Appena nato, tanti anni fa, cominciai a correre (come tutti) inseguendo la felicità. Un bel dì incontrai un tizio che mi spiegò cosa la felicità fosse. "Vedi - mi disse - la felicità non è altro che la condizione in cui si sono soddisfatti tutti i bisogni e tutti i desideri. Da vivo nessuno la raggiunge perchè i bisogni si rinnovano automaticamente mentre i desideri vengono continuamente alimentati dalla nostra ossessione per le novità".
"Oh bella! - esclamai io - ma allora la felicità non esiste !!".
Il tizio si fece beffardo. "Ma che dici?? Certo che la felicità esiste!".
"E dove sarebbe ???", sbottai io.
"C'è un solo modo per soddisfare bisogni e desideri in via permanente, definitiva......eliminarli, in modo che non sia più necessario soddisfarli".
Tacqui abbastanza a lungo e quindi capii che solo la morte realizza una simile prospettiva, quindi è essa la porta della felicità.
Da quel giorno smisi di correre dietro alla felicità, rallentai e presi a godermi la placida serenità del mio camminare.
La realizzazione dei bisogni e dei desideri dà spesso soddisfazione, a volte effimera felicità. La felicità è un caso, non è programmabile, non è permanente.
La morte non dà felicità, è la fine di un essere vivente, la fine di ogni possibilità di felicità, come di ogni infelicità.
Sebbene i presupposti siano differenti la conclusione mi appare saggia.
Citazione di: viator il 18 Ottobre 2017, 12:49:43 PM... presi a godermi la placida serenità del mio camminare.
Forse si potrebbe notare che camminare viene a risultare più bello se vissuto come un favorire anche il camminare di tutti, non solo quindi come un godersi il camminare proprio. Peraltro, c'era stata una
discussione sul camminare qualche mese fa.
Citazione di: Angelo Cannata il 18 Ottobre 2017, 15:07:05 PM
Citazione di: viator il 18 Ottobre 2017, 12:49:43 PM... presi a godermi la placida serenità del mio camminare.
Forse si potrebbe notare che camminare viene a risultare più bello se vissuto come un favorire anche il camminare di tutti, non solo quindi come un godersi il camminare proprio. Peraltro, c'era stata una discussione sul camminare qualche mese fa.
tra l'altro il camminare coincide con il desiderio di camminare.
perciò la felicità è la "quest" come i medievali brillantemente hanno codificato.
anche a livello psicologico è lo stesso, infatti si vive di desiderio e non del suo ottenimento.
la felicità è dunque il fare ciò che si vuole fare con l'aspirazione di farlo sempre.
la felicità della società dei consumi è infatti il consumo non i prodotti del consumo.
il capitalismo si regge su uno degli insight più profondi che la cultura occidentale ha intercettato dell'essere uomini.
la storielle del monaco che si priva di tutto (fachiro) l'ho sempre ritenuta una sciocchezza.
Per il semplice fatto che il fachiro è felice di non essere felice.
Sciocchezza nel senso che si ritiene l'astinenza al piacere il segreto della vera felicità, quando è l'esatto opposto. Confermato dalla volontà di astinenza.
Il povero non credo affatto sia felice per il fatto di essere povero.
I soliti trucchetti della religione.
Forse può essere bene precisare che nessuna religione predica l'astinenza, o qualsiasi altro tipo di privazione, come un bene fine a sé stesso. La privazione viene sempre cercata per favorire l'esperienza di qualcos'altro e per diminuire il disturbo negativo provocato dai beni. Prendiamo per esempio san Francesco. Se ad un certo punto egli decise di abbandonare tutto, non fu certo per un amore della povertà fine a sé stesso. Fu perché ritenne di aver scoperto un bene più grande e che le altre ricchezze erano di ostacolo a questo bene. Lo stesso vale per Gesù: egli chiese ai suoi discepoli di essere mancanti di attrezzature, di strumenti, ma non per un puro piacere di ritrovarsi senza oggetti utili. Lo scopo era perché il discepolo a un certo punto comprende che è Dio ad agire in lui e avere troppi strumenti, anche se utili, crea un certo impedimento al realizzarsi dell'azione di Dio. Naturalmente poi è questione di misura e d'altra parte Gesù non chiese a suoi di privarsi di tutto al punto da mettere alla prova Dio.
