Premesso che sono un pò emozionato nell'esordire in questo forum aprendo un nuovo topic e che spero di non apparire troppo presuntuoso, volevo approfondire il tema del rapporto tra filosofia e storia della filosofia introducendo l'argomento e provando ad esprimere le mie idee in modo più chiaro possibile...
Tra filosofia e storia della filosofia c'è identità o distinzione? La motivazione iniziale che spinge ad avvicinarsi all'interesse per tematiche filosofiche non è secondo me principalmente di carattere storiografico: gli eventi, le esperienze della vita ci portano a fare domande del tipo "c'è vita dopo la morte?" "quali sono i fondamenti della nostra conoscenza", "siamo veramente responsabili delle nostre azioni?" "da dove proviene il male", "quali sono i valori a cui dovrebbe ispirarsi la politica?" ecc. Ora, le risposte che cerchiamo non riguardano il sapere le risposte che i filosofi del passato hanno dato, ma riguardano la verità oggettiva, reale circa questi temi, non interessa principalmente sapere "cosa ne pensava Platone" "cosa ne pensava Hegel", ma "qual è la verità dal punto di vista della realtà, indipendetemente da ciò che ne pensava Tizio o Caio?". Quando poi, si tratta di entrare nel sistema scolastico (parlo della scuola superiore italiana, negli altri paesi non so bene), lo studio della filosofia viene strutturato come una successione storica, una carrellata di autori. Invece di scandire l'insegnamento in modo tematico "la coscienza, la libertà, la natura, la tecnica, la religione ecc." lo si fà in modo diacronico per autori (Talete, Anassimandro, Anassimene e così via). Di fatto la filosofia finisce con il coincidere con la storia della filosofia. Ora, io sono critico verso questa impostazione. Perchè credo conduca di fatto a scavare una larga distanza tra le aspettative di chi si appassiona alla filosofia in quanto interessato a comprendere il reale nella sua attualità oggettiva e ciò che concretamente viene appreso all'interno dell'istituzione culturale che si incarica di fornire un sapere adeguato a rispondere a tali istanze intellettuali. Perchè se a me la filosofia interessa come approccio mentale per comprendere aspetti fondamentali del mondo attuale in cui vivo, il ruolo del maestro di filosofia sarà quello di fornire, attraverso il dialogo, gli strumenti critici e un metodo di pensiero adeguato, con i quali potrò poi autonomamente formare un mio personale punto di vista razionale, non arbitrario, sulla realtà attuale, piuttosto che trasmettere un mero sapere nozionistico legato al passato. Trattando la filosofia come una "storia" si rischia di spezzare il legame tra essa e l'attualità. Ecco perchè per me la filosofia, se vuole essere interrogazione della realtà, deve essere distinta dalla storia della filosofia e il filosofo deve essere colui che usando la propria testa giunge ad elaborare delle proprie idee e non un erudito che si limita ad apprendere informazioni sui filosofi greci o medioevali senza passare per il momento critico che lo porta a discernere i torti e le ragioni all'interno di quei complessi di posizioni così differenziate. Attenzione! Non sto ovviamente sostenendo che conoscere gli autori del passato sia tempo buttato... conoscere il pensiero di chi nel passato si è posto i nostri stessi problemi e ha provato a dare risposte è un utile e importante fonte di ispirazione e stimolo per la formazione delle nostre tesi, solo sto dicendo che il valore veritativo di una tesi filosofica, come di qualunque tesi scientifica, non deve dipendere dal fatto di essere stata sostenuto da un autore invece che da un altro, da Platone invece che da Aristotele, pena il cadere nel dogmatismo e nel principio di autorità ("è così perchè lo dice lui"), ma dalla sua corrsipondenza con la realtà oggettiva. Se è così allora il fondamento del valore filosofico di una tesi non sta nel fatto che quella tesi sia stata appoggiata da alcuni autori del passato, ma va trovato nella nostra esperienza personale e diretta delle cose stesse che costuiscono il problema che ci poniamo, e nella razionalità che cerca di trovare una logica e un ordine al complesso inizialmente caotico dei dati della nostra esperienza, in modo da formare una visione del mondo il più possibile ordinata e adeguata ad interpretare il reale. Inevitabilmente, le filosofie del passato sono spesso utili modelli interpretativi del reale a cui tutti noi ci ispiriamo, ma credo che il "grosso" del lavoro teoretico debba consistere nella riflessione personale che porta quei modelli ad essere giudicati raffontandoli con la nostra ragione ed esperienza che compiamo in prima persona. Solo così la filosofia resta sapere critico e non uno scavo archeologico che cade nel citazionismo.
Il discorso che sto facendo presuppone però di base la risposta a una domanda fondamentale: la filosofia è scoperta della verità (realismo) o creazione della verità (idealismo)? Nella prima ipotesi (quella su cui io convengo ma questo non è importante) la filosofia è autonoma dalla storia della filosofia, in quanto i suoi concetti hanno un valore oggettivo poichè corrispondenti, husserlianamente parlando, alle "cose stesse", aspetti del mondo reale che danno a quei concetti un senso perennemente attuale, indipendentemente dal riferimento alle opinioni dei pensatori che ci hanno preceduto. Le "cose stesse" in ogni momento possono essere scoperte ed osservate nell'esperienza attuale di ognuno che sia interessato a rifletterci su. Nella seconda ipotesi invece filosofia e storia della filosofia coincidono in quanto la comprensione dei concetti implica il risalire a ciò che li ha creati, vale a dire l'attività pensante che si dà nella storia. La filosofia coinciderebbe con il suo sviluppo storico, ogni singolo pensatore non farebbe altro che aggiungere un mattone a un edificio perennemente in costruzione che però è unico in quanto assorbe sinteticamente in sè tutte le posizioni succedutesi, solo apparentemente contrastanti tra loro, ma in realtà inglobate in un pensiero unico in continua progressione. Una visione tipicamente idealista che mi lascia fortemente perplesso (ma non ne voglio parlare ora, sono già stato troppo lungo). Non a caso, l'impianto storicistico dell'insegnamento della filosofia in Italia può essere visto come il portato di un dominio nella nostra cultura per larga parte del '900 del neoidealismo di Gentile e Croce...
Spero che il discorso sia risultato interessante per alcuni, o quantomeno sufficientemente chiaro, scusate il mio essere prolisso...
Hai portato una carrellata di domande a cui magari rispondo nel "mentre".
La cosa che mi colpisce è come la prassi della Scienza ormai abbia livellato un intera generazione di giovani (lo so che non espliciti, ma credo, nel caso mi scuso vivamente, tu sia in quella fascia 14-25.)
Per questo tralascio le altre domande: la prassi dei vecchi filosofi, con ancora qualche barlume di intelligenza riguardo alla storia delle idee, e non delle prassi, riguarderebbe il far intendere che la filosofia è anzitutto un modo di "stare nel mondo", per comprenderlo, per poterlo criticare, verificare, e per poterne decidere al meglio delle nostre possibilità.
In questo senso la "storia della filosofia" è solo un mezzo, che la si faccia come diacronica, o tematica (come nel caso isolato di Rossi), non cambia granchè.
E' il merito quello che conta.
E il merito è purtroppo la "prassi", perciò quando ascolto le ormai pubbliche lezioni di insegnanti di filosofia (di licei suppongo), anche quando tentino (in pochi casi, ne ho visti 2 su una mezza dozzina di esempi) di fare parallelismi con l'attualità: risultano veramente patetici (mia opinione per altro).
Non hanno idea. Non si accorgono della svolta epocale culturale.
All'Università invece si accorgono (d'altronde le cattedre sono occupate da gente che lo fa per mestiere, il filosofo, intendo, non l'insegnante).
Normalmente si cerca di avvicinare la questione che tu chiami idealismo-realismo, ossia la questione di unire scienza e filosofia.
Io non sono affatto d'accordo, mi spiace se mi ripeto : La scienza è la nostra nemica.
E quindi il realismo è il nostro nemico.
A questo punto chiarita la questione che partiamo da due punti di approdo diversi, se non opposti (per me di certo antagonisti).
Possiamo andare a cercare possibili risposte "neutre".
Vedi! la manualistica sbaglia! e sbaglia da tempo, quando propone i filosofi come antagonisti, al che sembra che quando un filosofo succeda un altro, siamo di fronte ad una sorta di negazione del precedente.
Il risultato finale, a livello generale, è che il filosofo risulti un semplice opinionista, e che all'uno si possa sostituire l'altro.
Non è chiaro che cosa invece li "regga" quale è il filo rosso che li accomuna, per cui sia possibile dire che oltre che una "storia della filosofia" esiste anche una "filosofia".
Poichè qui non mi è possibile sintetizzare, sia perchè non sono un professionista della storia della filosofia, sia perchè dal mio punto di vista, l'urgenza storica costringe a guardare altrove, mi limiterò a introdurre la questione, per vedere se intanto ci sarà voglia di approfondire e ragionar "sopra".
1. La filosofia è la questione Metafisica (da Aristotele in poi sistematizzata, ma insita anche prima di lui, molto prima di lui).
2. La Metafisica è anche la Scienza.
3. La Metafisica è Morta.
Ma la filosofia in generale è una prassi, una delle prassi. (non è la prassi)
Nella questione dell'accezione moderna, la filosofia è morta, in quanto metafisica.
Eppure viene ancora insegnata.
Il giovane si ritrova sospeso tra 2 mondi, quello liceale-universitario che promette avventure metafisiche/ideali, e quello delle sue prassi, che lo inglobano come schiavo della società dello spettacolo e della tecnica, oggi nominata società liquida.
Non sono un sociologo ma non mi rimane che descrivere ciò che ho davanti a me quotidianamente, o anche su questo forum.
La questione non riguarda più la filosofia come metafisica, ma la nozionistica come scuola di vita, come mezzo di controllo delle prassi che ci circondano.
Ciò di cui non ci si accorge è che non si ragiona più sulla questione della nozionistica: il sapere se fosse così, sarebbe frammentato, incompleto, ideologico (nel senso deleterio del termine).
Il giovane oggi è così, a livello psicologico: totalmente in balia della sua mancanza di costruttività ideologica (nel senso idealista, positivo), pertanto alla mercè dei suoi oggetti, del suo costituirsi in relazione agli altri, solo tramite smartphone, per la stragrande maggioranza delle volte.
Non è un grande problema, non per me per lo meno, non devo insegnare niente a nessuno.
Semplicemente abbiamo un nuovo tipo di soggettività con le sue problematiche.
Queste problematiche all'università vengono enunciate come scetticismo estremo, come volontà di dominare il problema filosofico, ma solo quando il problema si ponga in qualità tecno-logica.
Non è dunque più questione Metafisica, quella su cui dibattevano TUTTI i filosofi del passato.
Il giovane sa con una certezza che nasce dalla nozionistica dei manuali (che a loro volta sono figli della morte della metafisica) che la metafisica è morta, si è fatta opinione, religione da due soldi, da sventolamenti di bandiere e cappellini di fronte al Papa, di fronte al calcio, al concerto, al talk show etc..etc....
Dunque siamo nell'età del paradosso. L'età in cui, come molti vecchi filosofi marpioni, che la sanno lunga, sono consapevoli che sta per nascere una nuova pratica, che francamente forse si chiamerà ancora filosofia ma sarà tutt'altra cosa.
Ossia Analitica Americana, con la storia della filosofia che cercherà nei suoi antenati tracce di filosofia naturale (quando invece era sempre stata una questione di spiritulità.)
Ora per tornare a noi, spero tu capisca come fare il parallelismo tra 2 posizioni, quando la posizione è una sola, è quella che io chiamo "accademia".
Un'interrogazione oziosa, su chi "vince".
Lo sai anche tu che la "tua" posizione è vincente, perchè è la posizione di questa società, la nostra intendo.
Se la volessi invece sviscerare, almeno con me, riprendendo i tre punti da me sopra elencati.
(e quindi sorry! cambiando le domane), sono a piena disposizione.
CIAO!
nb risposte brevi
Tra filosofia e storia della filosofia c'è identità o distinzione?
(c'era unità oggi c'è distinzione).
"c'è vita dopo la morte?"
(una volta c'era la questione, oggi la questione (non la risposta) è sistematicamente "dimenticata")
quali sono i fondamenti della nostra conoscenza?
(questione della scienza, nonostante kant)
siamo veramente responsabili delle nostre azioni?
(questione dalle mille prospettive)
da dove proviene il male?
(idem come per la morte: sistematica dimenticanza)
quali sono i valori a cui dovrebbe ispirarsi la politica?
(troppo tardi, la questione ora, è un altra)
Di fatto la filosofia finisce con il coincidere con la storia della filosofia
(se intendi nozionistica, nì, c'è la questione della verificazione scientifica)
con i quali potrò poi autonomamente formare un mio personale punto di vista razionale, non arbitrario, sulla realtà attuale, piuttosto che trasmettere un mero sapere nozionistico legato al passato.
(Ecco appunto! verificazione scientifica! Non sono d'accordo!)
Trattando la filosofia come una "storia" si rischia di spezzare il legame tra essa e l'attualità
(oppure rendere scandaloso come l'attualità funzioni ai giorni nostri, questione di punti di vista).
Ecco perchè per me la filosofia, se vuole essere interrogazione della realtà, deve essere distinta dalla storia della filosofia e il filosofo deve essere colui che usando la propria testa giunge ad elaborare delle proprie idee e non un erudito che si limita ad apprendere informazioni sui filosofi greci o medioevali senza passare per il momento critico che lo porta a discernere i torti e le ragioni all'interno di quei complessi di posizioni così differenziate.
(spero almeno di averti fatto capire, che se fosse vero quanto dico, la tua frase, non solo aderisce alla eversione del filosofico che testimonio, ma anche come il tutto debba essere ridefinito come nuove condizioni del filosofico, per quanto riguarda la manualistica, si può sempre riscrivere!! d'altronde anche la Bibbia è una scelta di un materiale molto più vasto, e comunque rielaborato. Insomma non sarebbe più quello il problema).
Ringrazio Green demetr per l'attenzione per le mie 4 righe...
Ho 30 anni, oltre la fascia 14-25 comunque nessun problema, anzi è comunque possibile che io appaia più giovane di quello che sono magari per una certa ingenuità nell'argomentare, lo ammetto...
Non so se sono riuscito a comprendere bene in profondità le tue osservazioni, comunque provo a fare qualche considerazione che potrebbe benissimo lasciare il tempo che trova.
La questione idealismo-realismo non la considero come "la questione di unire la scienza alla filosofia". La considero come il problema di stabilire l'indipendenza o la dipendenza dell'essere dal pensiero, la questione se la pensabilità sia condizione necessaria o meno dell'esistenza delle cose (sono ovviamente consapevole che il discorso è ipercomplesso, che c'è una vasta gamma di posizioni intermedie, ma devo forzatamente sintetizzare). Vero che tutto questa c'entra tantissimo con il nesso filosofia-scienza ma non nel senso che il realismo sostenga l'unità o l'identità tra filosofia e scienza, ma nel senso che nel realismo, per il quale la verità è corrispondenza tra discorso e realtà, la filosofia diventa una scienza e non un'arte, una conoscenza nella quale il pensiero mira a scoprire una realtà che è tale indipendentemente dalle opinioni dei singoli, mentre se idealisticamente la verità non è scoperta ma creazione da parte della soggettività pensante, la filosofia, i concetti filosofici diverrebbero di fatto creazioni soggettive, convenzionali, slegate dal rapporto con la realtà oggettiva. Ciò è la ragione per cui al di là degli effettivi sviluppi storici che sembrebbero contraddire ciò, un idealismo coerente con se stesso dovrebbe concludere nel relativismo che sradica qualunque criterio oggettivo di verità.
Forse c'è un equivoco sui miei riferimenti all' "attualità". Non intendevo attualità nel senso dell'attualità contingente, la notizia del giorno, lo scoop giornalistico... la intendevo nel contesto del rapporto filosofia-storia della filosofia, e volevo sottolineare come la realtà che la filosofia cerca di indagare sia un nucleo di verità valide indipendentemente dalla contingenza spaziotemporale, mentre l'identificazione filosofia-storia della filosofia produrebbe in chi studia l'idea che ogni pensiero filosofico sia comprensibile solo all'interno della limitatezza del contesto storico in cui è sorto cosicchè un'idea prodotta nell'ottocento non sarebbe più valida nel novecento cadendo nel relativismo e portando nell'insensatezza ogni tentativo di soluzione dei problemi esistenziali. Quindi l'attualità nel mio discorso andava intesa come qualcosa di "perennemente attuale", attualità come realtà concretamente presente nella nostra vita, oggettiva. Tu scrivi che la storia della filosofia renderebbe "scandaloso come l'attualità funzioni a giorni nostri". Hai ragione, ma forse il compito di investigare i mutamenti storici culturali, politici, economici, di costume andrebbe più demandato alle scienze umane sperimentali come la sociologia piuttosto che alla filosofia, la cui razionalità a mio avviso è di tipo aprioristico, un sapere "delle essenze" secondo l'ottica fenomenologica, mirante a evidenziare la dimensione dei principi, dei fondamenti, non qualcosa di empirico
Questo ci porta al discorso della metafisica, se io sostengo che la filosofia vada distinta dalla storia della filosofia allora la filosofia recupera un oggetto di indagine come livello di una realtà distinta dal divenire temporale, un livello metafisico. Tu parli di "morte della metafisica", che è un'espressione retorica di un certo effetto, che parafrasa il celebre "Dio è morto" nietzschiano. Ma è chiaro se per metafisica si intende una dimensione dell'essere che pretende di essere reale allora non ha senso parlare, neanche in senso metaforico, di una "nascita" o di una "morte", la metafisica, una realtà che va oltre la fisica, o c'è sempre stata o mai! Non va confusa la metafisica con l'interesse che il clima culturale odierno può nutrire per le questioni ad essa legate, il fatto che il clima culturale sia più orientato alle attuali "prassi", l'alienazione dell'uomo verso degli oggetti del mondo della tecnica che conquistano il predominio della sua attenzione e dei suoi interessi mentre si perde di vista un'orizzonte ideale-finalistico (provo maldestramente a intepretare il tuo discorso) verso il quale rivolgere la direzione del nostro agire, non vuol dire morte della metafisica, vuol dire semplicemente che viene disconosciuta o confusa con fenomeni mediatici che si propongono come improbabili surrogati (la tua citazione dei cappellini dei papa boys). In un mondo in cui nessuno si pone più il problema di Dio e dell'anima Dio e l'anima continuerebbero a esistere (o a non esistere) e con essi la metafisica non morirebbe (o comunque non sarebbe mai nata). Tu stesso parli di un "dimenticare" la questione della vita dopo la morte e dell'origine del male che però riguarderebbe le questioni ma non le eventuali risposte. Bene, questo è il punto, è sufficiente che le risposte non cadano nell'oblio perchè non si debba annunciare la morte della metafisica
Non credo che la mia posizione vada considerata "vincente" nella società che tu leggi come costituita nel predominio della tecnica e della riduzione della filosofia a "prassi scientifica". Sì, per me la filosofia è scienza, ma non nel senso di "verificazione", di quel verificazionismo induttivista abilmente attaccato da Popper La scientificità della filosofia consiste in una razionalità aprioristica prevalentemente deduttiva, dialettica, questo la differenzia dalle altre scienze, dalle scienze di tipo sperimentale. E dalla differenza dei metodi discende la differenza dell'oggetto di indagine, l'oggetto della scientificità filosofica (e metafisica) non è l'oggetto della fisica e della chimica. Cosicchè non ha molto senso sostenere che il mio rivendicare la filosofia come scienza, in nome del realismo e dell'autonomia della filosofia dalla storia della filosofia, si adagi nella giustificazione dell'attuale mentalità sociale utilitarista, che al contrario può crescere e svilupparsi proprio in virtu di un relativismo per cui in assenza di una razionalità capace di comprendere le verità fondamentali ci si limita a porre l'ambito del contingente, dell'utilizzabile, come l'unico possibile per la ragione. E lo storicismo che riduce la filosofia a storia della filosofia è la sorgente che alimenta questo relativismo
Ciao!
