Per Aristotele esiste solo l'individuale. Apparentemente si contrappone all'idealismo di Platone. Tuttavia nella metafisica di Aristotele la priorità va alla forma, non alla materia. È la forma a determinare l'individuo. La forma intesa come essenza che dall'interno fa in modo che la cosa realizzi se stessa, come deve essere, il suo fine.
Il seme contiene in se' la forma della quercia, dell'albero finito. La forma che plasma dall'interno il seme e che condurrà, guiderà, l'intero processo fino all'individuo compiuto, è anche il suo concetto. L'essenza-concetto di una certa cosa è ciò che ne determina lo sviluppo da dentro e che la fa essere quella specifica cosa e non un'altra.
Questo per quanto riguarda Aristotele.
In Hegel le cose sono simili ma per lui si tratta di approfondire come questi concetti formino un'unità vivente.
C'è un primo momento che è quello in cui l'intelletto analizza i concetti, distinguendoli, l'uno dall'altro.
Tuttavia ogni cosa richiama altre cose, ogni singolo concetto è in relazione con altri concetti. Platone nel Sofista, nella confutazione della filosofia di Parmenide, darà una descrizione del sapere come una rete di idee che il filosofo deve percorrere, idee che sono identiche a se stesse (e in questo si conferma l'idea centrale di Parmenide: l'essere è e non può non essere) ma diverse da tutte le altre (in questo invece ci si allontana da Parmenide: l'essere può non essere, cioè il niente è, ma in senso relativo, riferito a tutte le altre idee).
Ma le idee di Platone sono eterne e separate dal mondo sensibile. Una struttura statica. È il pensiero a scorrere per questa rete di relazioni. Le essenze eterne invece sono come cristallizzate. Legate insieme da relazioni ma immodificabili.
Il problema lasciato aperto da Platone è il rapporto tra il mondo delle essenze e il mondo sensibile. Ogni cosa è tale perché esprime, imperfettamente, la sua essenza eterna. Ma come avviene questa partecipazione? Come avviene il mutamento, lo sviluppo?
Aristotele dirà che Platone ha semplicemente raddoppiato il mondo. La sua metafisica (di Aristotele), come si è visto sopra, cercherà di dar conto del mutamento.
Ma torniamo a Hegel. Dicevamo che il primo momento è quello dell'analisi dell'intelletto. Il momento della distinzione delle singole essenze. Ad esso succede il momento propriamente dialettico, quello negativo, in cui ciascun concetto richiama ciò che non è, il suo altro. Infine c'è il momento positivo: il costituirsi di una nuova unità, tenuta insieme alla distinzione. Un'unità viva, fluida.
- - continua - -
La "Fenomenologia dello Spirito" era stata pensata come un'introduzione alla filosofia (!), nel senso dell'itinerario della coscienza dal senso comune al sapere assoluto. La "Scienza della logica" descrive invece il sistema nella sua compiutezza. In un certo senso si può pensare che la verità filosofica contenuta nella Logica sia basata sulle dimostrazioni della Fenomenologia. Cioè la Fenomenologia dimostra i presupposti su cui poi si baserà la Logica.
Ora, proprio questo è il problema. Feuerbach contesterà il primo gradino della Fenomenologia, quindi l'infondatezza di tutto il sistema hegeliano.
Il primo gradino è la coscienza sensibile. Il suo oggetto è ciò che appare nell'immediatezza. Ciò che si manifesta qui e ora. La singolarità di ciò che appare.
Hegel vorrebbe dimostrare che già fin da subito ciò di cui la coscienza fa esperienza non è la singolarità ma l'universale.
Qui davanti a me vedo un albero. Mi volto e ciò che mi appare è una casa. E via dicendo. Tutto ciò che mi appare davanti è transitorio. Ciò che rimane è invece proprio la nozione del "qui", un "qui" generico che poi, via via, si riempie di singolarità impermanenti, ciascuna delle quali si identifica dalla negazione delle altre.
In altre parole, noi ci ritroviamo fin da subito con l'universale. Il linguaggio (uno degli argomenti presentati da Hegel) ci inchioda all'essenza generale, al concetto astratto. Sembrerebbe impossibile uscirne.
Ma ciò che si può contestare a Hegel non è la sensatezza di questo ragionamento, della sua posizione, ma la pretesa che tale itinerario sia necessario.
Infatti c'è necessità di questo passaggio solo in riferimento all'intenzione di costruire un sapere permanente. Nella sensibilità facciamo esperienza di cose singole, anche se poi esse svaniscono velocemente. Che poi per comunicarle dobbiamo necessariamente usare il linguaggio e quindi concetti astratti non significa che in tale immediata esperienza la singolarità che ci aspettavamo di incontrare si sciolga e svanisca necessariamente nell'universale.
Mi sto sbagliando?
Non ti stai sbagliando.
Difatti "fin da subito" non si fa mai esperienza dell'universale, ma sempre del particolare.
Soltanto dopo si applica, eventualmente, la categoria universale che meglio descrive il particolare.
Universale indispensabile per poter ragionare, operare e comunicare. Ma che fa irrimediabilmente perdere la profondità del reale.
Quando siamo all'universale, abbiamo già perduto il reale.
Che il reale sia soltanto ciò che è razionale, è infatti il grave fraintendimento della modernità.
Come fattomi notare recentemente dal mio maestro, Aristotele è nemico di Platone.
E' evidente fin dall'inizio laddove Platone parla di morale, laddove quello di enti e sostrati.
Ora non so se Hegel sia l'ennesimo allievo di Aristotele.
Nè cosa intenda per idea Platone.
L'unica cosa che so è che non è quello che dice Aristotele e dunque dell'intera industria culturale.
Platone è il nemico invicibile dell'oggi.
Per quanto riguarda Feurbach, non conosce la sua critica, se è quella che ci hai detto, ossia che Hegel fraintende l'esperienza singola con quella universale, potremmo ragionarci sopra.
Infatti l'universale o linguaggio che dir si voglia, non è questione dell'esperienza ma della conoscenza che ho di quell'esperienza.
Io non potrei esperire che quell'albero sia vero, meglio reale, se non esistesse qualcun altro che mi dice che anche lui lo percepisce e che dunque sia vero.
La reminescenza di Hume (anche se quello che conosco è quella impartitami dall'industia culturale, e quindi sempre da prendere con i vari distinguo futuri) è evidente.
Il linguaggio è lo strumento tramite cui l'universale si fa conoscere come tale.
Ossia l'idea di albero, non è l'albero.
Ma noi non trattiamo mai dell'albero, bensì sempre dell'idea di albero.
E' proprio l'esperienza che viene a mancare, infatti il tempo del qui e ora destituisce il tempo del suo valore generale anzitutto.
Ossia convenzionale.
Che il soggetto sia una convenzione è quello che ne segue.
Noi non conosciamo mai il singolare ma sempre l'universale.
Ciò che appare, non è ciò che è.
Ci sembra, mi sembra sia una pecora, ma andando vicino è una roccia vicino ad un gregge, e di seguito tutte i patemi linguistici del novecento.
Ma l'inizio della filosofia non ha nulla a che fare con queste cose appunto.
Direi che invece il Platone aristotelico è già la fine della filosofia.
Platone non ha alcuna esigenza che non sia morale.
Citazione di: bobmax il 23 Marzo 2024, 14:21:41 PMNon ti stai sbagliando.
Difatti "fin da subito" non si fa mai esperienza dell'universale, ma sempre del particolare.
Citazione di: bobmax il 23 Marzo 2024, 14:21:41 PMNon ti stai sbagliando.
Difatti "fin da subito" non si fa mai esperienza dell'universale, ma sempre del particolare.
Soltanto dopo si applica, eventualmente, la categoria universale che meglio descrive il particolare.
Universale indispensabile per poter ragionare, operare e comunicare. Ma che fa irrimediabilmente perdere la profondità del reale.
Quando siamo all'universale, abbiamo già perduto il reale.
Che il reale sia soltanto ciò che è razionale, è infatti il grave fraintendimento della modernità.
Universale indispensabile per poter ragionare, operare e comunicare. Ma che fa irrimediabilmente perdere la profondità del reale.
Quando siamo all'universale, abbiamo già perduto il reale.
Che il reale sia soltanto ciò che è razionale, è infatti il grave fraintendimento della modernità.
D'accordo però come negare che noi il reale lo cogliamo solo nella sua forma universale?
Non è semplicemente che non possiamo stare lì a distiguere da foglia a foglia, ma per esempio in ottica contemporanea tra milioni cellule e chissà quanti triliardi di particelle.
Il mio maestro fa notare d'altronde che le equazioni matematiche anticipano il mondo. E quindi per assurdo ne sono i mattoni costituenti.
Che la realtà sia una matrice era cosa nota nei tempi antichi, poi è arrivato Aristotele...
Il problema è il voler entizzare il mondo.
Ma come dice a Dio a Giobbe: dove eri tu quando io creai il firmamento e tutte le stelle...etc...etc....
L'arroganza di Aristotele e allievi è gravissima e un insulto alla morale.
Sto ragionando a spanne, Aristotele non mi interessa punto.
Citazione di: green demetr il 23 Marzo 2024, 17:08:40 PMD'accordo però come negare che noi il reale lo cogliamo solo nella sua forma universale?
Bisogna vedere cosa intendiamo con "cogliere".
Se intendiamo utilizzare in qualche modo, allora sì, il reale lo possiamo utilizzare solo attraverso l'universale.
Ma se cogliere significa per noi avere esperienza, vivere la presenza dell'altro, allora è proprio quel singolo nella sua unicità.
Perché è "unico" e ogni universale non ne è che un travisamento.
Per esempio, il valore di una persona, per te, è proprio di quella specifica persona.
Può sembrare che il suo valore dipenda dagli universali che la descrivono.
Ma non è così!
I suoi attributi giocano senz'altro un ruolo nel determinare cosa provi per lei. Ma se rifletti sul suo valore per te, sarà sempre oltre ogni sua caratteristica.
Il guaio nel considerare Verità il pensiero logico, è che si finisce per appiattire il valore di ogni cosa in base agli universali. In questo modo ogni persona è sostituibile con un'altra.
È solo una questione di universali...
Ma così facendo si perde il vero valore.
Che è celato nella unicità.
E ne consegue, inevitabile, l'orrore del vuoto esistenziale.
Citazione di: green demetr il 23 Marzo 2024, 16:54:26 PMCome fattomi notare recentemente dal mio maestro, Aristotele è nemico di Platone.
E' evidente fin dall'inizio laddove Platone parla di morale, laddove quello di enti e sostrati.
Ora non so se Hegel sia l'ennesimo allievo di Aristotele.
Nè cosa intenda per idea Platone.
L'unica cosa che so è che non è quello che dice Aristotele e dunque dell'intera industria culturale.
Platone è il nemico invincibile dell'oggi.
[...]
Platone non ha alcuna esigenza che non sia morale.
Non è vero. Platone si occupa di tutti i problemi della filosofia (teoria della conoscenza, natura del sapere, vera struttura della realtà, interpretazione del linguaggio, politica e morale).
Basterebbe dare un'occhiata ai grandi dialoghi dialettici della maturità (Sofista, Parmenide, Politico).
Al limite si potrebbe dire, semplificando, che la motivazione profonda che ha condotto la costruzione di tutta la sua filosofia sia derivata dallo shock per la condanna a morte di Socrate. Quindi una riflessione sulla giustizia che ha alimentato il suo primo slancio filosofico.
Aristotele, come tutti i filosofi, è partito dal suo maestro per poi "superarlo" (almeno nelle sue intenzioni). Quindi la sua riflessione non può che essere impregnata di platonismo.
Così come quella di Fichte parte da Kant, e quella di Hegel da Kant, Fichte e Schelling, e quella di Marx da Hegel.
Che poi ciascuno presenti la propria soluzione come naturale, esprimendo al contempo imbarazzo per l'ingenuità delle idee del proprio maestro, non è di per se' significativo, è solo gioco polemico, cattiva educazione.
Citazione di: green demetr il 23 Marzo 2024, 16:54:26 PMPer quanto riguarda Feurbach, non conosce la sua critica, se è quella che ci hai detto, ossia che Hegel fraintende l'esperienza singola con quella universale, potremmo ragionarci sopra.
[...]
Ma l'inizio della filosofia non ha nulla a che fare con queste cose appunto.
Direi che invece il Platone aristotelico è già la fine della filosofia.
Il punto è che la Fenomenologia dello Spirito presenta l'itinerario della coscienza dell'uomo della strada dalle (apparenti) certezze del senso comune fino al sapere assoluto, all'episteme.
Hegel non fa come Cartesio che nel discorso del metodo fa iniziare il percorso del sapere da una decisione "teoretica": stanchi di vivere nell'incertezza si inizia a fare filosofia. Alla base c'è una decisione che il soggetto decide di prendere, consapevolmente.
Hegel vuole invece descrivere come la coscienza, senza essersi inizialmente posta alcun obiettivo, nella propria vita normale finisce necessariamente per percorrere tutto il cammino fino del sapere assoluto.
E il motore di questo inesorabile itinerario è la negazione, cioè la distruzione della certezza di ciascuno degli stati in cui inizialmente il soggetto pensava di avere trovato la sua verità.
Tuttavia, al di là dell'angoscia e dell'inquietudine per il fatto di continuare a morire a se stessi, la negazione di un errore (ciascuna di queste singole posizioni esistenziali, filosofiche) è pur sempre una verità, cioè apre a qualcosa di positivo.
Per questo si può dire che la verità per Hegel è processo, sviluppo, totalità, e non singola posizione, espressa da una singola proposizione.
A proposito di universali.
La questione di che cosa sia l'universale, se essenza eterna realmente esistente o semplice segno senza vera sostanza (se non quella di essere parola nel linguaggio e immagine mentale nell'attività del pensiero), è stata ampiamente trattata nel medioevo.
Si distinguono tre posizione: quella realista, quella nominalista e quella che si può definire realismo moderato.
La posizione realista (platonica) sostiene l'effettiva realtà degli universali.
Quella nominalista (Roscellino di Compiègne) sostiene che a esistere nella realtà siano solo le cose singole, particolari, e che gli universali siano ingiustificate semplificazioni della realtà concreta. Quindi la conoscenza, che per sua natura è attinente ai caratteri generali delle cose, è arbitraria, impossibilitata nel dare una rappresentazione della realtà.
Infine la posizione del realismo moderato (Abelardo): a esistere è solo l'individuo, ma la razionalità umano è in grado di analizzare (le diverse caratteristiche della cosa singola) e raggruppare (diverse cose singole sotto la stessa specie). Su questa operazione di raggruppamento hanno origine gli universali. Ne consegue che la conoscenza generica restituisce qualcosa di effettivamente reale, inerente le cose singole.
Una versione contemporanea di questa disputa la si può vedere in epistemologia: realismo contro antirealismo.
Infatti il realismo attuale in ambito scientifico sostiene che la rappresentazione che il ricercatore si fa di un fenomeno corrisponde a qualcosa di reale: la legge scientifica riporta tramite segni linguistici la vera struttura della realtà, che quindi va scoperta, non ricreata in modo seppur arbitrario comunque funzionale alle manipolazioni tecniche successive.
Citazione di: bobmax il 23 Marzo 2024, 22:16:05 PMBisogna vedere cosa intendiamo con "cogliere".
Se intendiamo utilizzare in qualche modo, allora sì, il reale lo possiamo utilizzare solo attraverso l'universale.
Ma se cogliere significa per noi avere esperienza, vivere la presenza dell'altro, allora è proprio quel singolo nella sua unicità.
Perché è "unico" e ogni universale non ne è che un travisamento.
Per esempio, il valore di una persona, per te, è proprio di quella specifica persona.
Può sembrare che il suo valore dipenda dagli universali che la descrivono.
Ma non è così!
I suoi attributi giocano senz'altro un ruolo nel determinare cosa provi per lei. Ma se rifletti sul suo valore per te, sarà sempre oltre ogni sua caratteristica.
Il guaio nel considerare Verità il pensiero logico, è che si finisce per appiattire il valore di ogni cosa in base agli universali. In questo modo ogni persona è sostituibile con un'altra.
È solo una questione di universali...
Ma così facendo si perde il vero valore.
Che è celato nella unicità.
E ne consegue, inevitabile, l'orrore del vuoto esistenziale.
Ma è impossibile che io colga la tua unicità.
Proprio per questo l'uomo è destinalmente portato all'infelicità.
Il capitolo 1 della fenomenologia si chiude con la frase terribile: nessun animale riesce a vivere.
Il punto in Hegel non è tanto nella relazione io-tu che appunto è necessariamente dentro il linguaggio.
Quanto proprio la relazione tra l'io pensante e l'io che si conosce, e si conosce vero ("ossia appunto dentro l'univerale") solo tramite l'appogiarsi all'altro.
Ovvero all'universale dell'altro.
In Hegel non c'è almeno nel primo capitolo una indagine sul rapporto tra in 2 universali, perchè prima deve dare spiegazione, comprensione, di ciò che è la verità, nel sendo del suo contrario.
La verità potremmo dire che è costituita dalla negazione costante.
Ma la negazione costituisce quello che noi IPOTIZZIAMO di essere, appunto soggetti.
La mia opionione è che non solo non si è capito il PROBLEMA del soggetto come allertava Hegel, ma proprio si è scelto come società umana, di pensarsi come soggetto d'intentità.
Da lì poi proviamo pensare alle nuove problematiche che si innestano, dall'LGBTQ+ ai nuovi pensieri NEW AGE, ai pericolosissimissimissimi programmi di riduzione comportamentale, fino alle annose questioni della fede.
Se il soggetto dimentica di essere TUTT'ALTRO che IDENTITA' diventa un vero problema antropologico.
Tanto che oggi l'antropologia umanista, umanistica etc...diventa il terreno su cui le speranze della filosofia cieca moderna si appiattisce.
Diventa identità contro identità.
Dove l'unica cosa che si accresce è proprio l'idea assurda di identità.
Ma come diceva Carmelo Bene: ed io non sono più io, citando autori della mistica come giovanni della croce.
Infatti la mia identità è sempre diversa, anche a distanza di un ora.
Avvengono cambiamenti organici, di pensiero, continui.
Ma se seguiamo la fisica le cose diventano ancora più complicate, riporto una frase del mio maestro.
"Se la matematica si "adattasse al fenomeno" allora il fenomenico sarebbe semplicemente la realtà mentre, come insegna Kant, vi è anche il noumenico. La realtà non è mai semplice ma complessa, strutturata, alcuni, tra cui il sottoscritto, la definiscono come una "proprietà emergente" e questo è proprio coincidente con i principi fondamentali della meccanica quantistica. Schrödinger ci dice chiaramente che è il collasso della funzione d'onda a determinare la possibilità di una localizzazione della particella nel campo, ossia, in termini più comuni: è la nostra osservazione a consentire l'emergere dell'osservato e, qui, il fenomenico diventa instabile e dipendente da altre funzioni, come, per l'appunto, la funzione d'onda. Purtroppo il discorso non è facile."
cit mio maestro O:-)
Scusate se ho aggiunto troppi input...ma appunto giusto per capire quanto siamo capre! ;) :D
https://www.youtube.com/watch?v=kKI23zZgsWQ
Citazione di: Koba II il 25 Marzo 2024, 10:39:47 AMIl punto è che la Fenomenologia dello Spirito presenta l'itinerario della coscienza dell'uomo della strada dalle (apparenti) certezze del senso comune fino al sapere assoluto, all'episteme.
Hegel non fa come Cartesio che nel discorso del metodo fa iniziare il percorso del sapere da una decisione "teoretica": stanchi di vivere nell'incertezza si inizia a fare filosofia. Alla base c'è una decisione che il soggetto decide di prendere, consapevolmente.
Hegel vuole invece descrivere come la coscienza, senza essersi inizialmente posta alcun obiettivo, nella propria vita normale finisce necessariamente per percorrere tutto il cammino fino del sapere assoluto.
E il motore di questo inesorabile itinerario è la negazione, cioè la distruzione della certezza di ciascuno degli stati in cui inizialmente il soggetto pensava di avere trovato la sua verità.
Tuttavia, al di là dell'angoscia e dell'inquietudine per il fatto di continuare a morire a se stessi, la negazione di un errore (ciascuna di queste singole posizioni esistenziali, filosofiche) è pur sempre una verità, cioè apre a qualcosa di positivo.
Per questo si può dire che la verità per Hegel è processo, sviluppo, totalità, e non singola posizione, espressa da una singola proposizione.
Capisco, invece per quel che posso capire, il positivo che tu citi, per me è semplicemente una illusione, una conseguenza della negatività cioè.
Questa illusione o positività come tu dici, altro non è che il soggetto.
Per questo ho sussultato quando ha parlato di verità.
Mi verrebbe quasi da pensare che la verità hegeliana, sia sostanzialmente un tutt'uno con la mistificazione di stato assoluto.(cosa che ad Hegel viene sempre mossa come critica...e che non so se sia vero, potrebbe però venire da questo visione AUTO-determinata, ossia decisa dall'altro.)