In questo senso, nessuna religione può chiedere ai suoi fedeli di privarsi di alcunché se prima il fedele non ha capito che ciò va fatto in vista di un bene alternativo che dev'essere almeno intravisto, se non visto pienamente. Se il fedele non vede niente, nessun motivo, nessuna cosa per cui egli dovrebbe privarsi di alcunché, nessuno ha diritto di invitarlo ad alcuna privazione.
È per questo che il fondamento dei racconti della risurrezione è l'aver visto: fu visto risorto. È quell'aver visto che può giustificare tutto il resto, tra cui anche le privazioni. Ma se prima non c'è un qualche vedere Dio, non ha alcun senso chiedere né rinunce, né la fede.
Citazione di: Angelo Cannata il 18 Ottobre 2017, 21:09:04 PM
Forse può essere bene precisare che nessuna religione predica l'astinenza, o qualsiasi altro tipo di privazione, come un bene fine a sé stesso. La privazione viene sempre cercata per favorire l'esperienza di qualcos'altro e per diminuire il disturbo negativo provocato dai beni. Prendiamo per esempio san Francesco. Se ad un certo punto egli decise di abbandonare tutto, non fu certo per un amore della povertà fine a sé stesso. Fu perché ritenne di aver scoperto un bene più grande e che le altre ricchezze erano di ostacolo a questo bene. Lo stesso vale per Gesù: egli chiese ai suoi discepoli di essere mancanti di attrezzature, di strumenti, ma non per un puro piacere di ritrovarsi senza oggetti utili. Lo scopo era perché il discepolo a un certo punto comprende che è Dio ad agire in lui e avere troppi strumenti, anche se utili, crea un certo impedimento al realizzarsi dell'azione di Dio. Naturalmente poi è questione di misura e d'altra parte Gesù non chiese a suoi di privarsi di tutto al punto da mettere alla prova Dio.
In questo senso, nessuna religione può chiedere ai suoi fedeli di privarsi di alcunché se prima il fedele non ha capito che ciò va fatto in vista di un bene alternativo che dev'essere almeno intravisto, se non visto pienamente. Se il fedele non vede niente, nessun motivo, nessuna cosa per cui egli dovrebbe privarsi di alcunché, nessuno ha diritto di invitarlo ad alcuna privazione.
È per questo che il fondamento dei racconti della risurrezione è l'aver visto: fu visto risorto. È quell'aver visto che può giustificare tutto il resto, tra cui anche le privazioni. Ma se prima non c'è un qualche vedere Dio, non ha alcun senso chiedere né rinunce, né la fede.
Concordo in toto. La mia frase come al solito aveva un pizzico ;D di polemos.
Il punto è proprio quello di avere comprensione del proprio viaggio.
Questo effettivamente è un importante aggiunta.
E se fosse il contrario? Se la felicità fosse il poter desiderare? Dopotutto era proprio quello che sosteneva Leopardi ne "Il sabato del villaggio"? Felicità come attesa e preparazione dell'evento di festa, quale altra felicità sarebbe mai concessa agli uomini? E in tal caso la felicità non sarebbe la morte, ma proprio la vita che corre a preparare il suo ultimo istante.
Citazione di: maral il 18 Ottobre 2017, 22:14:36 PM
E se fosse il contrario? Se la felicità fosse il poter desiderare? Dopotutto era proprio quello che sosteneva Leopardi ne "Il sabato del villaggio"? Felicità come attesa e preparazione dell'evento di festa, quale altra felicità sarebbe mai concessa agli uomini? E in tal caso la felicità non sarebbe la morte, ma proprio la vita che corre a preparare il suo ultimo istante.
giusto corollario a quanto detto sopra. ;)
Si potrebbe tener presente che in ognuno di noi ci sono più componenti, a volte anche contraddittorie, e sta a noi scegliere quale parte di noi accontentare di più. Può anche succedere che uno creda di essere felice solo perché non si accorge di quali progressi ha reso privo il proprio essere. Possiamo pensare al ladro, che si ritiene felice del furto riuscito. A questo punto viene subito fuori che non possiamo fidarci per niente del nostro sentirci felici, quindi cercare la felicità non serve, non ci fa dirigere a ciò che è davvero il meglio, può farci prendere fischi per fiaschi e, quel che è peggio, senza che ce ne accorgiamo neanche dopo il fallimento: si tratta del fanatismo, di quelli che ritengono di aver trovato la felicità e non si chiedono se ciò sia dovuto a nient'altro che all'aver smesso di farsi domande.
