarebbe cambiato il nome e per nessuna ragione i tirolesi della zona pretenderebbero da decenni di tornare alla toponomastica tedesca. Se il nome è indifferente alla cosa che in sostanza è sempre la stessa, per quale ragione si dovrebbe contestare un nome, accidente del tutto ininfluente sulla realtà sostanziale?
Nulla può apparire senza significare per il semplice fatto che appare e il significato implica, per venire pubblicamente stabilito, un nome proprio per quella cosa, non un nome qualsiasi (e dove mai sarebbe poi questa riserva di nomi che di per sé non significano nulla e in cui si va a pescare ad libitum come in una sorta di grande magazzino?). Il nome indica un modo di accadere ed è da questo modo di accadere stabilito, non dal soggetto a suo arbitrio.
A me pare che il motivo principale per cui continuiamo a dibattere stia nel tuo timore che così dicendo si arrivi alla pretesa che il nome sia la cosa stessa. Non è così, l'ho già detto, non è la cosa, anzi il nome c'è quando la cosa non c'è, proprio perché la chiama. Se dico "questo è un cavallo", quel "cavallo" che dico non è in alcun modo questo cavallo, ma è il nome che lo chiama alla presenza di tutti, che ne fa segno in modo che tutti lo vedano.
Con questo non sostengo (per quanto personalmente non abbia mai convenzionato alcun nome, ne ho conosciuto nessuno che lo abbia fatto e nessuna memoria storica mi rimanda a mitici inventori di nomi, al massimo ricombinatori di significati) che non si possa arrivare a convenzionare sui nomi, ma è un punto di arrivo per il linguaggio e non di partenza, è il momento in cui si precisano delle definizioni su parole che già nominavano, che già risuonavano significanti ed esprimevano connotazioni condivise tra tutti quelli che facevano insieme le stesse esperienze e partecipavano dei medesimi significati.
Poi ci sono pure nomi per cose solo immaginate, o solo pensate e non percepite né percepibili, oppure sentite nell'animo, ma nemmeno questi sono nomi arbitrari, corrispondono a qualcosa che comunque realmente accade e che in un determinato contesto può trovare solo quel modo di significare e di esprimersi, credibilmente oppure no.
[
Citazionecolor=black]Ognuno di noi percepisce continuamente un' infinità di cose senza pensarci né interpretale in alcun modo, per esempio quando è alla guida del proprio veicolo su un percorso abituale.[/color]
Certo, ma quell'infinità di cose che si percepiscono senza pensarle o interpretarle, possono essere tali (ossia "infinità di cose percepite senza pensarle o interpretarle) solo se come tali sono percepite e interpretate, altrimenti non esistono.
CitazioneMa tu ti rendi conto che i batteri esistono realmente (anche se un cavernicolo si può mettere a ridere sentendolo dire) e gli ippopgrifi no, e che questa è una differenza enorme?
Ma i batteri esistono realmente per noi, che li vediamo e studiamo al microscopio, che riconosciamo un significato di senso all'espressione "vedere al microscopio", frutto di millenni di storia e simbolicamente condensati nel microscopio che abbiamo imparato a usare, non per il cavernicolo. per il cavernicolo i batteri non esistono, quanto per noi non esistono omini verdi su Plutone o ippogrifi in una valle nascosta del Tibet. Il cavernicola sa che esiste quello che è abituato a vedere, pensare e interpretare. Noi non sappiamo nulla più di lui, sappiamo in modo diverso e magari in certi ambiti più efficace, mentre in altri meno. Questo è un punto fondamentale da riconoscere, altrimenti si rischia di continuare ad andare in giro per il mondo convinti di poter insegnare a chiunque come stanno o devono stare veramente le cose (e magari pure a "esportare democrazia" per salvare i poveri selvaggi di turno!)
CitazioneNon potrò mai morire per un calcio in testa da parte di un ippogrifo, mentre potrei benissimo morire (e non necessariamente per pretesa "malasanità", come pensano giornalisti e cretini in generale; e anche più probabilmente potrà morire il cavernicolo che se la rideva) per una polmonite!