Ciao!
Mi intrometto in questa interessante discussione, senza averne la competenza ma...tant'è! ( il desiderio di filosofare è più grande della capacità di farlo... :))
Mi sembra quasi che la filosofia, o per meglio dire la storia della filosofia nel suo insieme, abbia lavorato per distruggere se stessa. La riduzione all'assurdo di qualunque teoria e posizione , sviluppo naturale della dialettica, ha inevitabilmente come risultato la riduzione all'assurdo dell'idea stessa della filosofia come capace di orientare le scelte dell'uomo. Simile ad un abile muratore che di notte disfa la casa che sta costruendo di giorno. Nel vuoto dato dall'opera di demolizione, la Tecnica ( l'idea della tecnica ) ha avuto buon gioco per imporsi in quanto immediatamente esperibile. La tecnica parla ai sensi.
La filosofia "dovrebbe" parlare alla ragione ( e alle ragioni del Cuore), ma la ragione comprende anche la sua negazione, mentre la tecnica no.
Nell'uomo , alla fine , prevale la ragione o prevalgono i sensi ? (anche se la ragione si forma sui dati dei sensi...)
La risposta , mi sembra, la vediamo intorno a noi ogni giorno.
Faticoso, quasi sempre frustrante, è riflettere sulla vita. Quanto più godibile per i sensi è la tecnica. Quanto più soddisfa il desiderio continuo dell'uomo.
L'unica arma rimasta in mano alla filosofia sembra quella di trovare una breccia nell'insoddisfazione data proprio dall'uso degli strumenti della tecnica. Spesso però questa insoddisfazione, sempre più diffusa, inevitabilmente a mio parere, trova la valvola di sfogo in una pseudoreligiosità, in uno pseudomisticismo che...ahimè, parla di nuovo solamente ai sensi.
E il circolo vizioso continua...
Sono molto d'accordo con davintro quando sostiene che è assurdo parlare di morte della metafisica , o di morte di Dio. Se la metafisica esisteva prima, esiste anche ora. Se Dio esisteva prima, esiste anche ora. Che l'uomo ritenga che l'idea della metafisica o di Dio sia superata, non può avere alcun significato per la loro esistenza o inesistenza effettiva. A meno che non riduciamo il reale solamente al pensabile dall'uomo.
Benvenuto nel forum e complimenti per la competenza e la lucidità di esposizione (e non essere troppo modesto!).
Come dici anche tu, filosofia e storia della filosofia sono cose diverse ed entrambe interessantissime (almeno per me; per noi frequentatori del forum).
Pur essendo del tutto alieno all' idealismo e particolarmente "antigentiliano", ho sempre riconosciuto altissimi meriti alla scuola italiana così come realizzata con il contributo decisivo del filosofo dell' attualismo (e ora in avanzata fase di demolizione vandalica).
Sarà perché ho avuto la fortuna di avere ottimi professori al liceo, ma sono contentissimo di avere studiato storia delle filosofia (l' unico limite per me é che si é trattato delle sola filosofia occidentale, con totale ignoranza di quelle orientali, la cui non conoscenza mi pesa non poco).
Studiando i maggiori filosofi (e approfondendo con letture dirette quelli che si trovano più interessanti) ognuno é potentemente aiutato a risolvere i problemi filosofici fondamentali (non solo dalla lettura delle posizioni che si condividono come espresse e declinate dai grandi del pensiero, ma anche confrontandosi criticamente con le tesi che si disapprovano).
Invece non credo che sarebbe realizzabile proficuamente un insegnamento scolastico della filosofia sistematica, se non altro perché inevitabilmente ciascun insegnante seguirebbe una certa corrente e sarebbe dificilmente in grado di esporre al meglio le altre (ovviamente ciò vale, ma in misura per me molto minore, anche per l' insegnamento della storia della filosofia; che inoltre lascia molto più spazio all' iniziativa personale nell' approfondimento degli autori che ciascuno reputa più interessanti)
La filosofia (l' affontare i vari problemi filosofici) ognuno la coltiva nell' ambiente in cui vive (famiglia, amici -personalmente ho avuta l' ulteriore fortuna di conoscere in gioventù, nei lontani anni '60, coetanei di grande intelligenza, cultura, sensibilità ai problemi foilosofici, etici, sociali, poltici, scientifici- lettura di libri e riviste, partecipazione a eventi culturali, mezzi di comunicazione di massa nella ahimè limitissima misura in cui non si perdono dietro a gossip, oroscopi e cazzate varie).
Credo ci sia un certo malinteso fra te e Green Demetr su scienza e filosofia.
Per quel che pare di capire a me tu per "filosofia scientifica" intendi sostanzialmente non "superamento della filosofia da parte delle scienze empirche naturali" (il vecchio positivismo spesso "riverniciato a nuovo"), ma una ricerca filosofica razionalistica.
Se é così concordo in pieno!
Citazione di: davintro il 22 Aprile 2016, 17:53:45 PM
Il discorso che sto facendo presuppone però di base la risposta a una domanda fondamentale: la filosofia è scoperta della verità (realismo) o creazione della verità (idealismo)? Nella prima ipotesi (quella su cui io convengo ma questo non è importante) la filosofia è autonoma dalla storia della filosofia, in quanto i suoi concetti hanno un valore oggettivo poichè corrispondenti, husserlianamente parlando, alle "cose stesse", aspetti del mondo reale che danno a quei concetti un senso perennemente attuale, indipendentemente dal riferimento alle opinioni dei pensatori che ci hanno preceduto. Le "cose stesse" in ogni momento possono essere scoperte ed osservate nell'esperienza attuale di ognuno che sia interessato a rifletterci su. Nella seconda ipotesi invece filosofia e storia della filosofia coincidono in quanto la comprensione dei concetti implica il risalire a ciò che li ha creati, vale a dire l'attività pensante che si dà nella storia. La filosofia coinciderebbe con il suo sviluppo storico, ogni singolo pensatore non farebbe altro che aggiungere un mattone a un edificio perennemente in costruzione che però è unico in quanto assorbe sinteticamente in sè tutte le posizioni succedutesi, solo apparentemente contrastanti tra loro, ma in realtà inglobate in un pensiero unico in continua progressione. Una visione tipicamente idealista che mi lascia fortemente perplesso (ma non ne voglio parlare ora, sono già stato troppo lungo). Non a caso, l'impianto storicistico dell'insegnamento della filosofia in Italia può essere visto come il portato di un dominio nella nostra cultura per larga parte del '900 del neoidealismo di Gentile e Croce...
Ciao davintro, mi soffermo su questa domanda della questione molto interessante da te qui introdotta.
Come è noto la filosofia nasce nel pensiero greco come esigenza di stabilire come stanno veramente le cose, ossia la verità fondamentale che non può essere che la verità del tutto e nasce realistica: c'è una realtà che va detta, che deve farsi discorso, logos, affinché possa essere detta in modo veritiero, coerente con la realtà stessa che sussiste in sé. Il logos è lo strumento che va affinato affinché ciò che si dice restituisca il significato del reale (parafrasando Aristotele e lo stesso Platone, vero è dire vero di ciò che è vero e non vero di ciò che non è vero). In questo la scienza non si è discostata per nulla dal realismo filosofico originario, essa rappresenta solo un affinamento del logos che ha associato al metodo deduttivo originario che parte dalla definizione del principio primo, della unità originaria necessaria a priori, al metodo induttivo che cerca, a mezzo di un grande rigore procedurale predefinito, di risalire alla sostanza formale dei principi. La scienza, come la filosofia classica, non crea la verità, ma la scopre e la scopre in virtù del potente funzionamento del suo metodo che le consente di dire come sta oggettivamente (quindi di per se stessa) la totalità delle cose, di ogni cosa.
Sappiamo anche che questa visione oggettiva è però entrata in crisi proprio con la nascita del razionalismo scientifico: già con Cartesio che fonda il reale sul soggetto pensante, poi con l'empirismo e poi con Kant e la sua critica della ragion pura. A questa crisi l'idealismo hegeliano ha tentato una risposta che ha rappresentato forse l'ultima grande enunciazione metafisica della filosofia. In essa la verità ha perso la sua visione perfettamente statica, per diventare prodotto della storia dialettica dello spirito che la viene continuamente creando verso una totalità di completa sintesi (che per Hegel si trovava nel suo stesso pensiero), in tal modo la verità diventa storia della verità e la filosofia storia della filosofia. Marx si porrà nella stessa direzione, ma immergendo questa dialettica nel reale accadere storico, rappresentandola come lotta di classe determinata dal potere economico finché il pensiero post marxista individuerà nel puro divenire stesso (in ciò che continuamente esso crea e distrugge) il motore di ciò che è reale. Il divenire (come già per Eraclito) prende quindi il posto dell'essere e la storia è la verità-evento che essa viene continuamente creando. La realtà è il mutamento e il suo rivelarsi veritiero è storia (di idee, di popoli, di rapporti economici ecc.), ma la storia, come espressione della pura immanenza diveniente, è ancora un oggetto metafisico, con tutte le pretese metafisiche che le competono su chi solo in essa può esistere come evento.
La storia è, come fa intendere Nietzsche, anche quando si rivela volontà di potenza, solo un cumulo sterminato di rovine. Al nostro sguardo, che vede solo il passato, appare solo il morire di ogni evento che riflette continuamente il nostro stesso morire insieme all'universo intero ed è proprio questo che determina la morte di ogni metafisica e il grande rimpianto per la metafisica dell'essere, per quell'oggettività che fissava una stabilità a fronte di un nichilismo ontologico tanto liberatorio, quanto disperato e vano. E si chiede, di nuovo si chiede, come fa Green, che la filosofia sappia ancora dirci qualcosa, dare indirizzi forse in questo sterminato campo di rovine, ma la filosofia non riesce più a dire nulla che risollevi la speranza metafisica, paradossalmente sembra che solo la scienza, e proprio nella sua versione tecnica e a-storica, possa farlo.
E qui occorrerebbe scendere nel profondo della tecnica. Non c'è dubbio che l'uomo contemporaneo, abitante del liquido Paese della Cuccagna che la tecnologia allestisce continuamente per lui, è l'uomo antiquato di cui parla Gunther Anders, un residuo bio psichico che paga continuamente il prezzo dell'illusione di funzionalità progettata con grande maestria da apprendisti stregoni anch'essi in corso di trasformazione sempre più inumana, ma è anche vero che solo nell'assunzione del proprio fare l'uomo può trovare il senso di se stesso, è solo lì che trova e ha sempre trovato abitazione e quel senso che lo comprende e che lui può comprendere.
Per questo credo che la necessità di una nuova filosofia alla fine non possa che trovare risposta dall'analisi di una storia che ci appartiene, di cui non siamo, ciascuno, per il nostro modo di sentire, di vivere, di pensare, che espressione dialettica di un flusso immane che viene a rappresentare il continuo accadere del mondo in cui tecnicamente, da sempre, siamo chiamati ad abitare, possiamo venire ad abitare.
Intanto ringrazio anche Sariputra, Sgiombo e Maral per il loro interesse e per gli stimoli alla riflessione
Sgiombo scrive:
"Invece non credo che sarebbe realizzabile proficuamente un insegnamento scolastico della filosofia sistematica, se non altro perché inevitabilmente ciascun insegnante seguirebbe una certa corrente e sarebbe dificilmente in grado di esporre al meglio le altre (ovviamente ciò vale, ma in misura per me molto minore, anche per l' insegnamento della storia della filosofia; che inoltre lascia molto più spazio all' iniziativa personale nell' approfondimento degli autori che ciascuno reputa più interessanti)"
Vero, la possibilità di lasciar troppa mano libera al docente che sarebbe portato solo ad esporre solo le correnti filosofiche con cui è d'accordo finendo di fatto con l'indottrinare gli studenti verso una certa direzione di pensiero esiste, ma io credo che questo non sia un aspetto necessariamente inerente un insegnamento di tipo tematico, ma rimanda all'onestà o disonestà intellettuale del professore, variabile che agisce indipendetemente dal modello di insegnamento. Hai ragione quando dici che lo studio degli autori è un aiuto potente per risolvere problemi filosofici, finchè si parla di "aiuto" posso tranquillamente convenire.... ma, il punto è che nel mio post di apertura c'èra anche un sottofondo polemico verso un certo modo di discutere di filosofia, dominato dal citazionismo: cioè pensare che la verità di una tesi filosofica dipenda dal consenso degli autori del passato invece che dal corrispondere alla realtà oggettiva delle cose, capita, nei contesti accademici, di assistere a discussioni filosofiche che finiscono solo con l'essere con un'esposizione di citazioni di autori "Nietzsche ha detto che..." "Sì, ma Hegel ha detto che..." senza argomentare in modo logico le proprie posizioni. Questo è dogmatismo. Invece che portare argomenti che possano razionalmente convicere l'interlocutore si cerca di "intimidirlo" (ed è un atteggiamento molto spiacevole che purtoppo il più delle volte mi sono trovato a subire e che fa soffrire...) citando autori che si presume lui non abbia mai letto dando per scontato che la verità di un discorso sia data quantitativamente dla numero di libri o autori che appoggiano quel discorso. La discussione filosofica finisce col diventare una gara a chi riesce a portare più esempi di autori che sostengono il proprio punto di vista. Questo io contesto. Il riferimento agli autori non deve scomparire ma penso dovrebbe, in sede di discussione teoretica, essere messo in secondo piano rispetto all'analisi logico-deduttiva e dialettica tra i concetti. Gli strumenti fondamentali del filosofare sono l'esperienza diretta delle cose stesse e l'argomentazione logica. Il modello di insegnamento della filosofia che provavo a sostenere è quello tipicamente socratico che emerge in alcuni dialoghi platonici. Socrate non citava autorità per giustificare le sue tesi, non imponeva ex-cathedra le sue idee, ma dialogava con loro in modo paritario stimolando dubbi che spingevano gli interlocutori a ripensare, rimettere in discussione le loro illusorie certezze approfondendo il discorso fino a raggiungere una visione dell cose più razionale rispetto a quella di partenza. Il docente di filosofia dovrebbe essere, socraticamente, una guida per gli studenti che attraverso il dialogo presenta loro diverse possibilità di modelli interpretativi di risoluzione dei problemi fondamentali aiutandoli attraverso la logica a comprendere le implicazioni conseguenti ad ogni singola assunzione di un certo modello: esempi "in cosa consiste la distinzione tra idealismo e realismo" "quali sono le implicazioni conseguenti all'assunzione di un'etica teista", " e le implicazioni teoretiche di un'ontologia materialista e di una visione della natura meccanicista". E queste implicazioni non devono necessariamente identificarsi con gli effettivi sviluppi storici che si sono realizzati nel passato a partire da quelle premesse, ma aperte anche a conclusioni originali che nascono in seno alle discussioni. Non si dovrebbe tanto trasmettere un sapere ma aiutare attraverso una palestra dialettica di continui ragionamenti e discussioni a sviluppare una forma mentis utilizzabile poi da ciascuno, se vorrà, a risolvere autonomamente i vari problemi filosofici. Potrebbe essere tutto questo una possibilità costruttiva?
"Credo ci sia un certo malinteso fra te e Green Demetr su scienza e filosofia.
Per quel che pare di capire a me tu per "filosofia scientifica" intendi sostanzialmente non "superamento della filosofia da parte delle scienze empirche naturali" (il vecchio positivismo spesso "riverniciato a nuovo"), ma una ricerca filosofica razionalistica.
Se é così concordo in pieno!"
Sì, è proprio così! La nozione di scienza non la intendo nel senso comune del termine, scienze naturali di tipo empirico, ma ho in mente il senso più ampio, pregalileiano, per cui "scienza" indica ogni tipo di sapere che sia razionalmente fondato, un sapere che non si limita all'arbitrarietà dell'opinione, ma ricerca dei fondamenti attraverso i quali l'opinione mostra la sua razionalità, la sua aderenza col reale, un sapere comprovato, dimostrato dialetticamente. E in questo senso la filosofia è sicuramente "scienza", nella misura in cui si pone come sapere dei principi primi, delle evidenze originarie a partire dai quali dedurre correttamente un discorso. Nulla di più lontano da me che la mentalità positivista che schiaccia la scientificità sul metodo induttivo delle scienze sperimentali. Se non si è capito ho pochissima simpatia per l'induzione... (se ne riparlerà meglio magari in seguito...) per me un'autentica razionalità e dunque un'autentica scientificità è costituita dalla deduzione
Citazione di: maral il 23 Aprile 2016, 12:17:16 PM
Citazione di: davintro il 22 Aprile 2016, 17:53:45 PMIl discorso che sto facendo presuppone però di base la risposta a una domanda fondamentale: la filosofia è scoperta della verità (realismo) o creazione della verità (idealismo)? Nella prima ipotesi (quella su cui io convengo ma questo non è importante) la filosofia è autonoma dalla storia della filosofia, in quanto i suoi concetti hanno un valore oggettivo poichè corrispondenti, husserlianamente parlando, alle "cose stesse", aspetti del mondo reale che danno a quei concetti un senso perennemente attuale, indipendentemente dal riferimento alle opinioni dei pensatori che ci hanno preceduto. Le "cose stesse" in ogni momento possono essere scoperte ed osservate nell'esperienza attuale di ognuno che sia interessato a rifletterci su. Nella seconda ipotesi invece filosofia e storia della filosofia coincidono in quanto la comprensione dei concetti implica il risalire a ciò che li ha creati, vale a dire l'attività pensante che si dà nella storia. La filosofia coinciderebbe con il suo sviluppo storico, ogni singolo pensatore non farebbe altro che aggiungere un mattone a un edificio perennemente in costruzione che però è unico in quanto assorbe sinteticamente in sè tutte le posizioni succedutesi, solo apparentemente contrastanti tra loro, ma in realtà inglobate in un pensiero unico in continua progressione. Una visione tipicamente idealista che mi lascia fortemente perplesso (ma non ne voglio parlare ora, sono già stato troppo lungo). Non a caso, l'impianto storicistico dell'insegnamento della filosofia in Italia può essere visto come il portato di un dominio nella nostra cultura per larga parte del '900 del neoidealismo di Gentile e Croce...