Cos'è allora il meglio? Mi sembra che viator l'abbia indicato, sia nel nick che si è scelto, sia nel messaggio: camminare. Se si cammina, si sta anche a ricercare quali parti di noi sia più conveniente accontentare.
Perché dovrei preferire la felicità di una certa parte di me, per esempio dell'amore per la cultura, alla felicità di altro, come il suddetto esempio di aver rubato? Credo che un motivo ci sia: ci sono felicità che aprono la strada alla conoscenza di felicità nuove o ancora più grandi, mentre altre conducono a fermarsi: certe persone sono felici solo perché non sanno cosa si stanno perdendo. Drogarsi, per esempio, può far sentire felici, ma chiude completamente la strada alla conoscenza di altre felicità. Questo mi conferma l'importanza del camminare: il camminare è l'unica modalità di esistere che apre la strada a ulteriori esperienze di felicità prima sconosciute, ulteriori cammini, allargamenti di orizzonti.
A questo punto può sopravvenire il dubbio che nuovi orizzonti potrebbero anche non esistere. D'altra parte, però, è anche vero che non potremo mai saperlo, non potremo mai sapere se ciò che c'era da fare era solo cercare ancora un poco. In questo senso ci troviamo tutti nella condizione di quella barzelletta degli evasi, che oltrepassarono tanti muri e si arresero davanti all'ultimo, non sapendo che era l'ultimo. In teoria, dunque, tutto il nostro camminare rischierebbe di ridursi a vuoto, ma nell'esistenza concreta non c'è il vuoto, ci sono esperienze, piccoli ritrovamenti qua e là lungo la strada.
Da questo punto di vista, dunque, il meglio viene a consistere nel camminare, sostenuti dalle esperienze particolari che questa modalità di consente di vivere.
C'è un tipo di esperienza particolare, una quasi felicità, che sta sotto i nostri occhi, non ha alcun segreto, eppure sono pochi quelli che la scoprono, semplicemente perché richiede, anche qui, cammino. Pensiamo per esempio all'artista, ma l'esempio si potrebbe applicare anche a tanti altri tipi di persone. Se ho la pazienza di seguire l'artista, fare un cammino con lui, potrò scoprire che i suoi quadri traboccano di esperienza in grado di toccarmi il cuore. Eppure avevo visto decine di volte quei quadri, ma non vi avevo mai visto niente di interessante. Questo mi porta a chiedermi: chissà quanti tesori inestimabili di questo mondo mi sto perdendo, mentre mi passano davanti agli occhi, sono lì, a portata di mano, e non me ne accorgo semplicemente perché in tanti tipi di cammino sono indietro, non li ho mai approfonditi. Questo mi spinge a camminare e ad impiegare su questo tutto il mio essere.
Salve, e bravo a Maral. Il desiderio che pregusti la sua soddisfazione è sempre una felicità più grande del proprio esito. Persino se quest'ultimo consistesse appunto nella sua cercata soddisfazione.
Il meccanismo è quella della zitella ostinata perchè esigente. Rifiutando ogni occasione concreta di sposarsi, essa ogni volta andrà a rifugiarsi nel perfezionamento del proprio sogno d'amore, elaborandolo in modo talmente compiuto da rendere in effetti sempre più difficile che la sua prossima occasione risulti all'altezza del proprio sogno. Si chiama meccanismo della rincorsa del piacere.
Scusate ancora la laconicità un poco lapidaria che forse anche stavolta non permetterà a qualcuno di comprendere le mie argomentazioni.
E' per colpa della mia visione circa l'uso delle parole, le quali presentano il problema dell'autoreferenzialità. Per spiegarne una, ne servono molte altre. Inoltre le parole servono in identica misura a chiarire oppure a confondere, secondo la misura che se fa o le intenzioni di chi parla o scrive.
Usare molte parole per trattare argomenti essenziali, fondamentali, lo trovo del tutto controproducente perché tende appunto a confondere l'essenziale.