Tu no, ma il cavernicolo sì. perché è questo il significato che dà a quello che tu chiami polmonite di cui non ride affatto, mentre può ridere della tua interpretazione finché non entra nella tua visione culturale.
Lui non vede lo stesso schermo che vedi tu, poiché tu sai (l'immensa storia da cui provieni te lo ha insegnato) cos'è uno schermo e cos'è un computer, lui no, lui non sa di schermi, sa altre cose che tu non vedi e non sai, per cui quella cosa che tu e lui vedete non è per nulla la stessa cosa e lo sarà solo quando il selvaggio si metterà una maglietta con su scritto "I love New York", verrà in città e imparerà a usare un computer, se nel frattempo non impazzisce o si suicida.
Citazioneperché mai quel che dico non varrebbe nulla se sono io stesso che dico che [/color]quello che si dice non ha nessuna rilevanza su come è la natura
Perché sei tu stesso che lo dici. Stai dicendo che quello che si dice non ha rilevanza, quindi anche quello che tu dici quando dici questo (ossia quando dici che "quello si dice non ha rilevanza") non può averla, quindi è di fatto irrilevante che tutto quello che si dice non ha rilevanza.
E' lo stesso motivo per cui lo scettico non può che contraddirsi quando il suo scetticismo è assoluto: se tutto non è vero, non è vero nemmeno che tutto non è vero.
CitazioneChe la natura è indifferente a noi (essendo noi nient' altro che una parte di essa) significa che ad esempio sé è determinstica é deterministica anche se noi diciamo che è indeterministica, che se diviene diviene malgrado Parmenide e Severino lo neghino, che se non comprende ippogrifi non li comprende anche se molteplici miti lo affermano.
[/quote]
Già, ma come fai a dirlo e allo stesso tempo pretendere che abbia una qualsiasi rilevanza?
Citazione di: maral il 23 Ottobre 2016, 00:01:38 AM
Citazione di: sgiombo il 21 Ottobre 2016, 11:28:11 AM
Essa comprende determinate cose molto peculiari, dette "simboli", come le parole, i segnali stradali, le icone dei desktop de computer, ecc., cui sono attribuiti (arbitrariamente; e di solito convenzionalmente accettati) significati; e inoltre tutte le altre cose che non sono simboli, le quali invece non hanno alcun significato: appaiono come (insiemi e successioni di) sensazioni fenomeniche e basta!
Il problema è qui Sgiombo: quali sono queste cose che appaiono come successioni di sensazioni che non hanno significato se nel momento stesso in cui solo le richiami alla mente è solo nel loro significato che puoi richiamarle?
CitazioneContinui a confondere la realtà con la conoscenza della (il pensare, il richiamare alla mente la) realtà, la quale ultima soltanto (e non la realtà) necessità inevitabilmente di proposizioni o giudizi fatti di parole le quali hanno un significato.
Non solo i segnali stradali o le icone sul desktop del computer (che sono pur sempre cose, oltre che segni convenzionali), ma anche un albero, una pietra, un animale in quanto tali sono segni e fatti a segno e solo per questo possono esistere come "albero", "pietra" e "animale", esistere per noi a cui da esse veniamo fatti segno.
CitazioneMentre del segnale stradale "divieto di svolta a destra" é evidente il significato (per chi conosca il codice della strada) dell' albero di abete qui nel mio giardino e di tantissime altre cose che simboli non sono non esiste alcun significato (per definizione).
E il nome rappresenta il loro condiviso e pubblico significare che non è semplicemente convenzionato, ma è il risultato di una storia immensa, antica quanto l'umanità che al presente, in questo luogo dà questi nomi, in altro tempo e luogo ne dà altri, ma che non siamo noi a scegliere. Anche "Alto Adige", al posto di "Sud Tirol" è il risultato di una situazione storica, non si sceglie "Alto Adige" solo per fare dispetto a chi vuole chiamarlo "Sud Tirol" o viceversa, ma in ragione del contesto storico per cui si sente necessario far dispetto, non si sceglie arbitrariamente. E l'Alto Adige non è il Sud Tirol, non è letteralmente la stessa cosa, anche se geograficamente coincidono perfettamente, anche se i sassi e le piante e gli animali sono gli stessi comunque si chiamino quelle zone. Il significato e quindi il modo di essere di quelle zone, è diverso, poiché se non fosse diverso, per nessuna ragione se ne sarebbe cambiato il nome e per nessuna ragione i tirolesi della zona pretenderebbero da decenni di tornare alla toponomastica tedesca. Se il nome è indifferente alla cosa che in sostanza è sempre la stessa, per quale ragione si dovrebbe contestare un nome, accidente del tutto ininfluente sulla realtà sostanziale?