Ciao davintro, mi soffermo su questa domanda della questione molto interessante da te qui introdotta. Come è noto la filosofia nasce nel pensiero greco come esigenza di stabilire come stanno veramente le cose, ossia la verità fondamentale che non può essere che la verità del tutto e nasce realistica: c'è una realtà che va detta, che deve farsi discorso, logos, affinché possa essere detta in modo veritiero, coerente con la realtà stessa che sussiste in sé. Il logos è lo strumento che va affinato affinché ciò che si dice restituisca il significato del reale (parafrasando Aristotele e lo stesso Platone, vero è dire vero di ciò che è vero e non vero di ciò che non è vero). In questo la scienza non si è discostata per nulla dal realismo filosofico originario, essa rappresenta solo un affinamento del logos che ha associato al metodo deduttivo originario che parte dalla definizione del principio primo, della unità originaria necessaria a priori, al metodo induttivo che cerca, a mezzo di un grande rigore procedurale predefinito, di risalire alla sostanza formale dei principi. La scienza, come la filosofia classica, non crea la verità, ma la scopre e la scopre in virtù del potente funzionamento del suo metodo che le consente di dire come sta oggettivamente (quindi di per se stessa) la totalità delle cose, di ogni cosa. Sappiamo anche che questa visione oggettiva è però entrata in crisi proprio con la nascita del razionalismo scientifico: già con Cartesio che fonda il reale sul soggetto pensante, poi con l'empirismo e poi con Kant e la sua critica della ragion pura. A questa crisi l'idealismo hegeliano ha tentato una risposta che ha rappresentato forse l'ultima grande enunciazione metafisica della filosofia. In essa la verità ha perso la sua visione perfettamente statica, per diventare prodotto della storia dialettica dello spirito che la viene continuamente creando verso una totalità di completa sintesi (che per Hegel si trovava nel suo stesso pensiero), in tal modo la verità diventa storia della verità e la filosofia storia della filosofia. Marx si porrà nella stessa direzione, ma immergendo questa dialettica nel reale accadere storico, rappresentandola come lotta di classe determinata dal potere economico finché il pensiero post marxista individuerà nel puro divenire stesso (in ciò che continuamente esso crea e distrugge) il motore di ciò che è reale. Il divenire (come già per Eraclito) prende quindi il posto dell'essere e la storia è la verità-evento che essa viene continuamente creando. La realtà è il mutamento e il suo rivelarsi veritiero è storia (di idee, di popoli, di rapporti economici ecc.), ma la storia, come espressione della pura immanenza diveniente, è ancora un oggetto metafisico, con tutte le pretese metafisiche che le competono su chi solo in essa può esistere come evento. La storia è, come fa intendere Nietzsche, anche quando si rivela volontà di potenza, solo un cumulo sterminato di rovine. Al nostro sguardo, che vede solo il passato, appare solo il morire di ogni evento che riflette continuamente il nostro stesso morire insieme all'universo intero ed è proprio questo che determina la morte di ogni metafisica e il grande rimpianto per la metafisica dell'essere, per quell'oggettività che fissava una stabilità a fronte di un nichilismo ontologico tanto liberatorio, quanto disperato e vano. E si chiede, di nuovo si chiede, come fa Green, che la filosofia sappia ancora dirci qualcosa, dare indirizzi forse in questo sterminato campo di rovine, ma la filosofia non riesce più a dire nulla che risollevi la speranza metafisica, paradossalmente sembra che solo la scienza, e proprio nella sua versione tecnica e a-storica, possa farlo. E qui occorrerebbe scendere nel profondo della tecnica. Non c'è dubbio che l'uomo contemporaneo, abitante del liquido Paese della Cuccagna che la tecnologia allestisce continuamente per lui, è l'uomo antiquato di cui parla Gunther Anders, un residuo bio psichico che paga continuamente il prezzo dell'illusione di funzionalità progettata con grande maestria da apprendisti stregoni anch'essi in corso di trasformazione sempre più inumana, ma è anche vero che solo nell'assunzione del proprio fare l'uomo può trovare il senso di se stesso, è solo lì che trova e ha sempre trovato abitazione e quel senso che lo comprende e che lui può comprendere. Per questo credo che la necessità di una nuova filosofia alla fine non possa che trovare risposta dall'analisi di una storia che ci appartiene, di cui non siamo, ciascuno, per il nostro modo di sentire, di vivere, di pensare, che espressione dialettica di un flusso immane che viene a rappresentare il continuo accadere del mondo in cui tecnicamente, da sempre, siamo chiamati ad abitare, possiamo venire ad abitare.
La tua esposizione storica è ottima e chiara nella sua sinteticità... ma ciò che non condivido è l'idea che il superamento del modello metafisico realista debba essere accettato a partire dalla mera constatazione dello sviluppo della storia della filosofia che ha visto pensatori opporsi a quel modello. Non dobbiamo confondere due piani che sono distinti: il piano della verità e il piano delle opinioni circa la verità: il fatto che dalla modernità in poi il realismo metafisico abbia perso il predominio culturale della scena filosofica riguarda il piano delle opinioni, non necessariamente della verità. La verità filosofica non è la moda del momento, la verità di un pensatore non dipende dal fatto che è vissuto in un certo periodo invece che un altro. Che Marx ed Hegel siano vissuti dopo Platone ed Aristotele non implica che quelli abbiano avuto più ragione di questi. Del resto pensare che la constatazione del divenire storico dei pensieri debba determinare la verità oggettiva di questi pensieri è possibile solo a una condizione: pensare ottimisticamente e finalisticamente la storia come un continuo progresso verso la verità e il bene, e che dunque chi viene dopo ha più ragione di chi viene prima... solo che già questa è una visione evidentemente metafisica che implicherebbe per chi la sostiene una visione della filosofia che andrebbe molto al di là del ruolo che mi pare tu attribuisca alla filosofia, il ruolo di una cito,
"analisi di una storia che ci appartiene, di cui non siamo, ciascuno, per il nostro modo di sentire, di vivere, di pensare, che espressione dialettica di un flusso immane che viene a rappresentare il continuo accadere del mondo in cui tecnicamente, da sempre, siamo chiamati ad abitare, possiamo venire ad abitare"
Questa idea della storia come progresso implicherebbe l'idea della storia come svolgimento di una logica, di un ordine che la governa, orienta il suo divenire ma che di per sè si afferma come logica e ordine immutabile, un'immutabilità che governa il mutabile verso il progresso, verso un fine... e la filosofia che riconosce tale logica è un sapere dell'immutabile. La visione della storia come progresso non è una visione, dal punto di vista formale, storica, ma sovratemporale, teologica, escatologica o altrimenti il divenire, lasciato a se stesso, assolutizzato, sarebbe solo caos, non progresso..., secondo me. Facciamo un breve raffronto con la storia di un singolo individuo: certamente io so di essere cambiato da quando ero un bambino e so che invecchiando cambierò ancora, continuamente... ma proprio questa percezione del mutamento è resa possibile dal riconoscimento di qualcosa sottostante che permane stabile ... perchè per sapere di cambiare ho bisogno che le varie fasi del cambiamento si riferiscano allo stesso individuo, il mio "io", che riconosce di essere sempre se stesso in base a qualcosa che permane come immutabile intorno a cui il divenire ruota intorno ma che non può cancellare. Il bambino che ero e il trentenne che sono ora sono diversi ma appartengono al mio stesso "me stesso" e la coscienza di questo "me stesso" (autocoscienza) presuppone un qualcosa di me che resta identico a sè, l'identità personale. Senza di essa non avrei memoria della continuità tra il mio passato e il mio presente e dunque neanche del cambiamento. Il cambiamento implica la memoria, questa la durata e la durata il riconoscimento di qualcosa che dura, che non cambia. Ecco perchè la distinzione aristotelica tra sostanza, ciò che permane necessariamente, e gli accidenti, ciò che è contingente, può cambiare, resta una verità fondamentale. Ed ecco perchè, pensando la storia non come caos ma come organismo, va distinto il ruolo della filosofia come individuazione della sostanza, la logica sovrastorica che fonda il flusso degli eventi e l'accidentalità, il divenire stesso degli eventi il cui sapere sarebbe meglio delegare agli storici di professione, agli "empirici"
Che si intenda la storia come progresso o meno dunque la ricerca della verità delle cose resta autonoma dalla verità riguardo il succedersi delle opinioni, delle mode di pensiero, degli orientamenti via via contingentemente dominanti. L'effettivo accadere degli sviluppi storici non mi impedisce di poter recuperare ad esempio proprio ciò che tu giustamente poni come culla della filosofia moderna, il cogito cartesiano, come punto di partenza non dell'idealismo storicista moderno, ma, ad esempio della fenomenologia husserliana, che recupera a suo modo questa idea della coscienza come indubitabile punto di partenza della filosofia (grazie all'epoche) ma che mi sembra abbia poco a che fare con Hegel o col marxismo.... Sta qui l'autonomia di un'analisi logico-teoretica dei concetti (filosofia) da loro fattualizzarsi storico (storia della filosofia)
Sono così perfettamente d'accordo con Sariputra quando scrive che
"è assurdo parlare di morte della metafisica , o di morte di Dio. Se la metafisica esisteva prima, esiste anche ora. Se Dio esisteva prima, esiste anche ora. Che l'uomo ritenga che l'idea della metafisica o di Dio sia superata, non può avere alcun significato per la loro esistenza o inesistenza effettiva. A meno che non riduciamo il reale solamente al pensabile dall'uomo"
Per quanto riguarda il rapporto tra senso e prassi sarebbe interessante chiarire meglio il punto... per ora mi limito a dire che non penso che la prassi debba essere il fondamento del senso, ma trovo più convincente l'opposto: le azioni che noi compiamo nella storia assumono un significato a partire da criteri di giudizio, valori e principi che trovano in loro stessi la loro ragion d'essere, e che quindi assumiamo come "assoluti", mentre se fossero storici, contingenti, richiederebbero di essere fondati a partire da altri criteri e così via all'infinito, un'infinita catena aporetica di richiesta di fondamenti che lascierebbe nel relativistico, e dunque nell'insensatezza, ogni giudizio, ogni critica, ogni valutazione della storia. Ancora, il senso della storia, del divenire presuppone la presenza del sovrastorico. Non credo che la prassi considerata in sè stessa dia senso alla vita... non è l' "agire per l'agire" ciò in cui trova un senso la vita, ma un agire coerente ed adeguato con dei valori e delle verità in base alla quale scegliamo di vivere la nostra vita. L'agire concretizza nella storia i valori che riconosciamo come universali, ma sono questi ultimi che danno senso un senso alla prassi, altrimenti mancheremmo delle categorie per giudicare in modo differente le differenti forme storiche della prassi.
Magari la mia esperienza può darti uno spunto. A quindici anni ho preso in mano la storia della filosofia di Bertrand Russel, me la sono letta tutta in qualche giorno, con il senno di poi credo di averci capito poco (non avevo un percorso scolastico adatto a sostenere la mia curiosità, ma l'ho riletta dopo), ma perlomeno ero riuscito a dividere per temi ed etichette di vario genere il lungo elenco di filosofi. Ho proseguito i miei studi autodidatti esplorando le tematiche che più mi incuriosivano al momento, e scegliendo i filosofi in base a quanto avevo letto nel piccolo manuale di Russel, tematica per tematica. Tutt'oggi mi mancano le letture di molti filosofi che hanno trattato temi che non erano di mio interesse. Questo è un po il modus operandi che preferiresti giusto?
Ti posso solo dire cosa penso oggi, a distanza di trentanni. Non mi sono mai fidato di chi dice di essersi interessato alla filosofia per rispondere alle "grandi domande", la curiosità e l'amore per la conoscenza è una febbre indistinta verso ogni domanda, il fatto che alcune siano insolute da molto tempo non le rende più appetibili o prioritarie, il mio percorso personale non mi ha permesso di mitologizzare le domande in funzione della loro cronicità. Pensare a se stessi come crucciati dalle "grandi domande" piace a molti, io mi chiedo più spesso dove ho lasciato le chiavi. Non mi sono mai fidato dei testi dove compaiono troppe maiuscole, li evito a distanza, il citazionismo è la versione morbosa del nozionismo, una forma di narcisismo per procura, dove si ostenta fasulla umiltà facendo dire ad altri ciò che in realtà è il nostro ragionamento pensando di apparire più digeribili, e più autorevoli nel convincere gli altri; non mi mancano le nozioni per capirli, semplicemente ne disprezzo la disonestà espositiva a priori. Non mi fido di chi non rispetta l'ignoto e il misterioso, di chi allunga i propri tentacoli sull'inconosciuto tramite verbose opinioni fondate su concetti letti appunto in storia della filosofia, senza avere alcun desiderio di entrare nelle cose, ma solo di accarezzarle per appoggiarvi le proprie teorie per apparire saggi allo specchio. Le parole da mezzo diventano fine, e qui sta la differenza tra scoperta e creazione della verità, la prima è un arte che rinfranca lo spirito (e a volte delude) la seconda è un arte che non delude mai, ma rinfranca solo il proprio ego.
Ecco, probabilmente sono un pessimo filosofo (a me va benissimo) ma siccome sono il prodotto di quel metodo che tu preferiresti, ti metto in guardia, produrebbe allora solo altri pessimi filosofi.
Leggendo la tua risposta mi sento di dover precisare che non intendo la storia idealisticamente come un progresso verso la verità (come Hegel, come Marx e, come se vogliamo, tutto il pensiero escatologico di matrice cristiana di cui comunque il nostro modo di pensare è il risultato, anche nel punto di arrivo scientifico attuale), ma la storia stessa come verità, poiché in essa la verità appare per ciò che originariamente ed eternamente è, proprio come io e te e ogni altro siamo sempre noi stessi nella storia della nostra vita, non siamo più veri mano a mano che cresciamo, ma la verità della nostra vita è data solo dal suo dipanarsi e non da un ente immobile posto al di sopra di essa come essenza in sé stante di ciò che siamo.
Il bambino vede il suo io nella sua storia di bambino e così il giovane, l'adulto e poi il vecchio che si ritrova nei ricordi che ancora conserva, in questi ricordi, i nostri resti vediamo l'identità di un io che da essi solo è riflesso. L'io è fenomeno riflesso dalla memoria dei resti che ha prodotto, prima di potersi concepire come soggetto del cogito. E la memoria di ciò che abbiamo fatto che ci dice chi siamo, ha a sua volta una storia e non è scissa da ciò che veniamo a essere.
E' vero che la prassi del divenire è priva di senso, ma il senso di questa prassi sta appunto nel suo apparire alla coscienza. è la coscienza che dà senso a quel continuo accadere che già si allontana, per farsi riconoscere come un accaduto lasciando posto a un nuovo accadere che si preannuncia dal passato, ma la stessa coscienza appartiene a questo fluire, non è fuori da esso, è il suo immane e continuo apparire che si vede storia di un soggetto nel mondo in quanto accadimento di tutta la storia del mondo. Non si tratta allora di fare della prassi un nuovo assoluto metafisico che non può che alienare ancora di più l'uomo, ma di aderirvi per partecipare dell'immane bellezza e verità che il fare dispiega, comprendendo in sé, nel più semplice e fuggevole dei suoi accadimenti, ogni passato e quindi ogni atteso futuro.
Questo intendevo dicendo che la verità è la storia della verità: è storia dell'apparire infinito della verità in ogni esistente in cui essa prima in un modo, poi in un altro, parimenti, ma sempre diversamente, accade.
Davintro ha scritto:
CitazioneInvece di scandire l'insegnamento in modo tematico "la coscienza, la libertà, la natura, la tecnica, la religione ecc." lo si fà in modo diacronico per autori (Talete, Anassimandro, Anassimene e così via). Di fatto la filosofia finisce con il coincidere con la storia della filosofia. Ora, io sono critico verso questa impostazione.
......
Perchè se a me la filosofia interessa come approccio mentale per comprendere aspetti fondamentali del mondo attuale in cui vivo, il ruolo del maestro di filosofia sarà quello di fornire, attraverso il dialogo, gli strumenti critici e un metodo di pensiero adeguato, con i quali potrò poi autonomamente formare un mio personale punto di vista razionale, non arbitrario, sulla realtà attuale, piuttosto che trasmettere un mero sapere nozionistico legato al passato.
Sono completamente d'accordo su questo punto. Aggiungo che secondo me la filosofia dovrebbe essere una materia importante nel percorso formativo scolastico. In realtà, filosofia non è altro che cercare risposte a domande che sorgono nella propria coscienza su temi di varia natura, tendendo a scavare il più possibile, ad arrivare alle questioni più fondamentali, e costituisce un importantissimo esercizio mentale e un ottimo modo per sviluppare uno spirito critico e un pensiero (relativamente) indipendente.
Nelle scuole dovrebbe essere innanzitutto esercizio in prima persona del pensiero. L'insegnante dovrebbe stimolare le domande o proporne egli stesso, ma mai proporre delle risposte prima che l'allievo si sia spremuto un po' il cervello per trovare autonomamente delle risposte.
