La verità filosofica, già in Platone, si presenta non solo come corrispondenza formale istituita dal logos tra ciò che si dice e la realtà, ma anche sulla coerenza che trova la parola del filosofo con la sua vita, nella misura in cui essa si presenta come vera vita. Come dice Michel Foucault nelle sue ultime lezioni, la vera vita assume un'importanza fondamentale per alcune scuole filosofiche che svilupperanno meno il loro impianto teorico ontologico per soffermarsi sugli aspetti esistenziali e morali, in particolare l'Epicureismo e lo Stoicismo, ma soprattutto i Cinici per i quali il tema della "vera vita" diventa fondamentale e portato alle più estreme e provocatorie conseguenze: la filosofia si fa con il proprio stile di vita, con i propri atti ben più che con i discorsi.
Questo principio diventerà però filosoficamente sempre meno praticato, la "vera vita" assumerà con il cristianesimo una connotazione religiosa, anche se debitrice delle idee filosofiche che l'hanno preceduta e la filosofia si indirizzerà verso un'argomentazione sempre più formalmente oggettiva, finché lascerà il campo della verità alla scienza moderna, per la quale il tema della "vera vita" non determina alcunché rispetto al valore oggettivo di verità di una teoria scientifica che si considera del tutto indipendente dai comportamenti dello scienziato - soggetto che la enuncia.
La verità, aletheia, per i Greci è ciò che si presenta non nascosto, non modificato, diritto e immutabile e la vera vita è enunciata secondo questi stessi principi: la vita vera (come il vero amore) non dissimula, non presenta ombre, non è corrotta, mantiene la sua direzione diritta senza disperdersi, è una vita retta che evita i perturbamenti senza cedere ai vizi e che mantiene immutabile la propria identità, perfettamente padrona di se stessa, libera e autonoma. E' una vita che richiede il coraggio di sostenerla, sempre posta in sfida per risultare esemplare senza nulla nascondere.
In tempi in cui le verità metafisicamente stabilite dalle teoresi mostrano la loro inesorabile decadenza, mi chiedo se questo ideale della "vera vita" (quale dovrebbe essere la vita del filosofo) possa venire a costituire un nuovo punto di riferimento che invita a fare filosofia con i propri atti e le proprie prassi ben più che con i propri discorsi e se i termini in cui gli antichi ravvisavano la vita come vera possono essere assunti ancora oggi.
Un grande studioso di filosofia antica, Pierre Hadot, ha evidenziato come la differenza fra filosofia antica e moderna stia nel fatto che la prima era una ricerca della spiritualità, la seconda una ricerca dell'astrazione. Nel suo ragionamento ha coinvolto anche Wittgenstein nel libro "I limiti del linguaggio", ma di ciò non posso dir nulla non avendo letto il libro e non conoscendo Wittgenstein. Di Hadot ho invece letto "Esercizi spirituali e filosofia antica" e "Che cos'è la filosofia antica?", e mi ha colpito il suo pensiero che colloca non solo la filosofia ellenistica, ma anche in parte quella classica, nell'alveo dell'esercizio spirituale. Dove in particolare la scrittura assume la forma di un esercizio scritto: la memorizzazione dei dogmi della scuola, l'esame di coscienza, la praemeditatio malorum (anticipazione e preparazione ai mali). Da qui si aprono innumerevoli spunti interessanti come la ripresa di questi temi in ottica cristiana, in particolare con Ignazio di Loyola e i gesuiti. Ma anche il fatto che spesso si da un'interpretazione errata degli antichi, esagerandone il senso che davano all'astrazione ed allintellettualismo. "Nell'antichità non esisteva un solo intellettuale" mi pare dica Hadot. Quindi anche alcuni scritti di Aristotele più che costruzioni meramente razionali assumono la forma di esercizi volti all'assimilazione delle proprie idee di fondo, e così per Plotino, Ambrogio, Agostino. Del resto parrebbe inspiegabile l'esagerato il senso di colpa di quest'ultimo per il celebre furto delle pere, se non nell'ottica dell'esercizio spirituale, dove evidentemente le pere sono solo un esempio di qualcos'altro, di un senso di colpa più generale e giustificato. Differenza che ad esempio Bertrand Russell, non ha saputo cogliere, avendo ridicolizzato l'aneddoto delle pere di Agostino nella sua "Storia della filosofia".
Pare che Hobbes dicesse: "Primum vivere deinde philosophari"; in fondo, era la stessa cosa che sottintendeva Aristofane, quando, nella commedia "Le Nuvole", rappresenta Socrate che, appeso in una cesta, contempla il cielo...e non la terra.
Secondo me, invece "Vivere EST philosophari", perchè sia le nostre parole che le nostre azioni, sono ENTRAMBE frutto della nostra personale filosofia; espressa o meno che essa sia, ovvero consapevole o meno che essa sia.
La filosofia, invero, si può esprimere anche senza parole, ma semplicemente con un gesto; come fece Cesare Pavese, così concludendo il suo Diario (e la sua vita): "Non più parole...un gesto".
E' vero, però, che, molto spesso, le nostre parole (cioè la filosofia che noi propugnamo), non sempre coincidono con la nostra condotta di vita.
Però, in fondo, a suo modo, anche questa è un tipo di filosofia: "Fate come dico, ma non fate come faccio!"
La quale, forse, è la filosofia di vita più diffusa al mondo!
;)
Citazione di: cvc il 14 Novembre 2016, 08:46:31 AM
Un grande studioso di filosofia antica, Pierre Hadot, ha evidenziato come la differenza fra filosofia antica e moderna stia nel fatto che la prima era una ricerca della spiritualità, la seconda una ricerca dell'astrazione. Nel suo ragionamento ha coinvolto anche Wittgenstein nel libro "I limiti del linguaggio", ma di ciò non posso dir nulla non avendo letto il libro e non conoscendo Wittgenstein. Di Hadot ho invece letto "Esercizi spirituali e filosofia antica" e "Che cos'è la filosofia antica?", e mi ha colpito il suo pensiero che colloca non solo la filosofia ellenistica, ma anche in parte quella classica, nell'alveo dell'esercizio spirituale. Dove in particolare la scrittura assume la forma di un esercizio scritto: la memorizzazione dei dogmi della scuola, l'esame di coscienza, la praemeditatio malorum (anticipazione e preparazione ai mali). Da qui si aprono innumerevoli spunti interessanti come la ripresa di questi temi in ottica cristiana, in particolare con Ignazio di Loyola e i gesuiti. Ma anche il fatto che spesso si da un'interpretazione errata degli antichi, esagerandone il senso che davano all'astrazione ed allintellettualismo. "Nell'antichità non esisteva un solo intellettuale" mi pare dica Hadot. Quindi anche alcuni scritti di Aristotele più che costruzioni meramente razionali assumono la forma di esercizi volti all'assimilazione delle proprie idee di fondo, e così per Plotino, Ambrogio, Agostino. Del resto parrebbe inspiegabile l'esagerato il senso di colpa di quest'ultimo per il celebre furto delle pere, se non nell'ottica dell'esercizio spirituale, dove evidentemente le pere sono solo un esempio di qualcos'altro, di un senso di colpa più generale e giustificato. Differenza che ad esempio Bertrand Russell, non ha saputo cogliere, avendo ridicolizzato l'aneddoto delle pere di Agostino nella sua "Storia della filosofia".
Non ho letto nè Hadot, nè Wittgenstein, ma da altri autori che ho letto, a me pare che, da sempre (sia nel passato che nel presente), ed in ogni luogo (anche in India), la filosofia (ed anche la religione) abbiano seguito
DUE filoni principali.
Per dirla in modo
MOLTO semplicistico:
- uno
empirista-razionalista-positivista;
- un altro
idealistico-mistico-spirituale.Potrei fare molti esempi, ma, poichè anche nell'ambito dei due "
filoni", i pensieri e lo spirito dei vari autori -ovviamente- divergono in modo sensibile (quando non eclantemente), o dovrei semplicare troppo -a rischio di essere inesatto-, o dovrei entrate troppo in dettaglio, cosa che qui è impossibile.
In qualche caso, peraltro, in alcuni autori (filosofici e religiosi),
i due filoni si intrecciano e si sovrappongono un po'; e, questo, anche in conseguenza dei
tentativi di conciliazione dei due aspetti, che qualcuno di costoro ha tentato di fare -me compreso-.
Ma, comunque, in genere,
in ogni singolo pensatore prevale l'uno o l'altro aspetto; per cui secondo me i due filoni esistono indubbiamente...
ovunque ed in
ogni tempo.
Anche se a volte, geograficamente e/o storicamente, tende a prevalere l'uno o l'altro.
Citazione di: Eutidemo il 14 Novembre 2016, 11:31:20 AM
Citazione
Non ho letto nè Hadot, nè Wittgenstein, ma da altri autori che ho letto, a me pare che, da sempre (sia nel passato che nel presente), ed in ogni luogo (anche in India), la filosofia (ed anche la religione) abbiano seguito DUEfiloni principali.
Per dirla in modo MOLTO semplicistico:
- uno empirista-razionalista-positivista;
- un altro idealistico-mistico-spirituale.
Potrei fare molti esempi, ma, poichè anche nell'ambito dei due "filoni", i pensieri e lo spirito dei vari autori -ovviamente- divergono in modo sensibile (quando non eclantemente), o dovrei semplicare troppo -a rischio di essere inesatto-, o dovrei entrate troppo in dettaglio, cosa che qui è impossibile.
In qualche caso, peraltro, in alcuni autori (filosofici e religiosi), i due filoni si intrecciano e si sovrappongono un po'; e, questo, anche in conseguenza dei tentativi di conciliazione dei due aspetti, che qualcuno di costoro ha tentato di fare -me compreso-.
Ma, comunque, in genere, in ogni singolo pensatore prevale l'uno o l'altro aspetto; per cui secondo me i due filoni esistono indubbiamente...ovunque ed in ogni tempo.
Anche se a volte, geograficamente e/o storicamente, tende a prevalere l'uno o l'altro.
Un aspetto importante, soprattutto nell'evoluzione storica della filosofia occidentale, è quello di cui poco si sente parlare dello spartiacque rappresentato dal passaggio dalla cultura dell'oralità a quella della scrittura. Le opere omeriche avevano riferimenti visivi (le immagini aiutano a fissare le memorie) e schemi metrici atti a facilitare la memorizzazione. Non esistendo la scrittura la memoria aveva un ruolo fondamentale. L'entrata in scena della scrittura, oltre a "stampellare" la memoria, viene però a privare spesso di ciò che è implicito nel linguaggio, ciò che evoca per associazioni mentali, visive, psicologiche. La cultura scritta tende ad aumentare l'astrazione, appunto perchè la mente non è più obbligata allo sforzo di trattenere, quindi ci si può sganciare più liberamente dal concreto e sprofondarsi nella speculazione. Poi però ci si accorge che la verità non è questione di sottigliezze logiche, che il linguaggio è uno strumento straordinario ma insufficiente a contenere tutte le implicazioni del verbo. Infatti la stessa frase detta a quattr'occhi, ad un uomo o ad una donna, ad una platea, al telefono o scritta su un foglio, non è la stessa medesima cosa. La cultura orale, tanto più quella scientifica, tendono a dimenticare questo particolare perchè qui sta a cuore l'univocità del linguaggio. L'univocità che serve ad applicare le funzioni, ed il concetto di funzione è diventato centrale nella nostra cultura, quanto una volta era quello di sostanza. La sostanza indica la permanenza di un qualcosa nel tempo, la condizione necessaria e sufficiente perchè un qualcosa sia qualcosa e non niente. La funzione è invece una porta attraverso cui un input restituisce un output, ma da per scontata l'esistenza della sostanza, rappresentata in questo caso dalla validità della funzione stessa. L'idea di verità si cristallizza nel metodo, nell'applicazione tecnica, nella validità della funzione, e non più nella sostanza stessa.
Forse non si capisce un h delle ultime cose che ho detto, magari non le capirò bene nemmeno io rileggendomi. Sta di fatto che ieri in libreria scorrendo vari titoli, mi è capitato fra le mani un libro che parlava del passaggio dal concetto di sostanza a quello di funzione (dalla sostanza alla funzione, Cassirer). Nel senso che tutto muta sotto I nostri occhi (nulla permane nel tempo) , la scienza impone il dinamismo alla staticità, tutto è in evoluzione, tanto l'osservatore che l'osservato. L'unica cosa che rimane è la funzione che con I suoi parametri lega soggetto e oggetto. Finchè la funzione sarà sostituita da un altra più efficiente. Rimane allora il rigore metodologico, la coerenza, la logica. Ma la verità va oltre la logica o, in termini più rigorosi, la logica è un sottoinsieme della verità.