CitazionePer ragioni puramente soggettive, e non certo perché le cose in generale e non simboliche (e in particolare il territorio dell' attuale provincia -se non l' hanno abolita, cosa che non é facile capire nelle mene penose della politica corrente) hanno un significato.
Nulla può apparire senza significare per il semplice fatto che appare e il significato implica, per venire pubblicamente stabilito, un nome proprio per quella cosa, non un nome qualsiasi (e dove mai sarebbe poi questa riserva di nomi che di per sé non significano nulla e in cui si va a pescare ad libitum come in una sorta di grande magazzino?). Il nome indica un modo di accadere ed è da questo modo di accadere stabilito, non dal soggetto a suo arbitrio.
CitazioneNon capisco proprio di cosa tu stia parlando con la locuzione "riserva di nomi che di per sé non significano nulla e in cui si va a pescare ad libitum come in una sorta di grande magazzino".
L' abete nel mio giradino appare eccome!
E non significa proprio nulla! Mi piace, spero che viva a lungo e cresca bene, ma queste sono miei sentimenti, non suoi significati!
E se fosse stato chiamato "eteba" non sarebbe cambiato proprio nulla nel suo reale essere e accadere
A me pare che il motivo principale per cui continuiamo a dibattere stia nel tuo timore che così dicendo si arrivi alla pretesa che il nome sia la cosa stessa. Non è così, l'ho già detto, non è la cosa, anzi il nome c'è quando la cosa non c'è, proprio perché la chiama. Se dico "questo è un cavallo", quel "cavallo" che dico non è in alcun modo questo cavallo, ma è il nome che lo chiama alla presenza di tutti, che ne fa segno in modo che tutti lo vedano.
CitazionePosso benissimo pensare e anche dire ad alta voce "questo é un cavallo" in perfetta solitudine (umana, ovviamente): il cavallo é presentissimo anche se lo vedo solo io.
Con questo non sostengo (per quanto personalmente non abbia mai convenzionato alcun nome, ne ho conosciuto nessuno che lo abbia fatto e nessuna memoria storica mi rimanda a mitici inventori di nomi, al massimo ricombinatori di significati) che non si possa arrivare a convenzionare sui nomi, ma è un punto di arrivo per il linguaggio e non di partenza, è il momento in cui si precisano delle definizioni su parole che già nominavano, che già risuonavano significanti ed esprimevano connotazioni condivise tra tutti quelli che facevano insieme le stesse esperienze e partecipavano dei medesimi significati.
CitazioneArbitrariamente e convenzionalmente!
Poi ci sono pure nomi per cose solo immaginate, o solo pensate e non percepite né percepibili, oppure sentite nell'animo, ma nemmeno questi sono nomi arbitrari, corrispondono a qualcosa che comunque realmente accade e che in un determinato contesto può trovare solo quel modo di significare e di esprimersi, credibilmente oppure no.
CitazioneNon corrispondono a nulla di reale, pena la caduta in un' eclatante contraddizione.
CitazioneOgnuno di noi percepisce continuamente un' infinità di cose senza pensarci né interpretale in alcun modo, per esempio quando è alla guida del proprio veicolo su un percorso abituale.[/color]
Certo, ma quell'infinità di cose che si percepiscono senza pensarle o interpretarle, possono essere tali (ossia "infinità di cose percepite senza pensarle o interpretarle) solo se come tali sono percepite e interpretate, altrimenti non esistono.
CitazioneAl solito!
Non possono essere percepite, pensate, conosciute e non semplicemete essere reali, accadere realmente se come tali non sono percepite e interpretate; ma anche se non lo sono, sono comunque benissimo reali.