La filosofia non è come una disciplina scientifica o pratica in cui "imparare" è l'aspetto principale. Per capire qualcosa di un problema come quelli che citi:
Citazione"quali sono i fondamenti della nostra conoscenza", "siamo veramente responsabili delle nostre azioni?" "da dove proviene il male"...
bisogna prima porsi la domanda e cercare nella propria mente, in base alla propria esperienza, la risposta. A quel punto diventa assai più interessante apprendere cosa altri pensavano o pensano sullo stesso argomento, e si corre meno il rischio di subire passivamente le idee altrui. Il secondo stadio dovrebbe essere al discussione tra gli allievi col coordinamento e l'eventuale partecipazione dell'insegnante (o meglio dell'"allenatore") e solo come terzo stadio si dovrebbero introdurre le principali correnti di pensiero sul tema prescelto e magari un approfondimento su qualche particolare filosofo anche con gruppi di studio o approfondimenti personali. Insomma, secondo me non ci dovrebbero essere
lezioni di filosofia, ma
discussioni di filosofia, confronti di idee integrati con lo studio delle idee espresse dai filosofi del passato e del presente. E, certamente per tema e non per cronologia.
E mai si dovrebbe indurre negli allievi quella sorta di rispetto reverenziale per i "grandi filosofi" che li pone su un piano diverso da ognuno di noi. Ognuno dovrebbe sentirsi perfettamente abilitato a discutere e anche contraddire il pensiero di chichessia, e a concepire idee autonome e magari nuove e originali.
Citazionela filosofia è scoperta della verità (realismo) o creazione della verità (idealismo)?
Posta così la domanda mi suona un po' ambigua, e non mi sembra neppure particolarmente legata a quanto sopra.
C'è una differenza tra la contrapposizione tra realismo e idealismo e quella tra scoperta o creazione della verità (o della realtà).
La prima contrapposizione riguarda la domanda "sono più fondamentali (più reali) le idee, i pensieri, il mondo psichico, oppure la realtà sensibile?".
La seconda invece riguarda più la natura della nostra conoscenza, che questa sia un processo di scoperta di una realtà oggettiva o di costruzione soggettiva della stessa.
Quest'ultimo tema potrebbe essere messo in relazione col discorso precedente, ma è una relazione non fondamentale, nel senso che sia che la "verità" sia scoperta o creata, non sono certo solo i filosofi a scoprirla o crearla, è qualcosa che riguarda ogni singola persona, colta o incolta, intelligente o no, mentalmente "sana" o no, che sappia o no anche solo dell'esistenza di qualcosa chiamata "filosofia".
Per quanto mi riguarda, cerco di attenermi ai fatti: la mia coscienza percepisce un mondo "esterno", sensibile e, con altrettanza evidenza, un modo "interiore", psichico. Non trovo particolari motivi né per ritenere uno dei due più "reale" o più "fondamentale" dell'altro, né tantomeno per assegnare a uno dei due l'etichetta di "illusorio". Mi appaiono piuttosto come i due lati di una moneta o di un foglio di carta: due aspetti inscindibili di una realtà complessiva che li trascende entrambi. Ed entrambi concorrono a formare la "realtà" di ognuno di noi.
Per ora mi limito a questi cenni, dato che l'argomento ha molti risvolti e molte implicazioni.
Come afferma Giorgio Colli nel suo scritto "La nascita della filosofia" questa disciplina, così come ci è stata tramandata dai greci, è una forma letteraria introdotta da Platone (e sviluppata poi da Aristotele). Prima della filosofia vi era la sapienza, espressa attraverso i miti, i simboli, le leggende, le storie, i poemi epici, le tradizioni orali e poi, con la diffusione della scrittura, trasferita nei cosiddetti "testi sacri". La forma letteraria che siamo soliti chiamare filosofia, ovvero la concettualizzazione razionale della sapienza espressa in forma discorsiva, è una decadimento della sapienza perché, come afferma ancora Colli: «quest'ultima (la filosofia ndr) sorge come un fenomeno di decadenza, in quanto "l'amore per la sapienza" sta più in basso della "sapienza". Amore della sapienza non significava infatti, per Platone, aspirazione a qualcosa di mai raggiunto, ma tendenza a recuperare quello che era già stato realizzato e vissuto». La filosofia doveva quindi "evocare" la sapienza, ma non poteva identificarsi con essa (tanto è vero che appunto per quanto riguarda Platone ciò che era più prossimo alla sapienza faceva parte di quelle "dottrine non scritte" che ha citato più volte nelle sue opere). Per sapienza si intende il sapere circa il fondamento del mondo, il principio primo, l'"archè" che via via è stato identificato con cose diverse fino alla nascita dello scetticismo che con i concetti di epochè e afasia ha di fatto chiuso l'epoca della filosofia greca intesa come ricerca della verità trasformandola in filosofia morale con lo stoicismo e le correnti successive. I neoplatonici hanno ripreso quella ricerca e con Plotino hanno raggiunto a mio avviso livelli eccelsi (eguagliati successivamente solo da Meister Eckart), poi pian piano la ricerca si spostata altrove e con la nascita e il successo della scienza la filosofia ha perso progressivamente il proprio appeal trasformandosi in una serie di "sistemi" che ogni pensatore elaborava curandosi solamente della loro coerenza interna e affatto della corrispondenza con la verità. La storia della filosofia è uno sterile e arido elenco di queste diverse visioni del mondo, che pone al medesimo livello di importanza i filosofi che si sono occupati di scoprire la verità e quelli che invece badavano solo all'originalità e non di rado alla stravaganza: tutti nel medesimo calderone, perché ormai l'unica disciplina che potesse ambire a parlare sensatamente di verità era ormai la scienza (intesa nel senso moderno). Si è ribaltato così un mondo, che per millenni aveva sempre ragionato attraverso il metodo deduttivo e si è trovato poi a parlare di "verità" elaborando affermazioni derivate da ragionamenti induttivi, che come si sa non potranno mai giungere a conclusioni certe ma solo probabili, e queste potranno al massimo avere carattere generale e mai universale, ché questa prerogativa spetta solo alla metafisica, la scienza dell'immutabile. E la metafisica, lungi ovviamente dall'esser morta, gode invece di ottima salute perché dopo il massacro che ha subito negli ultimi secoli da parte di quasi tutti i filosofi moderni e contemporanei la sua attuale negazione le permette di stare tranquilla in attesa di coloro che siano in grado di comprenderla per quello che è.
Appare quindi evidente che la visione in termini storiografici della filosofia può essere funzionale all'erudizione ma non certo alla verità, e quest'ultima ha trovato nella scienza una gelosa custode ma contestualmente una indegna interprete. Negli interventi che mi hanno preceduto si può infatti notare come non solo sia scomparsa ogni traccia di verità, ma addirittura ne sia stato travisato e finanche stravolto il significato, che da fondamento qual è sempre stato si è trasformato in un processo, ovvero nel suo esatto opposto, coerentemente con tutta una numerosa serie di ribaltamenti che caratterizzano il mondo attuale e che la metafisica di migliaia di anni orsono già aveva saputo prevedere.
D'accordo con Donalduck con l'idea che non dovrebbero esserci "lezioni" bensì "discussioni di filosofia" e che occorre formare i giovani all'indipendenza mentale, al senso critico e a non valutare conformisticamente gli autori come divinità infallibili sottomettendosi al loro giudizio anche quando ci sembra personalmente poco convincente. Il senso del mio post di apertura era questo. Aggiungo solo che l'insegnamento (anzi, no, a questo punto possiamo anche dire "discussione"...) per temi non esclude affatto il supporto degli autori del passato. Solo che non verrebbero considerati tanto nel loro effettivo succedersi storico, ma in relazione al tema di volta in volta trattato, come degli spunti di riflessione utili a "mettere carne a fuoco", ispirare la discussione. In questo modo verrebbe maggiormente evidenziato il carattere di attualità del loro pensiero, il fatto che seppur vissuti in epoche lontane ci aiutano indicandoci aspetti diversi del mondo che ci circonda in questo momento. Io penso che il valore teoretico di un pensatore è in un certo senso inversamente proporzionale al suo essere "figlio del suo tempo", mentre si manifesta per quanto esso sia riuscito a cogliere verità della realtà nella sua universalità, per ciò che della realtà vale per ogni tempo e luogo.
Sul resto invece dissento con lui... la questione idealismo-realismo (almeno per come ho provato a porla io...) è basilare per rispondere al tema della dipendenza o indipendenza della filosofia e della storia della filosofia. La questione tra realismo e idealismo non riguarda lo stabilire se sono più reali le idee, gli oggetti intelligibili (idealismo) oppure il mondo sensibile (realismo). Questa si potrebbe definire la contrapposizione tra spiritualismo e materialismo, che non coincide affatto con la diatribia idealismo-realismo. Se da un lato è vero che un idealismo, sostenere come fondamento del reale un principio immateriale, come l'idea, il pensiero, in generale la soggettività mi sembra quasi impossibile da conciliarsi con un materialismo, dall'altro però realismo e materialismo non combaciano necessariamente. Realista è chi sostiene l'indipendenza dell'esistenza delle cose reali dal fatto che ci sia una mente che le pensa, sostiene l'autonomia della realtà, ma senza specificare se la realtà di cui si parla sia materiale o immateriale..., da quel punto di vista è neutrale. La maggior parte della filosofia cristiana è di orientamento realista e combatte il soggettivismo moderno che sfocia nell'idealismo tedesco. I cristiani non sono certo materialisti! Io stesso, modestamente, mi ritengo un realista assolutamente non materialista. Per il realista, che ritiene la realtà esistente indipedentemente dalla soggettività la conoscenza non può che essere "scoperta" della verità, ciò che si "scopre" è sempre qualcosa che c'era prima che qualcuno andasse prima a scoprirla... Qui si inserisce il tema del rapporto con "filosofia-storia della filosofia". Se la filosofia è scoperta allora le sue verità possono essere scoperte a partire dall'esperienza e dalle riflessioni personali, le verità fanno parte di un mondo oggettivo perennemente a disposizione di chi ha voglia e interesse di andare a conoscerlo, indipendetemente dal fatto di sapere che altri prima di noi abbiamo fatto le stesse scoperte, mentre se è creazione allora comprendere un concetto coincide necessariamente col comprendere il contesto storico in cui la mente di qualcuno ha prodotto quel concetto, allo stesso modo di come capire un'opera d'arte implica intepretare le intenzioni soggettivie dell'artista che l'ha creata, mentre nel caso del realismo i concetti sono paragonabili a leggi fisiche della natura che esistono a prescindere dal pensiero di chi le ha pensate e dunque ognuno di noi può osservarle individualmente senza per forza sapere che qualcuno prima di noi l'ha già fatto. Vero, come dici tu, che il pensiero, che crea o scopre, non è solo il pensiero dei filosofi, ma il pensiero di tutti, ma se si parla dei concetti della filosofia, o concetti che si vuole comunque considerare in un'ottica filosofica allora credo che la questione dell'indipendenza o dipendenza di questi concetti o verità non può che essere fatta in relazione col pensiero dei filosofi nella loro storia, così come, presumo..., un idealismo applicato alla fisica farebbe coincidere la fisica con la storia della fisica...
Affiorano grossi discorso sui massimi sistemi, per cui mi è difficile rimanere in una breve sintesi, ma ci provo.
Non c'è una pedagogia unica di come "fare" filosofia.Si può partire da un tema attuale, ma il suo sviluppo non è detto che alla fine sia filosofico, se non si richiamano intenzionalmente alcuni concetti propri della filosofia.
In linea di massima mi pare di trovarmi d'accordo con davintro sul peso del realismo in rapporto alla storia, ma bisogna anche sapere che non è necessaria una verità per fare la storia, spesso le prassi determinano retoricamente e dialetticamente le teorie, cioè decidono che il pensiero deve cambiare o adattarsi; spesso i filosofi come Kant o Hegel hanno avuto grande influenza sulla cultura anche dopo di loro pur non avendo fondativi e paradigmi espressi in logica formale; anche con un noumeno kant influisce nelle prassi della filosofia morale; Hegel improvvisamente esce, per esprimere il passaggio dall'astratto al concreto con una "legge del cuore" senza una dimostrazione di questa, ma essendo importante il movimento dialettico che porta al concetto nell'autocoscienza questa rimane come un'immagine retorica. A volte non è necessario definire tutto per poter pensare a tutto, Facciamo matematica anche se non conosciamo tutte le proprietà di essa. La filosofia è spesso convincere di una posizione, attraverso un' elegante argomentazione e sapiente perspicacia di pensiero tanto da colpire una cultura.
Se si vuole la mia è una provocazione intellettuale, ma dobbiamo sapere che il mondo va avanti nonostante noi...e ci sarà un motivo.
CitazioneDavintro ha scritto:
il punto è che nel mio post di apertura c'èra anche un sottofondo polemico verso un certo modo di discutere di filosofia, dominato dal citazionismo: cioè pensare che la verità di una tesi filosofica dipenda dal consenso degli autori del passato invece che dal corrispondere alla realtà oggettiva delle cose, capita, nei contesti accademici, di assistere a discussioni filosofiche che finiscono solo con l'essere con un'esposizione di citazioni di autori "Nietzsche ha detto che..." "Sì, ma Hegel ha detto che..." senza argomentare in modo logico le proprie posizioni. Questo è dogmatismo. Invece che portare argomenti che possano razionalmente convicere l'interlocutore si cerca di "intimidirlo" (ed è un atteggiamento molto spiacevole che purtoppo il più delle volte mi sono trovato a subire e che fa soffrire...) citando autori che si presume lui non abbia mai letto dando per scontato che la verità di un discorso sia data quantitativamente dla numero di libri o autori che appoggiano quel discorso. La discussione filosofica finisce col diventare una gara a chi riesce a portare più esempi di autori che sostengono il proprio punto di vista. Questo io contesto. Il riferimento agli autori non deve scomparire ma penso dovrebbe, in sede di discussione teoretica, essere messo in secondo piano rispetto all'analisi logico-deduttiva e dialettica tra i concetti. Gli strumenti fondamentali del filosofare sono l'esperienza diretta delle cose stesse e l'argomentazione logica. Il modello di insegnamento della filosofia che provavo a sostenere è quello tipicamente socratico che emerge in alcuni dialoghi platonici. Socrate non citava autorità per giustificare le sue tesi, non imponeva ex-cathedra le sue idee, ma dialogava con loro in modo paritario stimolando dubbi che spingevano gli interlocutori a ripensare, rimettere in discussione le loro illusorie certezze approfondendo il discorso fino a raggiungere una visione dell cose più razionale rispetto a quella di partenza. Il docente di filosofia dovrebbe essere, socraticamente, una guida per gli studenti che attraverso il dialogo presenta loro diverse possibilità di modelli interpretativi di risoluzione dei problemi fondamentali aiutandoli attraverso la logica a comprendere le implicazioni conseguenti ad ogni singola assunzione di un certo modello: esempi "in cosa consiste la distinzione tra idealismo e realismo" "quali sono le implicazioni conseguenti all'assunzione di un'etica teista", " e le implicazioni teoretiche di un'ontologia materialista e di una visione della natura meccanicista". E queste implicazioni non devono necessariamente identificarsi con gli effettivi sviluppi storici che si sono realizzati nel passato a partire da quelle premesse, ma aperte anche a conclusioni originali che nascono in seno alle discussioni. Non si dovrebbe tanto trasmettere un sapere ma aiutare attraverso una palestra dialettica di continui ragionamenti e discussioni a sviluppare una forma mentis utilizzabile poi da ciascuno, se vorrà, a risolvere autonomamente i vari problemi filosofici. Potrebbe essere tutto questo una possibilità costruttiva?
Rispondo:
Perfettamente d' accordo con le considerazioni sul "citazionismo".
Meno sulle considerazioni "didattiche".
Continuo a preferire un insegnamento scolastico della storia della filosofia, mentre ritengo che la ricerca filosofica "diretta", per chi ne sente l' esigenza e nella misura in cui è sentita da ciascuno, trovi una sede migliore nella "vita in generale" di ciascuno: educazione familiare, frequentazioni amicali, esperienze di vita, letture personali, partecipazioni a eventi culturali, ecc.
Anche frequentazione di forum come questo!
Davintro ha scritto:
Questa idea della storia come progresso implicherebbe l'idea della storia come svolgimento di una logica, di un ordine che la governa, orienta il suo divenire ma che di per sè si afferma come logica e ordine immutabile, un'immutabilità che governa il mutabile verso il progresso, verso un fine... e la filosofia che riconosce tale logica è un sapere dell'immutabile. La visione della storia come progresso non è una visione, dal punto di vista formale, storica, ma sovratemporale, teologica, escatologica o altrimenti il divenire, lasciato a se stesso, assolutizzato, sarebbe solo caos, non progresso..., secondo me.
Rispondo:
Ritengo che non necessariamente l' "idea della storia come progresso implicherebbe l'idea della storia come svolgimento di una logica, di un ordine che la governa, orienta il suo divenire ma che di per sè si afferma come logica e ordine immutabile, un'immutabilità che governa il mutabile verso il progresso, verso un fine".
Mi sembra che la storia umana possa (come mera potenzialità, non inesorabilmente, fatalmente) evolversi non "caoticamente" e in modo assolutamente imprevedibile e "ingovernabile" bensì secondo alcune caratteristiche relativamente costanti e "parzialmente, relativamente vincolate" (in qualche misura studiabili e "applicabili praticamente"), ma non in quanto guidata da un fine cosciente che trascenda dei naturali (e culturalmente declinati) scopi umani immanenti, semplicemente per una caratteristica di fatto della sua natura (la naturalissima e non "teleologicamente scelta da nessuno", per quanto peculiarissima, sua natura di "specie animale culturale").
Davintro ha scritto:
Realista è chi sostiene l'indipendenza dell'esistenza delle cose reali dal fatto che ci sia una mente che le pensa, sostiene l'autonomia della realtà, ma senza specificare se la realtà di cui si parla sia materiale o immateriale...
Rispondo:
Penso che anche ammettendo il solispsismo, la realtà della sola esperienza cosciente immediatamente esperita ("da ciascuno", scriverei se non fosse contraddittorio, sottintendendo la realtà anche di altre), si potrebbe distinguere tra un certo relativo "realismo" per il quale l' accadere di sensazioni è indipendente dalla conoscenza –eventuale- di esse (dall' accadere della sensazione dl predicato –vero- del loro accadere; o meno: potrebbero essere reali anche senza essere pensate) da un' alternativa difficilmente definibile ("iper-idealismo"?) per la quale l' accadere della conoscenza delle sensazioni (la sensazione della predicazione di sensazioni predicanti l' accadere di altre sensazioni) fosse condizione necessaria dell' accadere delle sensazioni conosciute (pertanto non reali se non unicamente in quanto pensate).
Mi scuso per la pignoleria.
Davintro ha scritto:
CitazioneLa questione tra realismo e idealismo non riguarda lo stabilire se sono più reali le idee, gli oggetti intelligibili (idealismo) oppure il mondo sensibile (realismo). Questa si potrebbe definire la contrapposizione tra spiritualismo e materialismo, che non coincide affatto con la diatribia idealismo-realismo.