Pazienta che finisco la FDS. ;)
Citazione di: Koba II il 25 Marzo 2024, 10:44:23 AMA proposito di universali.
La questione di che cosa sia l'universale, se essenza eterna realmente esistente o semplice segno senza vera sostanza (se non quella di essere parola nel linguaggio e immagine mentale nell'attività del pensiero), è stata ampiamente trattata nel medioevo.
Si distinguono tre posizione: quella realista, quella nominalista e quella che si può definire realismo moderato.
La posizione realista (platonica) sostiene l'effettiva realtà degli universali.
Quella nominalista (Roscellino di Compiègne) sostiene che a esistere nella realtà siano solo le cose singole, particolari, e che gli universali siano ingiustificate semplificazioni della realtà concreta. Quindi la conoscenza, che per sua natura è attinente ai caratteri generali delle cose, è arbitraria, impossibilitata nel dare una rappresentazione della realtà.
Infine la posizione del realismo moderato (Abelardo): a esistere è solo l'individuo, ma la razionalità umano è in grado di analizzare (le diverse caratteristiche della cosa singola) e raggruppare (diverse cose singole sotto la stessa specie). Su questa operazione di raggruppamento hanno origine gli universali. Ne consegue che la conoscenza generica restituisce qualcosa di effettivamente reale, inerente le cose singole.
Una versione contemporanea di questa disputa la si può vedere in epistemologia: realismo contro antirealismo.
Infatti il realismo attuale in ambito scientifico sostiene che la rappresentazione che il ricercatore si fa di un fenomeno corrisponde a qualcosa di reale: la legge scientifica riporta tramite segni linguistici la vera struttura della realtà, che quindi va scoperta, non ricreata in modo seppur arbitrario comunque funzionale alle manipolazioni tecniche successive.
Il problema degli universali è che sono sempre dentro una società.
Chi affibbia cosa a qualcosa o peggio ancora a qualcuno?
Il soggetto come vediamo ampiamente, e in maniera inequivocabile drammaticamente dopo il 2020, è ALTAMENTE influenzabile.
Così la scienza funesto servitore dei padroni.
La filosofia manualistica su queste cose si tappa gli occhi, le orecchie e sopratutto in maniera miserabile la bocca.
Il grido del giovane Hegel è un grido anarchico disperato contro la scienza.
Poi, si dice, si narra, oscurato dal bonapartismo.
E' vero che scrive male, ma non così tanto da volerlo far passare per l'"oscuro", oscuri sono tutti questi miserabili, nemici di Platone manco a dire.
Siamo sicuri che Platone sia quello dei manuali?
Io grazie al mio maestro lo sto leggendo al contrario.
Platone IRONIZZA.
Fa credere al non iniziato il contrario, ma lascia nel testo, tutto ciò che è meta-testo.
Indizi che rilanciano ad una filosofia fiammeggiante che questo tempo ghiacciato non capirà mai anche volendo.
Per ora sono all'Apologia e al Critone, li chiamo le 2 TORRI d'entrata.
Troppo complessi, troppo per chi come me non ha una cultura classica.
Mi hanno sconvolto, e allo stesso tempo bloccato.
Anche se riuscissi a vivere ancora per un decennio...mi pare una montagna troppo alta per me.
Lascio la cosa a chi vuole spiegare Platone in 20 minuti.
Io prenderò quel che posso, passetto passetto.
Ma non era il nominalismo a pretendere che l'universale fosse solo nelle parole?
Mentra il realismo a credere che l'universale fosse nel singolare fisico?
Occam vs Scoto?
Boh :D ;)
Citazione di: green demetr il 25 Marzo 2024, 17:42:09 PMMa è impossibile che io colga la tua unicità.
Proprio per questo l'uomo è destinalmente portato all'infelicità.
La unicità non la può cogliere il pensiero razionale, che necessariamente determina.
Cioè per comprendere separa in parti e ne valuta le interazioni.
La unicità invece la cogli come pura intuizione etica.
È una certezza a-razionale, che si impone da sé medesima.
Perché è semplice, estremamente semplice... ma proprio per questo tanto difficile.
Il tuo prossimo è unico.
Ogni volta che lo incontri, ti ritrovi infatti di fronte l'unicità.
Lo puoi vedere senza ombra di dubbio quando ti muore l'amato.
È sufficiente che tralasci ogni altra considerazione, che non sia il tuo amore per lui.
L'altro è unico.
In quanto Uno.
Citazione di: bobmax il 26 Marzo 2024, 16:35:29 PMLa unicità non la può cogliere il pensiero razionale, che necessariamente determina.
Cioè per comprendere separa in parti e ne valuta le interazioni.
La unicità invece la cogli come pura intuizione etica.
È una certezza a-razionale, che si impone da sé medesima.
Perché è semplice, estremamente semplice... ma proprio per questo tanto difficile.
Il tuo prossimo è unico.
Ogni volta che lo incontri, ti ritrovi infatti di fronte l'unicità.
Lo puoi vedere senza ombra di dubbio quando ti muore l'amato.
È sufficiente che tralasci ogni altra considerazione, che non sia il tuo amore per lui.
L'altro è unico.
In quanto Uno.
Certo è ance quello proposto da Phyrosphera!
Ma è quello che dice il mio maestro, ossia che la questione umana è una questione unicamente etica.
L'ontologia non c'entra niente.
Temo che siamo ancora troppo bloccati da Aristotele.
Purtroppo andando avanti con Hegel, la cosa già fatta notare da Kobayashi, è che in Hegel la concezione di Vero, è una concezione di vero ontologico.
In Hegel si parla di essenze e di non-essenze, tirando in ballo qualcosa come la forza, che è per lui un essenza.
Come già detto dal mio maestro, questi autori si muovono ancora in un contesto meccanicistico.
Nel nuovo contesto quantistico, invece il noumeno emerge non come una essenza ma come una equazione matematica.
Detto in parole semplici, ma l'avevo già presupposto quando studiavo Einstein, noi siamo una equazione.
L'ente è una eqazione e dunque non è un ente.
L'ente presunto (di un intero, di cui purtroppo Hegel è ossessionato) è invece una superposizione.
Non esiste cioè un ente di un tutto, ma solo un tutto.
Il punto è che mi piace Hegel perchè quando parla di ritorno del sè (per lui coscienza, ossia cognizione sensoriale) come ripiegamento del sè su se stesso come parte in generale (perchè lui pensa sempre al tutto), egli chiarifica che è necessario la scoperta dell'altro che non è sensoriale.
Ora ribadisco lasciando da parte il delirio hegeliano e come fa a raggiungere questo pensiero di base che esiste un sè un soggetto e uno spirito.
Io dico ripartiamo da quello, poichè in tutti e 3 i momenti (come li chiama lui) altro non sono che la proiezione dell'io penso su ciò che lo determina ossia rispetto all'ente e rispetto allo spirito.
Poichè il sè è rigettato dall'ente, dunque il VERO sè (questo sono io NON Hegel) è il prodotto della conoscenza dello spirito.
Ed è inequivocabilmente MORALE.
Da qui si riparte da Leopardi-Nietzche e l'antichità greca che meglio hanno pensato la meta-noia.
Con la postilla avanzata dal mio maestro: che la volontà che emerge da questa meta-noia è SEMPRE errata.
Poichè nella sua critica (del mio maestro), questa è volontà di qualcosa.
Cioè la filosofia fa un grave errore quando si ribella al suo maestro Platone e si ripiega sull'infame Aristotele.
Certo tutto bene: ma io mi chiedo come interpretate il CRITONE?
O l'inizio del processo di Kafka?
Perchè per me l'abiezione della filosofia-letteratura sta in chi capisce e chi no.
Bè cose un pò troppo avanzaste per questo forum, ancora giovane e acerbo.
Saluti!
Citazione di: green demetr il 25 Marzo 2024, 18:24:57 PMIl problema degli universali è che sono sempre dentro una società.
Chi affibbia cosa a qualcosa o peggio ancora a qualcuno?
Il soggetto come vediamo ampiamente, e in maniera inequivocabile drammaticamente dopo il 2020, è ALTAMENTE influenzabile.
Così la scienza funesto servitore dei padroni.
La filosofia manualistica su queste cose si tappa gli occhi, le orecchie e sopratutto in maniera miserabile la bocca.
Il grido del giovane Hegel è un grido anarchico disperato contro la scienza.
Poi, si dice, si narra, oscurato dal bonapartismo.
E' vero che scrive male, ma non così tanto da volerlo far passare per l'"oscuro", oscuri sono tutti questi miserabili, nemici di Platone manco a dire.
Ma non era il nominalismo a pretendere che l'universale fosse solo nelle parole?
Mentra il realismo a credere che l'universale fosse nel singolare fisico?
Occam vs Scoto?
Boh :D ;)
La
disputa sugli universali , lungi dall'essere questione di lana caprina medioevale, si trascina attraverso la modernità
neoqualcosa fino ai nostri giorni e continua ad alimentare differenti visioni della realtà.
Le soluzioni proposte dai medioevali sono tutte interessanti e, togliendo il nume ante-rem di tutte le cose, un po' si legittima epistemologicamente, ma continua ad infrangersi contro il muro dello scetticismo che informa di sè la postmodernità, ballonzolante intorno a sovraestesi principi metafisici di indeterminazione.
Almeno sulle definizioni storiche non dovrebbero esserci ambiguità: i "realisti" ponevano l'idea ante-rem, i "nominalisti" post-rem. Quindi il contrario di quello che pensava green e che pare più logico a noi moderni e post.
La soluzione alla disputa la dà Tommaso col suo "veritas est adaequatio rei et intellectum". Ma lascia democristianamente in sospeso la questione di chi si adegua a chi.
Non è che Kant ed Hegel abbiano detto molto di più di antichi e medioevali. Kant è un aristotelico tomista che sposta il focus (essenza) sul noumeno (in-re). Hegel un idealista-platonico, "realista" in senso scolastico (ante-rem) e inesorabilmente più teista di Kant. Anche la mathesis universalis di Galileo prefigura un ante-rem idealistico neoplatonico che arriva fino ad Einstein e, sotto influsso di Hume, a iano, e di Kierkegaard e Jaspers a bobmax.
Tutte le visioni idealistiche si fondano su un ente universalistico ante-rem, più o meno personalizzato. Prescindendo dal nume, anche la Genesi parla chiaro: prima vengono le cose e poi l'intelletto (privilegiato) che dà loro un nome. Il quale nome non può avere pretese ontologiche che vadano oltre la sua convenzionalità.
Secondo me il nodo da sciogliere sta nel dualismo tra universo naturale e antropologico,
formato intorno allo strumento tecnico del linguaggio.
La confusione diventa inestricabile quando si coinvolge l'etica in una diatriba che dovrebbe essere essenzialmente epistemologica e non a caso la confusione ontologica è maggiormente presente nella visione neo-platonica ante-rem. Un buon motivo per essere nominalisti in senso scolastico e realisti in senso moderno. Come Guglielmo di Baskerville:
Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus.
Citazione di: Ipazia il 27 Marzo 2024, 10:36:42 AMLa confusione diventa inestricabile quando si coinvolge l'etica in una diatriba che dovrebbe essere essenzialmente epistemologica e non a caso la confusione ontologica è maggiormente presente nella visione neo-platonica ante-rem. Un buon motivo per essere nominalisti in senso scolastico e realisti in senso moderno. Come Guglielmo di Baskerville:
Invece il realismo contemporaneo è perfettamente in linea con quello medievale e quindi con il platonismo. Infatti mettendo da parte la questione dell'esistenza iperuranica delle idee, la questione metafisica essenziale espressa dal platonismo è l'esistenza di una rete di universali che hanno priorità ontologica nei confronti delle cose. In questa prospettiva, nell'ascesa al sapere, il soggetto non arriva alla verità tramite generalizzazione dell'esperienza, ma scoprendo nelle cose reali il loro approssimarsi imperfetto alle essenze eterne.
Il realista ingenuo dei nostri giorni non capisce che se la verità della cosa, essendo espressa da un concetto universale, non viene formata dal soggetto (come in Kant dalle forme a priori, o come nel relativismo dallo sviluppo della cultura), deve essere costituita da qualcosa di essenziale che c'è già da sempre nella cosa.
Il nominalismo medievale è invece in linea con posizioni epistemologiche alla Feyerabend, per intenderci.
Questa non è una disputa solo epistemologica. Riguarda l'essenza della realtà, quindi anche l'essenza della realtà umana, quindi, necessariamente l'etica.
Infatti alla domanda "cos'è la giustizia?" le risposte si differenziano innanzitutto a partire da come si intende tale concetto: qualcosa che ha un fondamento eterno, indipendente dalla storia, attinente l'essenza dell'umanità, o al contrario nozione da costruire in uno sforzo necessariamente influenzato dal proprio tempo e dalla propria civiltà.
Citazione di: Ipazia il 27 Marzo 2024, 10:36:42 AMSecondo me il nodo da sciogliere sta nel dualismo tra universo naturale e antropologico, formato intorno allo strumento tecnico del linguaggio.
Spiega meglio, per favore.
Citazione di: Koba II il 27 Marzo 2024, 11:19:24 AMInvece il realismo contemporaneo è perfettamente in linea con quello medievale e quindi con il platonismo. Infatti mettendo da parte la questione dell'esistenza iperuranica delle idee, la questione metafisica essenziale espressa dal platonismo è l'esistenza di una rete di universali che hanno priorità ontologica nei confronti delle cose. In questa prospettiva, nell'ascesa al sapere, il soggetto non arriva alla verità tramite generalizzazione dell'esperienza, ma scoprendo nelle cose reali il loro approssimarsi imperfetto alle essenze eterne.
Non mi sono espressa compiutamente, evidentemente: per "realismo" moderno intendo una visione post-rem, quindi il contrario del realismo scolastico, platonismo e "essenze eterne", ma solo una convenzionale categorizzazione della realtà. Basata su caratteristiche oggettive, quali il dna, organico-inorganico, struttura chimica della materia, ma pur sempre ordinate convenzionalmente in strutture linguistiche post-rem.
CitazioneIl realista ingenuo dei nostri giorni non capisce che se la verità della cosa, essendo espressa da un concetto universale, non viene formata dal soggetto (come in Kant dalle forme a priori, o come nel relativismo dallo sviluppo della cultura), deve essere costituita da qualcosa di essenziale che c'è già da sempre nella cosa.
"Realista" in senso scolastico, concordo, ma dubito ve ne siano ancora dopo Hegel.
CitazioneIl nominalismo medievale è invece in linea con posizioni epistemologiche alla Feyerabend, per intenderci.
Non così approfondite. Si limitavano a dire che le idee sono post-rem. Pensando al contempo che ci fosse un elemento in-re che Kant chiamerà noumeno.
CitazioneQuesta non è una disputa solo epistemologica. Riguarda l'essenza della realtà, quindi anche l'essenza della realtà umana, quindi, necessariamente l'etica.
Infatti alla domanda "cos'è la giustizia?" le risposte si differenziano innanzitutto a partire da come si intende tale concetto: qualcosa che ha un fondamento eterno, indipendente dalla storia, attinente l'essenza dell'umanità, o al contrario nozione da costruire in uno sforzo necessariamente influenzato dal proprio tempo e dalla propria civiltà.
Spiega meglio, per favore.
Spiego meglio: mischiare la "giustizia" con la realtà naturale mi pare porti solo confusione. Non esiste una giustizia para "noumenica" come può essere il dna o la struttura atomica nei loro rispettivi ambiti di senso. L'etica appartiene all'universo antropologico, non a quello naturale, per quanto su questo debba necessariamente appoggiare i suoi postulati: fossimo immortali non esisterebbe l'omicidio. Ma non basta la natura per produrre una legislazione etica. Ethos e physis restano entità distinte anche ontologicamente e quindi epistemicamente.
Citazione di: Ipazia il 27 Marzo 2024, 13:20:27 PMNon mi sono espressa compiutamente, evidentemente: per "realismo" moderno intendo una visione post-rem, quindi il contrario del realismo scolastico, platonismo e "essenze eterne", ma solo una convenzionale categorizzazione della realtà. Basata su caratteristiche oggettive, quali il dna, organico-inorganico, struttura chimica della materia, ma pur sempre ordinate convenzionalmente in strutture linguistiche post-rem.
Il realismo in filosofia ha un significato specifico e assai diverso da quello che ha nel senso comune.
Il realismo ritiene di poter esprimere la struttura oggettiva della realtà; quindi il suo operare non può essere descritto come "convenzionale categorizzazione".
Naturalmente i concetti che decide di usare per descrivere le forme oggettive della realtà sono evidentemente segni linguistici convenzionali, ma questi segni rimandano a forme oggettive, e tali forme si trovano sia nella realtà che nella testa del ricercatore, diciamo così.
Convenzionali sono le parole "dna" o i segni della formula chimica di esso e via dicendo. Ma l'
idea di dna, della sua struttura generale, no.
Per questo motivo il realismo moderno è affine a quello medievale, ed entrambi sono affini al platonismo. Perché rimandano a forme originarie, a essenze vere della realtà.
Mentre l'anti-realismo, che a sua volta rimanda al nominalismo, esprime una convenzionalità forte nel senso che al di là dell'ovvia arbitrarietà dei segni linguistici utilizzati, i suoi contenuti sono modelli esplicativi che hanno solo la pretesa di essere strumenti utili alle previsioni e alle manipolazioni, non certo la capacità di rimandare alle forme autentiche della realtà.
Citazione di: Koba II il 27 Marzo 2024, 16:41:05 PMIl realismo in filosofia ha un significato specifico e assai diverso da quello che ha nel senso comune.
Il realismo ritiene di poter esprimere la struttura oggettiva della realtà; quindi il suo operare non può essere descritto come "convenzionale categorizzazione".
Naturalmente i concetti che decide di usare per descrivere le forme oggettive della realtà sono evidentemente segni linguistici convenzionali, ma questi segni rimandano a forme oggettive, e tali forme si trovano sia nella realtà che nella testa del ricercatore, diciamo così.
Convenzionali sono le parole "dna" o i segni della formula chimica di esso e via dicendo. Ma l'idea di dna, della sua struttura generale, no.
Per questo motivo il realismo moderno è affine a quello medievale, ed entrambi sono affini al platonismo. Perché rimandano a forme originarie, a essenze vere della realtà.
Ed è per questo che sono entrambi superati dalla visione epistemologica moderna che dà ragione ai nominalisti ponendo le idee post rem. L'ostinarsi della filosofia idealistica di voler dominare coi suoi mezzi l'ontologia è ritenuta inaccettabile fin dalla critica ottocentesca all'idealismo hegeliano ad oggi.
CitazioneMentre l'anti-realismo, che a sua volta rimanda al nominalismo, esprime una convenzionalità forte nel senso che al di là dell'ovvia arbitrarietà dei segni linguistici utilizzati, i suoi contenuti sono modelli esplicativi che hanno solo la pretesa di essere strumenti utili alle previsioni e alle manipolazioni, non certo la capacità di rimandare alle forme autentiche della realtà.
Che tutta l'epistemologia moderna ha dimostrato non essere criticamente sostenibili. Non è questione di convenzionalismo forte: la realtà esiste indipendentemente dalle convenzioni con cui la si manipola e alcuni postulati hanno un carattere paradigmatico forte, ma nessuno si sogna più di mettere le mani e la reputazione sulle "forme autentiche della realtà", che fanno rientrare la cosa-in-sè dalla finestra, dopo averla cacciata dalla porta dell'episteme. E dell'epistemologia.
Questo relativismo non porta alla notte ontologica in cui tutte le vacche sono nere, ma circoscrive rigorosamente il campo di esistenza (dicibile) in cui un paradigma è valido. Fino a prova (sperimentale) contraria. Inclusi i margini, più o meno accettabili e gestibili, di indeterminatezza.
Limitare l'etica al genere umano è una forzatura arbitraria, che a mio parere può avere come unica motivazione l'orrore del non essere.
Cioè si percepisce la natura come vuoto meccanismo, quindi un non essere, e si reagisce attribuendo a se stessi, alla propria specie, una diversità ontologica.
La natura è in definitiva un non essere, ma noi no!
Eppure basterebbe osservare con un po' di attenzione il comportamento di un animale per riscontrarvi un'etica.
Cioè una distinzione tra il bene e il male
Magari più rudimentale della nostra. E ci mancherebbe! Viste le maggiori performance logiche del nostro cervello. Ma comunque si tratta di etica.
Che poi, non so se abbia davvero insegnato più io, ai cani con cui ho avuto a che fare, che non loro a me...
L'etica ha i suoi fondamenti nell'etologia e riguarda tutte le specie sociali, anche nelle relazione aspeciste. Su questo substrato naturale si innestano comportamenti meno istintivi e più elaborati in rapporto alla complessità delle relazioni sociali.
L'etica, come filosofia, per quanto se ne possano trarre spunti da animali a noi contigui, generalmente molto più "veridicamente" filosofici di noi, è una elaborazione umana delle relazioni antropologiche, ed è difficilmente assimilabile alle problematiche di altre specie viventi, per il livello di astrazione che si dà e per la necessità di razionalizzare, positivizzandoli (tavole della Legge, codici), i fondamenti condivisi.