Infine meno parole ti escono meno castronerie verranno prodotte. Buonanotte.
La felicità. Un bel tema. Nei pochi precedenti interventi sono emerse almeno sei definizioni: felicità come morte, come evento straordinario, come condivisione, come consumo, come vita ultraterrena, come desiderio.
Oggi pensavo a questo supposto diritto, che permea l'epoca contemporanea, il diritto alla felicità. Un diritto alla felicità che fa anche capolino dalla Costituzione degli Stati Uniti.
Ebbene a me pare che questo diritto alla felicità così proclamato e "imposto" per legge, così unilaterale e privo di ombre, possa essere connesso con i campi di sterminio e con i Gulag.
Non aspiravano forse a questo tipo di felicità i nazisti e i comunisti? In mondo dove il male, eradicato, non compaia più.
Una definizione assoluta di felicità in realtà non é altro che il male, sotto mentite spoglie.
Non è invece più debole ma più adatto alla condizione umana pensare alla felicità come ad un oggetto che comprenda dentro di sé anche l'infelicità, la sconfitta, la malattia.
E se felicità fosse la capacità di dare significato alla propria esistenza, con i suoi momenti integrati di felicità e infelicità?
Sulla felicità gli umani cominciarono ad interrogarsi molto presto. La fonte antica occidentale più ricca, cui si riferisce anche l'argomento proposto nel post di apertura, risale ad Epicuro, ed epicureismo è sinonimo di ricerca filosofica della felicità armonizzando felicemente le proprie pulsioni e desideri. Anche il percorso orientale dell'illuminazione è interpretabile con quella pienezza di senso che è propria della felicità.
Pienezza di senso è anche nel "fermati sei bello" del Faust di Goethe. Nell'attimo fuggente che riuscì a sollevare lo spirito persino di Leopardi dall'ermo colle pensando l'infinito. Felicità dolcemente naufragante di cui ci fece dono prezioso.
Trovo che collezionare attimi fuggenti sia una buona pratica per la ricerca della felicità che, come già detto da altri, è processo, non stasi o meta, e dipende molto dall'abilità del navigatore umano saperla riprodurre e dispensare.
Non va dimenticato, scendendo dai propri nirvana personali, che tale concetto nasce correlato alla soddisfazione dei bisogni materiali e al giusto mezzo conseguito, libero da ogni avidità, tra abbondanza e miseria, Poros e Penia, da cui nacque, non a caso, Eros.
Citazione di: Ipazia il 30 Settembre 2019, 11:34:31 AM
Non va dimenticato, scendendo dai propri nirvana personali, che tale concetto nasce correlato alla soddisfazione dei bisogni materiali e al giusto mezzo conseguito, libero da ogni avidità, tra abbondanza e miseria, Poros e Penia, da cui nacque, non a caso, Eros.
Dubitando della mia memoria ho controllato e sembra proprio che Poros non sia "abbondanza" ma "espediente" anche nel senso di "ingegnosità": sia in amore che per la felicità (di cui l'amore è a suo modo declinazione), la condizione iniziale è Mancanza, ma tramite la sua congiunzione con Ingegno, si può arrivare alla mèta agognata (quindi l'avidità, intesa come brama, buddismo
docet, ha un suo ruolo, nel bene e nel male...).
Questi due fattori, carenza e "macchinazione" (per ammiccare al ruolo della tecnica, mossa dall'ingegno), spiegano in sintesi tanto i moventi della storia dell'uomo come specie, quanto il percorso biografico dell'individuo: mosso dall'avvertire una mancanza (che può essere fisiologica, psicologica, innata, indotta, etc.), usa la sua ragione per procurarsi (in differenti modi, valutabili con differenti parametri) ciò di cui sente il bisogno (vari tipi di bisogno, alcuni propri della specie, altri decisamente più individuali).
Forse, in fondo, la felicità è come la carota legata al bastone: se sotto sotto
vogliamo continuare a correre, dobbiamo guardarci dal raggiungerla (per quanto suoni
apparentemente paradossale, parlando di felicità); se possiamo (e
vogliamo) godercela senza correre, ci conviene mangiarla a piccoli morsi, per farla durare, poiché non è detto che, una volta terminata (Penia) saremo in grado (Poros) di trovarne altre (per quanto sia proprio la mancanza a dare il sapore alla soddisfazione in quanto non-più-mancanza).