In generale cerco sempre di evitare di etichettare i pensieri e le correnti di pensiero, perché le etichette portano più confusione che altro e alimentano sterili discussioni terminologiche. In realtà ogni termine ha diverse interpretazioni e spesso termini diversi vengono usati per lo stesso concetto, quindi lascerei proprio perdere le etichette e mi limiterei ai concetti.
CitazionePer il realista, che ritiene la realtà esistente indipedentemente dalla soggettività la conoscenza non può che essere "scoperta" della verità, ciò che si "scopre" è sempre qualcosa che c'era prima che qualcuno andasse prima a scoprirla
Bisogna chiarire cosa si intende per "realtà esistente indipendente dalla soggettività". Se si parla di
soggettività individuale, è abbastanza facile essere d'accordo che l'esistenza o meno di un singolo soggetto cosciente tra tanti non incide sull'esistenza della realtà, ma se invece si intende una realtà indipendente da
qualsiasi soggettività è tutta un'altra storia. In quest'ultimo caso ritengo che sia perfino logicamente contradditorio ipotizzarla. Infatti una realtà indipendente da qualunque soggetto implica una oggettività senza soggettività. Non è solo una questione linguistica. I due concetti sono complementari e inscindibili, nel senso che si definiscono a vicenda, e senza l'uno, l'altro perde significato. Tutto ciò che l'uomo conosce, sente, percepiasce è costituito da informazioni che l'uomo in quanto soggetto riceve da una sorgente oggettiva di queste informazioni. In base a che cosa dovremmo formulare l'ipotesi che un "mondo oggettivo" possa esistere senza un soggetto, ossia che esistano informazioni che hanno una sorgente ma non una destinazione? E' come "l'applauso di una mano sola".
Sul fatto poi che il soggetto contribuisca alla creazione della realtà (a parte quello dato dalla sua stessa esistenza e dalle sue azioni), si possono fare tante ipotesi e fantasie, ma non mi pare che esistano elementi su cui basarle. Mi limito a constatare che la realtà implica soggettività e oggettività, ma non ho dati che mi consentano di andare oltre, quindi resto aperto a ogni possibilità, purché abbia un qualche fondamento su dati osservabili e non sia un semplice vagare dell'immaginazione.
CitazioneSe la filosofia è scoperta allora le sue verità possono essere scoperte a partire dall'esperienza e dalle riflessioni personali, le verità fanno parte di un mondo oggettivo perennemente a disposizione di chi ha voglia e interesse di andare a conoscerlo, indipendetemente dal fatto di sapere che altri prima di noi abbiamo fatto le stesse scoperte, mentre se è creazione allora comprendere un concetto coincide necessariamente col comprendere il contesto storico in cui la mente di qualcuno ha prodotto quel concetto, allo stesso modo di come capire un'opera d'arte implica intepretare le intenzioni soggettivie dell'artista che l'ha creata, mentre nel caso del realismo i concetti sono paragonabili a leggi fisiche della natura che esistono a prescindere dal pensiero di chi le ha pensate e dunque ognuno di noi può osservarle individualmente senza per forza sapere che qualcuno prima di noi l'ha già fatto
Posto che non vedo in base a che cosa si potrebbe essere indotti a questa posizione estrema, se anche la realtà fosse interamente "creazione intersoggettiva" non vedo che c'entri il contesto storico dei concetti. Questi hanno una loro esistenza qui e ora e per noi è l'unica forma di esistenza. Pensare che anche le "intenzioni soggettive" di chi crea determini il carattere della creazione, anche dopo che la creazione è avvenuta, mi sembra incompatibile con qualunque forma di esistenza di una realtà oggettiva (ossia condivisa) e quindi con i dati dell'esperienza.
Anche per le creazioni artistiche, non penso affatto che "capire un'opera d'arte implica intepretare le intenzioni soggettivie dell'artista che l'ha creata". Penso invece che l'opera d'arte, una volta concretizzata oggettivamente, l'interpretazione che ne dà l'artista (ammesso che la dia) sia sullo stesso piano dell'interpretazione che ne dà chiunque altro. Se è vero che l'artista potrebbe aver inserito dei riferimanti impliciti (quindi delle informazioni) che sfuggono a chi non conosca ciò che l'artista stesso conosce (pensiamo a un dipinto in cui compare un simbolo dotato di un determinato significato, ad esempio un crocifisso o una svastica), questo ha caso mai a che fare con la conoscenza o meno di codici o significati sempre intersoggettivi (oggettivamente esistenti o esistiti), e non delle intenzioni del creatore.
Per quanto riguarda i filosofi, la conoscenza del contesto può aiutare a chiarire il significato che attribuisce a certi termini, che può essere diverso da quello attuale, per un processo di slittamento semantico, ma una volta chiarito (e tradotto in termini attuali) questo significato, il pensiero (o meglio la sua manifestazione) ha la sua attualità, la sua esistenza qui e ora, alla pari di qualunque pensiero appena concepito.
Ovviamente le intenzioni di un artista e quelle di un filosofo possono interessare storici e biografi, ma secondo me non sono pertinenti (se non per gli aspetti prima descritti) alla fruizione attuale dell'opera d'arte o di pensiero.
Citazione di: sgiombo il 24 Aprile 2016, 14:49:40 PM
CitazioneDavintro ha scritto: il punto è che nel mio post di apertura c'èra anche un sottofondo polemico verso un certo modo di discutere di filosofia, dominato dal citazionismo: cioè pensare che la verità di una tesi filosofica dipenda dal consenso degli autori del passato invece che dal corrispondere alla realtà oggettiva delle cose, capita, nei contesti accademici, di assistere a discussioni filosofiche che finiscono solo con l'essere con un'esposizione di citazioni di autori "Nietzsche ha detto che..." "Sì, ma Hegel ha detto che..." senza argomentare in modo logico le proprie posizioni. Questo è dogmatismo. Invece che portare argomenti che possano razionalmente convicere l'interlocutore si cerca di "intimidirlo" (ed è un atteggiamento molto spiacevole che purtoppo il più delle volte mi sono trovato a subire e che fa soffrire...) citando autori che si presume lui non abbia mai letto dando per scontato che la verità di un discorso sia data quantitativamente dla numero di libri o autori che appoggiano quel discorso. La discussione filosofica finisce col diventare una gara a chi riesce a portare più esempi di autori che sostengono il proprio punto di vista. Questo io contesto. Il riferimento agli autori non deve scomparire ma penso dovrebbe, in sede di discussione teoretica, essere messo in secondo piano rispetto all'analisi logico-deduttiva e dialettica tra i concetti. Gli strumenti fondamentali del filosofare sono l'esperienza diretta delle cose stesse e l'argomentazione logica. Il modello di insegnamento della filosofia che provavo a sostenere è quello tipicamente socratico che emerge in alcuni dialoghi platonici. Socrate non citava autorità per giustificare le sue tesi, non imponeva ex-cathedra le sue idee, ma dialogava con loro in modo paritario stimolando dubbi che spingevano gli interlocutori a ripensare, rimettere in discussione le loro illusorie certezze approfondendo il discorso fino a raggiungere una visione dell cose più razionale rispetto a quella di partenza. Il docente di filosofia dovrebbe essere, socraticamente, una guida per gli studenti che attraverso il dialogo presenta loro diverse possibilità di modelli interpretativi di risoluzione dei problemi fondamentali aiutandoli attraverso la logica a comprendere le implicazioni conseguenti ad ogni singola assunzione di un certo modello: esempi "in cosa consiste la distinzione tra idealismo e realismo" "quali sono le implicazioni conseguenti all'assunzione di un'etica teista", " e le implicazioni teoretiche di un'ontologia materialista e di una visione della natura meccanicista". E queste implicazioni non devono necessariamente identificarsi con gli effettivi sviluppi storici che si sono realizzati nel passato a partire da quelle premesse, ma aperte anche a conclusioni originali che nascono in seno alle discussioni. Non si dovrebbe tanto trasmettere un sapere ma aiutare attraverso una palestra dialettica di continui ragionamenti e discussioni a sviluppare una forma mentis utilizzabile poi da ciascuno, se vorrà, a risolvere autonomamente i vari problemi filosofici. Potrebbe essere tutto questo una possibilità costruttiva? Rispondo: Perfettamente d' accordo con le considerazioni sul "citazionismo". Meno sulle considerazioni "didattiche". Continuo a preferire un insegnamento scolastico della storia della filosofia, mentre ritengo che la ricerca filosofica "diretta", per chi ne sente l' esigenza e nella misura in cui è sentita da ciascuno, trovi una sede migliore nella "vita in generale" di ciascuno: educazione familiare, frequentazioni amicali, esperienze di vita, letture personali, partecipazioni a eventi culturali, ecc. Anche frequentazione di forum come questo! Davintro ha scritto: Questa idea della storia come progresso implicherebbe l'idea della storia come svolgimento di una logica, di un ordine che la governa, orienta il suo divenire ma che di per sè si afferma come logica e ordine immutabile, un'immutabilità che governa il mutabile verso il progresso, verso un fine... e la filosofia che riconosce tale logica è un sapere dell'immutabile. La visione della storia come progresso non è una visione, dal punto di vista formale, storica, ma sovratemporale, teologica, escatologica o altrimenti il divenire, lasciato a se stesso, assolutizzato, sarebbe solo caos, non progresso..., secondo me. Rispondo: Ritengo che non necessariamente l' "idea della storia come progresso implicherebbe l'idea della storia come svolgimento di una logica, di un ordine che la governa, orienta il suo divenire ma che di per sè si afferma come logica e ordine immutabile, un'immutabilità che governa il mutabile verso il progresso, verso un fine". Mi sembra che la storia umana possa (come mera potenzialità, non inesorabilmente, fatalmente) evolversi non "caoticamente" e in modo assolutamente imprevedibile e "ingovernabile" bensì secondo alcune caratteristiche relativamente costanti e "parzialmente, relativamente vincolate" (in qualche misura studiabili e "applicabili praticamente"), ma non in quanto guidata da un fine cosciente che trascenda dei naturali (e culturalmente declinati) scopi umani immanenti, semplicemente per una caratteristica di fatto della sua natura (la naturalissima e non "teleologicamente scelta da nessuno", per quanto peculiarissima, sua natura di "specie animale culturale"). Davintro ha scritto: Realista è chi sostiene l'indipendenza dell'esistenza delle cose reali dal fatto che ci sia una mente che le pensa, sostiene l'autonomia della realtà, ma senza specificare se la realtà di cui si parla sia materiale o immateriale... Rispondo: Penso che anche ammettendo il solispsismo, la realtà della sola esperienza cosciente immediatamente esperita ("da ciascuno", scriverei se non fosse contraddittorio, sottintendendo la realtà anche di altre), si potrebbe distinguere tra un certo relativo "realismo" per il quale l' accadere di sensazioni è indipendente dalla conoscenza –eventuale- di esse (dall' accadere della sensazione dl predicato –vero- del loro accadere; o meno: potrebbero essere reali anche senza essere pensate) da un' alternativa difficilmente definibile ("iper-idealismo"?) per la quale l' accadere della conoscenza delle sensazioni (la sensazione della predicazione di sensazioni predicanti l' accadere di altre sensazioni) fosse condizione necessaria dell' accadere delle sensazioni conosciute (pertanto non reali se non unicamente in quanto pensate). Mi scuso per la pignoleria.
per quanto riguarda il discorso didattico: la tua posizione secondo me tende troppo a trattare scuola e quotidianità come due dimensioni separate fra loro. Io la scuola l'ho sempre intesa come strumento al servizio dell'esistenza concreta, formativa del futuro dei giovani sia in chiave professionale-economia e soprattutto in chiave intellettuale-culturale.. se il tipo di filosofia che va insegnata nelle scuole fosse di una natura diversa da quell che possiamo in qualche modo "applicare" nella quotidianità" (come dici tu, relazioni sociali in famiglia, amici, luoghi di lavoro, forum...) allora non si rischierebbe di rompere il filo scuola-vita e rendere l'insegnamento scolastico qualcosa di totalmente astratto ed autoreferenziale, impossibile da utilizzare al di fuori si essa? Volendo essere provocatori si potrebbe dire, che tanto varrebbe a questo punto, con tali premesse, cancellare del tutto lo studio della filosofia dall'istruzione, oppure all'opposto introdurre nei programmi scolastici qualunque tipo di disciplina o attività indipendetemente dalla loro effettiva utilità vitale! (origami, scacchi...) Su storia e progresso: Ovviamente esistono fattori causali contigenti (agenti per differenti aspetti, economico, politico, psicologico, religioso) che possono orientare gli eventi storici in una direzione evolutiva... Parlando di storia come progresso avevo in mente un modello di evoluzione che approda ad un fine in un'ottica di necessità, in questo senso mi sembrerebbe indipensabile concepire una sorta di ordine finalistico che fa sì che il corso prenda quella direzione invece che un'altra (un regresso, una decadenza). Tra l'altro, forse, non sarebbe neanche in questo caso necessario parlare di un "fine cosciente", che implicherebbe una visione teista per la quale il cammino della storia è stabilito da una mente trascendente la storia stessa (per intenderci, la provvidenza divina), il fine può anche essere non cosciente: è ipotizzabile anche che il corso degli eventi sia scandito da una logica che li governi che però non ha coscienza di sè e e della meta da raggiungere, in questo caso la logica si costituirebbe non come "mente", "soggetto personale", ma più propriamente "ritmo", "sequenza immanente al processo che lo scandisce dall'interno", "schema". Se tu invece parli di non-necessità del progresso allora possiamo ammettere l'idea di una storia come prodotto di fattori causali che interagiscono tra loro ma rivolti a fini diversi. L'effettivo svolgersi degli eventi sarebbe così la risultante di una combinazione di forze che, considerate nella loro isolatezza, possono agire anche in contrapposizione fra loro. Ma a questo punto, o si pensa ad una molteplicità di fattori concorrenti, ed allora non si può pensare a un ordine ,un cosmos (per me ordine vuol dire armonia, situazione in cui differenti fattori operano, in ruoli diversi, come rivolti ad uno stesso risultato, e ripeto, non c'è bisogno per forza che ci sia "coscienza" di tutto ciò) ma si deve parlare di "caos", una "legge della giungla" dove il fattore causale più forte si impone su quelli più deboli a impone al divenire la sua legge, oppure la contrapposizione non c'è, c'è la molteplicità delle forze in campo che agisce nel modo armonico che ho provato a descrivere nella mia ultima parentesi ed in base al quale ha senso parlare di ordine e di progresso come necessario. Parlare di "alcune caratteristiche relativamente costanti e "parzialmente, relativamente vincolate" non risolve secondo me il problema. Relativamente costanti ed eterne non vuol dire eterne ed assolute ma contingenti... dunque, o queste caratteristiche cessano di produrre la loro forza causale nello "scontro" con altri caratteristiche agenti in direzione contraria, e si torna alla situazione del caos, oppure la ragion d'essere di tali carateristiche è data da altre leggi ad esse non opposte ma comunque sovraordinate e superiori che stabiliscono il tempo del loro conservarsi e del loro cessare... e si ritornerebbe all'idea di una "gerarchia" di fattori causali, fatta di "cause prime" e "cause seconde", una sorta di "cosmo" non necessariamente provvidenziale e cosciente, (lasciamo perdere per ora, ma magari ci torneremo...) ma che comunque imprime una necessità agli eventi nel complesso delle sue componenti. Il problema è che non esiste una terza realtà tra ordine e caos che li possa conciliare... esiste la situazione di miscuglio delle due componenti che si potrebbe definire come "ordine imperfetto", ma comunque cosmo e caos sono due polarità opposte che tirano in direzioni opposte una sorta di "elastico" che sarebbe la storia Sull'ultima parte per ora dico solo che effettivamente la prima alternativa giustamente può essere definita come "realismo relativo", relativo, perchè la constatazione di una realtà indipendente dal mio esperirla sarebbe però posta a partire dal fenomeno fondante proprio l'esperienza stessa, cioè le sensazioni. Ma, nella misura in cui, consideriamo la sensazione come prodotto di un "urto" soggetto-oggetto nel quale il soggetto resta inerte e passivo, allora è possibile inferire l'esistenza di una realtà oggettivamente esistente, indipendente dai nostri pensieri, la realtà che ha prodotto l'urto, mentre se la sensazione fosse il risultato di un'attività della mente che opera a partire da categorie in essa presenti allora il reale resterebbe una costruzione del soggetto attivamente pensante. Per quanto mi riguarda, in ogni caso l'accettazione, quantomeno a livello provvisorio, dell' ipotesi del solipsismo è una punto inaggirabile per chiunque voglia affontare in modo critico e non dogmatico il tema gnoseologico (e inevitabilmente non solo gnoseologico...) del rapporto esperienza soggettiva-realtà oggettiva, realisti o idealisti che siamo... ci sarebbero infinite altre cose da dire su tale tema ma per ora mi fermo qua anche perchè forse siamo un pò andando fuoritopic (anche se è inevitabile che sia così in un forum filosofico, la bellezza della filosofia sta proprio nella ricchezza di collegamenti e interrelazioni per la quale in fondo, "fuoritopic" in senso assoluto non si cade mai in fondo...)
CitazioneRispondo a Davintro:
Si, abbiamo due concezioni in buona parte diverse della scuola.
Nella mia (purtroppo lunga: sono vecchio) personale esperienza ho "spontaneamente" trovato soprattutto "fuori dalla scuola", nelle "comuni esperienze di vita", stimoli a pormi i problemi fondamentali della vita e a cercarne soluzioni, mentre la scuola mi ha dato interessantissimi e utilissimi spunti teorici per affrontarli, anche e soprattutto con lo studio della storia della filosofia; e probabilmente le mie convinzioni in proposito ne sono fortemente influenzate.
Trovo incoerente il concetto di un fine della storia che può anche essere non cosciente: l' ipotesi che che il corso degli eventi sia scandito da una logica che li governi che però non ha coscienza di sè e della meta da raggiungere, di modo che in questo caso la logica si costituirebbe non come "mente", "soggetto personale", ma più propriamente "ritmo", "sequenza immanente al processo che lo scandisce dall'interno", "schema".
Per me uno scopo è intenzionale e necessariamente cosciente per definizione, un' autentico finalismo non può identificarsi con una logica che governi gli eventi storici la quale però non ha coscienza di sè e della meta da raggiungere (un po' come l' evoluzione biologica, mutatis mutandis ovviamente: un processo non finalizzato o "disegnato" per dirlo con i retrogradi, ma nemmeno caotico, bensì "strutturato", limitatamente regolato; nella fattispecie dalla selezione naturale operante sulle mutazioni genetiche casuali).