Mi pare però che più che di una contrapposizione, che senza dubbio sussiste, tra una posizione empirista-razionalista-positivista e una idealistico-mistico-spirituale della filosofia, si tratta di una contrapposizione tra una visione teoretica della verità (che potrà essere razionalista, mistica ecc.) e una prassi della verità per la quale la verità non è teoria, ma prassi vera in quanto è l'espressione diretta di un agire riconducibile (o lo era per gli antichi) alle stesse caratteristiche della aletheia (vero è essere manifesto e non nascosto, non corruttibile, non viziato, autonomo e retto).
Sono d'accordo con CVC sul fatto che l'espressione scritta abbia favorito l'approccio teoretico oggettivo alla verità portando la filosofia in questa direzione che è poi la stessa direzione sulla quale è stata soppiantata dalla scienza che ha stabilito un metodo preciso e univoco con cui discriminare gli aspetti validi da quelli non validi (ossia soggettivi) dell'esperienza per cui la verità si riduce a ciò che può diventare oggettivamente pubblico, ben condivisibile e valido per tutti, dunque è vero ciò che è "pubblicabile" (messo per iscritto e non solo detto). D'altra parte invece la prassi della verità che pone in primo piano la dimensione etica della filosofia (un'etica non di principio, ma in atto), è stata assorbita dalla religione cristiana, in primo luogo con l'ascetismo monacale, poi con l'istituzione degli ordini mendicanti, soprattutto alle origini del francescanesimo (ma anche evidentemente da altri simili movimenti ereticali).
Mi chiedo appunto oggi da chi e in che modo e in quali ambiti questa prassi della verità (che necessita tra l'altro di un'assoluta povertà e di una pari onestà) possa essere praticata o anche solo concepita praticabile.
Il Socrate platonico (non certo per come ne fa l'ironia Aristofane) in molti dialoghi è presentato proprio in riferimento alla prassi della verità più che alla sua teoresi. Socrate inizia la sua pratica filosofica quando viene a sapere che l'oracolo di Delfi lo aveva indicato come il più sapiente di tutti gli uomini, allora comincia ad andare in giro per Atene a interrogare la gente (dal più miserabile al più ricco e potente) su quello che sa per verificare se l'oracolo ha detto la verità su di lui (si sa infatti che i detti dell'oracolo erano sempre molto ambigui e il rischio di fraintenderli enormi). Chiedendo alla gente di ciò che essa sa, Socrate scopre innanzitutto che molti sanno più di lui, e sono soprattutto quelli che, come gli artigiani, erano ritenuti i più ignoranti, ma scopre anche che in realtà nessuno davvero sa, piuttosto tutti credono di sapere, specialmente quelli che sono ritenuti i più sapienti. A questo punto Socrate comincia ad accorgersi di sapere di non sapere e per questo sa davvero più di tutti gli altri e allora si assume la "missione" di mettere alla prova tutti i concittadini su ciò che realmente sanno affinché se ne rendano davvero conto. Una missione che gli procurerà accuse e denunce, fino alla condanna a morte. Socrate non annuncia teorie filosofiche, non vaga con la testa tra le nuvole come per Aristofane, ma scende in strada e adotta in pubblico una prassi molto fastidiosa. La filosofia diventa così una discesa in campo ai limiti della provocazione, una pratica da esercitare in strada tra la gente con tutti i rischi che da questo conseguono.
Citazione di: maral il 14 Novembre 2016, 14:24:43 PM
[...]
Mi chiedo appunto oggi da chi e in che modo e in quali ambiti questa prassi della verità (che necessita tra l'altro di un'assoluta povertà e di una pari onestà) possa essere praticata o anche solo concepita praticabile.
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«
Non dimenticare mai la lotta di classe»
;)
All'alba della scrittura del pensiero, probabilmente si riteneva che ci fosse una sola Verità e il sapiente spaziava in molti ambiti del sapere, così acerbi da non richiedere troppa abnegazione... oggi il sapere è molto frammentato, o meglio, settorializzato, anche se il divario fra "scienze della natura" e "scienze dello spirito" è meno drastico che in passato, se non altro perchè si sta scoprendo che lo "spirito" è più "natura" di quanto si pensasse (vedi neuroscienze). In più di duemila anni, la verità ha lasciato tracce così confuse e labirintiche da far pensare che in fondo non sia una sola, e addirittura che non sia nemmeno vera lei stessa ;D per cui, forse, più che di "vera vita a riferimento di verità", bisognerebbe parlare di "vita coerente a riferimento del rispettivo criterio" oppure, stando in bilico sui confini del dicibile, si potrebbe parlare di v(er)ita: un gioco di parole che mi piace utilizzare per alludere alla verità della vita come evento vissuto, quindi confusione di verità (non logica ma esperenziale) e vita (non astratta ma esperita).
P.s.
Curiosità: in Giappone l'espressione "filosofia" è stata inventata ad hoc nell'ottocento per necessità di tradurre tale parola presente nei testi occidentali (che iniziavano ad essere studiati anche a livello accademico). Si scelse di tradurla cone tetsugaku: unione di tetsu (saggezza) e gaku (scienza, conoscenza), "conoscenza/scienza della saggezza" o "saggezza della conoscenza/scienza"? In entrambi i casi, è una espressione davvero "possente" e quasi conciliatrice dei due aspetti a cui si allude nei precedenti post...
Citazione di: maral il 13 Novembre 2016, 23:51:26 PM
La verità filosofica, già in Platone, si presenta non solo come corrispondenza formale istituita dal logos tra ciò che si dice e la realtà, ma anche sulla coerenza che trova la parola del filosofo con la sua vita, nella misura in cui essa si presenta come vera vita.
Trovo fruttuoso mettere in luce questo bisogno umano, chiamato bisogno di vera vita. Cioè, si potrebbe sospettare che anche la ricerca della verità come "adaequatio rei et intellectus" nasconda in realtà il bisogno più profondo di una verità che sia vita. Mi sembra che successivamente ciò sia stato colto al meglio da Heidegger, nel momento in cui egli parla di autenticità, esistenza autentica: che cosa vuol dire autenticità se non un modo di mascherare la parola verità? Credo che il lavoro di Pierre Hadot non faccia altro che continuare a perseguire questa linea, cioè tentare di individuare qualcosa che aderisca non solo alla mente, ma a tutta l'esistenza, una filosofia capace di essere vita.
Per portare avanti questa ricerca trovo fruttuoso basarmi ancora sull'espressione citata sopra, "adaequatio rei et intellectus"; la tradurrei con "adesione del pensato al reale". Ma, dopo tanti secoli di filosofia, ormai sia il pensato che il reale vanno a farsi benedire, attaccati in ogni direzione da critiche, problematiche, dubbi e filosofie di ogni tipo. Allora mi chiederei: adesione di che cosa a che cosa? Mi do questa risposta: adesione della vita ad una metodologia del divenire. Insomma, non si tratta d'altro che di tradurre in vita vissuta il "panta rei" di Eraclito.
Citazione di: cvc il 14 Novembre 2016, 08:46:31 AM
Un grande studioso di filosofia antica, Pierre Hadot, ha evidenziato come la differenza fra filosofia antica e moderna stia nel fatto che la prima era una ricerca della spiritualità, la seconda una ricerca dell'astrazione.
Pierre Hadot ha infatti pienamente ragione.secondo questo articolo (link sotto) ce' una citazione di San Tommaso che dice:"l'uomo ha in se' la conoscenza dell'aria e della natura prima ancora della parola"..a parte l'aria mi sembra che sintetizzi bene l'intero argomento e chi vi sia stato,a partire dai greci una razionalizzazione che ha mano a mano estraniato l'uomo dalla natura...quindi dalla vita e dalla Veritama se leggi l'intero articolo si capisce meglio cosa voglio dire :) ..e come si ricollega tutto quanto a questo stesso argomentohttp://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=8855
Citazione di: Angelo Cannata il 15 Novembre 2016, 00:58:51 AM
Citazione di: maral il 13 Novembre 2016, 23:51:26 PM
La verità filosofica, già in Platone, si presenta non solo come corrispondenza formale istituita dal logos tra ciò che si dice e la realtà, ma anche sulla coerenza che trova la parola del filosofo con la sua vita, nella misura in cui essa si presenta come vera vita.
Trovo fruttuoso mettere in luce questo bisogno umano, chiamato bisogno di vera vita. Cioè, si potrebbe sospettare che anche la ricerca della verità come "adaequatio rei et intellectus" nasconda in realtà il bisogno più profondo di una verità che sia vita. Mi sembra che successivamente ciò sia stato colto al meglio da Heidegger, nel momento in cui egli parla di autenticità, esistenza autentica: che cosa vuol dire autenticità se non un modo di mascherare la parola verità? Credo che il lavoro di Pierre Hadot non faccia altro che continuare a perseguire questa linea, cioè tentare di individuare qualcosa che aderisca non solo alla mente, ma a tutta l'esistenza, una filosofia capace di essere vita.
Per portare avanti questa ricerca trovo fruttuoso basarmi ancora sull'espressione citata sopra, "adaequatio rei et intellectus"; la tradurrei con "adesione del pensato al reale". Ma, dopo tanti secoli di filosofia, ormai sia il pensato che il reale vanno a farsi benedire, attaccati in ogni direzione da critiche, problematiche, dubbi e filosofie di ogni tipo. Allora mi chiederei: adesione di che cosa a che cosa? Mi do questa risposta: adesione della vita ad una metodologia del divenire. Insomma, non si tratta d'altro che di tradurre in vita vissuta il "panta rei" di Eraclito.
Si tratta di capire cosa mettere al centro del discorso, se l'essere o la vita. L'essere riguarda più l'astratto, la vita il concreto.
D'altronde l'enunciato di Parmenide, dal punto di vista astratto, è ineccepibile: l'essere è, il non essere non è. I problemi sorgono però quando si tratta di stabilire ciò che è e ciò che non è. Alla soluzione non si arriva se si pone l'essere al centro, secondo me, perché l'essere è un sottoinsieme della vita e non viceversa. L'essere è un'astrazione, e il concreto (la vita) deve precedere l'astrazione. Poi può anche avvenire che l'astrazione preceda il concreto, ma ciò avviene in seconda battuta. L'astrazione nasce in primis dalla vita, a meno che si creda alla teoria delle idee di Platone. Anche la sintesi degli opposti di Hegel è un'astrazione, che prende un concetto da Eraclito, però deformandolo. Il logos eracliteo ha una base fisica, il fuoco, che trova poi il corrispondente spirituale nella ragione che è sostanza, perché permane nel tempo mutandosi.. Ma in Hegel è uno strumento per plasmare gli eventi, quindi la sostanza diventa prassi (funzione). Il problema non è forse che non esiste più la filosofia come prassi, ma che la prassi ha preso il luogo della filosofia. La filosofia era nata con la ricerca di un principio universale: l'acqua, il fuoco, il numero, l'apeiron. Ma tale ricerca presume che esista una sostanza, altrimenti non può esistere nemmeno il principio della sostanza. La filosofia ha abbandonato la sostanza per la prassi, e con questo non è più prassi spirituale, ma solo prassi volta ai problemi contingenti.
Citazione di: cvc il 15 Novembre 2016, 08:49:50 AM
Il problema non è forse che non esiste più la filosofia come prassi, ma che la prassi ha preso il luogo della filosofia.
...
La filosofia ha abbandonato la sostanza per la prassi, e con questo non è più prassi spirituale, ma solo prassi volta ai problemi contingenti.
Mi sono occupato esattamente di
questa questione mesi fa nel mio blog. A mio parere è avvenuto questo: la filosofia, durante il suo cammino storico, si è resa conto di doversi orientare verso il concreto, il pratico, il vissuto, verso ciò che è più immerso nell'umano. Per mettere in pratica però quest'orientamento, si è ritrovata senza una categoria mentale in grado di porre in collegamento il filosofare con l'andare al pratico. Il risultato è che oggi diversi filosofi si danno alla politica, si occupano dei problemi sociali, il che per me è segno di sincera volontà di andare al concreto, ma anche di mancanza del ponte di collegamento tra filosofia e vita concreta.