Tale opera di esplicitazione necessita di artefici di esclusiva pertinenza umana. Può non piacere, ma così funziona l'universo antropologico.
Non è possibile alcuna razionalizzazione dell'etica.
Proprio perché ne è impossibile l'astrazione.
Il bene e il male si presentano nella loro immediatezza.
E solo dopo, si può cercare di ragionarci. Però consapevoli di averne già perduto l'essenza.
Difatti la autentica filosofia etica non razionalizza l'etica, ma la vive come assoluto. È infatti pura metafisica.
Se viceversa una pretesa filosofia vuole comunque razionalizzarla, semplicemente non è filosofia.
La distinzione noi sì, loro no; io sì, tu no; è la fonte di ogni male.
Trovo persino imbarazzante dover spiegare una cosa che era evidente persino ai primi estensori della Bibbia, ovvero come la tecnica abbia reso l'etologia umana incommensurabile con quella di qualsiasi altra specie dell'universo a noi nota.
La tecnica ha stravolto il concetto di bene (salute, libertà, cibo, vita) e di male (malattia, fame, cattività, morte) inscritti in natura, inventando nuove fattispecie di bene e di male.
Posto che tanto le antiche che le nuove sono perfettamente razionalizzabili in questo mondo.
Nell'iperuranio, non so. Ma io vivo qui.
Se poi arriviamo al punto di far dipendere l'etica dalla tecnica...
O non si ha idea di cosa sia la tecnica oppure l'etica. O magari entrambe.
Citazione di: bobmax il 27 Marzo 2024, 22:38:28 PMSe poi arriviamo al punto di far dipendere l'etica dalla tecnica...
O non si ha idea di cosa sia la tecnica oppure l'etica. O magari entrambe.
"O non si ha idea di cosa sia la tecnica oppure l'etica. O magari entrambe."
O si ha di entrambe un'idea iperuranica. Decisamente inconciliabile con la mia e con la realtà antropologica.
Un esempio facile facile: il disastro etico legato alla guerra (tecnologica fin dalle prime scene di
2001 odissea nello spazio), o alla covidemia,
esisterebbe in assenza della tecnica ?
Citazione di: Ipazia il 28 Marzo 2024, 09:08:38 AM"O non si ha idea di cosa sia la tecnica oppure l'etica. O magari entrambe."
O si ha di entrambe un'idea iperuranica. Decisamente inconciliabile con la mia e con la realtà antropologica.
Un esempio facile facile: il disastro etico legato alla guerra (tecnologica fin dalle prime scene di 2001 odissea nello spazio), o alla covidemia, esisterebbe in assenza della tecnica ?
Anche qui è evidente il fraintendimento riguardo all'etica e alla tecnica.
Una mancanza non banale. Perché così si confonde lo strumento con il suo utilizzo.
Mentre la tecnica di per se stessa non ha nulla a che vedere con l'etica.
La tecnica prescinde dal bene e dal male. Perché ogni tecnologia è semplicemente un prodotto della logica applicata al mondo materiale.
E la logica non è né buona né cattiva.
È sempre e solo l'uso che se ne fa ad essere buono o malvagio.
Un coltello può essere usato per tagliare il pane, per difendersi da una aggressione, oppure per aggredire e uccidere.
Ma il coltello in sé non ha nessuna valenza etica.
Se si confondono i due piani, ci si perde nell'assurdo. Nei complottismi, nella tecnica malvagia, nel a me non mi si fa fesso!
E si brama l'autoritarismo, che così ci pensa lui a sistemare tutti 'sti malvagi. Lui, che è senz'altro buono...
Se la tecnica non esiste non se ne fa alcun uso. Se esiste l'uso può essere etico o non etico. Il rapporto nella dimensione antropologica tra tecnica ed etica è indissolubile. A prova di ogni tentativo di dissociazione logica.
La decisione di utilizzo di risorse sanitarie limitate per salvare tizio piuttosto che caio sono un ottimo esempio di dilemma etico tecnodipendente. In assenza di tecnologia sanitaria il dilemma non si pone e la natura segue il suo corso.
L'etica si presenta come una collezione di universali privi di referente, sempre se non si scambia l'agente etico per oggetto etico (ossia confondere il pennello con l'opera d'arte). L'etica non è fatta di uomini, ma dagli uomini (così come il quadro non è fatto di pennelli, ma da pennelli, e non solo...). Chiaro che senza uomini non c'è etica, ma ragionare sull'etica comporta fare un passo oltre la semplice constatazione di esistenza dell'uomo (che poi è il passo di astrazioni e convenzioni che lo allontanano dalla ferinità fatta di istinto, e sarei ben cauto nel proiettare nel comportamento animale le nostre categorie di bene e male; gli uomini tendono sempre a sovrainterpretare tutto ciò che li circonda, è la "condanna alla complessità" dell'animale semantico).
Con lo sviluppo della tecnica cambiano (e si complicano) le questioni etiche, ma non gli universali che vengono chiamati in causa (giustizia e altri valori vari). L'etica del rapporto di relazione con l'altro non è una gnoseologia; dunque esistono gli enti umani che si relazionano fra loro, ma l'etica non è fatta da universali rispetto all'esistere di tali enti (che hanno universali appunto gnoseologici), ma rispetto alle relazioni fra tali enti. Le relazioni non sono enti (né referenti oggettuali, semioticamente parlando), ma eventi.
Gli "universali etici" sono quindi "ante rem" o "post rem"? Se non c'è un'ontologia dell'etica (essendo fatta di relazioni, non semplicemente di enti in sé), si tratta di una falsa questione (se così impostata); oppure platonicamente esiste l'idea di giustizia che le etiche cercano di ricordare (a se stesse e agli uomini), oppure si tratta piuttosto di un "per rem", uno pseudo-universale "durante e per l'uomo" (per-durante la cosa-uomo, per dirla in postmodernese)?
Citazione di: Phil il 28 Marzo 2024, 11:57:01 AML'etica si presenta come una collezione di universali privi di referente, sempre se non si scambia l'agente etico per oggetto etico (ossia confondere il pennello con l'opera d'arte). L'etica non è fatta di uomini, ma dagli uomini (così come il quadro non è fatto di pennelli, ma da pennelli, e non solo...). Chiaro che senza uomini non c'è etica, ma ragionare sull'etica comporta fare un passo oltre la semplice constatazione di esistenza dell'uomo (che poi è il passo di astrazioni e convenzioni che lo allontanano dalla ferinità fatta di istinto, e sarei ben cauto nel proiettare nel comportamento animale le nostre categorie di bene e male; gli uomini tendono sempre a sovrainterpretare tutto ciò che li circonda, è la "condanna alla complessità" dell'animale semantico).
Appunto, il referente è:
le relazioni umane, semantiche anzichenò.
Concordo sulla proiezione etica specista per quanto, con gli animali a noi più prossimi, indubbiamente si instaurano relazioni etiche trans-speciste, spesso molto educative anche per la specie egemone.
CitazioneCon lo sviluppo della tecnica cambiano (e si complicano) le questioni etiche, ma non gli universali che vengono chiamati in causa (giustizia e altri valori vari).
In ciò sta la bellezza del gioco etico: cambiare le regole in corso d'opera. E vinca il migliore. Col cambiamento si modificano pure gli universali (se non vogliamo considerarli scatole vuote): è il nostro precipuo modo di modificare la realtà antropologica.
CitazioneL'etica del rapporto di relazione con l'altro non è una gnoseologia; dunque esistono gli enti umani che si relazionano fra loro, ma l'etica non è fatta da universali rispetto all'esistere di tali enti (che hanno universali appunto gnoseologici), ma rispetto alle relazioni fra tali enti. Le relazioni non sono enti (né referenti oggettuali, semioticamente parlando), ma eventi.
Anche gli eventi hanno una loro gnoseologia. Si chiama: Storia. Rammento, en passant, che un filosofo disse che il mondo è costituito di fatti, non di cose.
CitazioneGli "universali etici" sono quindi "ante rem" o "post rem"? Se non c'è un'ontologia dell'etica (essendo fatta di relazioni, non semplicemente di enti in sé), si tratta di una falsa questione (se così impostata); oppure platonicamente esiste l'idea di giustizia che le etiche cercano di ricordare (a se stesse e agli uomini), oppure si tratta piuttosto di un "per rem", uno pseudo-universale "durante e per l'uomo" (per-durante la cosa-uomo, per dirla in postmodernese)?
Oppure si tratta di universali che si trasformano post-rem, anche molto tecnicamente condizionati, e, per quanto l'
animale semantico sia refrattario all'apprendimento etico, certamente non lo fa per via ante-rem, se non nel suo vacuo immaginario.
Citazione di: Ipazia il 28 Marzo 2024, 14:02:30 PMAnche gli eventi hanno una loro gnoseologia. Si chiama: Storia. Rammento, en passant, che un filosofo disse che il mondo è costituito di fatti, non di cose.
Per un filosofo che dice che il mondo è la totalità dei fatti, se ne trova un altro che sostiene non ci siano fatti, ma solo interpretazioni. Si tratta quindi, per me, di non indulgere in metafore e allegorie, tenendo ben distinta la gnoseologia degli enti (scienza ed epistemologia) da quella, metaforica, degli eventi (storia ed etica), altrimenti il rigore filosofico del discorso ne risente.
Gli eventi storici e antropologici sono materia gnoseologica scrutabile con lo stesso rigore degli eventi naturali e costituiscono parimenti, ed anzi ancor più, materiale di riflessione e prassi etica. Senza metafore aggiunte.
Intendevo che "gnoseologia degli eventi" è una metafora, gnoseologia degli enti, no. Se non si tengono distinte le "due" gnoseologie, il discorso che le confonde non è a mio avviso rigoroso (e si rischia di intromettere l'etica dove non è pertinente, v. sopra: «ancor più»); il che ovviamente non significa che la storia in sé, senza fraintenderla come "gnoseologia", non possa essere studiata con rigore.
Non vi è alcuna differenza sostanziale tra ente e evento.
Sono soltanto due diverse prospettive della medesima realtà.
L'ente privilegia l'esserci, cioè l'atemporale, mentre l'evento il divenire, cioè il temporale.
Ma essere e divenire sono intrecciati indissolubilmente.
(Essere inteso come esserci...)
Tenerli distinti è propedeutico per evitare di affrontare la metafisica.
E la filosofia o è metafisica o non è.
Citazione di: bobmax il 29 Marzo 2024, 10:50:32 AMNon vi è alcuna differenza sostanziale tra ente e evento.
Provo a spiegarmi meglio: l'
ente inteso come evento
gnoseologico di coscienza e l'
evento inteso come incontro
etico e relazione con l'ente-altro-uomo, possono (non dico «devono») essere considerati come meritevoli di discorsi differenti (fintanto che la gnoseologia non è l'etica). La differenza "sostanziale" fra ente ed evento, per dirla in metafisichese senza scomodare gli universali, resta comunque che: un sasso è un ente, non un evento; un'esplosione è un evento, non un ente; etc. e proprio il concetto metafisico di
sostanza sancisce la differenza fra ente ed evento.
Comunque, se studiamo due uomini differenti come diversi
enti biologici, chimici, etc. ne derivano alcuni discorsi gnoseologici; se studiamo l'
evento della loro relazione etica sforzandoci di restare sul piano gnoseologico, biologico, chimico, etc. il discorso che ne deriva non credo sia metafisico, ma anzi è di quelli che i metafisici non vogliono nemmeno sentire (temendone il rigore e la scientificità).
Fermo restando che ognuno può definire la filosofia come meglio crede e può conseguentemente mischiare i piani dei discorsi come più ritiene opportuno alla sua filosofia.
Il sasso oltre a essere un ente è pure un evento.
Così come la esplosione oltre a essere un evento è pure un ente.
Non vi è mai una netta distinzione tra essere e divenire.
Se il tempo si fermasse, non avremmo una realtà formata da enti congelati in quell'istante. Semplicemente non vi sarebbe alcun ente!
Non vi è alcun concetto della sostanza metafisica.
Perché la fantomatica sostanza coincide con il puro nulla.
Questo è il fondamento metafisico della filosofia.
Se viceversa si vuol parlare di scienza, allora bisognerebbe tener presenti i suoi presupposti. E questi presupposti sono metafisici.
Ma per averne contezza bisognerebbe masticare un po' di scienza. Che so... un po' di fisica classica.
Ecco, l'etica traspare nella metafisica.
Se viceversa si è all'oscuro della metafisica filosofica e scientifica, allora sarebbe meglio accontentarsi di trattare l'etica come ciò che conta, a prescindere.
Così come fanno i tanti filosofi naturali, che non sono istruiti ma comunque dei giganti.
In generale concordo con quanto postato da bobmax. L'idea noumenica di sostanza/essenza non ha consistenza gnoseologica da quando la scienza, oltre alla filosofia, ha preso atto che panta rei. Per comodità possiamo fissare il divenire in singoli fotogrammi, ma non possiamo dire che questo appartiene all'ontologia, mentre l'evento no. Un terremoto cos'è ? Un concerto ? Ha caratteristiche gnoseologiche (ente) un concerto ?
Al di là delle opinioni, la suddivisione del mondo in "fatti" (Tatsachen) e non "cose" (Dingen) fatta da LW, non è arbitraria, ma tiene conto dell'evoluzione della realtà dal punto di vista di una fisica, e una filosofia, aggiornate. Non si può pensare una ontologia filosofica (e gnoseologia correlata) in contraddizione con quella delle scienze naturali, ma semmai come estensione in domini non di competenza di queste ultime.
Citazione di: Phil il 28 Marzo 2024, 11:57:01 AMGli "universali etici" sono quindi "ante rem" o "post rem"? Se non c'è un'ontologia dell'etica (essendo fatta di relazioni, non semplicemente di enti in sé), si tratta di una falsa questione (se così impostata); oppure platonicamente esiste l'idea di giustizia che le etiche cercano di ricordare (a se stesse e agli uomini), oppure si tratta piuttosto di un "per rem", uno pseudo-universale "durante e per l'uomo" (per-durante la cosa-uomo, per dirla in postmodernese)?
io credo che il "per rem" di cui parli sia da attribuire più al diritto e non all etica . Il diritto costituzionale e inviolabile dell uomo è una conseguenza del fondamento dell etica che per Platone era la giustizia (da non confondere con legalità) . Per Platone la giustizia non era solo "ante rem" era propio un principio costitutivo, un fondamento naturale e costitutivo delle cose, cioè non veniva solo prima delle cose era il fondamento delle cose. Tanto che giunse a dire che la giustizia è così fondamentale che anche in una banda di ladri , se vuole sussistere come organizzazione , deve mantere al suo interno la giustizia se no si disgrega. Quindi in tal senso sì, l etica poteva e doveva rifarsi e richiamarsi a tale giustizia archetipale, naturale delle cose. Un grave problema dei giorni nostri è che l'etica non viene piu insegnata, ne nelle scuole ne in chiesa (salvo eccezzioni). Quindi se si chiede a un ragazzo che cos'è l'etica , se va bene ti dice che sono norme sociali che regolano la buona convivenza o per il bene vivere. Ma il bene è un sentimento che non si basa su dei precetti ma su un sentimento della coscienza. Le norme etiche sono quindi tentativi di creare una coscienza collettiva , tale creazione è ciò che può venire definito "etica" che però cambia, non può stare fissa nei libri , cambia a seconda dei cambiamenti dei tempi perchè si pongono nuovi problemi che prima non c'erano. L'etica evolve nel tempo ma il fondamento rimane sempre quello , su cosa si fonda l'etica? bhè il mio pensiero è che l'etica è un arco, che è sorretto da due pilastri , il primo di questi pilastri si chiama "esperienza del valore" l altro pilastro si chiama "esperienza della libertà". Per avere l'arco dell etica devi fare esperienza del valore e esperienza della libertà.
L'osservazione di Platone evidenzia la contraddizione fondamentale del relativismo etico: l'assassino non vuole essere assassinato, il ladro, derubato,... Anche una banda criminale non potrebbe sussistere se adottasse al suo interno lo stesso comportamento che impone alle sue vittime.
Pertanto è possibile stabilire una linea di demarcazione non solo tra etiche diverse, ma pure tra etica e non-etica.
L'etica è il connettivo senza il quale una società non può sopravvivere e si disgrega. Il diritto fissa istituzionalmente i principi etici di una società, che essendo in perenne evoluzione, produce anche un'evoluzione di tali principi.
Tutto questo è indagabile con rigore scientifico da discipline quali l'etologia e l'antropologia, individuando i fondamenti su cui si regge l'impalcatura etica, tra cui valore (correlato a equità) e libertà, certamente.
l'idea di giustizia e l'idea di Bene nella concezione di Platone sono inseparabili poiché la giustizia è il configurarsi delle cose in un ordine globale e strutturale tale da rispecchiare il Bene.
E poi c'è l'esperienza del valore, cosa significa fare esperienza del valore? significa sentire (e non capire) che tu sei importante ma c'è qualcosa di più importante di te. La natura è più importante di te, il bene comune è più importante di te, la famiglia,il contesto sociale. C'è qualcosa di più importante del tuo essere particolare, del tuo singolo torna conto, del tuo interesse. Se non si ha questa esperienza e si pensa di essere se stessi la cosa più importante che c'è non si hanno le condizioni per il nascere dell etica. Si avrà la condizione per il nascere del diritto, ma non dell etica.
E poi l'esperienza della libertà che significa che tu questo sentimento del valore lo puoi seguire oppure no, non c'è imposizione, c è libertà. SE la tua libertà si determina a favore del valore, allora hai che un pilastro si lega all altro ed ecco l'arco dell etica. Questo è per me il fondamento del darsi dell etica.
Citazione di: Alberto Knox il 30 Marzo 2024, 20:43:30 PMl'idea di giustizia e l'idea di Bene nella concezione di Platone sono inseparabili poiché la giustizia è il configurarsi delle cose in un ordine globale e strutturale tale da rispecchiare il Bene.
E poi c'è l'esperienza del valore, cosa significa fare esperienza del valore? significa sentire (e non capire) che tu sei importante ma c'è qualcosa di più importante di te. La natura è più importante di te, il bene comune è più importante di te, la famiglia,il contesto sociale. C'è qualcosa di più importante del tuo essere particolare, del tuo singolo torna conto, del tuo interesse. Se non si ha questa esperienza e si pensa di essere se stessi la cosa più importante che c'è non si hanno le condizioni per il nascere dell etica. Si avrà la condizione per il nascere del diritto, ma non dell etica.
E poi l'esperienza della libertà che significa che tu questo sentimento del valore lo puoi seguire oppure no, non c'è imposizione, c è libertà. SE la tua libertà si determina a favore del valore, allora hai che un pilastro si lega all altro ed ecco l'arco dell etica. Questo è per me il fondamento del darsi dell etica.
Dai per scontato, senza argomentare, che in ogni valore morale sia implicita la priorità del plurale sul singolare, del comune sul privato.
Su che cosa si baserebbe tale priorità?
Non si tratta di una priorità ontologica dell'universale sull'individuale, perché qui abbiamo in realtà pluralità contro singolarità.
Più la pluralità è ampia e maggiore è la sua importanza?
Allora aveva torto Antigone a pretendere la sepoltura del fratello, perché la famiglia, seguendo questo ragionamento, pur contando più del singolo membro, conta meno della città, essendo meno "comune"?
E perché il bene del singolo dovrebbe essere solo tornaconto, interesse meschino. Il mio bene è pieno sviluppo del mio essere, delle mie facoltà. Non vedo perché dovrei sacrificare tutto questo per la prosperità della società in cui vivo.
La stessa cosa avrebbero potuto rispondere gli schiavi che producevano i beni per il mantenimento della polis greca: che ce ne facciamo dell'armonia della polis se noi intanto siamo condannati ad un lavoro che ci abbrutisce?
Anche ripensando al suggerimento di Phil di intendere la relazione e non l'"ente uomo" come l'oggetto dell'etica, mi sembra che comunque sia inevitabile esprimersi sulla natura umana, quindi nell'ambito di un punto di vista filosofico complessivo.
A meno di volersi accontentare di fare una semplice descrizione di come si comportano le persone.
O come fa Ipazia attaccandosi ad un fantomatico rigore scientifico dell'antropologia...
[L'antropologia nel suo procedere non ha nulla di scientificamente rigoroso, per la semplice ragione che ogni approccio antropologico presuppone una specifica concezione della natura umana e una specifica soluzione del problema dell'osservazione e dell'interpretazione del suo oggetto (l'antropologo che osserva, documenta e interpreta i costumi di una determinata popolazione, partendo dalla sua identità, dalla sua cultura, ottenendo così una rappresentazione non si sa quanto distorta da ciò che l'antropologo appunto si porta dietro)].
Ho iniziato purtroppo la seconda parte della fenomenologia: si parla di forza.
Ma la forza di cui parla, sottrazione all'universale, al tutto, in favore del singolo, è semplicemente sbagliata.
Infatti si riferisce ad un idea meccanicista del mondo, dove l'universo è chiuso.
