Cercavo una definizione filosofica di oggetto e di soggetto.
Mi è caduto l'occhio su questa definizione:
Nella grammatica italiana il soggetto è una cosa o una persona che compie un'azione.
Per cui il soggetto può anche essere una cosa, quindi in definitiva un oggetto. Non c'è modo di differenziare il soggetto e l'oggetto in modo rigoroso. Se un oggetto compie un'azione diventa il soggetto, mentre l'oggetto è chi subisce l'azione.
Filosoficamente, invece, in che termini il soggetto si differenzia dall'oggetto?
(sempre che esista una differenza filosofica)
Salve a te, Il_Dubbio. Naturalmente la filosofia non può utilizzare linguaggi diversi da quelli correnti di utilizzo e significato generale.
Poi, al suo interno, alcuni termini hanno significati poco o tanto diversi da quelli del linguaggio corrente e che potremmo definire di gergo filosofico, ed altri che sono invece esclusivi di tale disciplina.
Per quanto riguarda distinzione e significato di "soggetto-oggetto" tali termini hanno una interpretazione univoca sia dentro che fuori della filosofia.
"Soggetto" è colui che compie un'azione (cioè interpreta un ruolo attivo) ed è sempre una persona. Una cosa non può mai chiamarsi soggetto (infatti una cosa materiale potrà venir chiamata "oggetto materiale" e mai "soggetto materiale") perchè le cose non compiono azioni. Al massimo "generano degli effetti" oppure "sono causa di .......".
"Oggetto" è ciò che subisce le conseguenze dell'agire, e, per via del suo significato e ruolo passivo all'interno dell'evento, può essere sia una persona (tizio è stato fatto oggetto di un lancio di pomodori) che una cosa, un ente, una qualsiasi 'entità ad eccezione dell'Assoluto e (per chi vi crede) di Dio.
Attenzione : non so se tu creda nella Bibbia o nei Vangeli. Io no, e non prendo mai per oro colato neppure quello che sta scritto nel più prestigioso dei dizionari.
Presumo che la distinzione sia nata in seno alla filosofia nel momento in cui bisognava distinguere il mondo cosi com'è dal mondo cosi come è conosciuto dal filosofo. Per cui la distinzione nascerebbe solo perchè uno dei due "oggetti" del mondo pretende di conoscere l'altro. Ma questa attitudine alla conoscenza non mi sembra una vera e propria azione in senso rigoroso.
In realtà etimologicamente e anche dal punto di vista grammaticale "soggetto" significa qualcosa di assai diverso rispetto al significato universalmente e comunemente impiegato, che denota di fatto ignoranza dell'etimologia e del vero significato. In realtà "SOGGETTO" deriva da "sub-iectum", che significa " essere gettato sotto, essere posto in posizione subordinata". In posizione subordinata rispetto a che cosa? Rispetto al verbo! Infatti è il verbo il centro vero della frase a cui tutto è subordinato e attorno a cui tutto ruota. La definizione di soggetto come "colui che compie l'azione" è falsa anche perché il soggetto nella forma passiva del verbo è "colui che subisce l'azione", quindi come puoi vedere la definizione comune non rispecchia la vera realtà del soggetto nella grammatica.
In filosofia, invece, le cose stanno diversamente e quindi in quel caso il soggetto è veramente ATTIVO: la parola soggetto indica la persona che conosce e sperimenta la realtà, mentre l'oggetto è ciò che viene conosciuto: la passività del soggetto della grammatica viene capovolta quindi in un soggetto attivo, che conosce, vede, tocca e sperimenta.
Nella storia del pensiero vi furono poi interessanti evoluzioni nel concepire il rapporto tra soggetto ed oggetto: nella filosofia medievale la conoscenza non è altro se non "adeguatio intellectus rei" (adattamento della ragione alla realtà), il che vuol dire che esisterebbe un mondo oggettivo, autentico, esterno al soggetto che conosce e la ragione deve quindi adattarsi a tale verità esterna. Poi, da Cartesio in avanti passando per Kant e per finire con Husserl, ecco che il soggetto non si limiterebbe a conoscere, ma anche a costruire la realtà in base a criteri interni, come sono le forme a piori kantiane: la realtà esterna non sarebbe altro che una costruzione del soggetto e quindi la stessa conoscenza sarebbe costruita. Si parla per questo di rivoluzione copernicana kantiana della filosofia, poiché il centro della conoscenza non è più l'oggetto, ma il soggetto che conosce.