Io ritengo che la categoria capace di fare da ponte tra riflessione e pratica si trovi in una cosa che poi nel Cristianesimo è stata chiamata spiritualità. La parola spiritualità ha origine nella religione cristiana, ma su questo è prezioso il lavoro di Hadot nell'evidenziare che il concetto in sé e la relativa pratica sono riscontrabili fuori e prima del Cristianesimo. Al Cristianesimo rimane comunque il merito di aver creato il termine e definito il concetto come pratica. Infatti nel Cristianesimo la spiritualità non è considerata un allontanarsi dal mondo, dal concreto, per salire con la mente nelle altezze più astratte della meditazione. Forse un'idea del genere poteva esserci nel medioevo. Nel Cristianesimo la spiritualità è intesa come il massimo della concretezza e l'origine di ogni concretezza.
A questo punto nasce il problema di servirsi del termine spiritualità in un modo generalizzato, non vincolato alla religione Cristiana, pur facendo tesoro della sua impostazione di spiritualità intesa come concretezza. Purtroppo non esistono altri termini, adatti come questo, ad indicare l'esperienza dell'interiorità umana intesa come esperienza di concretezza. Nasce cioè il problema di ridare alla parola spiritualità un significato che sia laico, secolare, indipendente. È esattamente su quest'ultimo problema che mi sembra che Hadot e tutti gli altri oggi nel mondo si ritrovino in grande confusione e indeterminatezza.
Il mio blog
Spiritualità è interamente dedicato a questa questione. Non esistendo, quindi, una definizione indipendente di spiritualità, ho deciso di lavorarci personalmente, me ne sono data una e a partire da essa sto facendo ricerca, con gli scarsissimi mezzi che mi trovo a disposizione.
Ho visto che in tutto il mondo stanno nascendo iniziative di questo genere. Ciò che mi seduce di più è notare che si comincia timidamente ad avanzare l'idea che la spiritualità, intesa in questa maniera laica e indipendente, merita di entrare nell'insegnamento delle scuole, perfino già a partire dalle scuole per i bambini. Tuttavia, tutte queste iniziative peccano del difetto che ho detto: si basano su un'idea di spiritualità che è vaga, ambigua, confusa, incerta, nonostante ciò che cercano di dare a intendere. Il mio sogno sarebbe che la spiritualità diventasse facoltà universitaria, con docenti specializzati che fanno ricerca su di essa. Credo che il mondo intero ne guadagnerebbe.
Non entro nei dettagli del significato che mi sono dato per la parola spiritualità, poiché automaticamente dovrei subito spiegarne anche i motivi e le conseguenze a cui esso porta; d'altra parte, si tratta di un significato provvisorio, funzionale ad una partenza della ricerca, predisposto ad essere modificato e corretto.
Citazione di: Angelo Cannata il 15 Novembre 2016, 09:43:19 AM
Citazione di: cvc il 15 Novembre 2016, 08:49:50 AM
Il problema non è forse che non esiste più la filosofia come prassi, ma che la prassi ha preso il luogo della filosofia.
...
La filosofia ha abbandonato la sostanza per la prassi, e con questo non è più prassi spirituale, ma solo prassi volta ai problemi contingenti.
Mi sono occupato esattamente di questa questione mesi fa nel mio blog. A mio parere è avvenuto questo: la filosofia, durante il suo cammino storico, si è resa conto di doversi orientare verso il concreto, il pratico, il vissuto, verso ciò che è più immerso nell'umano. Per mettere in pratica però quest'orientamento, si è ritrovata senza una categoria mentale in grado di porre in collegamento il filosofare con l'andare al pratico. Il risultato è che oggi diversi filosofi si danno alla politica, si occupano dei problemi sociali, il che per me è segno di sincera volontà di andare al concreto, ma anche di mancanza del ponte di collegamento tra filosofia e vita concreta.
Io ritengo che la categoria capace di fare da ponte tra riflessione e pratica si trovi in una cosa che poi nel Cristianesimo è stata chiamata spiritualità. La parola spiritualità ha origine nella religione cristiana, ma su questo è prezioso il lavoro di Hadot nell'evidenziare che il concetto in sé e la relativa pratica sono riscontrabili fuori e prima del Cristianesimo. Al Cristianesimo rimane comunque il merito di aver creato il termine e definito il concetto come pratica. Infatti nel Cristianesimo la spiritualità non è considerata un allontanarsi dal mondo, dal concreto, per salire con la mente nelle altezze più astratte della meditazione. Forse un'idea del genere poteva esserci nel medioevo. Nel Cristianesimo la spiritualità è intesa come il massimo della concretezza e l'origine di ogni concretezza.
A questo punto nasce il problema di servirsi del termine spiritualità in un modo generalizzato, non vincolato alla religione Cristiana, pur facendo tesoro della sua impostazione di spiritualità intesa come concretezza. Purtroppo non esistono altri termini, adatti come questo, ad indicare l'esperienza dell'interiorità umana intesa come esperienza di concretezza. Nasce cioè il problema di ridare alla parola spiritualità un significato che sia laico, secolare, indipendente. È esattamente su quest'ultimo problema che mi sembra che Hadot e tutti gli altri oggi nel mondo si ritrovino in grande confusione e indeterminatezza.
Il mio blog Spiritualità è interamente dedicato a questa questione. Non esistendo, quindi, una definizione indipendente di spiritualità, ho deciso di lavorarci personalmente, me ne sono data una e a partire da essa sto facendo ricerca, con gli scarsissimi mezzi che mi trovo a disposizione.
Ho visto che in tutto il mondo stanno nascendo iniziative di questo genere. Ciò che mi seduce di più è notare che si comincia timidamente ad avanzare l'idea che la spiritualità, intesa in questa maniera laica e indipendente, merita di entrare nell'insegnamento delle scuole, perfino già a partire dalle scuole per i bambini. Tuttavia, tutte queste iniziative peccano del difetto che ho detto: si basano su un'idea di spiritualità che è vaga, ambigua, confusa, incerta, nonostante ciò che cercano di dare a intendere. Il mio sogno sarebbe che la spiritualità diventasse facoltà universitaria, con docenti specializzati che fanno ricerca su di essa. Credo che il mondo intero ne guadagnerebbe.
Non entro nei dettagli del significato che mi sono dato per la parola spiritualità, poiché automaticamente dovrei subito spiegarne anche i motivi e le conseguenze a cui esso porta; d'altra parte, si tratta di un significato provvisorio, funzionale ad una partenza della ricerca, predisposto ad essere modificato e corretto.
Effettivamente per un occidentale che avverta il bisogno di nutrire la propria spiritualità, pare non esserci alternativa al cristianesimo. C'è l'alternativa rappresentata dalle pratiche orientali, è vero, ma si tratta pur sempre di un avventurarsi al di fuori delle proprie radici concettuali. Personalmente, con Reale e Seneca prima, e con Hadot, Marco Aurelio ed Epitteto poi, ho trovato un modo alternativo per sentirmi spirituale al netto delle implicazioni cristiane che vengono proposte a mo di kit: se ne vuoi una devi prendertele tutte! Diversamente, la filosofia ti lascia libero di poter prendere un po di qui e un po' di la, oppure di prendere questo ma non quello - rispettando si intende le norme di coerenza - e di poter, nel contempo, rivendicare un proprio pensiero.
Non credo sia facile dare una definizione universale di spiritualità. Come dice Agostino a riguardo del tempo: Se non me lo chiedi so cos'è, ma se devo spiegartelo non lo so. Provandoci direi che è il desiderio di libertà, ma non nel senso di fare ciò che si vuole, ma nel senso del raggiungere uno stato in cui non si sente più bisogno di alcunché. O di avvicinarvisi. "È proprio di Dio non avere bisogno di niente, proprio del saggio di aver bisogno di poco". (Epicuro se non erro).
Venendo invece al tema dei bisogni nell'accezione della società contemporanea - e tentando con questo di rispondere anche ad Acquario - si trova, al di la della difficoltà nel definirli (si fa prima a metterli in ordine che a definirli, vedi Maslow), ci si perde nell'impossibilità di soddisfarli. Si ha un bel dire che il bene è l'utile (soddisfazione del bisogno) e che l'economia è l'organizzazione delle risorse (scarse) in vista della soddisfazione dei bisogni; ma quand'è che si raggiunge mai lo stato di soddisfazione? Mai, appunto, visto che la nostra società si regge sui consumi, il che implica che la soddisfazione dei bisogni è per essa dannosa.
"Fino a quando rimanderai di vivere? Dimostra che gran parte degli uomini hanno trascorso la vita cercando i mezzi per viverla" (Seneca).
Per me questa è la spiritualità.
La definizione che io mi sono dato, funzionale all'avvio di una ricerca, è questa:
spiritualità è qualsiasi esperienza interiore. Con questa definizione ho inteso situarmi in un contesto di idee che è anche quello di
una discussione attualmente in corso su questo forum. Si tratta di un contesto di base materialista, allo scopo di elaborare una spiritualità condivisibile da chiunque, compresi atei e scienziati. La scienza considera tutto da un punto di vista materiale, ma non esclude affatto ciò che è al di fuori della portata dei suoi strumenti, come per esempio l'esistenza di Dio o del soprannaturale; semplicemente si tratta di argomenti al di fuori del suo campo di interesse.
La mia definizione include ciò che anche un animale può provare dentro di sé e può essere generalizzata fino ad includere persino gli oggetti inanimati, senza per questo dover fare ricorso a chissà quali forze o energie misteriose circolanti nell'intero universo, ma senza neanche escluderne l'idea per chi ad esse voglia credere.
Nel portare avanti l'indagine su questa direzione mi sono servito molto spesso di altre categorie di origine cristiana, pur considerandomi ateo. Ciò è dovuto al mio retroterra culturale, ma ritengo che possa essere considerato anche apertura mentale: non vedo perché un ateo debba rifiutare aprioristicamente certe categorie mentali solo perché sono già in uso all'interno di qualche religione o credenza.
Citazione di: cvc il 15 Novembre 2016, 10:28:54 AMEffettivamente per un occidentale che avverta il bisogno di nutrire la propria spiritualità, pare non esserci alternativa al cristianesimo. C'è l'alternativa rappresentata dalle pratiche orientali, è vero, ma si tratta pur sempre di un avventurarsi al di fuori delle proprie radici concettuali. Personalmente, con Reale e Seneca prima, e con Hadot, Marco Aurelio ed Epitteto poi, ho trovato un modo alternativo per sentirmi spirituale al netto delle implicazioni cristiane che vengono proposte a mo di kit: se ne vuoi una devi prendertele tutte! Diversamente, la filosofia ti lascia libero di poter prendere un po di qui e un po' di la, oppure di prendere questo ma non quello - rispettando si intende le norme di coerenza - e di poter, nel contempo, rivendicare un proprio pensiero.
Non credo sia facile dare una definizione universale di spiritualità. Come dice Agostino a riguardo del tempo: Se non me lo chiedi so cos'è, ma se devo spiegartelo non lo so. Provandoci direi che è il desiderio di libertà, ma non nel senso di fare ciò che si vuole, ma nel senso del raggiungere uno stato in cui non si sente più bisogno di alcunché. O di avvicinarvisi. "È proprio di Dio non avere bisogno di niente, proprio del saggio di aver bisogno di poco". (Epicuro se non erro).
Venendo invece al tema dei bisogni nell'accezione della società contemporanea - e tentando con questo di rispondere anche ad Acquario - si trova, al di la della difficoltà nel definirli (si fa prima a metterli in ordine che a definirli, vedi Maslow), ci si perde nell'impossibilità di soddisfarli. Si ha un bel dire che il bene è l'utile (soddisfazione del bisogno) e che l'economia è l'organizzazione delle risorse (scarse) in vista della soddisfazione dei bisogni; ma quand'è che si raggiunge mai lo stato di soddisfazione? Mai, appunto, visto che la nostra società si regge sui consumi, il che implica che la soddisfazione dei bisogni è per essa dannosa.
"Fino a quando rimanderai di vivere? Dimostra che gran parte degli uomini hanno trascorso la vita cercando i mezzi per viverla" (Seneca).