Ma l'universo è aperto, e non esiste una forza generale, la gravità nel mondo piccolo non esiste. Esistono altre forze.
A ogni grado entropico agiscono forze differenti.
Sostanzialmente la fenomenologia si chiude sul problema del percetto, per quel che mi riguarda.
Rispetto alla discussione generale, mi pare proprio che la questione degli universali sia del tutto priva di fondamento.
Infatti il percetto è un percetto da qualcosa che non può essere il soggetto che conosce.(e che infatti chiamiamo io, a contatto col dio, porre un tutto e una parte come fa hegel è errato, ma il "movimento" o "momento" non lo è: infatti noi siamo mediazione.
Qull'oggetto che sa, e che si conosce come oggetto, si disconosce da quello per il fatto di essere a contatto con DIO.
Il contatto con DIO gli fa conoscere il suo VALORE come ESSERE MORALE (non etico!).
Essere morali significa riconoscere ciò che per noi è valido al di là del soggetto che noi conosciamo come tale.
Vuol dire che noi NON SIAMO SOGGETTI, io percetto.
Se non siamo "io percetto" l'intera questione ante-rem e post-rem cosa è?
Se non lana caprina?
Hegel è importante perchè ha riconosciuto ontologicamente qualcosa che non è nè io nè Dio.
Questo vuol dire che rinnega ogni visione psicologista della storia.
Questo qualcosa che è mediazione, ragiona tramite concetti.
Per questo in Hegel il concetto diventa importantissimo.
Può starci in un ottica di comprensione fra SOGGETTI, ma il VALORE sta nella comprensione?
Oppure il concetto VIENE MESSO ALLA PROVA dai FATTI?
Per risolversi in un grandissimo problema psicologico.
Platone è un grande psicologo ante-litteram.
Ciò che Freud concettualizza Platone lo vive, o meglio pretende che tu lo viva!
In Hegel questa preoccupazione stenta ad arrivare: forse più avanti, non lo so. Ma probabilmente no.
Se come dite voi il problema di Hegel è un problema sistemico e dunque concettuale: la vita viene ignorata.
Peccato perchè nel finale del capitolo sulla sensibilità si parlava proprio dell'impossibilità di vivere il REALE.
Se noi non viviamo il reale, cosa ci frega di cosa sia il reale?
E' una domanda tanto peregrina?
L'approccio scientifico dell'antropologia si regge sul rigore ermeneutico della ricerca che insegna a superare i bias personali, lasciando piuttosto caselle in bianco che narrazioni favolistiche.
Il concerto è un ente tanto quanto il martello e così si dissolve la distinzione ontologica tra oggetto materiale ed evento.
Antigone non fondava la sua disobbedienza alla legge dello stato su fattori individuali pertinenti al fratello o al suo amore fraterno, ma su leggi collettivamente vincolanti, più antiche delle leggi dello stato.
L'etica, per sua natura, è sempre collettiva. La declinazione al singolare è un applicativo del contesto plurale.
Citazione di: Koba II il 31 Marzo 2024, 10:36:09 AMDai per scontato, senza argomentare, che in ogni valore morale sia implicita la priorità del plurale sul singolare, del comune sul privato.
Su che cosa si baserebbe tale priorità?
Non si tratta di una priorità ontologica dell'universale sull'individuale, perché qui abbiamo in realtà pluralità contro singolarità.
Più la pluralità è ampia e maggiore è la sua importanza?
ovviamente non è questione di numeri. La pluralità non deve schiacciare il singolo, la partita si gioca sull individuale e sul pluarale. E questo è stato il limite dell antichità, perchà l antichità aveva schiacciato il singolo a favore della società. Bisogna quindi capire questo limite e superarlo per non cadere nello stesso errore. Ed è nata la modernità su questo limite, con la rivoluzione francese ad esempio dove fra libertè , legalitè e fraternitè la vera vittoria è stata la libertà che è stata la volontà del singolo a non voler più essere legato alla catena sociale. Adesso siamo passati all estremo opposto, c'è l'io , il Dio/io che è così libero da essere a-ssoluto nel senso di non relato , non relativo, sciolto, assoluto nel senso etimologico del termine. E quindi viene a mancare quel sentimento, quell energia che ci rende soci. Società deriva dal termine latino sociétas che significa un insieme di soci. E mentre prima il contesto sociale schiacciava troppo il singolo ora il contesto sociale provaca che la gente sta male perchè non ha nulla a cui connettere il propio io. Abbiamo bisogno di creare relazioni, e che siano sane. Più infondi armonia nei tuoi sistemi relazionali, lavoro, famiglia , amici e piu stai bene. E ho usato volutamente la parola "sistema" perchè tutto è sistema e il bene a cui si riferiva Platone si rispecchia nell ordine naturale di questi sistemi, noi stessi siamo sistemi , non c'è niente che sia da solo , separato.
Per cui il bene prima ancora di essere qualcosa di etico è qualcosa di fisico! ordine , organizzazione , armonia , relazione , Natura , natura Phisis dalla quale si ha il darsi della vita, la vita è organizzazione complessissima per avere una singola cellula, per avere poi le miliardi e miliardi di cellule perfettamente correlate fra di loro per formare un organismo e poi formare un pensiero bisogna avere un logos, una fonte di informazione, ciò che da forma al caos. E che cos'è questo logos che da forma al caos? eh qui si può rispondere in vari modi ma datemi un altra maniera , è il bene a cui si riferiva Platone. è quella logica costitutiva che ti ha portato all essere e che ancora ti mantiene all essere.
Citazione di: Koba II il 31 Marzo 2024, 10:36:09 AME perché il bene del singolo dovrebbe essere solo tornaconto, interesse meschino. Il mio bene è pieno sviluppo del mio essere, delle mie facoltà. Non vedo perché dovrei sacrificare tutto questo per la prosperità della società in cui vivo
il pieno sviluppo del tuo essere viene da quella logica relazionale, archetipale , che nel grembo materno ti ha formato e che ancora ti mantiene in essere. Si tratta di rimanere fedeli a quella logica vitale , a quel bene che ti ha costituito perchè se tu tradisci questo bene e mercanteggi il bene e il male a favore del tuo particolare , in questo mondo mercantile dove tutto ha un prezzo tu fallisci, profondamente, puoi relaizzare il tuo essere quanto vuoi ma fallisci, come essere umano fallisci. Son sicuro che ci sono cose che nella tua vita personale non sono in vendita perchè se tu le vendessi offenderesti la tua anima. è propio di questo che si tratta. Non c'è niente da sacrificare si tratta di rimanere fedeli al bene. Ed è inutile che stia qui a spiegarlo con mille filosofie e con la logica perchè non si tratta di arrivarci con la logica . Perchè la logica lasciata a se stessa è calcolatrice , per la sola logica può essere molto conveniente far fuori un avversario per il propio bene. ma tu non sei solo logica, sei anche sentimento e sei anche libero di seguirlo oppure no. Io non ho niente da dire se tu ritieni di essere la cosa piu importante che c'è . Che sia chiaro, non sono io quello che viene qui a dire come si dovrebbe vivere.
Citazione di: Ipazia il 31 Marzo 2024, 23:38:26 PML'approccio scientifico dell'antropologia si regge sul rigore ermeneutico della ricerca che insegna a superare i bias personali, lasciando piuttosto caselle in bianco che narrazioni favolistiche.
Il concerto è un ente tanto quanto il martello e così si dissolve la distinzione ontologica tra oggetto materiale ed evento.
Antigone non fondava la sua disobbedienza alla legge dello stato su fattori individuali pertinenti al fratello o al suo amore fraterno, ma su leggi collettivamente vincolanti, più antiche delle leggi dello stato.
L'etica, per sua natura, è sempre collettiva. La declinazione al singolare è un applicativo del contesto plurale.
Per un comunista forse: ma l'etica del sangue, della gens, ossia del singolo è quella MORALE, quella dello stato è IMMORALE.
Non è solo Antigone (che non ho letto) ma è sopratutto l'EUTIFRONE DI PLATONE.
Per non parlare della BIBBIA.
La famiglia è il CENTRO DELLO STATO, uno delle fu conquiste del cristianesimo, che si nutriva di GRECIA e di EBRAISMO.
OGGI la famiglia senza valori è diventata un nido di vipere.
Come al solito i comunisti hanno fatto danni.
Ancora con sti bias? noi non siamo un ente antropologico neutralmente studiabile. Sorry.
Si rafforza in me l'opinione che universale singolare sono tutte storielle per nascondere i veri problemi.
A partire dall'EUTIFRONE: torniamo a leggere PLATONE.
Citazione di: Alberto Knox il 31 Marzo 2024, 23:49:46 PMChe sia chiaro, non sono io quello che viene qui a dire come si dovrebbe vivere.
Ma è quello che hai appena fatto.
E comunque è il contrario di quello che dici tu: nella grecia il SINGOLO è TUTTO.
E' proprio dalla rivoluzione francese che nasce il mito della fratellanza statuale.
Con tante belle ghigliottine.
Poi adottate a modello da RUSSIA E CINA. Ancora oggi.....
E' la nostra epoca oscura che se ne frega del singolo.
TUTTI gli intellettuali oggi sono d'accordo nel dire il contrario: chiamasi industria culturale.
Se è l'intellettuale il primo a tradire: Figuriamoci i poveri del mondo.
Citazione di: green demetr il 01 Aprile 2024, 00:34:43 AMMa è quello che hai appena fatto.
sbagliato, io esprimo la mia filosofia di vita, ognuno è libero di esprimere la propia. Per questo non ho nessun problema ad eccettare quella degli altri.
Citazione di: green demetr il 01 Aprile 2024, 00:34:43 AME comunque è il contrario di quello che dici tu: nella grecia il SINGOLO è TUTTO.
sì, ad Atene la forma migliore di governo è stata la democrazia . Ma nelle altre città stato era ancora l Oligarchia a governare per la maggiore. Nella Grecia esistevano le classi sociali , dove i nobili erano al vertice e gli schiavi all ultimo gradino ovviamente. E non è vero che ogni singolo era tutto, dipende da chi era quel singolo. Nella Grecia antica si usavano diverse espressioni per definire il popolo;
λαός (yaos) era il popolo in senso generico . l éthnos era l'etnia quindi il popolo in quanto Nazione. Terzo termine Démos che prima ancora di significare popolo significa territorio quindi Démos era quella popolazione responsabile di quel territorio e quindi responsabile verso se stesso , era il popolo istruito il Démos, da cui democrazia ne riprende il nome. Ochlos, termine che si riferiva alla plebaia , ovvero il popolo che non ha nessun interesse per il quartiere ne per il bene comune ne per il territorio ma solo per il propio ventre. Si distingueva quindi chi era socialmente responsabile e chi no.
Citazione di: green demetr il 01 Aprile 2024, 00:34:43 AME' proprio dalla rivoluzione francese che nasce il mito della fratellanza statuale.
Con tante belle ghigliottine.
il riferimento alla rivoluzione Francese si riferiva alla motivazione che spingeva il cittadino alla rivolta sotto la bandiera della libertà, della legalità e della fratellanza. E ho detto che a vincere è stata la libertà dal sistema monarchico che opprimeva il popolo. Poi so benissimo che calmate le aque si restaurò il solito dominio sul popolo che di nulla a migliorato le condizioni . Ma è stata una vittoria della libertà sull oppressione la rivoluzione Francese.
Citazione di: green demetr il 01 Aprile 2024, 00:34:43 AMPoi adottate a modello da RUSSIA E CINA. Ancora oggi..
Ma va, avevano già i loro modelli dittatoriali senza andare a prendere propio dai Francesi.
Citazione di: green demetr il 01 Aprile 2024, 00:34:43 AME' la nostra epoca oscura che se ne frega del singolo.
"me ne frego" era il motto delle camice nere. Alla nostra epoca, per quanto riguarda l'italia manca un governo che sia davvero democratico , io penso che la democrazia del nostro paese si stia sempre di piu trasformando in oclocrazia.
Ma quando mai il singolo era tutto nella Grecia antica ! Socrate antepone le leggi sbagliate dello stato alla sua vita e Platone scrive "Repubblica" dove osanna quei "comunisti" di spartani.
Green ci fai o ci sei ?
Aristotele parla di politikon zoon e la polis si chiama polis, anche ad Atene.
Il plurale etico (ed etologico) è obbligato dove ci sia un minimo di logos sensato. Non bisogna aspettare i sanculotti per ragionarci sopra.
La realtà si presenta come molteplice.
È necessario il molteplice per poter apparire.
L'Uno appare a se stesso sotto forma di molteplice.
È la scissione originaria.
Necessaria affinché l'Uno si mostri.
Perché Uno = Nulla
Ma il molteplice di per sé non ha alcun senso. Se non rimandando all'Uno.
E come rimanda all'Uno?
Tramite l'etica.
L'etica è ciò che dona senso al molteplice, mostrando le sue radici nell'Uno.
Una prova di ciò?
L'amore.
Osserva l'amore che ricevi e l'amore che dai.
Non si ama mai in generale, non si ama "i molti" in quanto molti.
Semmai si ama i molti in quanto Uno.
Ami e sei amato sempre e comunque perché Uno.
E Uno = Nulla
Si dice che sulla terra nessuno è indispensabile,il che è come dire:"anche se muori non ci succede niente"
Io dico che è la terra a non essere indispensabile per chi ne fa volentieri a meno per il 90% di terrestrialità.
E il discorso è proprio questo perché,chi ne fa a meno, viaggia con valori che la terra stessa usa e abusa in ogni senso senza imitarla.
Naturalmente chi difende questo stato di cose è ben felice di farlo se è libero di farlo.
San Francesco che restituisce al padre quello che il padre gli aveva dato è un esempio di come ci si libera dal 90% restando solo col 10% (anche dei padri e delle madri).
La terra è simile a una persona che bara bene giocando a poker ,esperta nei bluff espressivi e gestuali che ingannano gli avversari, paziente e apparentemente indifferente,come se il vincere o il perdere non gli interessasse ma le piacesse solo giocare in quel modo.
Si dice che " il diavolo fa le pentole ma non i coperchi".
In realtà ,da coperchi che potrebbero andare bene per molti tipi di pentole lasciando poi gli esseri umani col c....o per terra.
Un selezionatore di esseri umani.
Citazione di: Ipazia il 01 Aprile 2024, 07:45:07 AMAristotele parla di politikon zoon e la polis si chiama polis, anche ad Atene.
Vorrei contestualizzare questo punto. Aristotele pensava che l'uomo è destinato ad essere "animale politico" in quanto "animale razionale" e quindi non solo capace ma anche bisognoso di relazioni sociali, di decidere in comunione, di votare, di esporre le propie opinioni ecc. Si evidenzia quindi un chiaro nesso fra la felicità del singolo e la felicità collettiva. Alla piazza di Atene , L'agorà, si andava per discutere, esprimere le propie idee , anche se a farlo, sia chiaro, erano solo i capofamiglia della polis, non tutta la famiglia. E si votava, per alzata di mano. Questa era la forma migliore che si escogitò come forma di governo, il popolo poteva votare ed era quindi responsabile e con potere decisionale sulla comunità e in definitiva , verso se stessi.
Citazione di: Ipazia il 01 Aprile 2024, 07:45:07 AMMa quando mai il singolo era tutto nella Grecia antica ! Socrate antepone le leggi sbagliate dello stato alla sua vita e Platone scrive "Repubblica" dove osanna quei "comunisti" di spartani.
Green ci fai o ci sei ?
Aristotele parla di politikon zoon e la polis si chiama polis, anche ad Atene.
Il plurale etico (ed etologico) è obbligato dove ci sia un minimo di logos sensato. Non bisogna aspettare i sanculotti per ragionarci sopra.
Come immaginavo non hai capito nulla di Platone, la Repubblica va letta al contrario come già suggerito dal mio maestro.
Ma la contro-prova l'ho trovata nel Critone.
A mio parere il Critone è la pietra del paragone del nostro tempo, e lo metto insieme al processo di Kafka fra le opere più alte mai scritte in tutti i tempi.
Se noi ragioniamo del dittico e subito dopo l'Eutifrone, abbiamo l'apologia di Socrate che è un inno alla libertà del singolo.
E il Critone che è il suo esatto CONTRARIO.
Il lettore richiesto da Platone è uno che ragiona ben oltre ciò che sta scritto.
Quando chiusi l'ultima delirante parte del Critone qualcosa dentro di me si è mosso, è cambiato l'intero panorama.
Platone esige non l'intelletto ma la nostra stessa anima.
La domanda che sconvolge è perchè Socrate si comporta in maniera irrazionale nell'apologia, e invece molto razionale nel secondo?
E perchè la maschera (socrate) pare sicuro di sè nel primo dialogo e completamente preso dal panico nel secondo?
Vi è un filo rosso un arte maieutica ben al di là di quella mandata a memoria dai manuali e dagli intellettuali post-adorno, post-minima moralia.
Qualcosa che si riaggancia all'orfismo certo, ma in maniera diretta ad Omero.
Perchè Omero è centrale in Platone?
Vi sono moltissimi domande da rispondere, purtroppo io avendo fatto lo scientifico, non so niente.
Per me tutto è nuovo, e seguendo Leopardi o il mio vecchio insegnante di letteratura, che scrive nel finale della sua vita da insegnante: finalmente posso stare con i miei classici greci e latini, e la natura.
La natura è un simbolo ricordava Baudelaire, ogni suo cambiamento coincide con stati d'animo diversi è la nostra anima che vive in QUANTO POESIA.
Devo dire che la filosofia moderna è stata insieme la mia passione e la mia fine.
Da vecchietto cinquantenne, comincio ora ad aprire gli occhi da talpa verso nuovi orizzonti.
E il mondo reale pare ancora più bujo.
Salve amici!
Citazione di: bobmax il 01 Aprile 2024, 08:31:50 AMLa realtà si presenta come molteplice.
È necessario il molteplice per poter apparire.
L'Uno appare a se stesso sotto forma di molteplice.
È la scissione originaria.
Necessaria affinché l'Uno si mostri.
Perché Uno = Nulla
Ma il molteplice di per sé non ha alcun senso. Se non rimandando all'Uno.
E come rimanda all'Uno?
Tramite l'etica.
L'etica è ciò che dona senso al molteplice, mostrando le sue radici nell'Uno.
Una prova di ciò?
L'amore.
Osserva l'amore che ricevi e l'amore che dai.
Non si ama mai in generale, non si ama "i molti" in quanto molti.
Semmai si ama i molti in quanto Uno.
Ami e sei amato sempre e comunque perché Uno.
E Uno = Nulla
Ma questa unità non esiste.
Come già detto da Schroedinger, ciò che misura è già ciò che determina.
Questa unità non è cioè fondamentale.
Quindi l'idea di uno equivale a quella di niente.
Nessun ente deriva da un Uno come voleva Aristotele e da lì giù fino alla fisica quantistica, che ripristina quello che Platone e prima di lui già si sapeva: ossia che la matematica è tutto.
In questo senso la critica di Feurbach è andata a segno: non vi è alcuna necessità a questa unità che frullava nella testa di Hegel.
Questo non toglie che la filosofia degli "attimi" che convergono nella distinzione fra soggetto, specchio del mondo materiale, e io, in quanto anima, ossia morale a contatto con DIO.
Laddove Dio si rivela come amore, ovviamente.
Non esiste pertanto la fratellanza dell'ente uomo, perchè non esiste un ente uomo.
L'unico ente apprezzabile è quello che detiene il pensiero, ed è cioè l'anima.
Ma l'anima non è una forza che si separa da un uno, ma ciò che emerge dalla somma dei pensieri, che si svolge nel REALE.
Si può ben dire che Hegel funziona solo se si prende al contrario.
Ossia non il tutto nell'uno, ma l'uno che fonda il tutto.
Dove l'uno è il pensiero, e NON DIO.
E direi che stringatamente è ciò che ho sempre pensato di base.
Ora però si tratta di dare ciccia a tutto questo.
Si tratta di farlo diventare letteratura, tenendo conto che quella che conta non è quella moderna ma quella antica.
Oppure rileggendo, secondo me forzatamente Hegel, in chiave morale metafisica.
Dove la metafisica non è quella di Cacciari-Sini e neorealismo a tuttandare, ma pura metafisica, ossia l'anima che soffia da DIO.
Come già detto dalla Bibbia, e ripreso da Nietzche.
I pappagalli della cultura moderna NON PENSANO.
Citazione di: Alberto Knox il 01 Aprile 2024, 10:40:03 AMVorrei contestualizzare questo punto. Aristotele pensava che l'uomo è destinato ad essere "animale politico" in quanto "animale razionale" e quindi non solo capace ma anche bisognoso di relazioni sociali, di decidere in comunione, di votare, di esporre le propie opinioni ecc. Si evidenzia quindi un chiaro nesso fra la felicità del singolo e la felicità collettiva. Alla piazza di Atene , L'agorà, si andava per discutere, esprimere le propie idee , anche se a farlo, sia chiaro, erano solo i capofamiglia della polis, non tutta la famiglia. E si votava, per alzata di mano. Questa era la forma migliore che si escogitò come forma di governo, il popolo poteva votare ed era quindi responsabile e con potere decisionale sulla comunità e in definitiva , verso se stessi.