La felicità non è la soddisfazione dei bisogni, che è appunto soddisfazione. La mancanza è un correlato del bisogno.
La felicità è un sentimento straordinario, che richiede la sorpresa, l'imprevedibilità, la mancanza di controllo, di pianificazione.
Ieri sera mentre preparavo per stasera delle patate al rosmarino, ho assaggiato sul bastone di legno con cui le rimestavo un rimasuglio attaccato, una delizia. Scommetto che le patate stasera non mi daranno una eguale goduria.
Citazione di: Jacopus il 30 Settembre 2019, 08:33:36 AM
Oggi pensavo a questo supposto diritto, che permea l'epoca contemporanea, il diritto alla felicità. Un diritto alla felicità che fa anche capolino dalla Costituzione degli Stati Uniti.
Ebbene a me pare che questo diritto alla felicità così proclamato e "imposto" per legge, così unilaterale e privo di ombre, possa essere connesso con i campi di sterminio e con i Gulag.
La Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti considera la ricerca della felicità un diritto inalienabile di tutti gli uomini. La sua utopica universalità è inconciliabile con i campi di concentramento e di sterminio.
Citazione di: baylham il 30 Settembre 2019, 15:05:36 PM
La felicità non è la soddisfazione dei bisogni, che è appunto soddisfazione. La mancanza è un correlato del bisogno.
La felicità è un sentimento straordinario, che richiede la sorpresa, l'imprevedibilità, la mancanza di controllo, di pianificazione.
Se non sbaglio, una distinzione "manualistica" fra gioia e felicità è che la prima è un'emozione (primaria) che può essere legata ad eventi imprevisti, mentre la seconda è meno intensa, inserita in un desiderio d'attesa e potenzialmente più duratura della gioia. Se sorvoliamo su queste definizioni, sicuramente è il caso di distinguere comunque la felicità improvvisa e inattesa da quella cercata e attesa (la felicità di essere in una condizione che si desiderava, di raggiungere un certo traguardo, di avere ciò che si voleva, etc.).
P.s.
Al di là delle definizioni, concordo che quel che si attacca al cucchiaio di legno sia il meglio delle patate al rosmarino.
Inserirei tra gioia e felicità la parola "ben-essere" (con trattino necessario). Forse la gioia e la felicità hanno legami con il ben-essere, che è in qualche modo un ingrediente che li accomuna. Però più che uno stato duraturo o meno, improvviso o altro, ritengo che il discrimine tra le due sia una certa autonomia dello stato di felicità da condizioni esterne, rispetto alla gioia.
In un mondo totalmente impermanente qualunque tipo di felicità non può essere che passeggera, fugace. Illusorio pensare che la felicità data dal possedere , persone , cose o stati mentali, sia duratura. Eppure a questa si anela costantemente, senza posa. Infelice è l'uomo che cerca di essere felice..
C'è però un tipo di felicità che è data dal non pensare più di trovare felicità nel mondo.. E' quando sai rinunciare all'affannosa ricerca. Quando la mente è esausta nel cercare senza trovare. Allora, inspiegabilmente...sei felice!
Questa è una felicità meno effimera, più costante e profonda. Perché è così? Perché la 'mente' gioisce allora nel dominare le cose, invece che nel venirne dominata...
Un'altra forma di felicità pofonda è quella data dalla condivisione. Condividere insieme l'esistenza, sotto ogni forma, fosse anche condividere solamente la propria povertà e farsi carico della sofferenza altrui, è una forma nobile di felicità. Si respira il sacro in questa condivisione...La premessa però per questa felicità dimora sempre nella capacità di rinuncia. E' perché rinuncio a qualcosa di mio che posso far "spazio per te"...
Citazione di: Phil il 30 Settembre 2019, 12:33:16 PM
Forse, in fondo, la felicità è come la carota legata al bastone: se sotto sotto vogliamo continuare a correre, dobbiamo guardarci dal raggiungerla (per quanto suoni apparentemente paradossale, parlando di felicità); se possiamo (e vogliamo) godercela senza correre, ci conviene mangiarla a piccoli morsi, per farla durare, poiché non è detto che, una volta terminata (Penia) saremo in grado (Poros) di trovarne altre (per quanto sia proprio la mancanza a dare il sapore alla soddisfazione in quanto non-più-mancanza).