Per me questa è la spiritualità.
si lo so,non e' facile provare a rispondermi - sono uno spirito libero - :) ...perché poi (e mi rendo comunque conto) seguo prima non tanto i miei pensieri ma cio che avverto dentro per esprimerli successivamente,darei quindi la priorità a questo che non ai primi...(quello che mi suggerisce il "cuore") ed e' appunto la Via per essere Liberi,che anche per me significa Spiritualita,e infatti e per provare a chiarire meglio;CitazioneNon credo sia facile dare una definizione universale di spiritualità. Come dice Agostino a riguardo del tempo: Se non me lo chiedi so cos'è, ma se devo spiegartelo non lo so.
CitazioneProvandoci direi che è il desiderio di libertà, ma non nel senso di fare ciò che si vuole, ma nel senso del raggiungere uno stato in cui non si sente più bisogno di alcunché. O di avvicinarvisi.
la Spiritualita non e' definibile,ma nella sua indefinitezza lo si intuisce col "cuore" e non con il cervello (o la ragione)..ed anche qui,e pure in riferimento alla discussione,si evince secondo me che si e' finito per scambiare il mezzo per il fine,o la parte per il Tutto (l'articolo lo spiega bene come alla fine e per questo motivo ci siamo intrappolati da soli) ....ed appunto...fino a quando rimanderai a vivere?..come correttamente mi sembra dici anche tu
Citazione di: Phil il 14 Novembre 2016, 22:25:36 PM
per cui, forse, più che di "vera vita a riferimento di verità", bisognerebbe parlare di "vita coerente a riferimento del rispettivo criterio" oppure, stando in bilico sui confini del dicibile, si potrebbe parlare di v(er)ita: un gioco di parole che mi piace utilizzare per alludere alla verità della vita come evento vissuto, quindi confusione di verità (non logica ma esperenziale) e vita (non astratta ma esperita).
Il riferimento al rispettivo criterio è senza dubbio interessante, ma pone comunque il problema di quale debba essere questo criterio? Va bene qualsiasi criterio basta che lo si senta proprio? Inoltre trovare un proprio criterio su cui impegnare la propria stessa vita può essere tutt'altro che facile.
Mi sembra anche molto interessante il tentativo di fondare un significato laico di spiritualità, fondata sull'immanenza piuttosto che sulla trascendenza.
Oltre alla scuola stoica a cui fa riferimento CVC, come accennavo, vi sono stati i cinici, considerati in modo ambiguo dalla filosofia, ma che sicuramente hanno nutrito un senso molto forte e pure provocatorio di cosa si dovesse intendere per "vera vita", per "vera felicità", "vera libertà" e "vera maestà". La filosofia è qui manifestazione del corpo, non più di una mente che pensa separata dal corpo. Mi chiedo in quale misura proprio nel corpo si possa trovare quel concetto di spiritualità che prima Platone, poi il cristianesimo ci ha insegnato a cercare nell'anima disincarnata.
C'è anche, sempre nel cinismo, oltre alla pratica dell'estrema povertà come affermazione di completa autonomia, l'accettazione del dolore e dell'umiliazione sia come messa alla prova di se stessi che come felice accettazione del proprio destino. Appunto un sovrano sentirsi liberi da ogni bisogno, affermando la propria nuda "naturalità" anche con gesti che disgustano, scandalizzano e suscitano pubbliche repulsioni violente, ma che il cinico accetta così da ribaltare la situazione. Il miserabile Diogene poteva sfidare il potentissimo Alessandro dicendogli che era lui, Diogene, il vero re, discendente da Heracle (eroe indomito sempre combattente) e quindi da Zeus, non il sovrano macedone la cui potenza era condizionata e sempre rimessa in discussione. Ma oggi temo Che Diogene se si presentasse in tal modo a chi pensa di tenere la potenza del mondo non sarebbe nemmeno ascoltato, probabilmente rinchiuso in manicomio o in galera ancor prima di aprire la bocca. Anche la potenza ha subito una degradazione.
Acquario ha collegato la vera vita come un sentirsi in natura, in sintonia con la natura. Mi sa che dopo l'elezione di Trump con le sue prospettive in materia di sviluppo, sarà sempre più difficile viverla. E temo che un Diogene avrebbe poco successo con lui.
Lo stoicismo è figlio del cinismo, Zenone fu allievo di Cratete, discepolo di Diogene. Gli stoici dicevano anche che il cinismo è la via corta per la virtù, perché non necessita di particolare preparazione filosofica: é una pratica di vita. In comune con lo stoicismo - e anche con l'epicureismo e lo scetticismo - ha la convinzione che le sofferenze e la miseria dell'uomo stiano tutte nelle sue errate opinioni. Quindi non bisogna correggere le cose, ma le opinioni che si hanno delle cose. Il cinismo è la scelta più drastica, proponendosi di vivere come un animale il cinico taglia il nodo gordiano: gli animali non hanno opinioni. Poi però la pratica di vita dei cinici diventò un qualcosa di simile all'accattonaggio. Per cui chiunque poteva sperare di rimediare un tozzo di pane atteggiandosi a filosofo cinico e pretendendo l'elemosina con fasi trite scimmiottando il maestro.
Per quel che riguarda un ipotetico incontro fra Diogene e Trump, credo che gli proporrebbe di insegnargli la via della felicità: vivere come un animale, fare i bisogni e masturbarsi in pubblico, disprezzare tutti, non curarsi della propria reputazione... Magari, come Alessandro, Trump penserebbe che convenga gettargli qualche osso.
Citazione di: maral il 15 Novembre 2016, 13:07:53 PM
C'è anche, sempre nel cinismo, oltre alla pratica dell'estrema povertà come affermazione di completa autonomia, l'accettazione del dolore e dell'umiliazione sia come messa alla prova di se stessi che come felice accettazione del proprio destino. Appunto un sovrano sentirsi liberi da ogni bisogno, affermando la propria nuda "naturalità" anche con gesti che disgustano, scandalizzano e suscitano pubbliche repulsioni violente, ma che il cinico accetta così da ribaltare la situazione. Il miserabile Diogene poteva sfidare il potentissimo Alessandro dicendogli che era lui, Diogene, il vero re, discendente da Heracle (eroe indomito sempre combattente) e quindi da Zeus, non il sovrano macedone la cui potenza era condizionata e sempre rimessa in discussione. Ma oggi temo Che Diogene se si presentasse in tal modo a chi pensa di tenere la potenza del mondo non sarebbe nemmeno ascoltato, probabilmente rinchiuso in manicomio o in galera ancor prima di aprire la bocca. Anche la potenza ha subito una degradazione.
Acquario ha collegato la vera vita come un sentirsi in natura, in sintonia con la natura. Mi sa che dopo l'elezione di Trump con le sue prospettive in materia di sviluppo, sarà sempre più difficile viverla. E temo che un Diogene avrebbe poco successo con lui.
a prescindere da Trump, (di cui non mi faccio troppe illusioni,anche se credo che sia anche il momento storico a imporre comunque una sterzata diversa e necessaria)e' un dato di fatto innegabile e già da parecchio tempo che la vita che facciamo non ha più alcuna compatibilità con la "natura" e per come la intendo perlomeno io...a qualcuno piace?!..bho,puo darsi,a me per niente e credo che sia e sara' semplicemente la fine in tutti i sensi.penso che se Diogene si ritrovasse catapultato ai giorni nostri non verrebbe rinchiuso in un manicomio,non ve ne sarebbe manco bisogno perché e' già tutto un manicomio all'aperto :)
In generale, in tutto questo mi pare vi sia come un desiderio immediato di concretezza; che però è proprio quel che rende questa "vera vita" quanto di più astratto e impotente vi possa essere: una ricerca del reale svolta nell'immaginario.
E immediato qui vuol dire: slegato dall'altro.
Agli altri dico che non sono d'accordo. Troppa fatica correggere ogni singola posizione (Eraclito vedeva il logos come fuoco fisico.....ma stiamo scherzando vero?!???)
Tu Maral dici come scriveva Focault etc...
Devo ammettere che non capisco l'ultimo Focault, e trovo sospetto ogni tentativo che cerchi di recuperare valori dall'antichità.
Mi rimane da leggere l'opera di Sloterdijk su Nietzche("appunto perchè non possiamo che ritenerci cinici?"). (a parte che se devo pensare ad uno come il Diogene, in effetti la spettacolarizzazione, il voler far effetto a tutti i costi, mi ricordano certe forme della società dello spettacolo contemporanea, e quindi in questo senso e solo in questo, perchè la sottrazione al potere mi fa solo ridere, mi ricorda di qualche bonzo ubriaco buddista che va in giro a chiedere l'elemosina, l'unica sottrazione è la morte per inciso, quindi mi discosto pure dal monachesimo asceta proposto dal "mio" Agamben).
Comunque ammessa l'ingnoranza in materia, andiamo invece a leggere quello che scriveva Focault a partire dall'opera sulla "educazione sessuale", sul mondo antico.
Lui parte dal " conosci te stesso ", solo per poi andare avanti nei versi allessandrini, e scoprire che c'era anche scritto, "affinchè tu possa stare con gli altri".
Ricordo l'insistenza sulla figura morale di Marco Aurelio, e la sua arte dell'ascolto.
Eppure si finiva sempre a parlare della solita divisione dei compiti e delle recinzioni del sacro. I Lari, i Famili etc...
Tutte mimesi dell'unica verità del mondo antico, come ormai direi quasi tutti gli storici dell'antichità amettono, ossia la schiavitù.
Anche recentemente Cacciari ha parlato di una decina di anni della democrazia ateniese, prima dell'avvento dei 30 tiranni, etc....(un lasso piuttosto breve per avere tutta quella popolarità).
Insomma come dire, se la verità è quella del vivere nella polis, bè allora non c'è dubbio, che noi ci viviamo grazie allo sfruttamento del terzo mondo.
Direi quasi che è un falso problema, e quindi l'ennesima mimesi. (cattolica borghese etc..etc.. tanto vedo che da lì non ci si smuove).
D'altronde Trump è lì a testimoniarla. (anche se non mi torna minimamnete, visto che ha spiazzato i miei intellettuali di riferimento, ma a buon senso torna comunque visto che da noi in Italia con i fenomeni immigratori ormai va di moda).
Dovrebbe essere quella la pratica Maral? far finta di essere buoni cristiani, pregare, meditare, mentre il mondo continua a mutare, non solo singolarmente parlando, in quanto moriamo, ma anche geo-politicamente, in quanto il potere non è mai centralizzato, proprio perchè vuole essere centralizzato.(e non è che non incida nel "nostro morire").
No assolutamente rigetto le tue considerazioni, che anzi mi prendono anche leggermente stupito.
Io posso anche capire che il nichilismo sta prendendo tutti alla gola, ma secondo le previsioni scritte di Nietzche deve ancora venire.
Forse sarebbe il caso di analizzare se stessi un pò meglio, rispetto alla propria posizione rispetto al potere.
Ammettere che ne facciamo parte, magari inizierebbe anche a farci smettere di blaterare di religione come pratica. (direi che queste cose appartengono all'archeologia del sapere).
Come tutta la vita ha cercato di esprimere Sini, noi siamo all'interno di pratiche, non scegliamo mai una pratica. (a proposito sabato 19 è a Milano, spero di riuscire a parteciparvi, sono curioso di vederlo di fronte ad una platea pubblica, c'è il book festival, una 3 giorni piuttosto movimentata).
Nov 19 h 19:00
Fenomenologia della vita quotidiana e saperi del profondo
Lectio Magistralis con Carlo Sini
Filosofia e spiritualità
Circolo Filologico
Sala delle Colonne
via Clerici 10, Milano
Che direi anche in tema col 3d. Credo.
Sono con Zizek invece, il potere va combattuto al suo interno, accettando la sua dinamica gerarchica, che però nasconde molte verità, umane troppo umane, tutte ancora da scoprire.
Questo ammettendo che la verità sia quella pratica, ovvero del vivere assieme.
Se la verità deve essere spiritualità-materialità (foss'anco dialettica marxista) io mi taccio, d'altronde più che dire che Dio è morto, non posso. (morte della metafisica etc...)