L'etica di aristotele vive ancora dell'insegnamento di Platone.
Come hai ben ricordato e insegnatoci tu, la filosofia nasce grande insieme alla democrazia.
Con pisistrato, cadono i vecchi dei e arrivano i nuovi, quelli dell'orfismo.
La dimensione statuale della vecchia aristocrazia viene messa al bando dalla nuova democrazia commerciale ateniese.
Ma tutto questo si ripercuote nella dimensione del pensiero assumendo i caratteri mitici, che la rendono immortale.
Purtroppo la crematistica aristotelica si macchia del vecchio errore metafisico, ossia quelle indagato da Heidegger, sulla differenza tra ENTE ed ESSERE.
Purtroppo i miei due vecchi maestri, Nietzche ed Heidegger, da bravi discepoli di Schopenauer portano a compimento la vecchia idea greca di potenza e atto.
Dove ciò che emerge è la VOLONTA'.
Cosa che per me è sempre stata cosa giusta e valorosa.
Ma il mio attuale maestro mi ha messo alle strette.
la volontà è sempre volontà di potenza, anche in Heidegger e in Nietzche, e questo è gravissimo, perchè la morale platonica e omerica, l'individuo che prende in mano il suo destino, viene schiacciata da quella di sopraffazione sull'altro.
Non è tanto una questione politica ma proprio di filosofia fondamentale.
Se il fondamento è la potenza, dunque la filosofia diventa il MALE.
Mentra la filosofia si DEVE basare sul BENE, e dunque sulla morale, SENZA POTENZA, come il cristianesimo si è rimodellato unendo ebraismo e misterismo eleusino, diventando il perno centrale dell'occidente, ma portandosi come una palla al piede anche la tradizione aristotelica che deflagra nel nazismo regionale in germania, e ora in quello mondiale.
Platone è il nemico numero uno di tutti i filosofi pubblicati.
Essere con Platone significa essere buttati fuori dal consenso di questi fascisti che osano chiamarsi filosofi...
MA MI FACCIANO IL PIACERE!
No noi che grazie a DIo siamo fuori dalle loro grinfie ragioneremo in altra maniera quella corretta: PLATONE.
Citazione di: Pensarbene il 01 Aprile 2024, 09:19:49 AMSi dice che sulla terra nessuno è indispensabile,il che è come dire:"anche se muori non ci succede niente"
Io dico che è la terra a non essere indispensabile per chi ne fa volentieri a meno per il 90% di terrestrialità.
E il discorso è proprio questo perché,chi ne fa a meno, viaggia con valori che la terra stessa usa e abusa in ogni senso senza imitarla.
Naturalmente chi difende questo stato di cose è ben felice di farlo se è libero di farlo.
San Francesco che restituisce al padre quello che il padre gli aveva dato è un esempio di come ci si libera dal 90% restando solo col 10% (anche dei padri e delle madri).
La terra è simile a una persona che bara bene giocando a poker ,esperta nei bluff espressivi e gestuali che ingannano gli avversari, paziente e apparentemente indifferente,come se il vincere o il perdere non gli interessasse ma le piacesse solo giocare in quel modo.
Si dice che " il diavolo fa le pentole ma non i coperchi".
In realtà ,da coperchi che potrebbero andare bene per molti tipi di pentole lasciando poi gli esseri umani col c....o per terra.
Un selezionatore di esseri umani.
E' proprio vero, la possesività figlia della volontà di potenza è il gioco del nostro tempo: ossia la territorialità.
Il possesso di territorio, interessi SUL TERRITORIO.
La guerra mondiale a pezzi si gioca su questi pezzi, peccato che la minaccia atomica sostituisce quella delle guerre convenzionali.
L'homo sapiens gioca con la sua stessa morte: cosa c'è di sapiens in questo?
:D (al mio maestro piace giocare con questo! due extratterestri passano per caso sulla terra e si chiedono cosa diavolo stiamo facendo: e uno dei due dice celiando, ma il meglio è che si fanno chiamare sapiens!!! :)) O:-) )
CitazioneMa è quello che hai appena fatto.
E comunque è il contrario di quello che dici tu: nella grecia il SINGOLO è TUTTO.
Assolutamente no. Neppure in Platone vi è questa concezione. Ma se parliamo di Pensiero greco antico niente di più lontano. Il pensiero greco antico può essere rappresentato in modo sintetico attraverso la ideazione del "tragico", nel quale si abbandona il pensiero paranoide polarizzante del chi vince e chi perde. Il pensiero tragico ci espone ai vincoli della relazione sociale, alle sue antinomie, al suo disperato tentativo di risolvere in modo sempre provvisorio i conflitti, attraverso la lente della giustizia, dell'equità, del bilanciamento dei valori. Il tragico è la connessione sociale per "adulti". È il mondo post-edipico, che non può fondarsi sul
Singolo, ma sulla tensione ineliminabile fra singolo e società. Senza questa premessa del tragico, non sarebbe possibile neppure pensare ad un concetto rivoluzionario
Come quello di democrazia, concetto inviso sia da Platone che da Aristotele, i quali non sono però il pensiero greco tout/court. Il pensiero greco è un universo nel quale si muovono molti fili che possono spiegare anche la storia odierna ed uno che mi sembra fondamentale è proprio il filo del " tragico", assai distante dalla visione dell'Uno (e un popolo così, infatti, poteva essere solo politeista).
Citazione di: Jacopus il 01 Aprile 2024, 22:47:30 PMAssolutamente no. Neppure in Platone vi è questa concezione. Ma se parliamo di Pensiero greco antico niente di più lontano. Il pensiero greco antico può essere rappresentato in modo sintetico attraverso la ideazione del "tragico", nel quale si abbandona il pensiero paranoide polarizzante del chi vince e chi perde. Il pensiero tragico ci espone ai vincoli della relazione sociale, alle sue antinomie, al suo disperato tentativo di risolvere in modo sempre provvisorio i conflitti, attraverso la lente della giustizia, dell'equità, del bilanciamento dei valori. Il tragico è la connessione sociale per "adulti". È il mondo post-edipico, che non può fondarsi sul
Singolo, ma sulla tensione ineliminabile fra singolo e società. Senza questa premessa del tragico, non sarebbe possibile neppure pensare ad un concetto rivoluzionario
Come quello di democrazia, concetto inviso sia da Platone che da Aristotele, i quali non sono però il pensiero greco tout/court. Il pensiero greco è un universo nel quale si muovono molti fili che possono spiegare anche la storia odierna ed uno che mi sembra fondamentale è proprio il filo del " tragico", assai distante dalla visione dell'Uno (e un popolo così, infatti, poteva essere solo politeista).
Vi sono tre giganti Eschilo, il sommo poeta, ed Euripide, il cesellatore, tra di loro la figura misteriosa di Sofocle.
Due sommi poeti e un epigono che incasella, cosa portanto alla luce questi sommi autori che svettano su tutti gli altri?
Lo scontro tra individuo e stato, tra democrazia ed olocrazia.
Le vecchie leggi vengono sconvolte, e si instaura il dominio della pazzia: il patriarcato.
Ma come è avvenuto che un re sacrifichi la propria figlia?
Sono le premesse che sto ascoltando da anemos...
Non esiste una società post-edipica caro Jacopus.
Quello che narra Sofocle è qualcosa che va oltre quello che pensavo.
Vi è un pensiero non scritto dietro lo scritto.
La tragedia coincide con la nascita stessa della nostra anima democratica.
Quali DEMONI abbiamo evocato per attingere ad una legge che va contro OMERO?
Ed Omero non era forse l'autore del titanismo eroico del singolo?
Cosa cambia tra l'Iliade e l'Odissea?
Vi sono domande che chiedono la nostra anima e il nostro sangue.
A che serve fare i pappagalli della manualistica? Scimmiottare gli accademici?
Io lo penso da lungo tempo.
Semplicemente mi mancava il filo rosso: l'orfismo.
Quello che voglio dire è che la soluzione tra individuo e stato, non si risolve in una medietas che non è mai esistita, ma proprio con la nascita stessa della nostra anima.
Cosa è la morale? un manuale di precetti? o qualcosa che attinge al DIO?
Dioniso è il DIO e ORFEO il suo cantore.
Cosa è in ballo? la vita stessa!
La salvezza è la via del fuoco greca, poi raffredata dalla legge ebraica e scolpita dal cristianesimo più alto.
Quale è il risultato: la sacralità del corpo?
Come raggiungere queste illuminazioni?
Riprendiamo in mano i testi e leggiamoli alla luce delle cose non dette.
Come già aveva fatto Colli a cui il canale ANEMOS si ispira, mi par di aver capito.
Non mi sogno di sapere niente. Voglio semplicemente sentire la grandezza.
Tutto il resto è follia.
Ciauz!
PS per quanto riguarda Platone ti prego di leggere la risposta che ho dato ad Ipazia, GRAZIE.
CREONTE:
(Ad Antigone)
E in breve tu
di', senza ambagi: il bando che vietava
di far ciò che facesti, era a te noto?
ANTIGONE:
Certo. E come ignorarlo? Esso era pubblico.
CREONTE:
E pur la legge vïolare osasti?
ANTIGONE:
Non Giove a me lanciò simile bando,
né la Giustizia, che dimora insieme
coi Dèmoni d'Averno, onde altre leggi
furono imposte agli uomini; e i tuoi bandi
io non credei che tanta forza avessero
da far sí che le leggi dei Celesti,
non scritte, ed incrollabili, potesse
soverchiare un mortal: ché non adesso
furon sancite, o ieri: eterne vivono
esse; e niuno conosce il dí che nacquero.
E vïolarle e renderne ragione
ai Numi, non potevo io, per timore
d'alcun superbo. Ch'io morir dovessi,
ben lo sapevo, e come no?, pur senza
l'annuncio tuo. Ma se prima del tempo
morrò, guadagno questo io lo considero:
per chi vive, com'io vivo, fra tante
pene, un guadagno non sarà la morte?
Per me, dunque, affrontar tale destino,
doglia è da nulla. Ma se l'uomo nato
dalla mia madre abbandonato avessi,
salma insepolta, allor sí, mi sarei
accorata: del resto non m'accoro.
Tu dirai che da folle io mi comporto;
ma forse di follia m'accusa un folle.
Nessuno spazio per l'individualismo, riletto al contrario. La tragedia rivela il suo carattere collettivo, che il coro amplifica, e l'epilogo della tragedia condanna la hybris individualistica del "superbo" al suo folle destino. Appunto Eschilo :)
Molto bello Ipazia, ci mediterò.
Vado a lavorare ciao!
Citazione di: green demetr il 01 Aprile 2024, 22:30:54 PMNo noi che grazie a DIo siamo fuori dalle loro grinfie ragioneremo in altra maniera quella corretta: PLATONE.
tutto l'occidente è Platonico , la grandezza di Platone è che da solo è riuscito a influenzare un intera nazione , l'intero occidente parla pensa e ragiona come Platone ha insegnato a parlare e a pensare. Noi parliamo per soggetto predicato e complemento , esattamente come ci ha insegnato a parlare Platone , prima di Platone si parlava per analogie. Platone è colui che ha inventato la logica per distinugere il vero dal falso . in ambito morale si distingue il bene dal male , in ambito antropologico pensiamo di essere composto di anima e corpo.
Platone è l'occidente!
Citazione di: Jacopus il 01 Aprile 2024, 22:47:30 PMIl pensiero greco antico può essere rappresentato in modo sintetico attraverso la ideazione del "tragico", nel quale si abbandona il pensiero paranoide polarizzante del chi vince e chi perde.
la tragicità è espressione della tragicità dell esistenza. il tragico della Grecia antica era l espressione tragica della ricerca di un senso in previsione della morte che è implosione di ogni senso. La dimensione tragica ha qui il suo centro ; per vivere ho bisogno di costruire un senso in vista della morte che l'implosione di ogni senso. Ancora oggi molte persone vivono alla ricerca del senso della propia vita. Il dramma umano in cerca di riposte che non trova e non può trovare si traduce in quella che nella mitologia fu la disarmante risposta che Sileno il satiro rivelò a Re Mida; non c'è alcun senso.
Il senso trascende le cose e gli eventi. La ricerca di senso ha prodotto la filosofia che è la sapienza di dare un senso al mondo. Sileno intendeva il senso come dato, invece il senso si pone sul mondo così come è dato:
"Meditate la vostra semenza
nati non foste a viver come bruti
Ma per seguir virtute e canoscenza"
Citazione di: Ipazia il 02 Aprile 2024, 08:33:22 AMSileno intendeva il senso come dato, invece il senso si pone sul mondo così come è dato
Sì, e credo sia un punto importante su cui tutti i filosofi del furom devono soffermarsi. Il senso della mia vita mi viene dato da qualcosa di molto più grande di me nella quale io sono iscritto o il senso lo pongo io sulla mia vita e sul mondo? Per Sileno mezzo uomo e mezzo capra che rappresenta l'animale razionale non c'è alcun senso dato, nessun senso universale a cui fare riferimento . Saremo dunque noi a costruire il senso, a dare un senso alla vita e al mondo.
Senso come direzione , qual'è la direzione? senso come significato, qual'è il significato? e senso come sentimento. Che cosa senti? dentro di te, di fronte alla vita e di fronte al mondo. Si tratta di sentire anche e non solo di capire con la ragione.
Si è parlato di individualismo rispetto alla pluralità , ma non esiste un io separato . Lo sai che stai respirando? e che se non ci fosse questa continua connessione con l ambiente noi in meno di un minuto non ci saremmo più? Tutto parte da lì, dalla coscienza che respiriamo, respira, predi consapevolezza della tua connessione strutturale con il mondo . Per cui tu non sei un io da solo, separato, tu sei subito sistema, un sistema in relazione con altri sistemi . L'etica è dunque armonia dei sistemi in relazione e non buonismo come viene confusa oggi .
Il rapporto individuo-società è dialetticamente indeterminabile, alla Heisenberg, e più che la logica
manichea occidentale sono applicabili le logiche indiane proposte da Phil negli stati simultanei di esistenza e inesistenza, più difficili da controllare di un computer quantistico, i cui qbit fuoriescono dalle griglie che gli apprendisti stregoni vorrebbero loro imporre.
Il chiacchericcio nasce dal fatto che tanto l'esistenza che l'inesistenza di individuo e società sono simultaneamente "syat", probabili, ma non certi, e quindi bisogna isolare rigorosamente il contesto e aver chiare le finalità per cavare un ragno probabilistico dal buco e servire al meglio il logos.
In ciò sta la scommessa umanistica (e filosofica), non nella resa di fronte all'indeterminabile.
@PhilProprio la logica indiana si regge sull'ontologia dell'evento e rifugge la gnoselogia dell'oggetto isolato da ciò che gli accade. Lo fa per ragioni ontologiche, non etiche. Che vengono, semmai, dopo.
appellarci all India come modello filosofico per costruire un etica condivisa è un offesa verso i diritti umani , specie delle donne . Che ancora oggi nella cultura tradizionale indiana la donna è considerata un essere sottomesso e infieriore all'uomo, che non ha diritto a godere di una propria indipendenza, pertanto vive prima sotto il controllo del padre, poi viene data in sposa quindi passa sotto quello del marito. Pochi anni fa ha fatto notizia quello di un padre che tagliò la testa della figlia diciassettenne perchè scoperta ad avere una relazione con un ragazzo di un altra casta sociale, la portò alla polizia e venne poi sospeso anche un polizziotto perchè si era fatto fotografare tenendo in mano la testa in maniera gravemente irrispettosa. Nonostante esistano dati ufficiali imprecisi, è comprovato da varie organizzazioni per i diritti umani che i cosiddetti "delitti d'onore" come questo accadono migliaia di volte all'anno in tutta India. In questo caso il colpevole è stato sorpreso con una parte del corpo della vittima e, in stato di shock, non ha occultato l'orrore. La maggior parte delle volte quando le ragazze vengono bruciate o sedate con sonniferi e poi strangolate nel letto si fa passare la versione dell'incidente o del suicidio.
le tragedie ridicolizzano ciò che rappresentano come il co trario lo fa con ciò di cui parla
Sembra che la terra serva per ridicolizzare tutto e tutti SALVO chi o il che cosa non è ridicolizzabile.
Forse questo è il senso del pianeta,ne esce in buono stato chi obiettivamente non può essere veramente e realmente ridicolizzato.
Citazione di: Ipazia il 03 Aprile 2024, 11:08:58 AMProprio la logica indiana si regge sull'ontologia dell'evento e rifugge la gnoselogia dell'oggetto isolato da ciò che gli accade. Lo fa per ragioni ontologiche, non etiche. Che vengono, semmai, dopo.
Concordo e non a caso ho sottolineato la distinzione fra gnoseologia dell'
ente e analisi dell'
evento, distinzione fondamentale per il rigore logico di entrambi i discorsi, da non confondere fra loro (per questo mettevo in guardia da metafore come "la storia è la gnoseologia degli eventi" e sottolineavo la differenza ontologica fra un sasso, ente, e un'esplosione, evento).
Quando dicevo che la
relazione con l'ente è un
evento gnoseologico di coscienza (v. post 32), mi riferivo proprio alla
contestualizzazione dell'evento percettivo-cognitivo (relazione soggetto/ente-oggetto), che la logica, indiana o meno, cerca di schematizzare. Contestualizzazione altrettanto rilevante (e
differente dalla precedente) se si parla di evento etico, ossia relazione fra soggetti.
L'ente "cosa" non risente dello stesso limite percettivo-cognitivo dell'ente "evento" ?
(Poi è chiaro che, assai prima dell'etica, tutto va contestualizzato: l'acqua del marinaio non è la stessa acqua del chimico, pur essendo la stessa acqua, come insegnano gli indiani non dicotomici).
Citazione di: Alberto Knox il 03 Aprile 2024, 13:01:41 PMappellarci all India come modello filosofico per costruire un etica condivisa è un offesa verso i diritti umani , specie delle donne . Che ancora oggi nella cultura tradizionale indiana la donna è considerata un essere sottomesso e infieriore all'uomo, che non ha diritto a godere di una propria indipendenza, pertanto vive prima sotto il controllo del padre, poi viene data in sposa quindi passa sotto quello del marito. Pochi anni fa ha fatto notizia quello di un padre che tagliò la testa della figlia diciassettenne perchè scoperta ad avere una relazione con un ragazzo di un altra casta sociale, la portò alla polizia e venne poi sospeso anche un polizziotto perchè si era fatto fotografare tenendo in mano la testa in maniera gravemente irrispettosa. Nonostante esistano dati ufficiali imprecisi, è comprovato da varie organizzazioni per i diritti umani che i cosiddetti "delitti d'onore" come questo accadono migliaia di volte all'anno in tutta India. In questo caso il colpevole è stato sorpreso con una parte del corpo della vittima e, in stato di shock, non ha occultato l'orrore. La maggior parte delle volte quando le ragazze vengono bruciate o sedate con sonniferi e poi strangolate nel letto si fa passare la versione dell'incidente o del suicidio.
Capisco perchè phil si preoccupa tanto dell'etica, che non è argomento logico, visto che si continuano a confondere i due piani del logos. Il patriarcato è nato assai prima del ragionamento logico, che servirebbe semmai a decostruirlo. Personalmente mi limito ad apprezzare ciò che del pensiero orientale merita apprezzamento, senza prendere tutto il pacco ideologico in blocco. Zero, cifre "arabiche", e logica non dicotomica restano cose apprezzabili e non mi avventurerei in acrobazie patafisiche per collegarli alla schiavitù della donna orientale.
Citazione di: Ipazia il 03 Aprile 2024, 16:47:39 PML'ente "cosa" non risente dello stesso limite percettivo-cognitivo dell'ente "evento" ?
Per come la vedo, parlare di «ente "evento"»(cit.) con
fonde, nonostante le virgolette, i due concetti che anderebbero a mio avviso tenuti separati: l'ente può essere parte dell'evento per la coscienza che vi si relaziona (il mio osservare l'ente-sasso è un evento per la mia coscienza), ma l'evento non può essere un ente (il modo in cui si studiano gli enti non è quello con cui si studiano gli eventi). La definizione filosofica di ente è "affine" a quella di evento? Secondo me, no (anche se magari in fisica quantistica non esistono enti, ma solo eventi, per quanto quello sia un altro linguaggio, rispetto a quello filosofico).
Per fare un esempio un po' "brusco": l'altro uomo è per me un ente, non un evento; l'evento è la mia relazione (etica o anche solo percettiva) con lui. La vita dell'altro uomo, nel suo scorrere, può essere considerata un evento (nascita, durata e morte sono eventi, non enti), sebbene la sua presenza, qui ed ora, davanti a me, sia quella di un ente.