Altra cosa che un finalismo (comunque declinato) é una logica immanente impersonale, un ordine oggettivo, uno "schema" nella successione degli eventi almeno in parte conoscibile e in misura ancora minore "praticamente dominabile" per scopi umani coscienti, per l' appunto sulla base della sua limitata ma possibile conoscenza.
Per me è logicamente possibile e di fatto reale un corso della storia non fatalmente necessario e inesorabile e nemmeno assolutamente disordinato, caotico, bensì (tertium datur!) "delimitato" in ogni fase da un ventaglio più o meno ampio (ma non illimitato) di possibili sviluppi alternativi (anche regressivi rispetto a quanto "fino ad allora percorso"); e la direzione di fatto seguita nell' ambito di questo ventaglio limitato di possibilità oggettive è frutto delle soggettive scelte umane che di volta in volta si impongono (determinate in ultima istanza dalla lotta di classe).
L' umanità in generale e in ogni fase particolare della sua storia a davanti ha sé un cammino (discretamente ma non rigorosamente definito) di progresso possibile ma anche di regresso (e oltre un certo grado di fatto già raggiunto dello sviluppo delle forze produttive sociali di autodistruzione): dipende da lei quale "destino" darsi.
Invero non mi sembra in questo di discostarmi molto da quanto affermi in conclusone del tuo intervento su questo argomento (a mio parere con dubbia coerenza rispetto a tutta l' argomentazione che lo precede): esiste la situazione di miscuglio delle due componenti che si potrebbe definire come "ordine imperfetto", ma comunque cosmo e caos sono due polarità opposte che tirano in direzioni opposte una sorta di "elastico" che sarebbe la storia (per dirlo un p' più elegantemente "a la Hegel", una sintesi dialettica fra necessità e determinismo -tesi- libertà e disordine -antitesi-).
Preciso a mò di inciso che non sono affatto interessato al concetto di vero. (per eventuali altre discussioni).
Comunque.
Risponde brevemente rispetto anche alle successive risposte che hai dato a Maral, che è l'utente più vicino alle mie posizioni.
Quello di presuporre uno sorta di razionalismo realista è un errore da matita rossa.
Infatti il buon Kant con sua buona pace è stato il precursore diretto dell'idealismo.
Anzi io azzardo che fosse del tutto in sintonia con l'idealismo.
Non esiste un razionalismo che possa derivare dal basso, dall'oggetto insomma.
Come potrebbe essere inteso se non da un soggetto?
E anche cambiando le categorie, come tentano di fare i neo-kantiani, anche tentando di descrivere un soggetto realista, come non tenere conto del linguaggio e del metalinguaggio che lo controlla?
Vi è comunque un parlante, e qualsiasi metalinguaggio di controllo è costruzione di un soggetto.
(non basta applicare il principio del terzo escluso).
Comunque se vuoi potresti cominciare a fare degli esempi, per intendere questa possibilità.
L'esempio ovvio deve attenersi a come razionalmente tu puoi intendere un oggetto.(comunque da lì si parte sempre).
Rispondo a Sgiombo:
Il problema della necessità è distinto da quello della questione ordine-caos. Sia nell'ambito dell'ordine, inteso come molteplicità di cause che convergono, coscientemente o meno, nella realizzazione di un unico accadimento, sia nell'ambito del caos, inteso come conflitto tra agenti causali rivolti ad effetti opposti, nel quale gli agenti dotati di maggior forza si impongono su quelli più deboli e danno alla storia una certa direzione, in ogni caso la dimensione della necessità non può essere trascesa. C'erano alternative al corso degli eventi rispetto alla forma in cui si è effettivamente realizzato? Le cose potevano andare in modo diverso? Certo, ma solo a condizione di modificare i fattori causali sottostanti gli eventi. Secondo me è assurdo pensare che uno stesso fattore causale, considerato isolatamente dal resto, possa produrre effetti diversi e opposti fra loro. Giustamente parli di scelte compiute dall'uomo come fattore fondamentale della storia... ma le scelte che si fanno sono comunque pur sempre determinate da una causalità, sia essa interna al soggetto che sceglie (carattere, personalità) o esterna (condizionamenti provenienti dall'ambiente familiare, sociale, più semplicemente fisico). La possibilità di ammettere cause diverse da quelle effettivamente agenti, possibilità chiamata ad alleggerire il rigore della necessità, è ammissibile fintanto che si parla di causalità contingenti, che possono esserci come non esserci, che non hanno in loro stessi la loro ragion d'essere e che dunque richiamano la necessità di essere spiegate da una causalità superiore non contingente (oppure si procede all'infinito...). Si può dire che la possibilità di ammettere come realmente possibili scenari alternativi a quelli realmente accaduti, ucronie varie, sia una possibilità che è tale quanto più la nostra conoscenza razionale della storia sia limitata.. La conoscenza razionale è un "sapere di cause", e quanto più attribuiamo cause agli effetti che osserviamo quanto più dobbiamo limitare le possibilità di pensare alternative che sarebbero potute ragionevolmente accadere... La necessità dunque io la vedrei in contrapposizione non tanto con il "caos", ma con l'irrazionale, l'inspiegabile. Il caos non è irrazionalità, ma una situazione di conflitto dove una causalità più forte si impone contro le altre, questa differenza di forza è la causa che spiega l'evento e dà a quell'effetto una necessità.
La mia idea di un "miscuglio" di ordine e caos non la vedo incoerente con l'idea di pensare ordine e caos come contrapposte. Io per contrapposizione intendo il fatto che con l'aumentare dell'aspetto di ordine nella storia dimunuisce il caos e viceversa. Questo non vuol dire che la storia sia tutto cosmo o tutto caos, vuol dire che essa nella misura in cui è cosmo non è caos e nella misura in cui è caos non è cosmo. Da qui la metafora, rozza certo, dell'elastico che si distende nell'essere tirato da due poli contemporaneamente in direzioni opposte fra loro, fattori opposti sì, ma agenti nello stesso tempo. Altro esempio: quanto più un oggetto ha un colore chiaro non è scuro, quanto più è scuro non è chiaro. Il richiamo alla "sintesi hegeliana" non è secondo me molto appropriato in questo contesto. Sintesi per me vuol dire condizione per la quale due elementi non solo sono entrambi compresi, ma convivono armonicamente cessando di essere presenti ciascuno a scapito dell'altro. La sintesi farebbe cessare il dinamismo della storia, la tensione dell'elastico. La storia non è "sintesi" di ordine e caos (altrimenti sarebbe già cessata) ma miscuglio, eterno conflitto dove questi due opposti sono compresenti ma in un modo in cui uno dei due tende a eliminare l'altro, conflitto che rende possibile il proseguire del dinamismo, come la tensione dell'elastico. Tornando alla metafora dei colori, il grigio esiste, certo, ma non è "sintesi" di bianco e nero, chiarezza ed oscurità, ma più propriamente "miscuglio", se si preferisce, "amalgama"
Ritorno un attimo sull'asserzione secondo la quale "non ci dovrebbero essere lezioni di filosofia, ma discussioni di filosofia", che a mio parere va presa con grande cautela, per non finire di credere di star facendo filosofia solo perché si parla di certi temi, mentre non la si fa per nulla. Una "discussione" filosofica presuppone una prospettiva filosofica che si articola in un linguaggio di significato filosofico e questa prospettiva, questo linguaggio, sono tutt'altro che spontanei, ma vanno appresi (e non è nemmeno detto che tutti possano apprenderli). L'ottica filosofica non è né quella scientifica, né quella sociologica o psicologica (men che meno quella mitologica) e necessita di una propedeutica severa. In questo senso credo che proprio la storia della filosofia costituisca un'indispensabile propedeutica anche nel caso in cui si privilegi un modo di pensare per temi, se lo si vuole fare con un minimo di rigore filosofico.
Credo poi esista una differenza sostanziale tra il sapere filosofico e quello scientifico (per come è inteso oggi il fare scienza): mentre è possibilissimo trattare i temi delle scienze sperimentali, come ad esempio la medicina, alla luce delle scoperte più recenti (credo che per la pratica medica attuale conti ben poco considerare cosa pensassero i medici dei secoli precedenti, se non al massimo per curiosità), non si può pensare filosoficamente senza avere studiato Platone e Aristotele che ne hanno gettato le fondamenta (e lo stesso si può dire per tutti i grandi filosofi del passato che se ne condivida o meno l'impostazione e il pensiero): il loro pensiero resta comunque basilare per qualsiasi adepto filosofo attuale e per qualsiasi tema intenda oggi affrontare filosoficamente. Questa conoscenza non va però intesa come una subordinazione a un principio di autorità che sarebbe quanto mai deleterio, ma per non trasformare qualsiasi discussione filosofica in mera chiacchiera opinionistica più o meno polemica, dettata solo dai propri attuali preconcetti.
E questo sarebbe davvero la fine della filosofia che nasce proprio con l'intento fondamentale di liberare dai preconcetti (dunque di essere veramente liberi) e la storia (memoria) di questa lotta contro il preconcetto resta fondamentale, almeno per tentare di non ricascarci sempre pari pari.
A Davintro
Non concordo (ma potrebbe anche darsi che si tratti solo di intendersi sul significato che diamo alle parole) con la concezione del "caos, inteso come conflitto tra agenti causali rivolti ad effetti opposti, nel quale gli agenti dotati di maggior forza si impongono su quelli più deboli e danno alla storia una certa direzione" : per me questo non é caos ma ordine, solo "non semplice, ma particolarmente complesso"; caos sarebbe un mutamento non riconducibile a cause universalmente e costantemente agenti ciascuna in un determinaro modo (con determinati effetti), sia pure fra loro interagenti in un intreccio complesso e di fatto non calcolabile (ma in linea di principio sì), imprvedibile di fatto ma non disordinato, .
In questo caso si dà prevedibilità degli eventi (almeno in linea teorica, di principio; di fatto può essere impossibile in caso di eccessiva complessità e limitata conoscenza dei temini in gioco), e cioé, purché si abbia adeguata conoscenza della situazione a un determinato tempo assunto come "iniziale", c' é la necesità teorica di pensare che gli eventi accadano così come accadono e non altrimenti: Invece nel caso di mutamento caotico non c' é alcuna necesità teorica (né possibilità, se non per puro caso) di pensare che gli eventi accadano coasì come accadono e non altrimenti.
Quindi a mio parere la questione della necessità o meno (di pensare gli eventi futuri compatibilmente con la conoscenza dei presenti) si identifica con quello dell' ordine o caos nel loro accadere e suseguirsi.
Questo però solo in linea puramente di principio.
Ma concordo che "Si può dire che [in caso di divenire ordinato, causalmente determninato] la possibilità di ammettere come realmente possibili scenari alternativi a quelli realmente accaduti, ucronie varie, sia una possibilità [di fatto] che è tale quanto più la nostra conoscenza razionale della storia sia limitata. La conoscenza razionale è un "sapere di cause", e quanto più attribuiamo cause agli effetti che osserviamo quanto più dobbiamo limitare le possibilità di pensare alternative che sarebbero potute ragionevolmente accadere...".
Si tratterebbe per me comunque di una possibilità meramente illusoria, conseguente la limitata conoscenza e "calcolabilità di fatto" dei fattori in gioco.
Ed effettivamente (in questo preciso e correggo quanto scritto nel precedente intervento grazie alla sollecitazione della tua osservazione critica) oggettivamente o si dà ordine (= necessità, prevedibilità almeno teorica, in linea di principio; che potrebbe essere solo statistica in insiemi numerosi di eventi o anche dei singoli eventi a secofìda dei casi) oppure si dà disordine (imprevedibilità, possibilità di prevedere come possibili diverse alternative): tertium non datur.
Ritengo infatti il coesistere dialettico, l' "interagire in qualità di contrari" di ordine-necessità e di disordine-possibilità nella storia in ultima analisi solo soggettivo, apparente all' umanità (individui, classi sociali, popoli, ecc.), che nel porsi i suoi scopi é condizionata dai limiti invalicabile delle sue conoscenze dei fattori in gioco.
Ma la possibilità umana di conoscere fattori in gioco in generale é sempre limitata e in particolare nella storia é sempre limitatissima; e questo consente la possibilità di prevedere di fatto e di agire per più possibili esiti alternativi (anche se non in numero illimitato, come sarebbe al limite in caso di caos) degli eventi in corso.
La questione "sintesi" o "elastico" fra necessità o possibilità nella storia mi sembra puramente terminologica Ovvio che alternanza e coesistenza di bianco e di nero sono diversa cosa da grigio; ma dicendo che nella storia convivono elementi di prevedibilità e di imprevedibilità (di fatto, dal punto di vista umano soggettivo) non intendevo dire che esiste un' impossibile condizione che sta alla prevedibilità e all' imprevedibilità come il grigio sta al bianco e al nero, ma casomai come la coesistenza di parte di bianco e di parte di nero (diciamo la maglia della Juventus) sta al solo bianco "tinta unita" e al solo nero "tinta unita"; fuor di metafora, alcuni eventi ed aspetti e circostanze di eventi della storia umana sono di fatto prevedibili (bianchi), altri no (neri), nessuno é contraddittoriamente prevedibile-imprevedibile (grigio).
Resta il fatto che se si dà ordine si dà necessità oggettiva e la possibilità, il libero arbitrio é solo illusorio. E tuttavia reale in quanto illusione nell' agire umano per la limitatezza delle conoscenze possibili di fatto e dunque l' esistenza di possibili alternative di fatto pensabili e desiderabili, per le quali agire.
Rispondo a Donalduck:
"Bisogna chiarire cosa si intende per "realtà esistente indipendente dalla soggettività". Se si parla di soggettività individuale, è abbastanza facile essere d'accordo che l'esistenza o meno di un singolo soggetto cosciente tra tanti non incide sull'esistenza della realtà, ma se invece si intende una realtà indipendente da qualsiasi soggettività è tutta un'altra storia. In quest'ultimo caso ritengo che sia perfino logicamente contradditorio ipotizzarla."
Forse precedentemente sono stato impreciso... quando parlavo di indipendenza della realtà dalla soggettività mi riferivo alla soggettività intesa come soggettività "mentale", soggettività pensante, non soggettività tout court. Se si dà al soggetto un'accezione che va al di là del suo essere "pensante" allora mi sembra abbastanza evidente che la realtà non che essere prodotto di un soggetto, a condizione di dare a tale concetto il significato più ampio possibile, non solo soggetti umani, ma anche semplici agenti fisici che producono un'azione. Concepita la storia come un insieme di eventi o anche un semplice insieme di realtà esistenti occorre attribuire a tali eventi o esistenze una causa agente che li produca, dunque un soggetto, ma soggetto inteso come soggetto agente non necessariamente soggetto pensante e conoscente. Ciò che io contestavo è l'idea della dipendenza del reale, non da un soggetto inteso genericamente, ma dalla pensabilità o conoscibilità di tale realtà. Sostenevo l'autonomia del reale da un soggetto pensante, non da un soggetto in senso generico, che non si riduce certo al pensiero, ma produce la sua azione causale anche indipendentemente dal fatto di pensare l'oggetto che produce. Il riferimento all' "informazione" non è sufficiente a giustificare la dipendenza della realtà dal pensiero, l'informazione è la base della conoscenza, dunque può essere vista come base anche del reale soltanto accettando pregiudizialmente l'idea che la realtà si riduca alla conoscenza che abbiamo di essa, che invece è proprio quello che stiamo cercando di dimostare come risultato finale. In altre parole: vero che l'informazione è ciò che costituisce la realtà intesa come oggetto della conoscenza, ed è vero che l'informazione implica una mente che riceva l'informazione, ma bisogna ancora dimostrare che la realtà si riduca davvero all'essere oggetto di una conoscenza: perchè la realtà deve necessariamente emettere informazioni a una mente? Non è possibile ammettere una realtà che si limita a esistere tranquillamente senza necessità di informare un soggetto pensante della sua esistenza? Comunque questo discorso non voglio estremizzarlo fino al punto di escludere il pensiero da qualunque ruolo all'interno della produzione di ciò che esiste. Ma l'azione del dare esistenza a un oggetto potrebbe porre l'idea di tale oggetto (cioè la conoscenza) come ausilio, fattore che contribuisce a progettare le cose così come poi di fatto si realizzano. Resta il fatto che l'idea, il pensiero, in quanto tali non producono effetti sul mondo reale, contribuiscono a progettarlo, ma l'atto creativo del reale non può che essere un altro reale: il soggetto che produce l' esistenza del reale non può che essere un altro reale, non l'idea che di per sè è qualcosa di statico
Per quanto riguarda l'ultima parte, certamente qualunque prodotto creato assume significati che vanno al di là di quelli attribuiti dall'autore, io ho fatto l'esempio dell'opera d'arte, ma si potrebbe parlare anche di oggetti tecnologici, macchine, orologi... ma questo non cambia comunque il fatto che tanto più si cerca di compendere un oggetto quanto più occorre risalire alle cause che hanno determinato il suo essere, nel caso di un'opera d'arte, queste cause comprenderenno il soggetto che l'ha prodotto materialmente, l'autore, e poi gli ulteriori significati che nella storia sono stati attribuiti da intepreti successivi. La possibilità che ho io, attualmente, in questo momento, di attribuire a un'opera un significato originale, diverso da quelli dati nel passato è ammissibile proprio nella misura in cui l'opera possiede un suo senso oggettivo per il quale contiene in modo latente la potenzialità di intepretazioni diverse da quelle finora date. Nella misura in cui un concetto coincide una realtà oggettivamente presente posso indagarla nella mia esperienza diretta e, appunto, attuale dell'oggetto. Nella misura in cui il concetto è una creazione di una mente e non esiste se non in relazione a quella mente mi pare inevitabile vincolare la comprensione di quel concetto al pensiero che l'ho storicamente prodotto. Non cambia granchè il fatto che siano dati significati successivi rispetto a quello dato dal primo iniziatore di qul concetto, in quel caso la comprensione di quel concetto coinciderà con la storia della sedimentazione semantica che quel concetto ha via via subito da menti diverse. E sarà una comprensione storica, perchè quel concetto essendo determinato dalla mente del/dei pensatore/pensatori e non coincidente con un oggetto reale e presente non potrà essere compreso in un'esperienza diretta e attuale che ognuno di noi può compiere in qualunque momento, a causa appunto dell'assenza di tale oggetto "qui e ora" disponibile a cui far corrispondere il concetto in questione. Spero di essere stato un minimo chiaro...