CitazioneSgiombo:
Ma tu ti rendi conto che i batteri esistono realmente (anche se un cavernicolo si può mettere a ridere sentendolo dire) e gli ippopgrifi no, e che questa è una differenza enorme?
Maral:
Ma i batteri esistono realmente per noi, che li vediamo e studiamo al microscopio, che riconosciamo un significato di senso all'espressione "vedere al microscopio", frutto di millenni di storia e simbolicamente condensati nel microscopio che abbiamo imparato a usare, non per il cavernicolo. per il cavernicolo i batteri non esistono, quanto per noi non esistono omini verdi su Plutone o ippogrifi in una valle nascosta del Tibet. Il cavernicola sa che esiste quello che è abituato a vedere, pensare e interpretare. Noi non sappiamo nulla più di lui, sappiamo in modo diverso e magari in certi ambiti più efficace, mentre in altri meno. Questo è un punto fondamentale da riconoscere, altrimenti si rischia di continuare ad andare in giro per il mondo convinti di poter insegnare a chiunque come stanno o devono stare veramente le cose (e magari pure a "esportare democrazia" per salvare i poveri selvaggi di turno!) Citazione
CitazioneSgiombo:Dunque secondo te, non esistendo i microbi per il cavernicolo che non vede e studia al microscopio i microbi della polmonite , che non riconosce un significato di senso all'espressione "vedere al microscopio", ecc., costui non può ammalarsi e magari morire di polmonite!
Beato lui!
Anzi : beata illusione (perché lui, senza antibiotici, ha molte più probabilità di noi di lascrci la pelle)!
Ma tu credi avvero che, pur non conosciuti da noi, esistano davvero omini verdi su Plutone o ippogrifi in una valle nascosta del Tibet???
Sono convinto che abbiamo molte cose da insegnare a e da imparare a chiunque e da chiunque (in particolare ai e dai cavernicoli; se ancora ce ne fossero).
CitazioneSgiombo:
Non potrò mai morire per un calcio in testa da parte di un ippogrifo, mentre potrei benissimo morire (e non necessariamente per pretesa "malasanità", come pensano giornalisti e cretini in generale; e anche più probabilmente potrà morire il cavernicolo che se la rideva) per una polmonite!
Maral:
Tu no, ma il cavernicolo sì. perché è questo il significato che dà a quello che tu chiami polmonite di cui non ride affatto, mentre può ridere della tua interpretazione finché non entra nella tua visione culturale.
Lui non vede lo stesso schermo che vedi tu, poiché tu sai (l'immensa storia da cui provieni te lo ha insegnato) cos'è uno schermo e cos'è un computer, lui no, lui non sa di schermi, sa altre cose che tu non vedi e non sai, per cui quella cosa che tu e lui vedete non è per nulla la stessa cosa e lo sarà solo quando il selvaggio si metterà una maglietta con su scritto "I love New York", verrà in città e imparerà a usare un computer, se nel frattempo non impazzisce o si suicida.
CitazioneSgiombo:
Che rideva l' hai detto tu, non io.
Ma possiamo morire di polmonite sia io che (più probabilmente) il cavervicolo.
Io so l' immensa storia, ecc. che il cavernicolo ignora, ma se non siamo ciechi e guardiamo lo stesso schermo del computer, allora vediamo lo stesso schermo del computer.
Vedere (sentire, percepire) =/= sapere.
CitazioneSgiombo:
perché mai quel che dico non varrebbe nulla se sono io stesso che dico che quello che si dice non ha nessuna rilevanza su come è la natura?
Maral:
Perché sei tu stesso che lo dici. Stai dicendo che quello che si dice non ha rilevanza, quindi anche quello che tu dici quando dici questo (ossia quando dici che "quello si dice non ha rilevanza") non può averla, quindi è di fatto irrilevante che tutto quello che si dice non ha rilevanza.
E' lo stesso motivo per cui lo scettico non può che contraddirsi quando il suo scetticismo è assoluto: se tutto non è vero, non è vero nemmeno che tutto non è vero.
CitazioneSgiombo:
E allora?