La tua domanda mi suona quindi piuttosto ambigua; potrei rispondere che i limiti percettivi-cognitivi sono propri dell'uomo in quanto tale, quindi riguardano sia gli enti che gli eventi, seppur in modo diverso, a seconda di quale dei due sia il campo d'applicazione. Sarebbe come dire, cambiando tema, che le limitazioni sensoriali dell'uomo ne condizionano sia la vista che l'udito, per quanto vista e udito restino da tenere distinte, se si parla di sensorialità.
Citazione di: Phil il 03 Aprile 2024, 17:44:28 PMPer come la vedo, parlare di «ente "evento"»(cit.) confonde, nonostante le virgolette, i due concetti che anderebbero a mio avviso tenuti separati: l'ente può essere parte dell'evento per la coscienza che vi si relaziona (il mio osservare l'ente-sasso è un evento per la mia coscienza), ma l'evento non può essere un ente (il modo in cui si studiano gli enti non è quello con cui si studiano gli eventi). La definizione filosofica di ente è "affine" a quella di evento? Secondo me, no (anche se magari in fisica quantistica non esistono enti, ma solo eventi, per quanto quello sia un altro linguaggio, rispetto a quello filosofico).
Per fare un esempio un po' "brusco": l'altro uomo è per me un ente, non un evento; l'evento è la mia relazione (etica o anche solo percettiva) con lui. La vita dell'altro uomo, nel suo scorrere, può essere considerata un evento (nascita, durata e morte sono eventi, non enti), sebbene la sua presenza, qui ed ora, davanti a me, sia quella di un ente.
La tua domanda mi suona quindi piuttosto ambigua; potrei rispondere che i limiti percettivi-cognitivi sono propri dell'uomo in quanto tale, quindi riguardano sia gli enti che gli eventi, seppur in modo diverso, a seconda di quale dei due sia il campo d'applicazione. Sarebbe come dire, cambiando tema, che le limitazioni sensoriali dell'uomo ne condizionano sia la vista che l'udito, per quanto vista e udito restino da tenere distinte, se si parla di sensorialità.
Se nel linguaggio comune ha ancora senso distinguere cosa da evento, nel linguaggio filosofico, attento all'ontologia, non si può prescindere dall'evoluzione gnoseologica in ambito scientifico, e ciò fa LW quando afferma che il mondo è la somma dei fatti non delle cose.
Mi rendo conto che per la filosofia, malgrado le conversioni e abiure, sia difficile liberarsi dallo schematismo kantiano centrato sulla cosa in sè, archetipo di ogni "ente", ma se l'ontologia si muove verso altre interpretazioni della realtà, la filosofia non può stare al palo e deve diventare un pochino poliglotta di fronte all'evoluzione degli enti nella temporalità (loro propria e gnoseologica).
Prendo atto che per comodità di dizionario, comunicativa e percettiva, è opportuno entificare l'istantanea del mondo, ma anche il dizionario ha imparato ad entificare eventi e astrazioni, e quindi non la vedo una difficoltà insormontabile nella forma e corretta nella sostanza in filosofia.
Terrò comunque conto che per talune posizioni filosofiche, "ente" va riferito esclusivamente alla cosa, così come la tradizione filosofica (occidentale ;D ) la intende.
Citazione di: Ipazia il 03 Aprile 2024, 18:33:38 PMSe nel linguaggio comune ha ancora senso distinguere cosa da evento, nel linguaggio filosofico, attento all'ontologia, non si può prescindere dall'evoluzione gnoseologica in ambito scientifico, e ciò fa LW quando afferma che il mondo è la somma dei fatti non delle cose.
Eppure, anche solo confinandoci al Wittgenstein del Tractatus, è eloquente come viene sviluppato il concetto di fatto: «il fatto, è il sussistere di stati di cose» (2), «Lo stato di cose è un collegamento di oggetti (cose, entità)»(2.01), «Gli oggetti costituiscono la sostanza del mondo» (2.021). Dunque: oggetti → stato di cose → fatti.
Viene infatti spiegata poco dopo la
differenza fra ente ed evento ovvero, a parole sue, fra oggetto e stati di cose: «L'oggetto è ciò che è fisso, ciò che sussiste; la configurazione è ciò che è mutevole, instabile»(2.0271), «La configurazione degli oggetti costituisce lo stato di cose» (2.0272), «Nello stato di cose gli oggetti stanno in relazione l'uno con l'altro in modo determinato»(2.031), etc.
Tanto ad oriente quanto ad occidente, abbiamo bisogno del principio di identità/individuazione per fondare una qualunque logica praticabile, nonostante "la nota a fondo pagina" che ci ricorda che l'identità è convenzione (dunque, ontologicamente, è "nulla", dicono ad oriente, confondendo gli occidentali avvezzi a ben altra rigidità onto(teo)logica).
Ottima esegesi che non esclude l'entificazione dell'evento in prospettiva ontologica, vista la supremazia di esso nella configurazione dell'ente "mondo". Anche la relazione con enti materiali e personali è sempre in atto, restando in potenza solo in assenza della relazione reale.
Il principio d'identità e le convenzioni semantiche sono utilissime per orientarci nel mondo, ma ogni "stato di cose" precipita continuamente in dati di fatto, che sono il vero dato di cui si nutre l'approccio gnoseologico.
Convenzione per convenzione, nulla per nulla, meglio tener conto, da Eraclito a Einstein, della quarta dimensione e delle interazioni, anche in sede filosofica. Con tutto il rispetto e la cura dovuti alle tre dimensioni di Parmenide, innanzi a chi moltiplica ed espande indiscriminatamente pure quel genere di enti.
Citazione di: Alberto Knox il 02 Aprile 2024, 01:33:49 AMtutto l'occidente è Platonico , la grandezza di Platone è che da solo è riuscito a influenzare un intera nazione , l'intero occidente parla pensa e ragiona come Platone ha insegnato a parlare e a pensare. Noi parliamo per soggetto predicato e complemento , esattamente come ci ha insegnato a parlare Platone , prima di Platone si parlava per analogie. Platone è colui che ha inventato la logica per distinugere il vero dal falso . in ambito morale si distingue il bene dal male , in ambito antropologico pensiamo di essere composto di anima e corpo. Platone è l'occidente!
Si ma non il Platone aristotelico, quello è sbagliato.
Bisogna leggere Platone all'incontrario, infatti è un autore molto ironico, e i suoi spettacoli servivano a fare selezione fra chi poteva essere un iniziato orfico e chi no.
L'occidente contemporaneo ha fatto di Platone un nemico, perchè non può essere iniziato all'orfismo.
E dunque così che Popper può scriver quell'immondizia che è Platone Dittatore, etc....semplicemente non sa leggere, e con lui il 99.9 per cento della gente, tranne me.
Citazione di: Pensarbene il 03 Aprile 2024, 14:13:17 PMle tragedie ridicolizzano ciò che rappresentano come il co trario lo fa con ciò di cui parla
Sembra che la terra serva per ridicolizzare tutto e tutti SALVO chi o il che cosa non è ridicolizzabile.
Forse questo è il senso del pianeta,ne esce in buono stato chi obiettivamente non può essere veramente e realmente ridicolizzato.
Mi piace questa tua intuizione, e in fin dei conti la morale dentro di noi, è proprio ciò che non può essere ridicolizzata.
Ma nel Critone, oltre alla ridicolizzazione dei personaggi, delle maschere, vi è proprio un tema tragico: quello della paura.
Ho trovato straordinario il non detto, ovvero quello che il lettore è costretto a tirar fuori dalle righe straordinarie di quel dialogo.
Tant'è che lo sto facendo maturare nella mia anima.
Siamo già ad Aprile, devo però andare avanti: platone autore semplice: direi proprio di no!
Citazione di: Phil il 03 Aprile 2024, 17:44:28 PMPer come la vedo, parlare di «ente "evento"»(cit.) confonde, nonostante le virgolette, i due concetti che anderebbero a mio avviso tenuti separati: l'ente può essere parte dell'evento per la coscienza che vi si relaziona (il mio osservare l'ente-sasso è un evento per la mia coscienza), ma l'evento non può essere un ente (il modo in cui si studiano gli enti non è quello con cui si studiano gli eventi). La definizione filosofica di ente è "affine" a quella di evento? Secondo me, no (anche se magari in fisica quantistica non esistono enti, ma solo eventi, per quanto quello sia un altro linguaggio, rispetto a quello filosofico).
Per fare un esempio un po' "brusco": l'altro uomo è per me un ente, non un evento; l'evento è la mia relazione (etica o anche solo percettiva) con lui. La vita dell'altro uomo, nel suo scorrere, può essere considerata un evento (nascita, durata e morte sono eventi, non enti), sebbene la sua presenza, qui ed ora, davanti a me, sia quella di un ente.
La tua domanda mi suona quindi piuttosto ambigua; potrei rispondere che i limiti percettivi-cognitivi sono propri dell'uomo in quanto tale, quindi riguardano sia gli enti che gli eventi, seppur in modo diverso, a seconda di quale dei due sia il campo d'applicazione. Sarebbe come dire, cambiando tema, che le limitazioni sensoriali dell'uomo ne condizionano sia la vista che l'udito, per quanto vista e udito restino da tenere distinte, se si parla di sensorialità.
Salve Phil.
Dunque possiamo dire che il soggetto che è il fascio delle sensazioni dovute all'evento oggetto, differisce in termini morali, dalla descrizione meramente ontologica degli stessi (ente-oggetto)?
L'evento non è altro che ciò che emerge dallo scontro sociale fra essere gnoseologicamente diversamente interpretanti il medium che si finge oggetto del discorso.
Che sia una mela, o che vi sia o meno un assassinio.
In fin dei conti non potremmo ascrivere questo tempo come un tempo in cui sempre più la dimensione del racconto sovrasta quella dei fatti.
Portando alla famosa dissonanza cognitiva. Se non proprio ad una stupidità conclamata?
Ecco il rapporto tra la dimensione del discorso razionale (alla Habermas?) e quella politica, però a me sembra, ad oggi, avendo scoperto Platone, mancante di quella dimensione morale che in fin dei conti Kant ha sempre palesato come parte della sua filosofia.
Il mio maestro cita infatti spesso Kant-Platone e mai Hegel.
Mi chiedevo il perchè?
Cosa mi sai dire?
Saluti.
Citazione di: green demetr il 03 Aprile 2024, 20:50:04 PM..e con lui il 99.9 per cento della gente, tranne me.
su questo non avevo alcun dubbio :)
Citazione di: green demetr il 03 Aprile 2024, 21:05:52 PMDunque possiamo dire che il soggetto che è il fascio delle sensazioni dovute all'evento oggetto, differisce in termini morali, dalla descrizione meramente ontologica degli stessi (ente-oggetto)?
Direi di sì: la morale è una sorta di plusvalore della conoscenza descrittiva, quando applicata ad un altro uomo: se posso (ri)conoscerlo come ente-uomo, allora tale conoscenza produce un "plusvalore in debito" (per quanto suoni paradossale, ma in fondo tutta l'etica lo è), nel senso che gli devo (debito) un atteggiamento morale. A prescindere che egli sia morale o immorale con me, solitamente la
mia morale
universale (ecco il paradosso degli "universi paralleli" in campo etico) dovrebbe essere un mio
a priori nel relazionarmi con lui.
Se ti individuo come essere umano, ti devo (imperativo etico) trattare come qualcosa di differente da tutti gli altri enti (oggetti), differente da tutte le altre forme di vita (ecologia permettendo), in quanto interlocutore morale. Questo se accettiamo il "comandamento zero" di ogni morale: devi avere una morale.
Citazione di: green demetr il 03 Aprile 2024, 21:05:52 PMIn fin dei conti non potremmo ascrivere questo tempo come un tempo in cui sempre più la dimensione del racconto sovrasta quella dei fatti.
Portando alla famosa dissonanza cognitiva.
Concordo: l'ipercomunicazione odierna, le micro-narrazioni dell'utente che da casa produce e dissemina informazioni sul
web (
youtuber e
blogger vari, grandi e piccoli), le postverità, complottismi e negazionismi vari, etc. sono l'apoteosi di quella che da sempre è l'affabulazione narrativa che caratterizza l'uomo; il fascino del racconto che si sovrappone al fascino della realtà (e sappiamo che il racconto non è la realtà, essendo la realtà non-verbale).
Non si potrebbe né, soprattutto,
dovrebbe (imperativo etico) dire, ma anche l'etica è perlopiù narrazione; ereditata, accreditata, magari necessaria, ma pur sempre "manuale del gioco di società" che ci circonda (e più persone differenti hanno voce in capitolo, e più il gioco si complica, multiculturalismo
docet; la dissonanza cognitiva è solo uno degli effetti collaterali di tale complicazione dello scenario con annessa cacofonia di voci e strepiti vari).
Citazione di: Phil il 04 Aprile 2024, 14:53:01 PMDirei di sì: la morale è una sorta di plusvalore della conoscenza descrittiva, quando applicata ad un altro uomo: se posso (ri)conoscerlo come ente-uomo, allora tale conoscenza produce un "plusvalore in debito" (per quanto suoni paradossale, ma in fondo tutta l'etica lo è), nel senso che gli devo (debito) un atteggiamento morale. A prescindere che egli sia morale o immorale con me, solitamente la mia morale universale (ecco il paradosso degli "universi paralleli" in campo etico) dovrebbe essere un mio a priori nel relazionarmi con lui.
Se ti individuo come essere umano, ti devo (imperativo etico) trattare come qualcosa di differente da tutti gli altri enti (oggetti), differente da tutte le altre forme di vita (ecologia permettendo), in quanto interlocutore morale. Questo se accettiamo il "comandamento zero" di ogni morale: devi avere una morale.
Comandamento zero perché imposto dall'evoluzione naturale per ogni specie sociale che non
deve avere una morale, in quanto geneticamente ce l'ha ...
CitazioneConcordo: l'ipercomunicazione odierna, le micro-narrazioni dell'utente che da casa produce e dissemina informazioni sul web (youtuber e blogger vari, grandi e piccoli), le postverità, complottismi e negazionismi vari, etc. sono l'apoteosi di quella che da sempre è l'affabulazione narrativa che caratterizza l'uomo; il fascino del racconto che si sovrappone al fascino della realtà (e sappiamo che il racconto non è la realtà, essendo la realtà non-verbale).
Non si potrebbe né, soprattutto, dovrebbe (imperativo etico) dire, ma anche l'etica è perlopiù narrazione; ereditata, accreditata, magari necessaria, ma pur sempre "manuale del gioco di società" che ci circonda (e più persone differenti hanno voce in capitolo, e più il gioco si complica, multiculturalismo docet; la dissonanza cognitiva è solo uno degli effetti collaterali di tale complicazione dello scenario con annessa cacofonia di voci e strepiti vari).
... con affabulazione al seguito, a causa del logos, ma pure con una componente etica epistemica, in seguito alle capacità cerebrali di questa specie sociale. Anche in campo comunicativo si tratta di sfruttare al meglio lo strumento, senza strapparsi le vesti pechè i padroni del mondo se ne sono impossessati. Che padroni sarebbero se non l'avessero fatto ? La soluzione c'è e si chiama rovoluzione. Non facile ma: hic Rodhus hic salta.
Citazione di: Ipazia il 04 Aprile 2024, 15:08:40 PMComandamento zero perché imposto dall'evoluzione naturale per ogni specie sociale che non deve avere una morale, in quanto geneticamente ce l'ha ...
Credo anch'io che l'evoluzione sia sufficiente a spiegare il possesso di un etica come caratteristica vincente fra gli esseri sociali, perchè avere un etica significa avere un comportamento sufficientemente prevedibile, ciò che è un requisito secondo me indispensabile per instaurare un rapporto sociale duraturo.
Avere o non avere un etica è un problema che viene prima di quale etica avere.
Socialmente ''è giusto avere un etica'' è fondamentale rispetto a quale etica sia giusto avere.
Infatti come è possibile accettare come socio colui il cui comportamento non abbia un minimo di prevedibilità?
Citazione di: green demetr il 31 Marzo 2024, 23:32:19 PMHo iniziato purtroppo la seconda parte della fenomenologia: si parla di forza.
Ma la forza di cui parla, sottrazione all'universale, al tutto, in favore del singolo, è semplicemente sbagliata.
Infatti si riferisce ad un idea meccanicista del mondo, dove l'universo è chiuso.
Ma l'universo è aperto, e non esiste una forza generale, la gravità nel mondo piccolo non esiste. Esistono altre forze.
A ogni grado entropico agiscono forze differenti.
Hai frainteso. Nel capitolo dedicato all'intelletto e alla forza Hegel analizza e critica l'approccio scientifico, proprio quella visione meccanicistica della natura che tu gli imputi.
L'andamento della fenomenologia è sempre lo stesso: si procede di gradino in gradino, e in ogni "stazione" si prende consapevolezza dei limiti della conoscenza che inizialmente sembrava appagante.
Per esempio nel primo capitolo sulla Certezza sensibile se all'inizio il soggetto pensa di avere la verità della cosa che gli sta di fronte in modo immediato, poi prende consapevolezza del fatto che questa verità si dilegua in un continuo mutamento (quando il soggetto si gira, o quando passa del tempo), e ciò che gli rimane è l'universale vuoto del qui e dell'ora.
Da lì si va poi al capitolo della Percezione tenendo inizialmente ferma la convinzione che la conoscenza sia basata sugli universali, per poi prendere atto dei limiti di questa posizione.
E via dicendo.
In particolare alla fine del capitolo della percezione l'aporia era come tenere insieme l'oggetto quando esso ci appare come una serie di determinazioni diverse quali (facendo l'esempio del sale utilizzato da Hegel stesso): "bianco" ma
anche "sapido" ma
anche "a grani" etc. Determinazioni tenute insieme da quell'
anche.
Così nel capitolo dell'intelletto con l'approccio scientifico, con le leggi di natura, il soggetto si affanna a cercare di risolvere tali aporie con l'unità formale della legge.
Ma, ad essere sinceri, le argomentazioni del capitolo sono più criptiche del solito...
Comunque sul senso complessivo di questo capito scrive Jean Hyppolite: "Hegel rimprovera dunque il formalismo dell'intelletto di negare la differenza qualitativa in un'astratta formula di conservazione. In particolare si può sottolineare che egli non crede alla fecondità delle equazioni matematiche. [...] Un linguaggio formale incapace di trattenere nella rete delle sue equazioni la differenza qualitativa." (Genesi e struttura della Fenomenologia dello Spirito, p. 201).
E bisogna ricordare che qui, nel capitolo dell'intelletto, siamo solo alla terza parte della Coscienza. Poi ci saranno le tre parti dell'Autocoscienza, a cui seguiranno le tre parti della Ragione, dove si conclude questo itinerario di iniziazione alla filosofia, dal senso comune a quella che per Hegel è la verità assoluta.
Devo dire che in generale rimango sempre un po' perplesso dalla tendenza, presente in quasi tutti i filosofi, di confondere la legittima convinzione di una certa posizione con la sua necessità.
C'è qualcosa che non torna a livello di sincerità con se stessi.
L'aveva osservato anche Hume: il piano inclinato dall'essere al dover essere, che finisce col taroccare l'essere in sterili metafisiche totalitarie autoreferenziali.
https://it.m.wikipedia.org/wiki/Legge_di_Hume
Citazione di: Koba II il 07 Aprile 2024, 11:41:27 AMHai frainteso. Nel capitolo dedicato all'intelletto e alla forza Hegel analizza e critica l'approccio scientifico, proprio quella visione meccanicistica della natura che tu gli imputi.
L'andamento della fenomenologia è sempre lo stesso: si procede di gradino in gradino, e in ogni "stazione" si prende consapevolezza dei limiti della conoscenza che inizialmente sembrava appagante.
Per esempio nel primo capitolo sulla Certezza sensibile se all'inizio il soggetto pensa di avere la verità della cosa che gli sta di fronte in modo immediato, poi prende consapevolezza del fatto che questa verità si dilegua in un continuo mutamento (quando il soggetto si gira, o quando passa del tempo), e ciò che gli rimane è l'universale vuoto del qui e dell'ora.
Da lì si va poi al capitolo della Percezione tenendo inizialmente ferma la convinzione che la conoscenza sia basata sugli universali, per poi prendere atto dei limiti di questa posizione.
E via dicendo.
In particolare alla fine del capitolo della percezione l'aporia era come tenere insieme l'oggetto quando esso ci appare come una serie di determinazioni diverse quali (facendo l'esempio del sale utilizzato da Hegel stesso): "bianco" ma anche "sapido" ma anche "a grani" etc. Determinazioni tenute insieme da quell'anche.
Così nel capitolo dell'intelletto con l'approccio scientifico, con le leggi di natura, il soggetto si affanna a cercare di risolvere tali aporie con l'unità formale della legge.
Ma, ad essere sinceri, le argomentazioni del capitolo sono più criptiche del solito...
Comunque sul senso complessivo di questo capito scrive Jean Hyppolite: "Hegel rimprovera dunque il formalismo dell'intelletto di negare la differenza qualitativa in un'astratta formula di conservazione. In particolare si può sottolineare che egli non crede alla fecondità delle equazioni matematiche. [...] Un linguaggio formale incapace di trattenere nella rete delle sue equazioni la differenza qualitativa." (Genesi e struttura della Fenomenologia dello Spirito, p. 201).