Davintro ha scritto:
CitazioneForse precedentemente sono stato impreciso... quando parlavo di indipendenza della realtà dalla soggettività mi riferivo alla soggettività intesa come soggettività "mentale", soggettività pensante
Effettivamente parlando di "
linguaggio" ho reso la frase un po' ambigua, ma non mi riferivo a un soggetto come entità puramente linguistica,
intendevo proprio il soggetto come coscienza pensante. E' da questo soggetto pensante che ritengo la realtà non possa essere in alcun modo affrancata. O per lo meno non abbiamo nessun dato che ci possa indurre a pensarlo, anche se, ovviamente, mi rendo conto che nel "senso comune corrente" non sembra proprio essere così.
Ma se riflettiamo sul fatto, per quanto ovvio, che tutto quello che forma il soggetto di tutto il nostro sapere, e che forma quella che chiamiamo "realtà", proviene da un "atto cognitivo" della coscienza e alla coscienza si indirizza, può capitare che arriviamo alla conclusione che supporre una "realtà" che esiste "inosservata" è una libera fantasia priva di basi sia nell'esperienza che nella logica. Infatti qualunque elemento di qualunque realtà risulta da un
processo di trasmissione di informazioni che deve avere un mittente e un destinatario. E un destinatario in grado di "
riconoscere" l'informazione, di
attestarne l'esistenza, non semplicemente di esserne il bersaglio. Qualunque cosa possiamo intendere quando designamo un oggetto, ad esempio "tavolo",
risulta dalla nostra percezione di segnali provenienti dal "mondo esterno" e dalla loro elaborazione soggettiva. Possiamo attribuire alla "cosa in sé" qualunque grado o modalità di "realtà" vogliamo, ma quello che sappiamo, quello di cui siamo effettivamente testimoni, è un
processo di comunicazione che non potrebbe avvenire senza un "due".
L'
uno è solo la potenzialità, il
due l'attualità, il
tre il riconoscimento. Ho trovato interessante lo sviluppo che ha fatto Pierce di questi "concetti numerici", come anche qualcosa relativo alla "genesi", ricondotta a questi stessi concetti, che mi capitò di leggere in un peraltro piuttosto oscuro testo (la cui lettura ho presto interrotto), "La dottrina segreta" della teosofa Blavatsky.
Una coscienza senza nulla da osservare non può essere cosciente di nulla; anche per essere cosciente di sé stessa deve in qualche modo sdoppiarsi e generare l'oggetto. Una realtà senza osservatori non ha la possibilità di essere rilevata, quindi risulta assai arduo dire in cosa consisterebbe la sua "esistenza". Ma nel momento (logico) in cui si attua una comunicazione, un flusso di informazioni, si hanno realtà e coscienza "in esistenza" ossia "in atto". Non credo sia un caso, se anche tra i fisici, qualcuno stia cominciando a prendere in considerazione l'ipotesi che il "fondamento più fondamentale" dell'esistenza che conosciamo sia l'
informazione.
Quindi l'incongruenza "linguistica" di cui parlavo riflette un'incongruenza concettuale, relativa ai significati: volevo dire che son questi, e non soltanto i termini che li designano, ad essere come i due lati inseparabili di una moneta.
provo a rispondere sia a Green Demetr sia a Donalduck dato che a quanto ho capito all'incirca stanno esponendo entrambi il tema di una supposta dipendenza della realtà dal pensiero.
Donalduck scrive:
"Ma se riflettiamo sul fatto, per quanto ovvio, che tutto quello che forma il soggetto di tutto il nostro sapere, e che forma quella che chiamiamo "realtà", proviene da un "atto cognitivo" della coscienza e alla coscienza si indirizza, può capitare che arriviamo alla conclusione che supporre una "realtà" che esiste "inosservata" è una libera fantasia priva di basi sia nell'esperienza che nella logica"
Mi pare che il discorso resti qui all'interno della dimensione dei limiti del nostro sapere. Ovvio che ciò che possiamo sapere della realtà necessariamente è costituito in modo da corrispondere ai concetti e alle categorie della nostra coscienza, è interno alla "pensabilità". Ovvio che la stessa affermazione di una realtà in sè del tutto separata dalla coscienza sia un assurdo in quanto nel momento in cui ne affermo l'esistenza la sto in qualche modo pensando, concettualizzando.... per questo anche prima scrivevo che l'ipotesi del solipsismo è una possibilità che non si può non prendere in considerazione. Posso arrivare a spingermi ad affermare che la realtà e la pensabilità finiscano col coincidere: tutto ciò che è reale è costituito da delle modalità esistenziali che corrispondono alle categorie e ai concetti della nostra mente, che li rendono pensabili e conoscibili e e ciò che sfugge alla nostra conoscenza non è al di là di un limite della pensabilità in generale, ma solo della nostra conoscenza umana, conoscenza di un essere ontologicamente limitato e imperfetto. Eppure... neanche in questo caso (il massimo che mi sento di concedere a un idealismo) sarebbe giustificabile l'idea della dipendenza dell'esistenza del reale dal pensiero. Cioè, la corrispondenza concetti mentali-cose esistenziali è presente ma non è condizione sufficiente e necessaria del loro esistere. Per la semplice ragione che l'atto causale di produzione di esistenza implica un soggetto dotato di "forza", reale, capace di produrre effetti performativi sul reale (operare il passaggio dalla non-esistenza di qualcosa all'esistenza). Come è evidente la coscienza non è capace di produrre effetti performativi sulla realtà, di modificarla, di agire su essa, non direttamente. La coscienza rispecchia in sè la realtà ma non la crea, non la modifica (anche se è un fattore necessario dell'opera di modifica che l'uomo può fare) Per produrre direttamente essa dovrebbe essere a sua volta un ente reale, dotata cioè di un concreto potere causale. La coscienza non è un fatto reale, è un modo d'essere del soggetto pensante, della persona umana. La coscienza, il pensiero si rendono concreti solo come espressioni di cause reali, siano esse di ordine biologico, psichico, spirituale... Come giustamente diceva Cartesio "Cogito ergo sum". Il mio pensiero implica un reale soggetto pensante che pensi. Il pensiero di per sè sarebbe solo astrazione... esso è il punto di partenza dal punto di vista dell'argomentazione riguardo a qualunque esistenza possibile, ecco perchè non posso mai trascendere il pensiero in qualunque mio giudizio sulla realtà, ma dal punto di vista ontologico il pensiero è conseguenza di una realtà che pensa, la cui esistenza comprende il fatto di pensare, ma non è da tale fatto determinato
Riguardo alla citazione di Kant fatta da Green demetr dico che è probabilmente vero che l'idealismo sia stata la conseguenza necessaria di quel modello kantiano, ma quel modello gnoseologico non è necessariamente (almeno per me non lo è) quello più valido possibile. Ad esempio quello fenomenologico husserliano, nei stretti limiti in cui credo di averlo compreso, mi sembra superiore: in particolare l'idea della "sintesi passiva" per cui il livello dell'esperienza che precede e fonda quello intellettuale della formazioni dei giudizi, cioè quello iletico dell'apprensione del materiale, non è di per sè cieco e disordinato, ordinato solo a partire dalle categorie dell'intelletto soggettivo, ma sarebbe già permeato da un'intenzionalità per la quale la nostra percezione soggettiva è costantemente modificata dalla passività delle sensazioni. La percezione possiede già un'intenzionalità: non si limita a cogliere il singolo lato di un oggetto che colpisce il nostro attuale campo sensitivo, ma lega quel lato a lati nascosti creando una "sintesi anticipativa" destinata però a modificarsi nel corso degli adombramenti dell'oggetto che di volta in volta mostra i suoi lati. Se da lontano vedo una forma umana avrò (in base alla memoria di esperienze simili, processo associativo) la percezione di un essere umano, man mano che mi avvicino, scoprendo nuovi lati dell'oggetto, mi renderò conto che in realtà non era realmente un uomo, ma un manichino: la passività della sensazione ha modificato la percezione dell'oggetto dandole un nuovo senso. L'oggetto si è reso attivo nei confronti della coscienza e da ciò si può dedurre la sua autonomia da questa. Esiste dunque un senso presente negli oggetti che interviene sull'esperienza e la conoscenza che abbiamo di essi, e questa modifica è possibile perchè tale senso era tale indipendentemente dall'arbitrio della mia coscienza soggettiva. Questa riceve il suo contenuto a partire dall'essere "colpita" passivamente da qualcosa di ulteriore, di trascendente ad esso, che si annuncia prima di tutto nelle sensazioni che comunicano il contenuto oggettivo alla coscienza, anzi rendendo di fatto possibile la coscienza stessa, che è coscienza in quanto intenzionalità, coscienza è sempre coscienza di qualcosa , rivolta a un mondo di oggetti trascendenti. Il mio "realismo" non vuole arrivare all'assurdo di dire che gli oggetti sono intesi separatamente da un soggetto che li intende, vuole riconoscere un loro senso al di là di un arbitrio relativistico per cui ciascuna singola coscienza individuale può dire sulla realtà tutto e il contrario di tutto vanificando di fatto qualunque concezione di verità, di scienza, dunque di filosofia...
@davintro
Sono d'accordo con te. Coscienza è sempre "coscienza di...". Non è dato fare esperienza di nessun tipo di coscienza avulso dalle sensazioni . Persino nell'estasi, che si manifesta senza segni, cioè senza percezioni sensoriali, si ottiene coscienza di...gioia,beatitudine,equanimità,ecc.
Il solipsismo è un'artificio concettuale. Il pensiero che pensa se stesso, anche solo per formulare a se stesso la domanda:"Sono io che sto pensando?", deve costruire un'immagine di sè. E come la costruisce se non partendo dalle sensazioni che formano questa supposta immagine di sè? E le immagini costruite dalle sensazioni hanno un nome, quindi il pensiero che pensa se stesso (coscienza) può formulare il concetto di pensarsi solo attraverso un linguaggio (Wittgenstein mi sembra parli di questo...se non erro). E il linguaggio si impara dall'ambiente circostante. Mi sembra una prova, indiretta ma sempre una ragionevole prova, che non esiste solo la coscienza ma pure un mondo fenomenico esterno ad essa. Infatti la nostra memoria di esistere inizia con l'inizio dell'apprendimento del linguaggio.Abbiamo dei flashback sensoriali dei primissimi anni di vita, ma solo nel ricordo e nominandoli, diventano intelleggibili e coscienti per noi. Per es. da neonato vedevo l'orlo della carrozzina, ma solo quando ho appreso , con il linguaggio, che quello veniva denominato orlo della carrozzina è sorta in me la coscienza di aver visto l'orlo di una carrozzina. C'è poi un tipo di coscienza istintiva, di specie, che però mi sembra sconfini in altri territori. Questa istintività è comune anche alle altre forme di vita senziente ( che provano cioè appagamento e dolore).
Per me, senza Mondo non vi è coscienza. Ma senza coscienza chi può dire vi sia un Mondo?
Sono anche d'accordo con Maral quando dice che, va bene discutere di filosofia, ma bisogna pure conoscere il significato dei termini usati nel linguaggio filosofico e questo lo si apprende con lo studio della storia della filosofia stessa.Però per ragionare non è necessario conoscere la storia della filosofia. Una normale cultura e la conoscenza di un significativo numero di vocaboli è sufficiente, a parer mio. Si rimane nel campo delle opinioni ( che mi sembra di capire non siano di molto credito per Maral ) ? Certamente sì, ma...non sono opinioni pure quelle dei grandi filosofi? O sono ragionamenti? Semmai si può far distinzione in base alla qualità del ragionamento espresso... :-[. ma il ragionare , anche balbettando sui massimi sistemi, è una prerogativa dell'essere umano. Pertanto rivendico il diritto di chiunque di "far filosofia" (che meraviglia...), ognuno con i propri limiti, lontano dallo snobismo accademico. Cosa c'è di più intimamente libero del "far filosofia"? Chi ti può impedire di ragionare sul senso della tua vita?...
Sariputra scrive:
Per me, senza Mondo non vi è coscienza. Ma senza coscienza chi può dire vi sia un Mondo?
in un certo senso si potrebbe forse dire che sono i due poli complementari (quindi non contrapposti) dell'Universo - UNO (?)
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ognuno con i propri limiti, lontano dallo snobismo accademico. Cosa c'è di più intimamente libero del "far filosofia"? Chi ti può impedire di ragionare sul senso della tua vita?...
sono d'accordo...secondo me quella sarebbe solo una chiusura,mettere un confine e definire qualcosa che di per se e' indefinito ma non per questo comprensibile a sua volta
Davintro:
CitazioneLa coscienza rispecchia in sè la realtà ma non la crea, non la modifica
CitazioneLa coscienza non è un fatto reale, è un modo d'essere del soggetto pensante, della persona umana
CitazioneEsiste dunque un senso presente negli oggetti che interviene sull'esperienza e la conoscenza che abbiamo di essi, e questa modifica è possibile perchè tale senso era tale indipendentemente dall'arbitrio della mia coscienza soggettiva. Questa riceve il suo contenuto a partire dall'essere "colpita" passivamente da qualcosa di ulteriore, di trascendente ad esso, che si annuncia prima di tutto nelle sensazioni che comunicano il contenuto oggettivo alla coscienza, anzi rendendo di fatto possibile la coscienza stessa, che è coscienza in quanto intenzionalità, coscienza è sempre coscienza di qualcosa , rivolta a un mondo di oggetti trascendenti
Ho evidenziato le parti del tuo discorso con cui mi trovo particolarmente in disaccordo. Ho notato che appartengono tutte al tanto diffuso pregiudizio kantiano del noumeno o della cosa in sé,che stabilisce che la percezione (intesa non come impressione sensoriale,bensi come sua rielaborazione) abbia come riferimento un oggetto che la trascende. Anche il fatto che la fonte della percezione sia un oggetto è discutibile. L'uomo riceve sensazioni sparse dall'esterno,non oggetti precostituiti già pronti per poter essere utilizzati dall'intelletto. Il problema è che il processo cognitivo agisce in noi,esseri adulti e formati,in maniera così immediata e veloce che abbiamo finito per credere che la coscienza si limiti a riprodurre fedelmente la realtà cosi com'è. Un oggetto resta pur sempre un'elaborata astrazione mentale,non ha significato se non all'interno di una coscienza che lo riconosca come tale. Sariputra:CitazionePer me, senza Mondo non vi è coscienza. Ma senza coscienza chi può dire vi sia un Mondo?
Il dire è già un azione che presuppone una coscienza,quindi direi che la risposta è già contenuta nella domanda. Per il resto concordo in pieno con ciò che hai scritto.
"Ho evidenziato le parti del tuo discorso con cui mi trovo particolarmente in disaccordo. Ho notato che appartengono tutte al tanto diffuso pregiudizio kantiano del noumeno o della cosa in sé,che stabilisce che la percezione (intesa non come impressione sensoriale,bensi come sua rielaborazione) abbia come riferimento un oggetto che la trascende.
Anche il fatto che la fonte della percezione sia un oggetto è discutibile. L'uomo riceve sensazioni sparse dall'esterno,non oggetti precostituiti già pronti per poter essere utilizzati dall'intelletto. Il problema è che il processo cognitivo agisce in noi,esseri adulti e formati,in maniera così immediata e veloce che abbiamo finito per credere che la coscienza si limiti a riprodurre fedelmente la realtà cosi com'è. Un oggetto resta pur sempre un'elaborata astrazione mentale,non ha significato se non all'interno di una coscienza che lo riconosca come tale. "
In realtà più che la gnoseologia kantiana (che riducendo la conoscenza al piano dei fenomeni e lascia il noumeno come inconoscibile non potrebbe ammettere l'idea di una "cosa in sè" e dovrebbe considerare la conoscenza come pura attività ordinatrice dell'intelletto. Per questo, su ciò, sono d'accordo con Green Demetr sul fatto che sia l'idealismo lo sbocco coerente del kantismo...) avevo in mente l'idea della sintesi passiva delle fenomenologia di Husserl poi ripresa, tra gli altri, dalla sua allieva Edith Stein
A parte i riferimenti storici...
Ovviamente la conoscenza consiste in un processo cognitivo, nessuno lo nega. Ma questo processo cognitivo (al di là della rapidità o meno di esecuzione che ora non ci interessa) si dispiega nel tempo, cioè è un processo diacronico. La temporalità è la struttura fondamentale della coscenza umana. E proprio questa temporalità testimonia necessariamente l'esistenza di un mondo oggettivo autonomo dal soggetto che regge la possibilità della conoscenza. Perchè in assenza di un senso delle cose oggettive preesistente per un certo aspetto all'attività dell'io-penso non ci sarebbe temporalità. In assenza di nulla di trascendente rispetto ad essa la coscienza soggettiva, come creatrice assoluta della realtà, sarebbe una coscienza divina, assoluta, non necessitante di "tempo". per la formazione del sapere delle cose: la sua conoscenza dell cose sarebbe sovratemporale, istantanea, nell'atto in cui pone se stessa la coscienza porrebbe la visione totalizzante della realtà, che sarebbe pienamente immanente, "interna" ad essa. Ovviamente non è così. I processi cognitivi che fondano la conoscenza si costituiscono nel tempo, in quanto questi processi, l'attività formatrice dell'io, devono costantemente superare uno scarto, un residuo di trascendenza del reale che in ogni momento interviene sui nostri schemi percettivi modificandoli (l'esempio del manichino che facevo prima), modificando i nostri schemi associativi che conserviamo nella memoria in base ai quali formiamo le percezioni, il cui decorso però è dato dallo svelarsi, da parte dell'oggetto, dei suoi lati. Questa è in sintesi la conoscenza umana. Unità di intenzionalità attiva della coscienza che interviene sulle sensazioni ordinandole in concetti e categorie da una parte, ma dall'altra, intenzionalità passiva, per cui sono le cose oggettive ad intervenire sull'io offrendo ad esso i contenuti da formare: il rumore che sento all'improvviso stimola il mio io a spostare la sua attenzione da un luogo dell'esperienza a quello dove il rumore viene avvertito. Come sarebbe possibile ciò senza l'esistenza di qualcosa di esterno all'io che ne modifica la direzione d'attenzione?
Citazione di: davintro il 29 Aprile 2016, 20:27:57 PMIn realtà più che la gnoseologia kantiana (che riducendo la conoscenza al piano dei fenomeni e lascia il noumeno come inconoscibile non potrebbe ammettere l'idea di una "cosa in sè" e dovrebbe considerare la conoscenza come pura attività ordinatrice dell'intelletto. Per questo, su ciò, sono d'accordo con Green Demetr sul fatto che sia l'idealismo lo sbocco coerente del kantismo...) avevo in mente l'idea della sintesi passiva delle fenomenologia di Husserl poi ripresa, tra gli altri, dalla sua allieva Edith Stein
A parte i riferimenti storici...