Lo scettico non dice che tutto ciò che é creduto é falso ma che tutto ciò che é creduto é dubbio: sospende il giudizio non afferma la falsità di tutto.
Il paradosso pseudoscettico é tutt' altra cosa da ciò che affermo.
Non affermo affatto che dire qualcosa su come é la realtà é non dire qualcosa su come é la realtà, bensì la ben diversa affermazione che la realtà é come é , indipendentemente da come si dice che é (es: se é deterministica la é anche se qualcuno dice ché indeterministica e non: se qualcuno dice che é indeterminsituica non é che qualcuno dice che é indeterministuica).
Fin che per te "dire, pensare circa la realtà" = "la realtà" non potremo mai intenderci!
CitazioneSgiombo:
Che la natura è indifferente a noi (essendo noi nient' altro che una parte di essa) significa che ad esempio sé è determinstica é deterministica anche se noi diciamo che è indeterministica, che se diviene diviene malgrado Parmenide e Severino lo neghino, che se non comprende ippogrifi non li comprende anche se molteplici miti lo affermano.
Maral:
Già, ma come fai a dirlo e allo stesso tempo pretendere che abbia una qualsiasi rilevanza?CitazioneSgiombo:
Non pretendo che ciò che dico abbia alcuna rilevanza circa ciò che é (ciò che é é ciò che é così com' é sia che io ne dica qualcosa, sia che io non ne dica qualcosa; se ne dico qualcosa comprendendo fra l' altro che ne dico qualcosa, se non ne dico nulla non comprendendo il dirne alcunché da parte mia).
Citazione di: sgiombo il 23 Ottobre 2016, 11:23:24 AM
Continui a confondere la realtà con la conoscenza della (il pensare, il richiamare alla mente la) realtà, la quale ultima soltanto (e non la realtà) necessità inevitabilmente di proposizioni o giudizi fatti di parole le quali hanno un significato.
Non confondo nulla, solo noto che nemmeno la realtà può prescindere dal suo significato, ossia da ciò che di essa si pensa, si conosce e si dice dicendolo reale.
CitazioneMentre del segnale stradale "divieto di svolta a destra" é evidente il significato (per chi conosca il codice della strada) dell' albero di abete qui nel mio giardino e di tantissime altre cose che simboli non sono non esiste alcun significato (per definizione).
Dunque il tuo albero di abete non significa assolutamente nulla. Nemmeno che è quell'albero di abete.
CitazionePer ragioni puramente soggettive, e non certo perché le cose in generale e non simboliche (e in particolare il territorio dell' attuale provincia -se non l' hanno abolita, cosa che non é facile capire nelle mene penose della politica corrente) hanno un significato.
Esistono forse ragioni puramente oggettive? E dove mai?
Il simbolo (che è sempre sia soggettivo che oggettivo e quindi non è né questo né quello, ma precede sia l'oggetto che il soggetto) è la sola realtà manifesta che continua proprio in quanto simbolica a significare. Quando non significa più nulla non è più nulla, né Sud Tirolo, né Alto Adige, né altro.
Citazione
L' abete nel mio giradino appare eccome!
E non significa proprio nulla! Mi piace, spero che viva a lungo e cresca bene, ma queste sono miei sentimenti, non suoi significati!
[/size]E se fosse stato chiamato "eteba" non sarebbe cambiato proprio nulla nel suo reale essere e accadere
Come no, non significa forse "abete nel mio giardino"? ove ogni locuzione (abete, giardino, nel, mio, giardino) ha un significato legato a quello delle altre. Non so come puoi dire che se fosse stato chiamato "eteba" sarebbe la stessa cosa, dato che è invece "abete" che si chiama e come "abete" lo riconosciamo per quello che è.
CitazionePosso benissimo pensare e anche dire ad alta voce "questo é un cavallo" in perfetta solitudine (umana, ovviamente): il cavallo é presentissimo anche se lo vedo solo io.
E allora perché te lo nomini?
CitazioneArbitrariamente e convenzionalmente!
Impossibile, dato che non avevano alcun linguaggio per convenzionare tra loro dei suoni arbitrari.
Nessun nome può essere arbitrario, giacché è un nome, non un flatus voci.