Non ridurrei tutto a questa rappresentazione kinica (Peter Sloterdijk) ansimante. Benchè la felicità sia generata da un processo dinamico, non ogni vagabondare sortisce l'effetto, ma solo se saggiamente condotto, eudemonisticamente. Il sapore della felicità si gusta nel momento di stasi, appagamento, illuminazione (individuale o conviviale), che nella sua bellezza arrestata assume una prospettiva infinita che dà anche al più kinico degli umani la pienezza di senso della sua propria realizzazione. La fine del film è scontata, ciò non impedisce di gustarselo finchè lo si vive dissolvendosi in esso.
Citazione di: Ipazia il 01 Ottobre 2019, 11:30:58 AM
Non ridurrei tutto a questa rappresentazione kinica (Peter Sloterdijk) ansimante. Benchè la felicità sia generata da un processo dinamico, non ogni vagabondare sortisce l'effetto, ma solo se saggiamente condotto, eudemonisticamente. Il sapore della felicità si gusta nel momento di stasi, appagamento, illuminazione (individuale o conviviale), che nella sua bellezza arrestata assume una prospettiva infinita che dà anche al più kinico degli umani la pienezza di senso della sua propria realizzazione. La fine del film è scontata, ciò non impedisce di gustarselo finchè lo si vive dissolvendosi in esso.
Personalmente, per quel che vale, tendo al «godersela senza correre»(autocit.), ma devo riconoscere che non tutti hanno l'indole soggettiva e le possibilità oggettive per farlo, per cui quello che fa felice me magari provoca frustrazione e (in)sofferenza in altri; il buon Protagora può essere letto anche in chiave eudemonologica: c'è la felicità del uomo cin
etico (o cin
estetico), quella del cinico, quella del "cinefilo" (anche se come dici il finale è scontato), etc.
Buongiorno amici,
Come di buon grado, giornalmente vi seguo e leggo.
Questo discorso, questa discussione, oggi ha catturato la mia attenzione.
In passato e in vari studi sulla faccenda, ho letto, guardato e ascoltato da altri.
Ho sempre posto molte domande, anche se queste parevano molto scomode al mio interlocutore, ma in effetti esse erano semplicemente senza alcun scopo, se non quel di sapere, di capire.
Penso che sull' argomento se ne possano dare moltissime di interpretazioni, quasi 7 miliardi (qualche numero in più, qualche numero in meno), ciò in virtù del fatto, che ogni-uno sia diverso dagli altri uno (o quantomeno, spero sia così) e che ogni esperienza, sia diversa dalle altre.
Il luogo in cui si nasce e si cresce, la mentalità della famiglia in cui ci si inizia a formare, la cultura del popolo o della società che plasma la nostra mente (una famiglia allargata, potrei pensare personalmente), il paradigma del verbale, dello scritturale, delle idee, delle opinioni, dei fatti con i quali e con le quali, ogni giorno ci interfacciamo, nei quali e nelle quali ci identifichiamo, ci relazioniamo.
Si ha bisogno dell' ascolto degli altri, per poter parlare con noi stessi (per chi abbia la possibilità di farlo) e per poter ascoltare noi stessi in un momento della nostra esistenza, in cui ci è concesso di farlo.
E qui scorgano a fiumi, le mille, centomila, il milione di domande a cui ci aggrappiamo per tentare di dare un senso al nostro essere, al nostro vivere.
Guardiamo in noi stessi come il riflesso di altri, guardiamo agli altri come il riflesso di noi stessi, guardiamo ai tanti io, me, noi, voi, essi, loro, come un mosaico, oppure un puzzle i cui pezzi son li, sparsi un po' dappertutto e in attesa che venga ricomposto-scomposto-ricomposto (o che qualcuno al posto nostro, faccia la stessa cosa).
A volte, cerchiamo negli altri questa felicità, questa serenità e la utilizziamo come fosse un cerotto capace di guarire quelle ferite, quei dolori, quel Dolore che ci portiamo dentro.