Eppure ti assicuro Green che l'ultimo Foucault è in perfetta linea con il Foucault di "Storia della sessualità", "Storia della follia" e "Sorvegliare e punire": si tratta di partire dalla prassi come momento istituente la teoresi e non il contrario e in questo è in perfetto accordo anche con Sini (di cui cercherò anch'io di andare a sentire la lectio magistralis di domani, tra l'altro ho conosciuto personalmente Sini nel corso di alcuni incontri sul tema degli sviluppi attuali della biologia e ho avuto modo di discutere con lui per iscritto, una persona estremamente cordiale e disponibile al confronto, sempre disposto a rispondere in perfetta coerenza con il suo pensiero filosofico).
Perché la necessità di una filosofia fondata sulla prassi (una filosofia in primo luogo morale e politica quindi)? semplice, perché la metafisica ha concluso la sua via, la stessa metafisica che nasceva da Eraclito e da Parmenide, la metafisica fondata non sul fuoco fisico, ma sul logos (mi ha appassionato la lettura recente di "La parola e il silenzio" di Sini da cui ho tratto molto su riflettere) e sulla discussione pubblica. La morte della metafisica significa il trionfo del nichilismo? No, è la stessa metafisica che conduce al nichilismo come suo inevitabile esito, è la metafisica il terreno di cultura migliore del seme nichilistico e non il suo antidoto, dunque si parte dalla prassi, ma non una prassi metafisicamente istituita, assoluta, come vorrebbe un certo pragmatismo anglosassone, ma da una prassi concreta, una prassi che viaggia attraverso le sue forme storiche ed ermeneutiche, e in materia di prassi concreta i cinici furono maestri. Sono i performers della filosofia i cinici, intesa nella forma di "parresia": ossia del parlar franco fino ad agire per come si pensa, fino a provocare (anzi per provocare, secondo l'intento cinico) di modo da ricostituire quell'unità che sul piano del puro pensiero, del pensiero che galleggia su sovrumane altitudini, è fallita e nello stesso tempo proporre la propria "disgustosa" coerenza come pharmacon per tutti (la grande mania dell'Occidente, peraltro sempre ben poco coerente e quindi ben poco veritiero). Il cinico è padrone di sé, è libero perché povero e dunque dipendente da ogni altro, è sovrano perché è come Eracle, figlio di Zeus e sempre in combattimento, fino al suo ultimo istante di vita.
Nelle sue ultime lezioni, Foucault (se non hai letto "Il coraggio della parola" te lo consiglio, è piacevolissimo anche nello stile colloquiale) osserva che "parresia" è una forma di verità, diversa dalle altre: dalla verità profetica tipica del mito, dalla verità sapienziale tipica della teoresi filosofica, dalla verità tecnica tipica degli specialisti, dei professori e dei sofisti. La parola franca si esprime nella dimensione politica, rivolta alla polis e nella dimensione individuale, come faceva Socrate, scendendo in strada, interrogando tutti per chiedere cosa sapessero della verità. L'analisi di Foucault sulla parresia parte dai tre grandi dialoghi platonici sugli ultimi momenti della vita di Socrate, ma si sofferma particolarmente sul "Lachete", un dialogo molto significativo quanto apparentemente inconcludente in termini teoretici. Il problema da cui si parte nel "Lachete" è quello della giusta educazione dei figli, e, da questo tema, i protagonisti (Lachete, Nicia e Socrate) arrivano a discutere sul significato del coraggio senza arrivare a concludere nulla in merito, ma una cosa comunque si conclude: che Socrate, poiché è colui che più di ogni altro si dimostra capace di vivere coerentemente con quello che dice è colui che si occuperà dell'educazione dei figli di Lisimaco e dello stesso Lisimaco che aveva posto all'inizio il problema dell'educazione: Socrate infatti è coerente, la verità di Socrate sta nel come egli agisce e pratica, Socrate sa cos'è il coraggio perché lo ha dimostrato con le sue azioni, da soldato sul campo di battaglia e ora lo mostra con il suo parlar franco fino in fondo a ogni cittadino potente o miserabile che sia. I cinici porteranno alle estreme conseguenze questo medesimo assunto, lo porteranno in strada come filosofi di strada, scandalizzando con la loro verità esibita fino a cercare l'umiliazione pubblica e c'è molto del cinico nella figura dell'asceta e nella storia dell'ascetismo cristiano (la differenza la farà quando al coraggio della verità si sostituirà il dovere dell'obbedienza e al "mondo altro" e alla "vita altra" che il cinico indica praticandola, l' "altro mondo" e l' "altra vita" a cui il monaco aspira), c'è molto del cinico (e forse pure dell'asceta) in fondo nello stesso Nietzsche, nel suo Zarathustra che scende dalle vette tra gli uomini per venire deriso.
Come ho detto il cinico è un performer della verità, un clown o un buffone se vuoi, ma coerente con la rappresentazione che va giocando e in questa coerenza (coerenza dell'attore che agisce davanti a tutti per mostrare a tutti la verità non con la parola, ma con gli atti, sulla scena senza temere gli sberleffi che rilancia al pubblico, mostra cosa, una volta tramontata la metafisica, può ancora essere positivamente la verità: un puro atto di estrema coerenza con ciò che si è (così si diventa ciò che si è, dopotutto). E' in questo mostrare la verità dandole un corpo, il proprio corpo vivente, che il cinico disturba tutti quelli per cui, come scriveva Nietzsche nella sua visione degli ultimi uomini, basta un salutino alla mattina e uno alla sera, per il resto sperando sempre nella buona salute.
(lo immaginavo Green che ti avrei sorpreso con questo topic ... verità profetica la mia :) )
scritto ieri ;) (a proposito ho mancato Sini...non è proprio periodo per me),
Ho troppo rispetto di Focault, per metterlo in dubbio. In effetti lui aveva un coraggio ed una intelligenza fuori dalla norma.
Su Nietzche come cinico, in effetti mi pare una lettura che ci sta. (Sloterdjk ci ha fatto un libro mi sa).
La questione politica, Maral.
Ma certo! d'altronde in SINI il tema della parresia, mi sembra assai consono con quanto spesso ho sentito da lui, si sposa con quello educativo.
Certo mi sorprende, come mi sorprende l'apertura alle neuroscienze di Sini d'altronde.
Ma io non avrei problemi a parlare di nuove ascesi performanti. Il punto è che, 1) Non ho mai sentito Sini parlarne di una, nè tantomeno altri, anche chi sta dalle parte del giusto come Zizek.
Di performance ho solo udito quella di Sloterdjk "migliora te stesso", che immagino vada su quella scia.
Ma stando a Zizek, non c'è da sorprendersi.
Perchè la proposta, qualsiasi essa sia, rimane sempre all'interno delle infinite proposte.
Ma nella realtà storica essa si da SEMPRE come gerarchia. Per questo parlando ad alcuni amici 20enni, ho consigliato di bypassare la fase propositiva.
Ovviamente fallendo, ma questo proprio in base alle mie recenti acquisizioni di "vita" è dovuto al fatto che siamo all'interno del POTERE.
Quindi tornando a Zizek, al problema, che gli pose una ragazza, su come qualsiasi altra proposta rispetto al POTERE, non diventi esso stesso POTERE, rispose.
"la faccenda rimane aperta".
Rimane aperta perchè ripartendo da SCHMITT l'ideatore politico del nazismo, DEVE ripartire dal binomio AMICO-NEMICO.
Questione della teologia politica che non c'è, credo, in Focault.
Ossia si è stutturalmente dentro il POTERE.
Agamben avendolo studiato, propone allora di ripartire dalla ascesi del monaco, appunto come dici tu, passare come fece il cristianesimo dall'altro come EXEMPLA del cinico, all'ALTRO, inteso proprio come REGNO DEI CIELI.
Si tratterebbe di rifare la scala gerarchica all'incontrario, ripartire dall'animale, passando per gli angeli e infine arrivare al TRONO VUOTO.
Il punto è che l'animale è esattamente il totemico come scoperto da levi-strauss, quindi sta a freud come il totemico, il sacro nelle incredibili rivelazioni che Agamben scopre studiano le usanze di punizione nell'uso romano. Ossia come l'eccezione. Io pongo il sacro, proprio perchè tu lo rimuova. E' il segreto ormai di pulcinella per il filosofo competente. E' appunto lo STATO DI ECCEZIONE, che storicamente si esibisce per esempio in ITALIA con i governi tecnici, con MONTI e infine con RENZI (governi anticostituzionali, ma appunto, essendo sacrali quelli costituzionali, assai violabili, e nel trend del molto più inquietante guerrafondismo globale, sempre sull'orlo di esplodere, facendo finta vista i massacri in medioriente o in himalaya o in sri lanka, non sia già in atto.)
Dunque la vita è sacra e quindi noi la affoghiamo nel sangue.
(ovviamente anche angeli e trono vuoto hanno un loro percorso, assai terreno, però qui non ci interessa).
Ecco esattamente la parresia come potrebbe intervenire in questo che lacaniamente è una fantasmatica, cioè la tecnica fotocopia con cui giornalmente viviamo, ascoltando piacevolmente i vari tg e altri mezzi di disinformazione???
Non è certo con l'opposizione che se ne esce, vedi i casi del nazismo tedesco, del comunismo cinese, dell'imperialismo bolscevico (che nascono come movimenti CONTRO)
Quale franchezza insomma? se poi tutto degenera nella coppia AMICO-NEMICO? e quindi esisto solo come oppositore legalizzato a qualcosa????
Questa è la domanda onesta che si fa il metafisico professionista. A cui non rimane appunto che una costante lotta teoretica per smacherare la mimesi dello STATO DI ECCEZIONE, ALIAS DEL MASSACRO SU PIANO GLOBALE.
Il passaggio fondamentale, è non solo l'altrui posizione, ma anche la propria, verificare che non abbia risvolti utopici, controllare che non sia un ripiegamento paranoico etc...etc....
Un lavoro immenso che richiede che esista una comunità filosofica anzitutto.
Credo che in fin dei conti quello strano miscuglio che Zizek tenta di elaborare da anni a questa parte, mescolando filosofia e psicanalisi, sia in fin dei conti proprio questo tentativo, di anzitutto rendersi conto del proprio farsi e costituirsi come azione, PRIMA PRIVATA che PUBBLICA. (se no come fa ad esistere una comunità di filosofi?)
A proposito di Socrate, attenzione anche alle forme mica tanto celate di volontà di potenza!
Socrate fa il moralista perchè vuole detenere il potere sulla educazione. Platone addirittura sfocia in desiderio di TOTALE CONTROLLO DEL FILOSOFO di qualsiasi cosa che sia umana e forse anche extra tutto sommato.
Lo stesso Sini mi sembra pecchi in maniera evidente in questo forma di autocompiacimento, che invece un Nietzche aborriva in maniera sprezzante: la pedagogia.
(La quale pedagogia, è l'arma principale di valore "finto", dal vietnam dei khmer rossi, all'america imperialista, passando per lo stato etico fascista, con il risultato annesso della regola aurea dell'eccezione, con massacri di ogni genere ad ogni latitudine).
Insomma la mia sorpresa è legata più alla mia paura che qualsiasi parresia si sleghi, quando invece debba essere accompagnata, dal suo bell'impianto di controllo teoretico (pena la morte dello stesso sistema).
Purtroppo da quello che ne so rimane come "questione aperta" e dunque di nuovo METAFISICA.
Insomma sì partiamo da punti di vista differenti, ma sulla stessa, credo, altezza di visione. (quindi sicuramente in una visione critica rispetto al metafisico tradizionale, quello che diventa esso stesso POTERE, o conduce alla creazione del POTERE, sono assolutamente d'accordo),
Angelo Cannata ha scritto:
CitazioneIl mio sogno sarebbe che la spiritualità diventasse facoltà universitaria, con docenti specializzati che fanno ricerca su di essa. Credo che il mondo intero ne guadagnerebbe.
Pensando di farti cosa gradita, anche se con ritardo rispetto al tuo post, t'informo che la spiritualità come disciplina fa parte del corso di studi di teologia nella pontificia università Gregoriana, a Roma. Alcuni anni fa in tale università ho assistito ad un interessante convegno sulla spiritualità con la partecipazione internazionale di professori laici e clericali.Nella libreria locale puoi trovare anche i libri che ti necessitano.