E bisogna ricordare che qui, nel capitolo dell'intelletto, siamo solo alla terza parte della Coscienza. Poi ci saranno le tre parti dell'Autocoscienza, a cui seguiranno le tre parti della Ragione, dove si conclude questo itinerario di iniziazione alla filosofia, dal senso comune a quella che per Hegel è la verità assoluta.
Devo dire che in generale rimango sempre un po' perplesso dalla tendenza, presente in quasi tutti i filosofi, di confondere la legittima convinzione di una certa posizione con la sua necessità.
C'è qualcosa che non torna a livello di sincerità con se stessi.
Grazie Koba, sto avendo problemi seri coi denti, mi sono fermato DI NUOVO...
un altra cosa da aggiungere all'elenco delle cose da mettere in preventivo: la salute declina.
Ma torniamo a Hegel, ti ringrazio di fare un pò di chiarezza, si il metodo "dialettico" l'ho capito, è che proprio trovo difficoltà a pensare una "forza" come qualcosa che non sia qualitativamente un forza, ossia mera proiezione matematica e dunque pura quantità.
Naturalmente non mi muovo di una virgola sul fatto che la scienza è il male contemporaneo, ma non vedo perchè sfidarla sul "suo campo".
O almeno capisco benissimo che in un tempo dove vigeva il meccanicismo (la quantistica non era ancora nata) si fosse "naturalmente" portati a vedere sistemi chiusi, dove particolare e universale facevano parte dell'equazione.
Probabilmente è per questo che parlano di necessità, anche se io questi autori dell'800 non li leggo così, li leggo come indagatori spirituali.
E però se il buon Hegel nel primo capitolo era stato niente di meno che geniale che immetere una domanda fondamentale per questa ricerca fondamentale: ossia come l'autocoscienza si "giustifica", alias per come la leggo io-soggetto conoscente, come l'io inteso come anima, si possa riconoscere come tale.
Ossi l'io-soggetto come fa a determinare l'io-anima?
E' ovvio, o almeno per me lo è che questa determinazione è in realtà una indeterminazione perchè l'io-anima partecipa del DIO.
Ora mi pare che la fenomenologia invece che domandarsi del senso-mondo, stia declinando con il secondo capitolo, sul senso-oggettivo che si evince dal tutto-Dio.
Non vorrei che l'errore fosse banalmente porre un tutto-DIO in quanto universalità della quantità particolare rispetto alla "qualità" universale.
Sarebbe clamoroso perchè la qualità universale, a pare mio, è sempre un discorso di quantità.
E come fa a nascere una morale da tutto questo?
Naturalmente mi sto buttando in considerazioni mie.
Rimanendo al testo dire che è criptico è poco, infatti ho perso il filo del discorso di Hegel. E mi sa dovrò fare uno sforzo supplementare per seguirlo pazientemente,
ossia accettare temporaneamente il suo universo finito, per vedere se c'è qualcosa dell'antico logos, che possa tornare utile ad un discorso spirituale.(che comunque nel primo capitolo ha già raggiunto vette altissime).
Certo l'analisi dell'Hypolite torna molto utile, grazie ancora dell'aiuto.
PS.
L'ha già detto Nietzche che i filosofi sistematici provano solo una cosa: la loro disonestà rispetto alla vita.
Citazione colta o magnifico lapsus?
Ripeto Hegel mi è caro per aver fatto capire benissimo la differenza fra soggetto e io.
Tutte le critiche che sento su di lui, o tutte le cose buone che sento su di lui, hanno il caveat invicibile nicciano come premessa.
OVVIAMENTE. 8) :D ;)
Citazione di: green demetr il 17 Aprile 2024, 21:51:20 PM[...] E però se il buon Hegel nel primo capitolo era stato niente di meno che geniale che immettere una domanda fondamentale per questa ricerca fondamentale: ossia come l'autocoscienza si "giustifica", [...] come l'io inteso come anima, si possa riconoscere come tale.
Sì, la domanda implicita che determina tutto l'itinerario della coscienza è: come fa la coscienza a conoscersi come spirito (tu dici anima, Hegel dice spirito). La fenomenologia è la descrizione di questo itinerario del soggetto verso la sua verità, che è appunto riconoscersi come spirito assoluto, spirito oggettivo, nell'ambito di una concezione filosofica idealista in cui pensiero ed essere sono lo stesso.
Prendiamo per esempio la prima parte della sezione Ragione. Hegel, nella sezione precedente ha mostrato i limiti dell'autocoscienza, con le famose figure della dialettica servo-signore e della coscienza infelice.
In questa prima parte la riflessione del soggetto, dopo le esperienze di separazione, di lontananza dall'Essere, da un Dio pensato come il tutto di fronte al sentimento di nullità di se stessi, capisce finalmente che nell'osservazione del mondo non fa che ritrovare se stesso. E in effetti studiare la natura significa ritrovare un logos, un'evoluzione organica: "cose", in fondo, umane, cose attinenti la razionalità umana.
Tuttavia la ragione che osserva e studia la natura è come se si dimenticasse nell'oggetto osservato fino al paradosso di convincersi di avere ritrovato l'essenza dell'uomo in un osso (la conclusione comica della frenologia: "lo spirito è un osso"; ma ai nostri tempi si potrebbe dire qualcosa di analogo con le neuroscienze...).
Da questa delusione, dalla consapevolezza che lo studio scientifico non potrà mai dirci chi siamo, si passa all'azione. Faust che nauseato dalla sua scienza decide di agire nel mondo sociale. Per godere, amare, etc.
L'individualismo moderno e i suoi limiti.
Poi altre tappe, probabilmente per noi irricevibili: l'etica della propria comunità, del proprio popolo, la religione etc.
Considerazione da sviluppare: la figura della coscienza infelice è posta a metà del cammino: che sia invece per noi il centro? Il tema più intimo? Dove scovare realmente la verità del nostro spirito?
Oltre a Hyppolite c'è un altro autore che promette una lettura comprensibile del testo di Hegel, non una sua libera interpretazione, ma, almeno nelle intenzioni, una "traduzione" da un Hegel criptico ad un Hegel comprensibile, ed è Terry Pinkard ("La Fenomenologia di Hegel. La socialità della ragione", Mimesis).
Ma devo ancora leggerlo. Il lavoro, questa assurda calamità, si prende quasi tutto, mi rimane veramente poco tempo e pochissima energia... già questo, tornando a Hegel, è una confutazione della sua dialettica servo-signore: con il servizio, con la dedizione del lavoro non ottieni alcuna libertà, solo un riconoscimento provvisorio, che ogni giorno può essere ritrattato, perché il lavoratore, essendo pensato come una macchina da chi controlla e gestisce i processi, non ha mai una storia individuale, le macchine non hanno una storia, così un calo di performance è un'anomalia che va giustificata, anche se preceduta da dieci anni di ottime performance...
Ma alla fine ho il denaro per fare vacanze che non voglio fare, o per acquistare oggetti che non mi servono...
Un mondo di individui infelici, i più fortunati con una vita privata che dà conforto, ma che non basta. Tutto un sistema costruito per la ricchezza assurda e insensata di una minoranza. Il concetto di aristocrazia non morirà mai...
L'infelicità della coscienza, che si cerca di non ascoltare tramite il conforto dato da cose e persone, se va bene, è una specie di brusio interiore continuo. Sembra quasi un acufene interno; un sibilo sottile di infelicità. Come con una pentola a pressione cerchiamo di controllarlo abbassando la fiamma del desiderio. Però rimane lì, solo più sordo. È la caratteristica umana.
Citazione di: Koba II il 19 Aprile 2024, 12:00:14 PMSì, la domanda implicita che determina tutto l'itinerario della coscienza è: come fa la coscienza a conoscersi come spirito (tu dici anima, Hegel dice spirito). La fenomenologia è la descrizione di questo itinerario del soggetto verso la sua verità, che è appunto riconoscersi come spirito assoluto, spirito oggettivo, nell'ambito di una concezione filosofica idealista in cui pensiero ed essere sono lo stesso.
Prendiamo per esempio la prima parte della sezione Ragione. Hegel, nella sezione precedente ha mostrato i limiti dell'autocoscienza, con le famose figure della dialettica servo-signore e della coscienza infelice.
In questa prima parte la riflessione del soggetto, dopo le esperienze di separazione, di lontananza dall'Essere, da un Dio pensato come il tutto di fronte al sentimento di nullità di se stessi, capisce finalmente che nell'osservazione del mondo non fa che ritrovare se stesso. E in effetti studiare la natura significa ritrovare un logos, un'evoluzione organica: "cose", in fondo, umane, cose attinenti la razionalità umana.
Tuttavia la ragione che osserva e studia la natura è come se si dimenticasse nell'oggetto osservato fino al paradosso di convincersi di avere ritrovato l'essenza dell'uomo in un osso (la conclusione comica della frenologia: "lo spirito è un osso"; ma ai nostri tempi si potrebbe dire qualcosa di analogo con le neuroscienze...).
Da questa delusione, dalla consapevolezza che lo studio scientifico non potrà mai dirci chi siamo, si passa all'azione. Faust che nauseato dalla sua scienza decide di agire nel mondo sociale. Per godere, amare, etc.
L'individualismo moderno e i suoi limiti.
Poi altre tappe, probabilmente per noi irricevibili: l'etica della propria comunità, del proprio popolo, la religione etc.
Considerazione da sviluppare: la figura della coscienza infelice è posta a metà del cammino: che sia invece per noi il centro? Il tema più intimo? Dove scovare realmente la verità del nostro spirito?
Oltre a Hyppolite c'è un altro autore che promette una lettura comprensibile del testo di Hegel, non una sua libera interpretazione, ma, almeno nelle intenzioni, una "traduzione" da un Hegel criptico ad un Hegel comprensibile, ed è Terry Pinkard ("La Fenomenologia di Hegel. La socialità della ragione", Mimesis).
Ma devo ancora leggerlo. Il lavoro, questa assurda calamità, si prende quasi tutto, mi rimane veramente poco tempo e pochissima energia... già questo, tornando a Hegel, è una confutazione della sua dialettica servo-signore: con il servizio, con la dedizione del lavoro non ottieni alcuna libertà, solo un riconoscimento provvisorio, che ogni giorno può essere ritrattato, perché il lavoratore, essendo pensato come una macchina da chi controlla e gestisce i processi, non ha mai una storia individuale, le macchine non hanno una storia, così un calo di performance è un'anomalia che va giustificata, anche se preceduta da dieci anni di ottime performance...
Ma alla fine ho il denaro per fare vacanze che non voglio fare, o per acquistare oggetti che non mi servono...
Un mondo di individui infelici, i più fortunati con una vita privata che dà conforto, ma che non basta. Tutto un sistema costruito per la ricchezza assurda e insensata di una minoranza. Il concetto di aristocrazia non morirà mai...
Ma certo siamo individui sfiniti.
La socialità ha fatto di noi automi.
E' famosa la frase di Adorno che vede, per chi se lo può permettere, una vita appartata di puro studio della letteratura (non della filosofia notare).
Quando Eco lo intervista un ventennio dopo i Minima Moralia, cercando di ottenere da Adorno quello che per Eco deve essere stato il suo sogno erotico proibito: ridurre la gente a degli automi, Adorno risponde: giovanotto, si lavora sempre.
Il lavoro intellettuale non può mai spegnersi.
Noi lo facciamo tra un travaglio ed un altro.
E credo che sebbene sfiniti, siamo ancora umani, e questo mi basta.
Sulla coscienza infelice: sono d'accordo è proprio questo il punto che immaginavo Hegel trattasse. Che come il soggetto non può mai riconosceri come tale, per cui è costretto a pensarsi parte dello spirito.
Così speravo che intendesse dire che non si riconosce nemmeno in Dio.
Per cui si può riconoscere come pura anima, puro desiderio.
Puro desiderio erotico, puro desiderio trascendente.
Non sono cose opposte.
Ciò che è opposto è ciò che si rivela come IL MALE.
Noi sentiamo questo puro desiderio, come puro BENE.
Ma noi CONOSCIAMO solo il MALE.
Ovvero noi non conosciamo MAI il BENE.
Mi ero orientato a pensare così Hegel.
La sua ossessione per il concetto, per la conoscenza delle idee che si fanno concetto.
Ma se lo spirito è invece conoscibile, ecco allora che arrivano le cagate DIO PATRIA FAMIGLIA.
OSSIA puro DISTRUZIONE DEL DESIDERIO, e chi GODE nel distruggere il DESIDERIO altrui, ovvero i potenti, DISTRUGGE PARIMENTI il suo desiderio di trascendenza DIVENTANDO ANIMALI, braccati dalla paura della MORTE, della morte del potente come animale.
A cui solo la distruzione del suddito può mettere una breve pausa di goduria.
Sono le forze di thanatos, che nel signore sono indagabili filosoficamente, e che anzi sono la sua missione.
l'altra parte della missione ossia la riaccensione del desiderio erotico, a mio parere passa solo per assurdità forse, proprio dal riaccendere il desiderio trascendente.
OSSIA LEGGERE LIBRI DI LETTERATURA, cosa che già facevamo.
Bè io ho smesso troppo presto.
ora che comincio a capire che effettivamente la letteratura è sempre stata la risposta.
che già lo sapevo, e che mi dispiace solo non aver capito che la gente è sfinita come noi.
l'unica differenza è che non lo sanno, o non sanno dargli nome, o non sanno perchè.
E d'altronde l'apocalittica schmitt-heidegger completamente ereditata da nietzche è l'etica degli DEI.
tornare a pensare l'impossibile. tornare a far diventare CRISTO CARNE.
trascendenza che si fa carne. appunto hegel (ma appunto prima di leggere del concetto di forza, come forza di un tutto, meramente immaginario, che poi diventa nazismo...NON A CASO).
però non mi arrendo e voglio continuare; magari hyppolite si è sbagliato. :P
e d'altronde il lettore piu visionario di hegel, tal kojeve.
non disse forse: l'unica persona interessante con cui parlare oggi è schmitt.
Schmitt superiore a Heidegger, alla pari con Kojeve.
l'avevo iniziato kojeve, la dialettica come pensiero della morte.
credo sia corretto. all'epoca mi sembrava delirio...pensavo ancora a l'hegel dei manuali.
quello che manca in tutti questi filosofi santoni PERO' sono i fatti.
come è che non parlano MAI di fatti?
forse perchè sono tutti servi del MALE? comincio a pensarlo davvero.
tutti antisemiti...fa impressione ???
come dire non c'è apocalittica senza storia.
sto studiando...ma mi annoio.
intanto dopo il dente, è arrivata la tendinite.... :D
in attesa dell'atomica mi porto avanti :D scherzoooo! ;)
Citazione di: Pio il 19 Aprile 2024, 14:15:36 PML'infelicità della coscienza, che si cerca di non ascoltare tramite il conforto dato da cose e persone, se va bene, è una specie di brusio interiore continuo. Sembra quasi un acufene interno; un sibilo sottile di infelicità. Come con una pentola a pressione cerchiamo di controllarlo abbassando la fiamma del desiderio. Però rimane lì, solo più sordo. È la caratteristica umana.
Si però non facciamola diventare una scusa al non pensiero questa caratteristica.
Perchè a volte mi sembra di leggere questo in queste affermazioni paradossalmente vere. Ovvero che se da una parte si riconosce l'infelicità, sembra che sia una felicità riconsocere questa infelicità, e poi sotto con lo stato, la patria e la famiglia.
l'essere umano è abietto da se stesso prima che esserlo secondo gli "altri": motivo per cui arriva l'idea di collettivismo.
comunismo+islam= globalismo (di sinistra)
dove è il concetto di libertà cristiano? non ne è rimasto nemmeno l'odore.
tutti transumanisti oggi AIO'.
Come dice Zizek l'amore umano è la sua follia piu grande ma senza di esso siamo destinati alla dannazione.
(ovviamente zizek è un transumanista comunista....ricordiamoci del buon ADORNO che ci spiega COME MAI questa gente si riempie di parole giuste SOLO per fare POI IL CONTRARIO NEI FATTI).
i FATTI signori.
la STORIA.
su su tutti a studiare il medio-oriente...non me lasciate solo. ;)
ps
proprio per questa visione dell'amore che zizek commuta da hegel, zizek viene riconosciuto come uno dei massimi hegeliani.
fino ad ora non l'ho trovata questa visione, e non riesco a dedurla dagli aiuti che ci ha dato koba.
Citazione di: green demetr il 23 Aprile 2024, 08:39:58 AMSulla coscienza infelice: sono d'accordo è proprio questo il punto che immaginavo Hegel trattasse. Che come il soggetto non può mai riconoscersi come tale, per cui è costretto a pensarsi parte dello spirito.
Così speravo che intendesse dire che non si riconosce nemmeno in Dio.
Per cui si può riconoscere come pura anima, puro desiderio.
Puro desiderio erotico, puro desiderio trascendente.
Potremmo dire che l'oscillazione è tra la coscienza della propria finitezza e la tenace e istintiva aspirazione all'infinito, nel senso di aspirazione ad un pieno appagamento, al vero bene, mai raggiunto.
Il destino, dice Hegel nei suoi scritti precedenti la Fenomenologia, è la consapevolezza che questo contrasto alberga nel fondo della propria interiorità, la consapevolezza che questo contrasto è quasi l'essenza del proprio Sé, percepito però come nemico.
"Il destino è la coscienza di se stesso, ma come d'un nemico": le sue parole esatte.
Nel tentativo di sciogliere questo conflitto si passa all'azione, diciamo così, producendo la storia. E nell'azione l'Altro, che inizialmente era percepito come puro ostacolo, come la realtà che fa da barriera, viene riconosciuto come costituito di una sostanza comune al Sé.
L'inizio della riconciliazione tra singolare e universale: tema che nella Fenomenologia viene continuamente ripreso su vari livelli, dal piano gnoseologico a quello, successivo, dell'etica.
Da qui per esempio le analisi sulla Città antica, in cui il singolo è già fin dall'inizio tutt'uno con lo spirito del suo popolo, anche se in modo inconsapevole. Sulla tragedia antica, sul passaggio drammatico tra legge divina e legge umana (Antigone), etc. Come un lungo processo di comprensione di se stessi. Appunto, autocomprensione dello spirito.
Tu dici: riaccendere il desiderio! Sicuramente, ma il desiderio, che si tratti di un eros carnale o di un desiderio per la trascendenza (per Platone si tratta solo di gradazioni diverse di purezza dello stesso eros), il fine non è forse sempre quello della totalità, dell'unità? (altra idea di Platone...). Del superamento dell'accidentalità del singolo, della sua finitezza, della sua alienazione, con l'approdo nella certezza di una verità superiore, che sia sostanza, materia comune, del Noi, e non solo verità frammentaria dell'Io?
Per quanto mi riguarda non provo alcun entusiasmo per il Noi...
Ma l'interesse per Hegel, dal mio punto di vista, non sta nelle sue soluzioni, quanto nelle questioni poste, nella ricchezza dei temi affrontati. Basta confrontare la sua Fenomenologia allo stile laconico del Tractatus di Wittgenstein, il quale essendo un testo di riferimento della filosofia contemporanea ci dice quanto il nostro tempo abbia perso in coraggio e, diciamo pure, in sfrontatezza nel pensare.
Tornando all'infelicità della coscienza: in realtà questa infelicità dovrebbe essere il motore per una qualche azione, quindi non una forma inconscia di godimento.
In senso stretto, nella sezione specifica della Fenomenologia, l'infelicità della coscienza è l'alienazione che deriva dal sentire che il proprio bene, la propria verità, è in Dio, in un Dio però che rimane separato da se stessi.
Ma in senso generale dipende sempre dalla consapevolezza del soggetto di essere un frammento di un'unità spezzata.
Se nella Città antica il soggetto si identifica spontaneamente nella comunità, per cui non c'è in lui separazione dall'universale, nell'Impero romano questa unità è persa, e inizia il percorso storico per ritrovarla (nella Rivoluzione francese).
Ma tornando a noi: il nostro tempo non assomiglia forse, come sostenevano qualche anno fa Negri e Hardt, all'impero, cioè un tempo in cui non esiste alcuna politica e in cui l'unica strada per l'individuo sembra essere quello della ricerca della ricchezza (seppure ciò di fatto è realistico solo per una minoranza fortunata)?
Come nello Stato assolutistico del periodo moderno, dove alla nobiltà del cavaliere che è disposto a sacrificare tutto per il re (visto come l'universale, la legge, astrazione ideale dalla sua persona) subentra appunto il monarca assoluto, e all'avventura nobile subentra la scalata nel benessere?
Che sia iniziato un nuovo ciclo, dopo le delusioni (anch'esse cicliche) per il fallimento della rivoluzione (questa volta comunista)?
Insomma, alienazione e infelicità, sembrano, nel nostro tempo, necessari...
Ecco infatti l'apprezzamento di filosofie quali lo stoicismo e lo scetticismo.
Vale la pena ricordare che Severino descrive la filosofia contemporanea come una massiccia ripresa del tema scettico.