Un dolore, che può variare da persona a persona, da individuo ad individuo ma che e a ben guardare e saper ascoltare, può bene essere riscontrato non solo nella specie homo, esso ci può apparire tavolta come un misto di pensieri, emozioni e sentimenti che cavalcano il tempo presente, talora come qualcosa di più antico, atavico, ancestrale.
Cosa ne penso personalmente, o meglio, cosa ne penso in questo momento:
Signori, Amici, non sono mai stato molto bravo nell' esplecare ciò che veramente sento, è qualcosa di molto difficile, molto intimo, cercare di esternare ciò di cui non si riesce a udire, ciò di cui non si riesce a pensare, ciò di cui non si riesce a parlare, qualcosa di molto profondo, che si percepisce, ma non ci si sa spiegare così, con due o tre frasi dette e lette.
Posso solo dire a me stesso, in questo preciso istante, che esistono tre cuori, l' uno è situato nella mente (la logica, le emozioni, le esperienze, il vissuto, i ricordi), l' uno è situato nel muscolo (i sentimenti, i ricordi), l' uno è situato tra le gambe (il sesso, la procreazione, la bellezza della nascita).
Credo che in fin dei conti, il nostro malessere biologico, fisico, psichico, animico, sia da imputare a questi che io definisco stati, stati che si prendono continuamente a cazzotti tra loro, anziché essere in armonia tra loro, di rimando, la storia dell' uomo continua a insegnarmi molto sul suo essere razionale e irrazionale allo stesso tempo, sul suo continuo e perpetuo essere contraddittorio.
Molti si sono avvicendati nel chiedersi queste cose, molti lo fanno adesso e molti continueranno a farlo, anche ogni-uno di noi, in questo preciso istante.
Per quel che mi è concesso, vorrei, sempre che gli amministratori e moderatori, ma anche gli altri amici tutti me lo possano permettere, descrivere un momento, un mio personalissimo momento di quiete interiore e vorrei farlo attraverso l' immaginale di un paio di foto e di un video di breve durata, che feci questa estate, quando tutto ad un tratto, volli fare quello che ho fatto, ma senza pensarci, senza una meta ben definita, senza un programma creato, ma semplicemente perché così decisi in quel preciso momento.
(https://i.postimg.cc/GB6YCL7D/IMG-20190902-151210.jpg)https://streamable.com/yfsbi
Quel giorno il cielo era coperto di nuvole bianche e grigio chiaro, le gocce che ne scendevano quasi accarezzavano le mie mani e la mia pelle, l' aria era fresca, l' odore della terra e dell' erba, dei tronchi e delle piante e il sole che faceva capolino tra una nuovola e l' altra, me stesso fermo sotto di uno di quegli alberi, le cui fronde di rami e foglie mi accoglievano e riparavano.
Io, me stesso, la perla, l' universo, l' olografico, il sogno, il tutto.
(https://i.postimg.cc/v1Tcq4yy/IMG-20191001-133325.jpg)Spero sia cosa gradita il mio aver messo piede in questa discussione e spero anche di non aver tediato troppo con le mie monellerie.
Grazie ✋
CitazioneLa Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti considera la ricerca della felicità un diritto inalienabile di tutti gli uomini. La sua utopica universalità è inconciliabile con i campi di concentramento e di sterminio.
Ma é proprio l'universalità a renderla conciliabile. È ovvio che il discorso può diventare scivoloso, ma possiamo provare a non cadere.
In realtà é proprio il pensiero universalistico nelle sue molteplici declinazioni ad essere (forse?) imparentato con Auschwitz. É l'esclusione dell'infelicità, come linea del pensiero moderno a creare l'esclusione dell'infelice. O meglio di colui che deve essere considerato l'obiettivo della ricerca dell'infelicità, affinché vi sia una futura felicità. Infelice intercambiabile, secondo mode e richieste socio-politiche ma sempre necessario alla visione del benessere, della felicità come diritto.
Ecco la "felicità come diritto" mi risuona come un oltraggio alla intelligenza, un connubbio indecente, pornografico.
Perché allora non stabilire per legge quanti amplessi al giorno, quanto cibo gourmet, quanto consumo di beni voluttuari servono per essere felici? In questa intromissione non c'è già forse la radice delle norme burocratiche che stabilivano quanto paia di ciabatte distribuire ai Kapò, quante selezioni al mese, quanti grammi di pane distribuire, che forma doveva avere il cubo del letto?