A Roma anche nelle altre università pontificie c'è l'insegnamento dedicato alla spiritualità
Citazione di: altamarea il 21 Novembre 2016, 08:15:32 AM
Pensando di farti cosa gradita, anche se con ritardo rispetto al tuo post, t'informo che la spiritualità come disciplina fa parte del corso di studi di teologia nella pontificia università Gregoriana, a Roma. Alcuni anni fa in tale università ho assistito ad un interessante convegno sulla spiritualità con la partecipazione internazionale di professori laici e clericali.Nella libreria locale puoi trovare anche i libri che ti necessitano.
A Roma anche nelle altre università pontificie c'è l'insegnamento dedicato alla spiritualità
Io parlo di spiritualità indipendente da qualsiasi religione o credenza.
Angelo Cannata ha scritto:
CitazioneIo parlo di spiritualità indipendente da qualsiasi religione o credenza.
La spiritualità è indipendente da qualsiasi religione. Come argomento di studio è insegnato da docenti universitari nelle pontificie università e non nelle università statali. I professori della materia che ho conosciuto io erano laici, in particolare donne.
Citazione di: altamarea il 21 Novembre 2016, 21:11:30 PM
La spiritualità è indipendente da qualsiasi religione. Come argomento di studio è insegnato da docenti universitari nelle pontificie università e non nelle università statali. I professori della materia che ho conosciuto io erano laici, in particolare donne.
Quella insegnata alla Gregoriana non è indipendente dalla religione: lo dicono loro stessi con chiarezza nel loro sito:
http://www.unigre.it/struttura_didattica/Spiritualita/index.phpove si dice:
"L'intento dell'Istituto di Spiritualità è quello di abilitare le persone ad essere testimoni autentici e significativi del Vangelo".
Mi sorge un dilemma: che differenza c'è fra Diogene e un punkabbestia? Entrambi sono per l'anarchia, vivono di espedienti in condizioni simili ad animali, disprezzano le convenzioni sociali, sono scabrosi, insultano chi non la pensa come loro o non gli da ciò che chiedono. È per me come un rompicapo, perché io stesso nutro ammirazione per Diogene e repulsione per i punkabbestia? Forse perché il primo è un'idealizzazione di un uomo vissuto duemila anni fa in condizioni particolari e questi me li ritrovo nel presente fra i piedi e devo evitarli perché mi irritano profondamente? Ammetto di sentirmi un po' confuso al riguardo. Forse perché il primo aveva una posizione ideologica e il secondo è invece più interessato all'aspetto pratico della sua condizione, che gli consente di vivere come un parassita. È ciò che è stato contestato ai cinici successori del movimento che proprio per questo si estinse, venendo relegato ad "arte di masturbarsi in pubblico".
Però faccio fatica a fare una netta distinzione, probabilmente perché qualcosa mi sfugge.
Citazione di: cvc il 24 Novembre 2016, 08:39:40 AM
Mi sorge un dilemma: che differenza c'è fra Diogene e un punkabbestia? Entrambi sono per l'anarchia, vivono di espedienti in condizioni simili ad animali, disprezzano le convenzioni sociali, sono scabrosi, insultano chi non la pensa come loro o non gli da ciò che chiedono. È per me come un rompicapo, perché io stesso nutro ammirazione per Diogene e repulsione per i punkabbestia? Forse perché il primo è un'idealizzazione di un uomo vissuto duemila anni fa in condizioni particolari e questi me li ritrovo nel presente fra i piedi e devo evitarli perché mi irritano profondamente? Ammetto di sentirmi un po' confuso al riguardo. Forse perché il primo aveva una posizione ideologica e il secondo è invece più interessato all'aspetto pratico della sua condizione, che gli consente di vivere come un parassita. È ciò che è stato contestato ai cinici successori del movimento che proprio per questo si estinse, venendo relegato ad "arte di masturbarsi in pubblico".
Però faccio fatica a fare una netta distinzione, probabilmente perché qualcosa mi sfugge.
E' un dilemma interessante, ma a cui non so rispondere se non che ci sono più di duemila anni di distanza tra un Diogene e un punkabbestia e una differenza enorme di contesti e quindi di significati. Di Diogene sappiamo ben poco, a parte qualche aneddoto resta una figura quasi leggendaria, i cinici li conosciamo soprattutto attraverso le parole di altri, epicurei e stoici, in particolare Epitteto che traccia un profilo del cinico ideale, dal punto di vista di uno stoico ovviamente. In realtà, come fa notare Foucault, gli atteggiamenti dei cinici sono sempre risultati socialmente repulsivi: la povertà estrema perseguita come valore, la ricerca dell'umiliazione pubblica, il vivere di elemosina (cosa considerata per un greco dei tempi estremamente disonorante, quanto la schiavitù), la sporcizia del corpo (poi ripreso come valore da un certo ascetismo cristiano, ma in un'ottica ben diversa) e soprattutto l'atteggiamento indisponente, fino alla provocazione più irritante fatta per mostrare l'irrilevanza di qualsiasi posizione socialmente riconosciuta, la messa in luce della falsità di qualsiasi gerarchia sociale e il concetto di natura intesa come pura animalità. Tuttavia la filosofia dei cinici, quelli alla Diogene, era basata sul "cambiare la moneta", per mostrarne la vera faccia. Non so se i punkabbestia siano guidati dal medesimo intento o, piuttosto, dalla considerazione del fatto che nessuna moneta ha valore, quindi non ha senso né il cambiarla né il conservarla, giacché ogni esistenza partecipa del suo fondamentale essere niente, non essendoci proprio alcuna verità che è poi la verità che aleggia sotto il fondamentale nichilismo dei tempi attuali. Forse Diogene non si trovava ancora a fare i conti con il nichilismo e poteva ancora immaginarsi e praticare un modo diverso di vivere e agire come qualcosa che fa differenza in valore, anziché una sottostante completa e radicale indifferenza per tutto. O forse un punkabbestia incarna l'unico modo possibile per essere coerentemente cinico nei tempi attuali.
La vera vita a riferimento della verità.
L' argomento è interessante e sinceramente contavo su un intervento di Memento che ha dimostrato in altre occasioni di poter esprimere quello che sostanzialmente sarà la base del mio discorso. L' argomento riguarda da vicino il terzo saggio di Genealogia della morale che ho incominciato ad approfondire nell' attesa di affrontarlo più avanti nel mio post su Nietzsche.
La teoria di Nietzsche sul filosofo dell' antichità ( greca e indiana soprattutto ) riguarda proprio questa aurea di ascetismo di cui si rivestivano, o meglio in cui era necessario che credessero per rendersi credibili. E' sempre molto difficile riuscire ad avere un occhio particolare sul passato perché purtroppo viene sempre filtrato da una serie di disinformazioni e incomprensioni derivate da cattiva gestione dei significati ( a volte purtroppo voluta ) del passato da parte del sistema in cui si vive e che ha tutto l' interesse che ciò avvenga.
Il comportarsi in un certo modo, esercitare terrore e rispetto al loro apparire era indispensabile per rendersi non solo credibili ma anche accettabili. Era un mondo diverso, dove il pensare contava poco e ripeto per molti versi molto difficile da figurarsi tanto da avere una visione veritiera del momento storico. Veritiera nel senso che abbia una certa parvenza di approssimazione alla realtà storica di quel periodo. E questo al di là di quale fosse la base del loro pensiero e quindi della loro filosofia.
La vita vera per certi versi era l' unico modo in cui il filosofo asceta poteva presentarsi. Per molti versi non aveva scelta.
Ai giorni nostri, come in altri periodi storici recenti e non, alcune volte questo fenomeno si è ripresentato, con una differente possibilità di credibilità. Ma ai giorni nostri soprattutto, questa credibilità è quasi nulla. Appaiono ogni tanto in televisione questi scimmiottatori del personaggio aderente alla propria filosofia il cui unico risultato è quello di generare e provocare ironia ed ilarità. Personalmente rido sempre di gusto al loro apparire.
Altra cosa sarebbe l' auspicarsi che il filosofo viva la vera vita, e cioè il contesto del suo pensiero, in prima persona, facendosi anima e corpo portatore del suo pensiero filosofico. E forse c' è chi lo fa. Ma nel contesto storico in cui viviamo non fa notizia e perciò destinato a rimanere nell' oblio.
Ringrazio della cortese attenzione.
Garbino Vento di Tempesta.
Citazione di: Garbino il 30 Novembre 2016, 10:16:54 AM
.....
Ai giorni nostri, come in altri periodi storici recenti e non, alcune volte questo fenomeno si è ripresentato, con una differente possibilità di credibilità. Ma ai giorni nostri soprattutto, questa credibilità è quasi nulla......
Interessante la questione della credibilità.
Ascoltavo tempo fa per esempio una dottoranda alla scuola platonica di Parigi, dove per riappropriarsi dell'etico si tirava in ballo la questione della Vergogna.
Ossia portare chi sbaglia alla gogna mediatica, o all'epoca coram populum. (e di conseguenze alla cancellazione della propria credibilità).
Ancora Zizek sull'ultima elezione di Trump invita a ragionare sulla svolta epocale del turpiloquio portato a DISCORSO PUBBLICO. Ossia il disvelamento dell'opposto a cui credevano gli antichi.
Zizek è concorde con la questione del politically correct almeno nel discorso pubblico, per ragioni psicanalitiche, in cui il vero nascondendosi può tornare a galla successivamente. (l'opposto come vedete della ricetta cinica).
Il punto è che nessuno che non siano gli studiosi di Schimt (o Agamben) riesce a intendere è la questione del gerarchico.
La questione del gerarchico nasconde le insidie della paura e le insidie della paura generano razzismo e turpiloquio.
Quando uno se fa vessillo siamo di nuovo punto e capo nella storia dei fascismi. (benchè sia d'accordo con l'esitante Zizek, viste che effettivamente tragedie storiche sono sempre avvenute, Trump rimane un paper-tiger, un mostro solo sulla carta, per esempio il muro con il messico, è già diventato il giorno dopo "solo una metafora").
Quindi rieccoci a livello storico alla questione vexata, i greci si basavano sulla schiavitù, la loro parresia era solo un politically correct, non per far emergere qualcosa di nuovo democratico, ma semplicemente per difendere i loro sollazzi e piaceri vari.
Mi piace il paragone con i punkabestia, esattamente come loro, il cinico era persona libera, là dove i primi sono "figli di papà". La maschera nasconde sempre la gerarchia, anche il cinico si basava sullo schiavo, e questo è tutto.
Per un processo democratico, o meglio per un ripensamento del rapporto con l'Altro, bisogna fare molto di più di così.
Al di là della questione politica, però Garbino sono interessato a sapere se ti sei già fatto una idea del rapporto prassi-teoria.
Sei anche tu con Maral, o pensi come me che sia la teoria a dover controllare la prassi? e non la teoria derivare dalla prassi (perchè sennò Maral, se la gente è veramente quello che è, il razzismo diventa legalizzato, e non protetto dalla netiquette).
Non l'ho capito bene dal tuo intervento, in quanti parli semplicemente di portare avanti la proprio filosofia.
Già ma quale? uno dei problemi (tanti) del mondo filosofico contemporaneo.
Più che una filosofia, penserei che si debba portare avanti qualche attività.
Trovo che un'attività importante che oggi è trascurata è proprio ciò che si fa qui: il forum, il confronto, il dibattito, la discussione.
Per me è sintomatico osservare che questo è praticamente il solo forum in Italia, con un minimo di frequentazione, pur sempre scarsissima a mio parere, in cui si prova ad affrontare dibattiti un po' impegnativi. Mi sembra che le cose non vadano meglio a livello mondiale: per quello che sono riuscito a trovare, oggi in tutto il mondo esiste un solo forum filosofico con un minimo di attività: http://forum.philosophynow.org. Una volta esisteva anche http://forums.philosophyforums.com, ma a quanto pare è stato vittima, da alcuni mesi, di hackers e ora è a pezzi.
Al contrario, sono frequentatissimi in tutto il mondo i social network specializzati in messaggi ultracorti, che significano massimo sforzo di evitare (o far evitare) l'uso del cervello.
Da questo punto di vista si potrebbe notare che i forum sono nati, insieme alla filosofia, in Grecia.
Trovo importante inoltre osservare che questa è una gravissima carenza della scuola: la scuola, cioè, coltiva il rapporto maestro-studente, ma non fa nulla per insegnare a portare avanti dibattiti, critiche, cioè il rapporto studente-studente, che dopo la scuola diventa rapporto cittadino-cittadino.