Non vi è alcuna infelicità della coscienza.
Semmai, vi è coscienza della infelicità.
Ovviamente parlavo della figura della "Coscienza infelice", del IV capitolo della Fenomenologia dello spirito di Hegel.
Comunque in filosofia non si sentenzia, si argomenta.
Riguardo a "infelicità della coscienza" non vi è nulla da argomentare.
Si tratta di un errore semantico.
Coscienza è sempre e soltanto "coscienza di".
Non può esservi alcuna filosofia, se si attribuiscono significati impropri
Così come "la coscienza decide, sceglie"
La coscienza non sceglie alcunché.
Non è una osservazione di lana caprina.
Perché una coscienza infelice implica, dà per scontato, che la coscienza sia parte attiva/passiva nella vita.
Mentre non solo nulla lo comprova, ma addirittura esulerebbe dal significato stesso di "coscienza".
Citazione di: bobmax il 28 Aprile 2024, 15:12:46 PMRiguardo a "infelicità della coscienza" non vi è nulla da argomentare.
Si tratta di un errore semantico.
Coscienza è sempre e soltanto "coscienza di".
Non può esservi alcuna filosofia, se si attribuiscono significati impropri
Così come "la coscienza decide, sceglie"
La coscienza non sceglie alcunché.
Non è una osservazione di lana caprina.
Perché una coscienza infelice implica, dà per scontato, che la coscienza sia parte attiva/passiva nella vita.
Mentre non solo nulla lo comprova, ma addirittura esulerebbe dal significato stesso di "coscienza".
Condivido, ma è l'aporia fondamentale dell'idealismo far coincidere il soggetto con lo Spirito, nella forma di "coscienza", nel caso citato.
Dal suo punto di vista , Hegel è perfettamente coerente, e mi pare azzardato dire che Hegel è un filosofo somaro.
Citazione di: Ipazia il 28 Aprile 2024, 15:21:58 PMCondivido, ma è l'aporia fondamentale dell'idealismo far coincidere il soggetto con lo Spirito, nella forma di "coscienza", nel caso citato.
Dal suo punto di vista , Hegel è perfettamente coerente, e mi pare azzardato dire che Hegel è un filosofo somaro.
Non so se Hegel fosse davvero un buon filosofo.
Sta di fatto che ha costruito una metafisica cerebrale, dove la mente razionale può finire col credere di aver colto la Verità!
Convincimento che il mio animo rigetta.
E perché lo rigetta?
Perché così si fa' un passo avanti di troppo.
Invece di fermarsi sul limite, si vuole chiudere il cerchio.
È la razionalità che cade nel proprio delirio.
Invece che accettare il Nulla!
Probabilmente Hegel era in buona fede, nella sua hubris, ma senza consapevolezza del limite non si è neppure somari (animali intelligentissimi), perché si sono fuse le bronzine...
Viceversa Heidegger mostra la medesima arroganza. Ma qui vi è pure malafede
Indubbiamente l'Essere si è infilato in un sentiero interrotto heideggeriano che porta al nulla della voragine. Restano solo i sogni di gloria di Severino. Riposi in pace.
Innanzitutto non si tratta di condividere o meno la posizione idealista, ma di fare quello sforzo di base sulla terminologia del testo per comprenderne il senso, come si fa sempre in filosofia per l'assenza di un linguaggio comune preciso.
Nella Fenomenologia è chiaro che il termine "coscienza" è utilizzata come "soggetto", come "Io". Magari i problemi interpretativi del testo fossero questi!
Dopodiché direi che è anche discutibile che l'esito del suo percorso sia un'inutile e autosufficiente metafisica cerebrale.
Non avrebbe influenzato così tanti filosofi diversi, di diverso orientamento intendo.
E comunque, almeno fino alla Fenomenologia, la profondità dell'analisi supera la prepotenza del sistema, diciamo così.
L'influenza di Hegel su tanti filosofi cosa ci dice in sostanza?
Come dovremmo interpretare questo fatto?
Quando nuove idee si diffondono, influenzando molti altri, ciò è dovuto proprio a quel primo autore?
Oppure la diffusione è dovuta soprattutto al fatto che quelle stesse idee stavano già maturando in molti ambiti culturali? Anche se magari non erano ancora chiaramente manifeste.
Hegel è stato un detonatore di un pensiero che già covava o invece un vero innovatore?
Ritengo più probabile la prima ipotesi.
Perché siamo nella fase di esaltazione della razionalità. Che investe sia l'idealismo sia il realismo.
È la mente logica che si illude di essere fonte di Verità.
Mi sembra che il razionalismo del Seicento fosse ben più convinto della forza della ragione, rispetto al pensiero dell'Ottocento.
In Cartesio la ragione è autonoma, pura, diciamo così, in Hegel invece la ragione deve fare i conti con le vicissitudini della storia e dell'interazione sociale. La ragione è la riflessione che il soggetto fa su tutto il suo mondo, su se stesso e sul suo ambiente, per venire a capo delle lacerazioni che sente di avere.
Certo, se i romantici magari pensavano all'amore o alla poesia come l'elemento capace di portare a questa riconciliazione, per Hegel è la filosofia, la quale, dopo la "confutazione" di Kant, conduce alla verità definitiva.
Notare come nella Fenomenologia il passaggio da un gradino all'altro è alimentato sempre da un duplice bisogno: conoscitivo ed etico. Fare i conti con posizioni gnoseologiche ed epistemologiche sentite come inadeguate e nello stesso tempo fare i conti con la propria infelicità, e l'infelicità del proprio tempo.
Per questo non riesco a vedere un'esaltazione della ragione, un delirio autosufficiente, come invece si può cogliere in alcuni passaggi delle Meditazioni metafisiche di Cartesio, per esempio.
Citazione di: Koba II il 28 Aprile 2024, 18:26:02 PMMi sembra che il razionalismo del Seicento fosse ben più convinto della forza della ragione, rispetto al pensiero dell'Ottocento.
In Cartesio la ragione è autonoma, pura, diciamo così, in Hegel invece la ragione deve fare i conti con le vicissitudini della storia e dell'interazione sociale. La ragione è la riflessione che il soggetto fa su tutto il suo mondo, su se stesso e sul suo ambiente, per venire a capo delle lacerazioni che sente di avere.
Certo, se i romantici magari pensavano all'amore o alla poesia come l'elemento capace di portare a questa riconciliazione, per Hegel è la filosofia, la quale, dopo la "confutazione" di Kant, conduce alla verità definitiva.
Notare come nella Fenomenologia il passaggio da un gradino all'altro è alimentato sempre da un duplice bisogno: conoscitivo ed etico. Fare i conti con posizioni gnoseologiche ed epistemologiche sentite come inadeguate e nello stesso tempo fare i conti con la propria infelicità, e l'infelicità del proprio tempo.
Per questo non riesco a vedere un'esaltazione della ragione, un delirio autosufficiente, come invece si può cogliere in alcuni passaggi delle Meditazioni metafisiche di Cartesio, per esempio.
Ciao Koba.
Penso che tanto per cambiare abbia ragione il mio maestro.
Dico il mio maestro perchè ha cominciato a subire attacchi dai troll del Tubo, e non vuole essere citato.
E lo rispetto.
E' difficile per me parlare limitatamente a qualcosa di questo personaggio che più passa il tempo più lo trovo straordinario, il primo libro suo che sto leggendo è un libro di poesie...come fanno tanti talenti a stare in una sola persona?
La cosa che più ci tiene a dire è che bisogna tornare a leggere Platone.
Io gli ho risposto che non è così semplice.
Leggere la Bibbia, leggere Platone letteralmente è un errore allucinante.
Bisogna fare uno sforzo di erudizione.
Non facile caro amico.
Anche perchè ci vuole qualcuno che aiuti a far conoscere i testi.
Infatti i testi importanti sono tutti puntualmente non ripubblicati.
Ci stavo ragionando, perchè infatti ogni nostro discorso è improntanto da quegli autori che l'industria culturale ci vuole far conoscere.
Partiamo da Sini: anche recentemente sono andato a vedere sul canale di dante (dantechannel) i suoi ultimi interventi.
Egli fa un elogio dello stoicismo e dell'epicureismo come via alternativa a Platone.
Caro Koba non ci siamo, in un vecchio video il maestro faceva a pezzi Sini, dimostrando come la sua lettura di Platone fosse totalmente montata ad arte per distorcerne senso e giudizio, concludendo, che sebbene fosse una persona amabile, sempre un esponente dell'industria culturale sia.
Su Galimberti vorrei nemmeno parlarne, nei suoi testi, il collettivismo e il transumanesimo sono evidenti.
Su Cacciari (e su Agamben) non si esprime, ma è evidente che anche questi autori sono dentro il sistema di degenerazione intelletuale, il fatto stesso che lo accettino e che non dicano niente su di esso lascia poco da sperare.
Di Cacciari è evidente l'operazione, nel suo ultimo libro parla di metafisica come se fosse fisica.
Per non parlare della sua tesi che la libertà non esista.
Idem per Severino.
Questi autori dicono una cosa talmente idiota che non vale nemmeno la pena soffermarsi sulle loro idee.
Inoltre la negazione della libertà, è un favore al tiranno.
Ma questi sono sole caramelline, infatti quello che più ho apprezzato è stata la sua critica ad Aristotele e ai suoi seguaci con in testa Heidegger e Nietzche.
Non esattamente una operazione facilissima.
E che ho faticato ad accettare, ma i testi parlano chiaro.
Stessa cosa ora per Hegel.
Facevo i conti senza la sua pretesa di totalità.
Ho iniziato il quarto capitolo, e le cose ormai mi paiono chiare.
Infatti come mi auguravo parla di desiderio.
Ma allo stesso tempo parla di un essere quieto che sta dietro a tutto ciò.
Sul cui asse si consuma la vita umana, in un accrescimento cosciente dell'io.
Non sono ancora arrivato alla definizione di coscienza infelice, ma l'impianto su cui sta costruendo la sua teoria è ampiamente determinato e quindi deragliato dal concetto di totalità, ovvero di universo chiuso.
Infatti non esiste alcun asse su cuin la vita si chiude circolarmente.
Purtroppo è di nuovo Aristotele.
Con le sue idee di potenza e atto.
E ora capisco anche come mai Hegel nella prefazione facesse così tanto casino.
Egli sta cercando di tenere unito il concetto di universo chiuso con quello di unità particolare.
In Hegel vi sono dunque le istanze soggettive che sono quelle che dovrebbero interessarci e quelle purtroppo collettive su cui la nostra società si sta appiattendo per via della Cina e del mondo musulmano, oltre che un anti-occidentalismo pronunciato.
la coscienza infelice si è ormai da tempo dissolta nel capitalismo e le sue istanze liberistiche.
Libero mercato e servitù volontaria.
Non articolate ma prese insieme in un dose letale.
Ecco il criticismo ha distrutto il razionalismo, ed ha perso nel contempo il buon senso, e in particolare il suo liberalismo: l'individuo libero, e la sacralità del suo corpo, oggi sono sotto scacco permanente.
Per il mio maestro si tratta di ritornare al razionalismo (fa spesso il nome di kant) per arrivare al moralismo di uno Schweitzer (il suo autore preferito), e alla lezione somma di Platone.
L'erotismo non è semplice carnalità, per me non lo è mai stato, ma è proprio desiderio: incarnazione del Dio, o degli Dei nello sguardo di una fanciulla.
Cose strasapute prima che arrivasse Demetra la puttana. Etc..etc..etc...
Purtroppo oggi va di moda tic toc e l'ego smisurato delle donne.
la domanda di Wiesel: che fine ha fatto Dio di fronte all'esecuzione di un bambino.
Ieri come oggi...antisemtismo ogni dove.
l'inferno è in terra! e di nuovo la bibbia etc..etc..etc..
Citazione di: bobmax il 28 Aprile 2024, 15:12:46 PMRiguardo a "infelicità della coscienza" non vi è nulla da argomentare.
Si tratta di un errore semantico.
Coscienza è sempre e soltanto "coscienza di".
Non può esservi alcuna filosofia, se si attribuiscono significati impropri
Così come "la coscienza decide, sceglie"
La coscienza non sceglie alcunché.
Non è una osservazione di lana caprina.
Perché una coscienza infelice implica, dà per scontato, che la coscienza sia parte attiva/passiva nella vita.
Mentre non solo nulla lo comprova, ma addirittura esulerebbe dal significato stesso di "coscienza".
Ti manca il testo: la coscienza non è unica, nel caso della infelice anche se non ci sono ancora arrivato mi par ovvio che Hegel si sta riferendo all'istanza negativa rispetto al soggetto cosciente.
Egli li chiama io in sè e io per sè.
Dove la coscienza di qualcosa è una coscienza di un per sè. Come già detto mille volte di una universalità riconosciuta dalle altre auto-coscienze.
Per trovare qualcosa relativo al nulla che ti è tanto chiaro, Hegel parla di una istanza negativa non ancora cosciente che è puro niente, pura inconsapevolezza.
Ma al contrario di te, che nel tuo discorso tanatologico, Hegel riconosce nella vita, la somma delle istanze negative, che costituiscono l'in sè del per sè dell'autocoscienza (degli altri).
Ossia in termini comprensibili la somma degli universali del linguaggio deve avere come termine di paragone l'esistenza di un soggetto che si oppone ad essi.
Infatti non esiste universale senza singolare.
Ma questo singolare non sa nulla di se stesso, se non nei termini che si conosce come movimento negativo del collettivismo universale.
L'unione dei momenti negativi si chiama "movimento", che sommato a ciò che ad esso si oppone, ossia ogni singolo individuo, in sè e per sè, forma ciò che viene definito vita.
La vita è dunque la somma dei movimenti universali di coscienza o autocoscienza, e quelli dei momenti singoli che dissolvono in essa universalità.
La vita dissolve perchè in sè l'io è nulla. E' niente.
Ma per dire di essere niente deve conoscere necessariamente il sui opposto, ovvero qualcosa.
Dunque niente non esiste veramente se non come qualcosa di opposto a tutto.
Rimando al mio 3d su Hegel: peccato che questo tutto NON esista.
E dunque anche il niente non esiste.
Infatti in alternativa Hegel ricava l'io come puro desiderio, pura mancanza di qualcosa (perchè mi risulti interessante dobbiamo far finta che lui NON pensi alla stupida dualità tutto-niente).
In effetti un artista ha citato Hegel in cui afferma che Dio è pura INDETERMINAZIONE.
Ma indeterminazione non vuol dire niente.
Vedremo più avanti come Hegel raggiunga quella frase, a cui mi aggrappo.
Perchè ho tanta voglia di cestinare il Nostro. Mi sono rotto di seguire filosofi fake.
Citazione di: green demetr il 01 Maggio 2024, 15:22:34 PMTi manca il testo: la coscienza non è unica, nel caso della infelice anche se non ci sono ancora arrivato mi par ovvio che Hegel si sta riferendo all'istanza negativa rispetto al soggetto cosciente.
Egli li chiama io in sè e io per sè.
Dove la coscienza di qualcosa è una coscienza di un per sè. Come già detto mille volte di una universalità riconosciuta dalle altre auto-coscienze.
Per trovare qualcosa relativo al nulla che ti è tanto chiaro, Hegel parla di una istanza negativa non ancora cosciente che è puro niente, pura inconsapevolezza.
Ma al contrario di te, che nel tuo discorso tanatologico, Hegel riconosce nella vita, la somma delle istanze negative, che costituiscono l'in sè del per sè dell'autocoscienza (degli altri).
Ossia in termini comprensibili la somma degli universali del linguaggio deve avere come termine di paragone l'esistenza di un soggetto che si oppone ad essi.
Infatti non esiste universale senza singolare.
Ma questo singolare non sa nulla di se stesso, se non nei termini che si conosce come movimento negativo del collettivismo universale.
L'unione dei momenti negativi si chiama "movimento", che sommato a ciò che ad esso si oppone, ossia ogni singolo individuo, in sè e per sè, forma ciò che viene definito vita.
La vita è dunque la somma dei movimenti universali di coscienza o autocoscienza, e quelli dei momenti singoli che dissolvono in essa universalità.
La vita dissolve perchè in sè l'io è nulla. E' niente.
Ma per dire di essere niente deve conoscere necessariamente il sui opposto, ovvero qualcosa.
Dunque niente non esiste veramente se non come qualcosa di opposto a tutto.
Rimando al mio 3d su Hegel: peccato che questo tutto NON esista.
E dunque anche il niente non esiste.
Infatti in alternativa Hegel ricava l'io come puro desiderio, pura mancanza di qualcosa (perchè mi risulti interessante dobbiamo far finta che lui NON pensi alla stupida dualità tutto-niente).
In effetti un artista ha citato Hegel in cui afferma che Dio è pura INDETERMINAZIONE.
Ma indeterminazione non vuol dire niente.
Vedremo più avanti come Hegel raggiunga quella frase, a cui mi aggrappo.
Perchè ho tanta voglia di cestinare il Nostro. Mi sono rotto di seguire filosofi fake.
Secondo me, è inevitabile trovare difficoltà nel comprendere un autore che si presume dica qualcosa che ancora non conosciamo.
Tuttavia, per evitare di sprecare inutilmente energie, occorre a mio avviso cercare subito di discernere la ragione della difficoltà nell'approcciare l'autore.
Cioè, è difficile perché vi è qualcosa di sostanziale che ancora mi sfugge? Oppure è difficile soprattutto perché complicato?
La difficoltà deriva dalla semplicità del nuovo concetto che viene proposto?
Oppure la difficoltà deriva principalmente dalla complessità espositiva?
Perché nel secondo caso, con buona probabilità l'autore ha idee ancora non molto chiare. Se non addirittura sta ciurlando nel manico...
Se avesse veramente maturato delle idee, queste dovrebbero necessariamente essere semplici, chiare. E dovrebbe perciò pretendere da se stesso la medesima chiarezza nella loro esposizione.
Idee comunque difficili da comprendere, perché necessariamente semplici.
Il semplice è sempre difficile.
E la verità o è semplice o non è.
Citazione di: bobmax il 01 Maggio 2024, 15:54:52 PMSecondo me, è inevitabile trovare difficoltà nel comprendere un autore che si presume dica qualcosa che ancora non conosciamo.
Tuttavia, per evitare di sprecare inutilmente energie, occorre a mio avviso cercare subito di discernere la ragione della difficoltà nell'approcciare l'autore.
Cioè, è difficile perché vi è qualcosa di sostanziale che ancora mi sfugge? Oppure è difficile soprattutto perché complicato?
La difficoltà deriva dalla semplicità del nuovo concetto che viene proposto?
Oppure la difficoltà deriva principalmente dalla complessità espositiva?
Perché nel secondo caso, con buona probabilità l'autore ha idee ancora non molto chiare. Se non addirittura sta ciurlando nel manico...
Se avesse veramente maturato delle idee, queste dovrebbero necessariamente essere semplici, chiare. E dovrebbe perciò pretendere da se stesso la medesima chiarezza nella loro esposizione.
Idee comunque difficili da comprendere, perché necessariamente semplici.
Il semplice è sempre difficile.
E la verità o è semplice o non è.
Bè ma è risaputo che Hegel è un pessimo scrittore.
Il suo modo di approcciare è volutamente "oscuro" perchè pretende di dare una verità successiva.
Anche io non sopporto gli autori poco chiari, d'altronde per leggere i cosiddetti critical studies, che spopolano negli USA, bisogna averlo presente.
Infatti il suo concetto di desiderio è molto lontano dal concetto di desiderio in Freud o Lacan (per quel che può valere).
Il criticismo si abbevera alla fonte di Hegel, probabilmente in questa confusione stilistica ognuno pesca a caso quello che vuole per proporre la sua piccola tesi accademica (in ordine al punteggio etc...etc..)
Koba lo usa come apriscatole per il concetto di verità e spiritualità, io come fonte di pensiero che riguarda il desiderio etc.
Per me è importante perchè è il primo a distinguere tra soggetto "sociale" e io "morale".
Ed oggi la lotta fra lo stato e l'individuo è ormai ad uno fase di putrefazione avanzata.
La lotta essendo politica tra le istanze di preteso universalismo dello stato e quelle di dignità del singolo.
Ecco un filosofo che non parla di morale come Hegel, mi risulta sospetto.
Ma d'altronde ha di nuovo ragione il mio maestro quando fa notare che dopo Kant nessuno parla più di morale (con le nobili eccezioni di uno Schweitzer, che non ho in progetto di lettura però, o di un Adorno, o di altri totalmente sconosciuti ai più, ecco per i cattolici un Ellul per esempio, non lo conosce nessuno).
Questo silenzio sulla morale è un chiaro esempio di cosa sia l'industria culturale.
Si parla di non argomenti, e si tace su quanto si vede nel mondo, se si inizia a non vedere quello che succede nel mondo, poi mi risulta difficile che lo si colleghi ad un Dio o ad un Gesù, e financo ad un Budda, su cui però il mio maestro è meno duro di me, perchè ammette che esista una morale buddista.
Francamente non so di cosa sta parlando.
ciauz!