Se la felicità si può normare, perché non farlo per l'infelicità, se quella felicità può essere raggiunta, in un mondo manicheo come quello totalitario, solo attraverso l'infelicità del nemico.
Quello che in fondo voglio dire é un discorso ricorrente nella filosofia contemporanea: ovvero la technè come misura di tutto il mondo e della quale l'homo sapiens é diventato il servitore.
Casualmente ora mi sono imbattuto in questo pensiero di H. Arendt che può aiutare a chiarire meglio quello che voglio dire.
CitazioneQuando l'impossibile é stato reso possibile (dalla tecnica) é diventato il male assoluto, impensabile, imperdonabile, che non poteva più essere compreso e spiegato con i malvagi motivi dell'interesse egoistico...della smania di potere e che quindi non poteva più essere combattuto con la collera, con la carità, con l'amicizia. (Le origini del totalitarismo, p. 628).
Questo processo vale per tutte le sfere che vivevano fuori dalla sfera della tecnica e che la tecnica tende a colonizzare, sia che si tratti di felicità oppure di purezza del sangue.
Salve Jacopus. In effetti il "diritto alla felicità" rappresenta espressione assurda ed addirittura irrisoria della condizione umana.
I diritti riconoscibili a dei cittadini o a delle persone sono solamente quelli CHIARAMENTE DEFINIBILI PER TUTTI, SICURAMENTE RAGGIUNGIBILI PER TUTTI, SICURAMENTE MANTENIBILI PER TUTTI.
Tutto il resto rappresenta solo, a seconda dei casi e dell'animo di chi lo proclama, DEMAGOGIE, UTOPIE, ILLUSIONI, VANEGGIAMENTI, SPERANZE, AUGURI. Cioè, nel più benefico dei casi, un grazioso ornamento del portale del nostro futuro. Saluti.
La cosa che trovo interessante di questa discussione è che se la morte è la porta della felicità, accettata questa premessa, ne consegue che la vita ha sempre un lieto fine. Di tutti i viventi del mondo si potrà dire prima o poi "e morirono per sempre felici e contenti", parafrasando il noto finale delle favole, "e vissero per sempre felici e contenti". Molto Disneyano.
Da un punto d vista religioso (ne parlo tanto per parlare, perché io personalmente sono ateo), se l'annullamento dell'anima non è una punizione, ma uno stato di felicità, un Dio che manda i peccatori all'inferno, cioè alla tortura eterna senza annullarne l'anima, è effettivamente un Dio crudele e vendicativo, perché non concede ai suoi nemici quella morte eterna che sarebbe per loro lo stato di felicità, e invece li tortura.
Al contrario un Dio che semplicemente davanti alla disobbedienza degli uomini ai suoi comandi (il famoso albero...) introduce la morte come salario del peccato, che quindi a un livello spirituale si limita a "uccidere" chi non gli obbedisce senza "torturarlo", è e resta un Dio buono e misericordioso, perché in fondo concede la felicità a tutti, anche a chi lo sfida. Distruggendo l'anima di chi lo sfida preserva la sua creazione senza fare realmente del male a nessuno: il giusto avrà una felicità positiva, nel paradiso, e l'ingiusto una felicità negativa, nell'annientamento, ma sempre entrambi saranno felici alla fine, sempre se accettiamo l'equivalenza tra felicità e morte che si propone in questa discussione. Il lieto fine del "tutti morirono felici è contenti" di cui sopra si può applicare anche alla favola della religione cristiana, purché si sia annichilazionisti, cioè si immagini l'inferno come luogo di annientamento e non di sofferenza. L'inferno è il nulla, che davanti al non-senso della vita è comunque desiderabile. Quello che cambia, tra l'essere giusti o peccatori, è solo la differenza ineffabile tra l'annientamento di tutti i desideri e la loro soddisfazione, l'indicibile differenza tra l'essere felici perché completamente soddisfatti e l'essere felici perché morti, differenza che ha senso finché si è in vita e non ha più senso per i morti.
Salve Niko e benvenuto. Molto, molto ben detto. Ragionare come te significa saper discernere (indipendentemente dal potere di convinzione dei risultati !) il razionale dall'irrazionale, la logica dal velleitarismo soggettivo, il possibile dal desiderabile. Saluti.