Ovviamente la conoscenza consiste in un processo cognitivo, nessuno lo nega. Ma questo processo cognitivo (al di là della rapidità o meno di esecuzione che ora non ci interessa) si dispiega nel tempo, cioè è un processo diacronico. La temporalità è la struttura fondamentale della coscenza umana. E proprio questa temporalità testimonia necessariamente l'esistenza di un mondo oggettivo autonomo dal soggetto che regge la possibilità della conoscenza. Perchè in assenza di un senso delle cose oggettive preesistente per un certo aspetto all'attività dell'io-penso non ci sarebbe temporalità. In assenza di nulla di trascendente rispetto ad essa la coscienza soggettiva, come creatrice assoluta della realtà, sarebbe una coscienza divina, assoluta, non necessitante di "tempo". per la formazione del sapere delle cose: la sua conoscenza dell cose sarebbe sovratemporale, istantanea, nell'atto in cui pone se stessa la coscienza porrebbe la visione totalizzante della realtà, che sarebbe pienamente immanente, "interna" ad essa. Ovviamente non è così. I processi cognitivi che fondano la conoscenza si costituiscono nel tempo, in quanto questi processi, l'attività formatrice dell'io, devono costantemente superare uno scarto, un residuo di trascendenza del reale che in ogni momento interviene sui nostri schemi percettivi modificandoli (l'esempio del manichino che facevo prima), modificando i nostri schemi associativi che conserviamo nella memoria in base ai quali formiamo le percezioni, il cui decorso però è dato dallo svelarsi, da parte dell'oggetto, dei suoi lati. Questa è in sintesi la conoscenza umana. Unità di intenzionalità attiva della coscienza che interviene sulle sensazioni ordinandole in concetti e categorie da una parte, ma dall'altra, intenzionalità passiva, per cui sono le cose oggettive ad intervenire sull'io offrendo ad esso i contenuti da formare: il rumore che sento all'improvviso stimola il mio io a spostare la sua attenzione da un luogo dell'esperienza a quello dove il rumore viene avvertito. Come sarebbe possibile ciò senza l'esistenza di qualcosa di esterno all'io che ne modifica la direzione d'attenzione?
Specifico che,se non si fosse capito dal precedente post,non sono solipsista. Però un conto è pensare che esista una dimensione autonoma dall'attività cosciente,un'altro è credere che questa dimensione sia dotata di senso proprio. Se eliminiamo la coscienza non c'è significato che si mantenga.
La coscienza "crea" un oggetto non nel senso che lo produce ex novo,ma selezionando e isolando una gamma di impressioni che lo definiscono fra la totalità degli stimoli che il cervello riceve dall'ambiente interno o esterno. Al di fuori di questo processo,nulla ci autorizza ad affermare che uno stimolo costituisca di per sé,appunto,la proprietà di un oggetto che si svela. Questo è il punto che mi premeva rimarcare.
Citazione di: sgiombo il 26 Aprile 2016, 11:57:49 AMA Davintro Non concordo (ma potrebbe anche darsi che si tratti solo di intendersi sul significato che diamo alle parole) con la concezione del "caos, inteso come conflitto tra agenti causali rivolti ad effetti opposti, nel quale gli agenti dotati di maggior forza si impongono su quelli più deboli e danno alla storia una certa direzione" : per me questo non é caos ma ordine, solo "non semplice, ma particolarmente complesso"; caos sarebbe un mutamento non riconducibile a cause universalmente e costantemente agenti ciascuna in un determinaro modo (con determinati effetti), sia pure fra loro interagenti in un intreccio complesso e di fatto non calcolabile (ma in linea di principio sì), imprvedibile di fatto ma non disordinato, . In questo caso si dà prevedibilità degli eventi (almeno in linea teorica, di principio; di fatto può essere impossibile in caso di eccessiva complessità e limitata conoscenza dei temini in gioco), e cioé, purché si abbia adeguata conoscenza della situazione a un determinato tempo assunto come "iniziale", c' é la necesità teorica di pensare che gli eventi accadano così come accadono e non altrimenti: Invece nel caso di mutamento caotico non c' é alcuna necesità teorica (né possibilità, se non per puro caso) di pensare che gli eventi accadano coasì come accadono e non altrimenti. Quindi a mio parere la questione della necessità o meno (di pensare gli eventi futuri compatibilmente con la conoscenza dei presenti) si identifica con quello dell' ordine o caos nel loro accadere e suseguirsi. Questo però solo in linea puramente di principio. Ma concordo che "Si può dire che [in caso di divenire ordinato, causalmente determninato] la possibilità di ammettere come realmente possibili scenari alternativi a quelli realmente accaduti, ucronie varie, sia una possibilità [di fatto] che è tale quanto più la nostra conoscenza razionale della storia sia limitata. La conoscenza razionale è un "sapere di cause", e quanto più attribuiamo cause agli effetti che osserviamo quanto più dobbiamo limitare le possibilità di pensare alternative che sarebbero potute ragionevolmente accadere...". Si tratterebbe per me comunque di una possibilità meramente illusoria, conseguente la limitata conoscenza e "calcolabilità di fatto" dei fattori in gioco. Ed effettivamente (in questo preciso e correggo quanto scritto nel precedente intervento grazie alla sollecitazione della tua osservazione critica) oggettivamente o si dà ordine (= necessità, prevedibilità almeno teorica, in linea di principio; che potrebbe essere solo statistica in insiemi numerosi di eventi o anche dei singoli eventi a secofìda dei casi) oppure si dà disordine (imprevedibilità, possibilità di prevedere come possibili diverse alternative): tertium non datur. Ritengo infatti il coesistere dialettico, l' "interagire in qualità di contrari" di ordine-necessità e di disordine-possibilità nella storia in ultima analisi solo soggettivo, apparente all' umanità (individui, classi sociali, popoli, ecc.), che nel porsi i suoi scopi é condizionata dai limiti invalicabile delle sue conoscenze dei fattori in gioco. Ma la possibilità umana di conoscere fattori in gioco in generale é sempre limitata e in particolare nella storia é sempre limitatissima; e questo consente la possibilità di prevedere di fatto e di agire per più possibili esiti alternativi (anche se non in numero illimitato, come sarebbe al limite in caso di caos) degli eventi in corso. La questione "sintesi" o "elastico" fra necessità o possibilità nella storia mi sembra puramente terminologica Ovvio che alternanza e coesistenza di bianco e di nero sono diversa cosa da grigio; ma dicendo che nella storia convivono elementi di prevedibilità e di imprevedibilità (di fatto, dal punto di vista umano soggettivo) non intendevo dire che esiste un' impossibile condizione che sta alla prevedibilità e all' imprevedibilità come il grigio sta al bianco e al nero, ma casomai come la coesistenza di parte di bianco e di parte di nero (diciamo la maglia della Juventus) sta al solo bianco "tinta unita" e al solo nero "tinta unita"; fuor di metafora, alcuni eventi ed aspetti e circostanze di eventi della storia umana sono di fatto prevedibili (bianchi), altri no (neri), nessuno é contraddittoriamente prevedibile-imprevedibile (grigio). Resta il fatto che se si dà ordine si dà necessità oggettiva e la possibilità, il libero arbitrio é solo illusorio. E tuttavia reale in quanto illusione nell' agire umano per la limitatezza delle conoscenze possibili di fatto e dunque l' esistenza di possibili alternative di fatto pensabili e desiderabili, per le quali agire.
Sì, penso che riguardo la definizione di "caos" la differenza tra le nostre posizioni sia esclusivamente terminologica... e mi sembra che solo a partire dalla definizione di caos che dò io il caos possa essere realmente compresente accanto all'ordine, mentre seguendo la tua definzione la dialettica ordine-caos evidentemente coincide con quella prevedibilità-imprevedibilità Comunque essendo una questione terminologica, ha poco senso discutere se la mia definizione sia più o meno valida rispetto alla tua...
Intravedo, per come mi pare di aver capito, un punto di incontro tra di noi nell'idea che prevedibilità e imprevedibilità siano categorie soggettive di una mente e non proprietà entrambe presenti e conciliabili nella storia. Cioè, l'impossibilità di prevedere sviluppi futuri degli eventi non sarebbe data da qualcosa che sfugge all'ordine necessario della realtà, ma solo dagli stretti limiti del nostro sapere su di essa. Non esisterebbe dunque indeterminismo, caos (caos nel senso che gli dai tu). In parole povere, il caso non esiste, è solo ignoranza. Ignoranza di cause a noi nascoste.
Dissento vivamente invece sull'idea che la questione "miscuglio" e "sintesi" sia anch'essa riducibile a mera questione terminologica. Invece è fondamentale... cos'è la storia? Potremmo definirla genericamente un dinamismo, e come si costituisce il dinamismo, un divenire? Direi, sempre come un passaggio da un contrario all'altro. Il riscaldamento è il divenire che subisce la pietra esposta al sole. Questo divenire (potremmo definirlo come "la storia" della pietra) si pone come passaggio progressivo dal freddo al caldo. Il sasso continua a riscaldarsi fintanto che si pone come "miscuglio" di caldo e freddo. Il divenire, qualunque divenire, compreso quello propriamente definibile come "storia", resta tale fintanto che non viene raggiunta una condizione nella quale un contrario cessa di opporre una resistenza alla direzione impressa dal principio causale opposto. Una volta cessata la resistenza, il polo "vincente" potrà identificarsi pienamente con l'oggetto che ha spinto a muoversi verso la sua direzione, e cesserà il dinamismo, come l'elastico, che una volta che una delle due dita cessa di tirarlo dalla sua parte si rilassa e perde la sua tensionalità. La sintesi, condizione di armonia e superamento di contrasto tra tesi e antitesi, coinciderebbe con la fine del dinamismo storico, il movimento ha raggiunto la sua fine ( e il suo fine) eliminando tutti gli ostacoli, riassoberdolì a sè, non a caso, spero di non dire stupidaggini, in Hegel era presente l'idea che il raggiungimento della Sintesi Assoluta avrebbe significato la fine della filosofia (che per lui coincideva con la storia della filosofia)... Eraclito, per il quale invece il divenire è guerra tra contrari, avrebbe mai concepito una fine del divenire in un sintesi? Per Eraclito il divenire era eterno in quanto non "sintesi", bensì "miscuglio", amalgama di contrari in continua tensione. Qua si parla di eternità o conclusione della storia... altro che terminologia!
La maglia della Juventus è una mera res extensa, spazio in cui possono convivere due contrari, bianco e nero, a condizione di spartirsi spazi delimitati e distinti. Ma la metafora non ci aiuta nel piano della storia, perchè la storia umana non è uno spazio vuoto che posso colorare di tinte diverse come una maglietta. La storia è, chiaramente, un complesso globale di relazioni che legano soggettività agenti, eventi in una rete all'interno della quale non ha senso concepire cause ed effetti isolati fra loro, per il quale si potrebbe sostenere una separazione tra un ordine di eventi ordinato e prevedibile in linea di principio e una serie di eventi caotica, come se la storia fosse una torta divisibile in due parti che posso condire con ingredienti diversi senza che il condimento di una fetta influenzi il condimento dell'altra. Accettando una visione olistica della storia, un sistema globale di relazioni che la rende più della somma delle sue parti, non ha senso pensare ad una separazione rigida tra aspetti opposti fra loro. Prevedibile e imprevedibile non si spartiscono sfere di influenza come fanno due capi di nazioni che si accordano dopo un trattato di pace, ma si autoescludono (mentre ordine e caos, caos nella misura in cui lo definisco io, sarebbero compresenti ma non pacificamente separati tra loro, ma come contrapposte polarità di una tensione dinamica) Del resto, ammettendo, come tu stesso sopra avevi mi sembra riconosciuto, che l'imprevedibile è solo ignoranza di cause, elemento della mente e non reale, non avrebbe senso continuare ad attribuire a tale principio indeterministico un fondamento reale e oggettivo
Citazione di: davintro il 30 Aprile 2016, 16:36:02 PMDissento vivamente invece sull'idea che la questione "miscuglio" e "sintesi" sia anch'essa riducibile a mera questione terminologica. Invece è fondamentale... cos'è la storia? Potremmo definirla genericamente un dinamismo, e come si costituisce il dinamismo, un divenire? Direi, sempre come un passaggio da un contrario all'altro. Il riscaldamento è il divenire che subisce la pietra esposta al sole. Questo divenire (potremmo definirlo come "la storia" della pietra) si pone come passaggio progressivo dal freddo al caldo. Il sasso continua a riscaldarsi fintanto che si pone come "miscuglio" di caldo e freddo. Il divenire, qualunque divenire, compreso quello propriamente definibile come "storia", resta tale fintanto che non viene raggiunta una condizione nella quale un contrario cessa di opporre una resistenza alla direzione impressa dal principio causale opposto. Una volta cessata la resistenza, il polo "vincente" potrà identificarsi pienamente con l'oggetto che ha spinto a muoversi verso la sua direzione, e cesserà il dinamismo, come l'elastico, che una volta che una delle due dita cessa di tirarlo dalla sua parte si rilassa e perde la sua tensionalità. La sintesi, condizione di armonia e superamento di contrasto tra tesi e antitesi, coinciderebbe con la fine del dinamismo storico, il movimento ha raggiunto la sua fine ( e il suo fine) eliminando tutti gli ostacoli, riassoberdolì a sè, non a caso, spero di non dire stupidaggini, in Hegel era presente l'idea che il raggiungimento della Sintesi Assoluta avrebbe significato la fine della filosofia (che per lui coincideva con la storia della filosofia)... Eraclito, per il quale invece il divenire è guerra tra contrari, avrebbe mai concepito una fine del divenire in un sintesi? Per Eraclito il divenire era eterno in quanto non "sintesi", bensì "miscuglio", amalgama di contrari in continua tensione. Qua si parla di eternità o conclusione della storia... altro che terminologia!
La maglia della Juventus è una mera res extensa, spazio in cui possono convivere due contrari, bianco e nero, a condizione di spartirsi spazi delimitati e distinti. Ma la metafora non ci aiuta nel piano della storia, perchè la storia umana non è uno spazio vuoto che posso colorare di tinte diverse come una maglietta. La storia è, chiaramente, un complesso globale di relazioni che legano soggettività agenti, eventi in una rete all'interno della quale non ha senso concepire cause ed effetti isolati fra loro, per il quale si potrebbe sostenere una separazione tra un ordine di eventi ordinato e prevedibile in linea di principio e una serie di eventi caotica, come se la storia fosse una torta divisibile in due parti che posso condire con ingredienti diversi senza che il condimento di una fetta influenzi il condimento dell'altra. Accettando una visione olistica della storia, un sistema globale di relazioni che la rende più della somma delle sue parti, non ha senso pensare ad una separazione rigida tra aspetti opposti fra loro. Prevedibile e imprevedibile non si spartiscono sfere di influenza come fanno due capi di nazioni che si accordano dopo un trattato di pace, ma si autoescludono (mentre ordine e caos, caos nella misura in cui lo definisco io, sarebbero compresenti ma non pacificamente separati tra loro, ma come contrapposte polarità di una tensione dinamica) Del resto, ammettendo, come tu stesso sopra avevi mi sembra riconosciuto, che l'imprevedibile è solo ignoranza di cause, elemento della mente e non reale, non avrebbe senso continuare ad attribuire a tale principio indeterministico un fondamento reale e oggettivo
Devo confessare (l' avevo già fatto anche nel vecchio forum) che fin dai remoti tempi del liceo non ho mai "digerito" Hegel e che avevo usato senza alcuna pretesa di rigore filologico i termini "tesi", "antitesi" e "sintesi" tanto per dare un' idea delle mie convinzioni, credendo anche, forse a torto, di conferire una certa "eleganza formale" al mio ragionamento, ma senza assolutamente intendere di argomentare secondo la dialettica hegeliana (per la verità mi sembrava anche che ciò risultasse molto evidente dalle mie parole).E infatti ho sostenuto che, sia pure in ultima analisi per limiti di fatto insuperabili di completezza e precisione nella conoscenza possibile della materia (la storia umana; cosa che non ho affatto "riconosciuto" o "ammesso", bensì ne sono stato convinto "da sempre"), di fronte all' umanità sta sempre aperto un sia pur limitato ventaglio di possibili (o di fatto ritenute tali: inevitabilmente tali per il pensiero e l' azione soggettiva umana) opzioni reciprocamente alternative e dipendenti, nel loro realizzarsi o meno, dalle scelte concretamente compiute dai soggetti della storia stessa (secondo me fondamentalmente le classi sociali in lotta): per me la storia non avrà fine se non al momento dell' estinzione (per cause naturali oppure "di sua propria mano" e "prematuramente") della nostra specie. Quella della maglia della Juventus era un' altra metafora per cercare di intendersi, cosa che peraltro, se tu prendi tutto alla lettera, risulta certamente molto difficile. Ciò che intendo sostenere è semplicemente che nella storia, così come di fatto si dipana, "viene fatta dall' umanità", esistono sia aspetti di indeterminismo (sia pure in ultima analisi "epistemico"), sia elementi di necessità deterministica: non c' è mai una possibilità indiscriminata, illimitata di esiti ("tutto è possibile, basta volerlo"), ma nemmeno un' unica "direzione possibile" e dunque necessaria, ineluttabile, "fatalistica" (oso sperare che intenda correttamente questa metafora meccanica, per la precisione "cinematica"). Sono drasticamente contrario a qualsiasi sorta di "olismo" (molto di moda): per me il tutto è sempre perfettamente uguale alla somma delle parti (tenuto ovviamente conto anche delle relazioni fra le parti). Che una distinzione (teorica) fra le molteplici forze e tendenze agenti nella storia sia sempre un' astrazione del pensiero (peraltro utile e necessaria, anche in pratica, ovviamente se condotta cum granu salis, senza assolutizzarne nessuna e tenendo conto dei molteplici reciproci rapporti), mentre nei fatti concorrono le une con le altre in un "intreccio" per così dire "inestricabile" (ahi, una metafora: speriamo bene!) mi sembra del tutto ovvio e pacifico. Ma dato che a tua volta usi metafore in abbondanza (anche "colorite", ad sempio gastronomiche, il che non mi schifa di certo: sono un buongustaio!), ti pregherei di non prendere troppo alla lettera e non cercare il pelo nell' uovo in quelle degli altri, ma di cercare di intenderne pazientemente i significati cui intendono alludere (se necessario chiedendo pazientemente chiarimenti).