CitazioneNon possono essere percepite, pensate, conosciute e non semplicemete essere reali, accadere realmente se come tali non sono percepite e interpretate; ma anche se non lo sono, sono comunque benissimo reali.
Certo, se in questo modo sono percepite e interpretate
CitazioneSgiombo:Dunque secondo te, non esistendo i microbi per il cavernicolo che non vede e studia al microscopio i microbi della polmonite , che non riconosce un significato di senso all'espressione "vedere al microscopio", ecc., costui non può ammalarsi e magari morire di polmonite!
Beato lui!
Anzi : beata illusione (perché lui, senza antibiotici, ha molte più probabilità di noi di lascrci la pelle)!
Il cavernicolo muore nella misura in cui vede morire. Muore a causa dei batteri nella misura in cui vede e conosce i batteri. Il nostro mondo pieno di batteri non è più reale del suo, dove ugualmente si muore, ma non per i batteri.
CitazioneMa tu credi avvero che, pur non conosciuti da noi, esistano davvero [/size]omini verdi su Plutone o ippogrifi in una valle nascosta del Tibet???
Come posso saperlo? Posso solo dire che non li ho mai potuti vedere.
CitazioneSono convinto che abbiamo molte cose da insegnare a e da imparare a chiunque e da chiunque (in particolare ai e dai cavernicoli; se ancora ce ne fossero).
Qualcuno ancora c'è, ma è meglio (per lui) che non lo incontriamo, gli saremmo letali ben più di qualsiasi batterio, con tutte le cose che riterremmo doveroso insegnargli.
CitazioneSgiombo:
Che rideva l' hai detto tu, non io.
Veramente l'hai scritto tu:
Citazione...e anche più probabilmente potrà morire il cavernicolo che se la rideva
CitazioneIo so l' immensa storia, ecc. che il cavernicolo ignora, ma se non siamo ciechi e guardiamo lo stesso schermo del computer, allora vediamo lo stesso schermo del computer.
Vedere (sentire, percepire) =/= sapere.
Vedete qualcosa e ne vedete il significato: tu vedi lo schermo di un computer, lui no, per nulla (a meno che non glielo insegni e lo convinci), quindi non è la stessa cosa
CitazioneSgiombo:
E allora?
Lo scettico non dice che tutto ciò che é creduto é falso ma che tutto ciò che é creduto é dubbio: sospende il giudizio non afferma la falsità di tutto.
Resta il fatto che se tutto è dubbio, tutto può essere falso, compreso che tutto è dubbio e quindi che tutto può essere falso.
CitazioneIl paradosso pseudoscettico é tutt' altra cosa da ciò che affermo.
Non affermo affatto che dire qualcosa su come é la realtà é non dire qualcosa su come é la realtà, bensì la ben diversa affermazione che la realtà é come é , indipendentemente da come si dice che é (es: se é deterministica la é anche se qualcuno dice ché indeterministica e non: se qualcuno dice che é indeterminsituica non é che qualcuno dice che é indeterministuica)
Se dici che la realtà è come è e per di più mi aggiungi che lo indipendentemente da come si dice che è non dici forse qualcosa su come è la realtà? E dato che lo dici che valore potrà mai avere rispetto alla realtà? Dici che la realtà è così, ma dici anche che quello che dici non ha nulla a che vedere con la realtà.
CitazioneFin che per te "dire, pensare circa la realtà" = "la realtà" non potremo mai intenderci!
Allora ci intendiamo, perché anche per me dire e pensare circa la realtà è diverso dalla realtà (anche se è comunque reale essendone un aspetto, il solo che ci permette di coglierla e condividerla). Ma la realtà per come è si accompagna sempre al dire e pensarla. Non può esistere l'una senza l'altra. Mentre per te c'è una realtà per come è che può esistere senza nulla significare (e che poi in qualche modo strano e misterioso corrisponde per tutti esattamente con il tuo/nostro pensarla e dirla, come lo schermo del computer o i batteri). Come possa accadere questo per me resta un totale mistero. E' per questo che non ci intendiamo.