Così penso che un'attività importante che potrebbe essere coltivata sarebbe non solo il tipo di contenuti di cui discutere qui, in questo forum, ma un lavoro per rendere il discutere in sé, questo forum in sé, un piacere apprezzato, appetibile.
La vera vita a riferimento di verità.
Sono diversi giorni che rifletto sulla domanda di Green Demetr sul rapporto prassi-teoria, e non ho trovato la benché minima possibilità o angolo prospettico che permetta di inquadrarlo anche nel campo etico. A me sembra che il rapporto prassi-teoria sia indispensabile in campo logistico, dove appunto si ha una situazione od un oggetto statico che è organizzato in un certo modo e che perciò corrisponde ad una prassi e che razionalmente si cerca di migliorare, o nel caso di un determinato problema si elabora un intervento che lo possa risolvere. Ma in campo etico si ha un oggetto che nel suo agire presenta un diverso numero di variabili di cui alcune superano in importanza proprio il rapporto prassi-teoria ( ad esempio l' istinto ).
Solo ciò che non ha storia è definibile. Questa frase di Nietzsche ha, a mio avviso, una valenza enorme sull' argomento. Mio caro Green, l' errore in cui si incorre, in cui sono incorsi quasi tutti i filosofi e in cui incorriamo anche noi pensatori, è di pensare che dal momento che noi affrontiamo la vita in un certo modo ciò sia possibile per chiunque. Ma non è così!! La maggior parte delle persone non pensano filosoficamente. I motivi non hanno importanza in questa sede. Ma questa è la realtà. Ed inoltre noi pensatori siamo spesso dell' opinione di riuscire a controllare il nostro modo di vivere grazie all' intelligenza e alla razionalità non rendendoci conto che è anch' essa un' illusione.
Del resto se la teoria potesse controllare la prassi si sarebbe già arrivati ad un modo migliore di gestire lo stato grazie anche al contributo di molti filosofi. Nel caso invece che tu intendessi chiedermi su quale sia la più auspicabile, non v' è dubbio che non ci si può esprimere neanche su questo. La teoria non può controllare la prassi ma neanche la prassi controlla né la teoria né sé stessa. L' uomo rimane un oggetto talmente sconosciuto e del tutto indefinibile che qualsiasi possibilità di applicare il rapporto prassi-teoria al campo etico cadrebbe nel vuoto.
Io vorrei che tu ti concentrassi proprio sull' opera di Nietzsche che tu ammiri tanto, quell' Umano troppo umano, da cui trasuda quasi ad ogni parola l' incontrollabilità dell' essere umano, un essere in cui l' orgoglio fuorvia incessantemente la possibilità di avere un approccio veritiero con ciò che viviamo.
A livello personale ritengo che bisogna innanzitutto essere fortunati ad avere una discreta intelligenza, intuizione e capacità razionale. Che si abbia la possibilità di coltivarle. Di giungere al cospetto di quale sia l' importanza del conoscere. E grazie al conoscere cercare di diventare ( come mi sembra pensi anche Maral ) ciò che si è. Cosa che sinceramente è molto difficile. Ma anche una delle tante affermazioni con cui concordo pienamente con Nietzsche.
I rischi sono molti, ma non è che essi svaniscano se la pensiamo in modo diverso. Ad esempio tutti sanno che il crollo della sicurezza, sia economica che fisica, del ceto medio porta quasi sempre ( ma toglierei il quasi ) a dittature, e su questo concordo con Cacciari. Ma tu vedi qualsiasi forza politica che si renda conto di quello che sta accadendo? Sia mai. Loro vedono il popolo solo come una massa da condizionare affinché lo stato sia possibile e con ciò anche il persistere del loro potere e privilegi. Altro non esiste. Sono ciechi che annaspano in cerca di un modo soltanto per rimanere a galla. Hanno uno sguardo strabico questi politici. Non vedono al di là de loro naso. Il problema c' è, è enorme e loro non si preoccupano. Non lo vogliono vedere.
Questo per dire che noi possiamo fare qualsiasi cosa per avvertire di quale siano i rischi che concernono la situazione socio-politico-economica attuale, eppure nessuno ti sente, nessuno si preoccupa. Senza poi dimenticare a ciò che si sta facendo al pianeta, al progressivo dissolversi delle sue risorse. E questo quando scienziati, o meglio persone che si ritengono scienziati, dicono che ci dobbiamo abituare a vivere in queste condizioni perché indietro non si torna. Il che è tutto dire.
Grazie della cortese attenzione.
Garbino Vento di Tempesta.
Citazione di: Angelo Cannata il 01 Dicembre 2016, 13:29:25 PMPiù che una filosofia, penserei che si debba portare avanti qualche attività. Trovo che un'attività importante che oggi è trascurata è proprio ciò che si fa qui: il forum, il confronto, il dibattito, la discussione. Per me è sintomatico osservare che questo è praticamente il solo forum in Italia, con un minimo di frequentazione, pur sempre scarsissima a mio parere, in cui si prova ad affrontare dibattiti un po' impegnativi. Mi sembra che le cose non vadano meglio a livello mondiale: per quello che sono riuscito a trovare, oggi in tutto il mondo esiste un solo forum filosofico con un minimo di attività: http://forum.philosophynow.org. Una volta esisteva anche http://forums.philosophyforums.com, ma a quanto pare è stato vittima, da alcuni mesi, di hackers e ora è a pezzi. Al contrario, sono frequentatissimi in tutto il mondo i social network specializzati in messaggi ultracorti, che significano massimo sforzo di evitare (o far evitare) l'uso del cervello. Da questo punto di vista si potrebbe notare che i forum sono nati, insieme alla filosofia, in Grecia. Trovo importante inoltre osservare che questa è una gravissima carenza della scuola: la scuola, cioè, coltiva il rapporto maestro-studente, ma non fa nulla per insegnare a portare avanti dibattiti, critiche, cioè il rapporto studente-studente, che dopo la scuola diventa rapporto cittadino-cittadino. Così penso che un'attività importante che potrebbe essere coltivata sarebbe non solo il tipo di contenuti di cui discutere qui, in questo forum, ma un lavoro per rendere il discutere in sé, questo forum in sé, un piacere apprezzato, appetibile.
Primo: ti ringrazio dei link. Sono attualmente iscritto a "philosophyforums" e niente non riesco nemmeno a fare il login. Pensavo che mi avessere espulso per inattività però ho notato che hanno oscurato completamente le discussioni, quindi ora è finito. L'altro non lo conoscevo.
La filosofia (quella vera) è attività, dibattito, confronto, chiarificazione di dubbi, porsi domande. A mio giudizio in questi termini la "vita a riferimento della filosofia" è una vita bellissima ma veramente faticosa e richiede sacrifici. E mi pare che pochi siano disposti a seguirla, purtroppo.
Citazione di: Garbino il 09 Dicembre 2016, 17:53:48 PMLa teoria non può controllare la prassi ma neanche la prassi controlla né la teoria né sé stessa.
In linea di principio non si può non essere d'accordo.
Credo che però ci siano dei difetti di impostazione, che consentono di spiegare il risultato fallimentare.
Si parla di controllo, cioè volontà di potenza. E meno male che questo controllo non è possibile. Cioè, la domanda risulta fallimentare perché si basa su un sostrato di mentalità alla greca, cioè totalizzante. Il senso sottinteso infatti mi viene a risultare questo:
La teoria non può controllare
totalmente la prassi ma neanche la prassi controlla
totalmente né la teoria né sé stessa.
Se cominciamo a pensare in termini non greci, quindi senza pretese di totalizzazioni, certo, si perde il piacere seducente della speranza di controllo totale, ma si guadagna in vicinanza all'esperienza e in fattibilità.
La teoria non può controllare la prassi, ma può influire su di essa. E viceversa. Parlare di influsso invece che di controllo presuppone già in sé l'idea di parzialità. Non dobbiamo buttare nella spazzatura le cose parziali, solo perché sono parziali, anche perché in questa vita non abbiamo altro che parzialità.
Una volta impostato il discorso in questi termini, si aprono molte prospettive: non si può fare tutto, ma qualcosa si può fare. È come il lavoro di continui perfezionamenti che si fa in molti campi, ora mi piace pensare alla Formula uno: non c'è verso di fabbricare dall'oggi al domani un'auto che vada a duemila chilometri orari, però, se ci si accontenta di centimetri orari, qualcosa di può fare: una limata qui, un aggiustamento là, un pneumatico leggerissimamente modificato ed ecco l'auto che ti fa due centimetri orari in più, ma quei due centimetri ti creano emozione e ti fanno vincere una gara. Due centimetri oggi, mezzo centimetro domani, e intanto con la pazienza e col tempo si ottengono risultati impressionanti, che sembravano impossibili.
Secondo me lavorare con la filosofia, proprio in vista di provocare piccoli influssi su se stessi, quindi anche sulla propria prassi, vale la pena, in base allo spirito che ho descritto: poi i risultati nella prassi si vedono e riescono a sconvolgere il mondo, anche se non si tratta degli sconvolgimenti che avevamo pensato, ma di altri tipi di sconvolgimenti, che in precedenza non sapevamo immaginare. Idem se proviamo a lavorare sulla prassi.
Citazione di: maral il 13 Novembre 2016, 23:51:26 PM
La verità filosofica, già in Platone, si presenta non solo come corrispondenza formale istituita dal logos tra ciò che si dice e la realtà, ma anche sulla coerenza che trova la parola del filosofo con la sua vita, nella misura in cui essa si presenta come vera vita. Come dice Michel Foucault nelle sue ultime lezioni, la vera vita assume un'importanza fondamentale per alcune scuole filosofiche che svilupperanno meno il loro impianto teorico ontologico per soffermarsi sugli aspetti esistenziali e morali, in particolare l'Epicureismo e lo Stoicismo, ma soprattutto i Cinici per i quali il tema della "vera vita" diventa fondamentale e portato alle più estreme e provocatorie conseguenze: la filosofia si fa con il proprio stile di vita, con i propri atti ben più che con i discorsi.
Questo principio diventerà però filosoficamente sempre meno praticato, la "vera vita" assumerà con il cristianesimo una connotazione religiosa, anche se debitrice delle idee filosofiche che l'hanno preceduta e la filosofia si indirizzerà verso un'argomentazione sempre più formalmente oggettiva, finché lascerà il campo della verità alla scienza moderna, per la quale il tema della "vera vita" non determina alcunché rispetto al valore oggettivo di verità di una teoria scientifica che si considera del tutto indipendente dai comportamenti dello scienziato - soggetto che la enuncia.
La verità, aletheia, per i Greci è ciò che si presenta non nascosto, non modificato, diritto e immutabile e la vera vita è enunciata secondo questi stessi principi: la vita vera (come il vero amore) non dissimula, non presenta ombre, non è corrotta, mantiene la sua direzione diritta senza disperdersi, è una vita retta che evita i perturbamenti senza cedere ai vizi e che mantiene immutabile la propria identità, perfettamente padrona di se stessa, libera e autonoma. E' una vita che richiede il coraggio di sostenerla, sempre posta in sfida per risultare esemplare senza nulla nascondere.
In tempi in cui le verità metafisicamente stabilite dalle teoresi mostrano la loro inesorabile decadenza, mi chiedo se questo ideale della "vera vita" (quale dovrebbe essere la vita del filosofo) possa venire a costituire un nuovo punto di riferimento che invita a fare filosofia con i propri atti e le proprie prassi ben più che con i propri discorsi e se i termini in cui gli antichi ravvisavano la vita come vera possono essere assunti ancora oggi.
Temo che parli la nostalgia,ovvero il disprezzo verso il presente,in questo tuo discorso: in realtà una "filosofia degli atti" costituirebbe un regresso e un pericolo mortale per la vera filosofia,mentre quella supposta se ne andrebbe in giro nelle piazze e di fronte al grande pubblico a dimostrare che il suo fare vale più di mille ragioni e di discorsi su di esso. Ma con un atto non si dimostra alcunchè. E chi sa a quali presunti esaltati possessori di verità daremmo in mano il diritto di stabilire quel che è giusto e quel che è sbagliato sulla base delle loro azioni. È stato necessario un processo lungo millenni e numerose scuole di pensiero solo per arrivare a mettere a punto delle metodologie,in tutti i campi del sapere,che frenassero la tendenza a accettare le prime impressioni e ad affidarsi a intuizioni personali,ed è questo e SOLO questo che chiamiamo Scienza,e vorremmo tornare a credere alle doti predittive di nuovi santoni. Pensavo che su questo punto fossimo un po' più accorti.
Oltretutto Maral,mi fai partire questa tua riflessione dai Greci,proprio da coloro che prima di tutti posero i presupposti del sapere scientifico. I Greci poi adoravano il teatro,la grande mimica e le belle parole,l'estetica e la semplicità delle forme quale bene più alto. Mentre il significato che dai alla parola
aletheia sembra porsi in antitesi a ciò che è esteriore; forse per i Greci il disvelamento è qualcosa di totalmente diverso da come potremmo concepirlo noi,forse per loro è il momento in cui l'eroe entra in scena e pronuncia la sua battuta migliore,in cui l'uomo si fa più stupendamente espressivo e la realtà pittoresca. Non andrebbe quindi inteso come la rivelazione di un senso (in chiave cristiana),ma come perfetta sintesi estetica della propria interiorità.
Cari Garbino e Angelo (o tutti quelli intervenuti sul 3 del lavoro).
Guardare al proprio giardino di prassi è esattamente ciò che la teoria che tiene conto della prassi sconsiglia di fare.
Ovviamente Garbino sono d'accordo con quello che scrivi, ed è proprio grazie a quelle notazioni che la mia idea di teoria riguarda da vicino le prassi.
E' esattamente quel meccanismo per cui il soggetto che è senza lavoro non capisce che è vittima di un sistema più grande di lui, e che di conseguenza vive le sue vicende con senso invariabile di impotenza e colpevolezza, il cui mix quando le condizioni siano insormontabili portano al suicidio.
Eppure aveva ben pensato al suo giardino, non è bastato, lo spazio pubblico se ne infischia e vola sereno sulle centinaia di morti, che idealmente calpesta irriverente ogni giorno.
La riverenza sarebbe invece quello spazio pubblico dove i desideri si incrociano come desiderio ANCHE dell'ALTRO.(e quindi mi permetto di dire di implementazione di se stessi, di diventare se stessi)
La soppressione della gente è veramente un toglimento alle possibilità del politico. E dà vita ahimè alla politica (rappresentanza gerarchica del politico).
Ovviamente il politico si misura solo nella storia. Ma nel campo delle facili previsioni, se non vi è un teorico che ripensi lo spazio pubblico (LA FILOSOFIA non trovate?) COME politico, non si va inevitabilmente ad alimentare il perverso funzionamento dell'ideologia (tecno-capitalista), e delle sue manifestazioni (società dello spettacolo, del consumismo e liquida).
La prassi è il dialogo pubblico. La sua controparte è il populismo.
Nel senso proprio che il dialogo pubblico se non implementato da una FILOSOFIA CHE DICE IL VERO. (non le sciocchezze sul lavoro come dignità)
vira verso le sciocchezze della dignità del lavoro.(ossia una riproposizione della gerarchia servo-padrone).
Lacan l'aveva pure profetizzato il nuovo problema a cui la filosofia psicanalitica dovrà rispondere sarà il LAVORO RENDE LIBERI (appeso come monito all'ingresso di uno dei campi di sterminio.)
Non è questione del lavoro. la questione è del simbolico. perchè se non vi è una teoria che ne renda conto, allora un altra teoria ne farà le veci.
Quello che ci terrei a sottolineare è che non esiste una prassi senza che il fedele di quella prassi sia convinto della giustezza della stessa PRESUPPONENDO che c'è gente dietro che ci ha studiato e che la teorizza possibile e per "il meglio"-
No! sto con Focault che anzitutto è stato uno dei primi a capire la gerarchia sulla scorta della genealogia della morale di Nietzche.
Ma non sto con lui nel credere che sia la prassi a parlare per se stessa. Infatti ogni prassi è informata da una teoria.
Se la verità sta nel dire che il lavoro nobilita l'uomo, io francamente sarei perplesso, infatti chi lavorava per davvero nell'antichità erano gli schiavi.
Ci vuole una serie rivoluzione teorica che trascini le masse. Per questo sono convinto che i tempi siano acerbi, infatti ancora esiste una chiesa e ancora esiste un capitalismo, e Nietzche ha profetizzato per noi che entrambi tramonteranno.
Per quel che vedo il capitalismo usa il cristianesimo e il cristianesimo usa il capitalismo come Severino ha spiegato molto bene, perciò questa simbiosi sta veramente bloccando questo tramonto.
Citazione di: memento il 11 Dicembre 2016, 00:20:36 AM
Temo che parli la nostalgia,ovvero il disprezzo verso il presente,in questo tuo discorso: in realtà una "filosofia degli atti" costituirebbe un regresso e un pericolo mortale per la vera filosofia,mentre quella supposta se ne andrebbe in giro nelle piazze e di fronte al grande pubblico a dimostrare che il suo fare vale più di mille ragioni e di discorsi su di esso. Ma con un atto non si dimostra alcunchè. E chi sa a quali presunti esaltati possessori di verità daremmo in mano il diritto di stabilire quel che è giusto e quel che è sbagliato sulla base delle loro azioni. È stato necessario un processo lungo millenni e numerose scuole di pensiero solo per arrivare a mettere a punto delle metodologie,in tutti i campi del sapere,che frenassero la tendenza a accettare le prime impressioni e ad affidarsi a intuizioni personali,ed è questo e SOLO questo che chiamiamo Scienza,e vorremmo tornare a credere alle doti predittive di nuovi santoni. Pensavo che su questo punto fossimo un po' più accorti.
Oltretutto Maral,mi fai partire questa tua riflessione dai Greci,proprio da coloro che prima di tutti posero i presupposti del sapere scientifico. I Greci poi adoravano il teatro,la grande mimica e le belle parole,l'estetica e la semplicità delle forme quale bene più alto. Mentre il significato che dai alla parola aletheia sembra porsi in antitesi a ciò che è esteriore; forse per i Greci il disvelamento è qualcosa di totalmente diverso da come potremmo concepirlo noi,forse per loro è il momento in cui l'eroe entra in scena e pronuncia la sua battuta migliore,in cui l'uomo si fa più stupendamente espressivo e la realtà pittoresca. Non andrebbe quindi inteso come la rivelazione di un senso (in chiave cristiana),ma come perfetta sintesi estetica della propria interiorità.
Non credo di aver parlato di santoni o di una accettazione acritica di suggestioni di verità, l'esatto opposto.
Santoni sono semmai coloro che predicano di assoluti: logici, empirici o mistici, ma comunque feticci di cui richiedono l'adorazione incondizionata, senza alcun riscontro nella prassi coerente delle loro concrete esistenze, santoni sono quelli della teoria perfetta, del "fate come dico, ma non come faccio". E trovo anche sorprendente che proprio Platone, padre del misticismo ideologico, proponga non solo nel "Lachete", ma anche nei dialoghi che trattano la morte di Socrate, la figura di un Socrate la cui verità è comprovata da ciò che dimostra di fare vivendo e morendo e di questa salutare coerenza alla fine rende grazie ad Esculapio.
Semmai la nostalgia per la superstizione la nutre chi ancora crede che la teoresi dei principi possa risolvere tutto, a priori, come in una formula matematica, chi pensa (scienziato o logico o metafisico che sia) che basti la definizione del principio, la regola e chi ingabbia la complessità del reale nelle sue formulette oggettive con cui crede di poter controllare perfettamente un mondo in oggetto, come se lui nulla centrasse con questo oggetto, come se lui, il mondo, lo vedesse tutto intero da fuori per come è, da un fuori che dove sia non si sa proprio, tanto sta in alto per consentire così vasti panorami.
Questi della Verità con la maiuscola assomigliano a quei buoni missionari gesuiti andati a predicare tra gli indios contro i loro feticci superstiziosi, carichi di santini e reliquie.
Forse non sappiamo granché dei Greci, forse li confondiamo con quello che siamo diventati noi partendo da loro, perché siamo noi ad avere il culto dell'eroe, l'eroe che risolve tutto e tutto finisce bene. In realtà il primo e fondamentale personaggio della tragedia greca fu il coro, mentre dai nostri drammi sempre più penosi e assurdi il coro è scomparso, restano solo voci scompaginate in cui ciascuno si crede l'assoluto incontestabile protagonista e qui di sicuro tutta la macerata interiorità cristiana ha combinato i suoi grandi sfracelli.
Ma forse ancora oggi è possibile sentire che un atto d'amore vitale vale infinitamente di più di qualsiasi teoria che definisca l'amore (magari come una sorta di incresciosa nevralgia nell'abituale conto delle convenienze) e la vita (magari come prodotto di una sequenza genomica), proprio come nel "Lachete", l'atto di coraggio di cui Socrate si è dimostrato capace sul campo di battaglia vale infinitamente di più di qualsiasi teoria sul coraggio che pretenda di definire razionalmente, come il risultato oggettivo di un conto esatto con tanto di "prova del nove" per star sicuri, cosa sia il coraggio e cosa no. Basta farlo vedere nel modo concreto di condurre la propria esistenza a chi ha gli occhi per vederlo (letteralmente: "
aletheia", verità).
Citazione di: green demetr
Sei anche tu con Maral, o pensi come me che sia la teoria a dover controllare la prassi? e non la teoria derivare dalla prassi (perchè sennò Maral, se la gente è veramente quello che è, il razzismo diventa legalizzato, e non protetto dalla netiquette).
Perché secondo te Green la teoria da dove nasce? O non nasce? E' scritta da sempre nell'alto dei cieli?
Le teorie nascono dalle prassi e generano nuove prassi facendosi a loro volta prassi (modi di fare). Il problema (o meglio la benedizione) è che da sempre dai genitori nascono figli che i genitori non si aspettavano, prodotti da molteplici intrecci sui quali nessun controllo è mai stato possibile, anche se il tentativo di garantire il controllo è sempre presente con tanto di istitutori e governanti che volentieri si offrono. E a volte dal modo di vedere le cose che ha prodotto un Obama può persino nascere (terrore e meraviglia!) il modo di vedere le cose che produce un Trump.
Alla fine tutti siamo sempre quello che siamo, comunque la si cerchi di mettere o di nascondersela.
Il paradosso del nostro tempo, se così si può dire, è che l'allargamento quantitativo di conoscenza ha delineato più confusione che non certezze, anzi abbandonando quest'ultime.Ne ha perso la qualità.
Sia la prassi che la teoria sono andate in crisi.
In un tempo nostro, in cui è limitata la percezione umana sensoriale, è limitato il nostro cervello e quindi anche il nostro pensiero, diventa difficile dire quale cosa è più importante di un'altra ,da cui fondare una teoria che rispecchi le attuali conoscenze filosofiche e scientifiche.Che poi vuol dire, da cosa partiamo, dov'è la verità da cercare, di che cosa abbiamo fiducia, e cosa ha costruito la nostra fiducia?
E' inevitabile che una metafisica separata dalla vita vissuta umana come una spada,nell'epoca delle scoperte e delle tecnologie scientifiche, appaia quanto meno fuori dal tempo, obsoleta si direbbe tecnicamente.
Allora la prassi mette in crisi il concetto e viceversa.
Personaalmente ritengo che esista sia la materia che il pensiero e fra loro un sistema di relazione.,
Se la pratica, vale a dire le conoscenze empiriche, scientifiche mettono in crisi il pensiero è altrettanto vero che comunque il pensiero è quella modalità che ci permette di avere una sintesi delle pratiche senza la quale non potrremmo mai avere quel sistema di relazione che ci permette di categorizzare la natura fisica e non fisica.
Quindi ritengo che non possa essere separato il cielo e la terra, detto metaforicamente, perchè noi esistiamo in mezzo a loro.
Forse, e per me è così, bisognerebbe accettare la sfida che la contemporaneità ci pone, cercare di riallineare teoresi e prassi conoscendo i pensieri già dati dalla storia dai filosofi.Vale a dire facendo tesoro dei loro concetti, ma andando avanti, perchè manca una teoria prassi del futuro. Per far questo bisogna ripensare le categorie fisiche e mentali del pensiero, come dire, riuscire a innovare il pensiero ma dentro una tradizione che è esperienza a sua volta vissuta. Si tratta di ripensare e riflettere e c' è necessità quindi di confronto e dialogo