CitazioneNon pretendo che ciò che dico abbia alcuna rilevanza circa ciò che é (ciò che é é ciò che é così com' é sia che io ne dica qualcosa, sia che io non ne dica qualcosa; se ne dico qualcosa comprendendo fra l' altro che ne dico qualcosa, se non ne dico nulla non comprendendo il dirne alcunché da parte mia).[/size][/color]
Sì, ma tutto questo non spiega perché ne dici qualcosa che è esattamente (per quello che tu - e non io- dici) equivalente a non dirne nulla, dato che la realtà la dici e la pensi del tutto indipendente da quello che tu ne dici e ne pensi.
Caro Maral,
Constatato che le mie molteplici argomentazioni, già ripetute innumerevoli volte, non sono servite a convincerti dell' assurdità delle seguenti convinzioni, ripetute a tua volta innumerevoli volte:
-La realtà (e non: la conoscenza della realtà) non può prescindere dal suo significato, ossia da ciò che di essa si pensa, si conosce e si dice dicendolo reale (o meno).
-Un realmente esistente albero di abete, poiché non essendo un simbolo non significa nulla, allora non esiste.
-L' attribuire significati a simboli non è qualcosa di arbitrario e soggettivo, ma invece il possedere un presunto significato da parte di ogni e qualsiasi cosa è oggettivo.
-Il fatto reale dell' apparire dell' abete nel mio giardino, come se fosse la stessa cosa della frase da me affermata "L' abete appare nel mio giardino", significa (e non invece semplicemente é, senza significare alcunché) l' apparire dell' abete nel mio giardino.
-Per il solo fatto di nominare qualcosa, questo qualcosa esiste realmente (e non solo in quanto oggetto di pensiero).
-Quando fu inventato il linguaggio, poiché i suoi inventori non possedevano ancora linguaggio, non erano in grado di inventarlo.
-Cose reali percepite e non interpretate, non considerate teoricamente in alcun modo, necessariamente in questo modo (?) sono percepite e interpretate.
-Un cavernicolo che muoia di polmonite, poiché non conosce i batteri della polmonite (in alcuna misura: per niente), allora, morendo a causa di essi nella misura -zero (0)- in cui li conosce, non muore di polmonite -ma, che so?- di infarto del miocardio pur avendo probabilmente, data la sua povera dieta, coronarie in ottimo stato).
-Non avendoli mai potuti vedere, sospendi il giudizio sull' esistenza di omini verdi su Plutone o ippogrifi in una valle nascosta del Tibet.
-L' insegnare qualcosa a un cavernicolo sarebbe per lui letale.
(en passant, e scusa la pignoleria, il primo a parlare di cavernicoli che ridono a sentir parlare di batteri sei stato tu).
-Se io e un cavernicolo non cieco guardiamo lo stesso computer vediamo (e non: pensiamo circa ciò che vediamo!) due cose diverse.
(En passant, il fatto che se tutto è dubbio, tutto può essere falso, compreso che tutto è dubbio e quindi che tutto può essere falso non fa che corroborare lo scetticismo (=dubbio, sospensione del giudizio: anche circa dubbio, sospensione del giudizio: perché no?).
-Dire che la realtà è come è (meglio: diviene) indipendentemente da quel che se ne dice o meno implica che la realtà è (meglio: diviene) dipendentemente da quel che se ne dice o meno per il fatto che lo si dice, analogamente al fatto che dire che tutto è falso implica la falsità anche di tale affermazione
-la realtà per come è si accompagna sempre necessariamente al dire e pensarla. Non può esistere l'una senza l'altra, e al significare qualcosa (per chi?).
-il fatto che la realtà la dico e la penso del tutto indipendente da quello che ne dico e ne penso equivarrebbe al non dirne nulla da parte mia.
Chiudo definitivamente per parte mia questa discussione (anche se suppongo che in risposta a questo intervento reitererai nuovamente stesse tue argomentazioni un' altra volta ancora: questa volta le ignorerò) ritenendo provato oltre ogni ragionevole dubbio che proseguirla con ulteriori illimitate ripetizioni degli stessi ragionamenti non sia che un' inutile (e a questo punto, non so per te ma per me sicuramente, anche fastidiosa) perdita di tempo.
Ti saluto cordialmente.