Si potrebbe esplorare la seguente particolare via, da considerare non come l'unica o la migliore, ma semplicemente come una prospettiva, che secondo me è interessante e si lascia intravedere come feconda:
il soggetto è ciò a cui un essere umano pensa quando pensa a sé stesso.
Da qui consegue che il concetto di soggetto non potrà mai essere trasferito in un computer: un computer può essere istruito in modo da manifestare comportamenti simili, o addirittura identici, a quelli di un essere umano; altro però è imitare, altro essere: per quanto un computer possa riuscire ad imitare un essere umano, al punto da rendere impossibile distinguerlo da un essere umano, gli mancherà l'essenziale: essere strutturalmente, meccanicamente, basato su un DNA umano. Un computer non potrà mai "capire" in che modo un essere fatto di DNA umano percepisce il suo essere soggetto, il suo pensare a sé stesso.
Poi osserverei che tutta la filosofia, e perfino tutte le religioni e le spiritualità, si potrebbero considerare come vie per andare in modi sempre migliori, ricchi, o diversificati, verso il soggetto.
A questo punto trovo sintomatico ciò che ha scritto Socrate78: "In posizione subordinata rispetto a che cosa? Rispetto al verbo!". Solo che poi lui ha preso la piega di adeguarsi alla filosofia. Ma la filosofia si evolve, può essere sottoposta a critica. In questo senso, potremmo sospettare che effettivamente la filosofia si è illusa nel ritenere il soggetto come parte attiva. Possiamo sospettare che la parte attiva sia davvero il verbo.
In questo senso un soggetto non è altro che un modo particolarissimo, esistente in quest'universo, di percepire, sperimentare, il realizzarsi di un verbo fondamentale: "Io esisto". A questo punto potremmo perfino sospettare che il termine "io" sia un inganno proprio nel suo essere pronome, che rinvia a qualcosa di esistente. Cioè, possiamo sospettare che la vera natura di ciò che intendiamo con "io" risieda non in un essere soggetto, ma in uno sperimentare un verbo. Detto in maniera più forte e perfino provocatoria, c'è da sospettare che "io" non sia propriamente un pronome, ma un verbo. Non esiste percezione di "io" dove non c'è un DNA umano vivente.
Io sono un verbo, il soggetto è un verbo, ciò che ci costituisce, che ci permette di dire "io", è un accadere, non è una sostanza.
Parlare in questi termini è simile a quando in fisica sospettiamo che la materia non sia altro che un tipo particolare di onda, un tipo particolare di energia. In questo senso non esisterebbero oggetti fisici, entità soggettive, io sussistenti, ma solo onde, cioè azioni, accadimenti, verbi.
Questo discorso mi seduce perché mi si collega alla mia passione per il camminare: io sono un camminare, un accadere. È un grande inganno sostantivare il verbo e metterci un articolo, dicendo "l'essere", come se col verbo essere fosse possibile indicare un oggetto: "questa cosa è un essere", "io sono un essere". Quando diciamo "io sono un essere" non ci stiamo accorgendo di dire un'altra cosa profonda e molto più vera di ciò che pensiamo: "io sono un essere" significa io sono un verbo, un accadere, non un'entità. In questo senso la spiritualità è un cammino di attenzione al nostro essere verbi, azioni, accadimenti, quindi anche divenire di relazioni.
Significa che anche Cartesio, dicendo "Cogito, ergo sum", cioè "Penso, dunque sono", non si accorse che la sua frase conteneva praticamente soltanto verbi; il fatto che il soggetto "io" fosse sottinteso è sintomatico: è bene che sia sottinteso perché in realtà non esiste, se non nel realizzarsi dei verbi "penso" oppure "sono".
Però Angelo Cannata il tuo discorso non condurrebbe all'obiezione di Hobbes a Cartesio secondo cui il verbo, l'agire non esaurisce l'essere? Hobbes disse che non si può dire "Penso, quindi sono una sostanza pensante", perché altrimenti si dovrebbe anche dire "Io cammino, quindi sono una passeggiata".
Ciò che ho inteso dire viene ad essere che Hobbes non si accorse che ciò che lui riteneva un assurdo, utile per dimostrare l'assurdità del procedimento di Cartesio, era invece profondamente vero. La frase "Io cammino, quindi sono una passeggiata" può essere considerata la profondissima verità da esplorare: non esisto io come materia, né come spirito, che cammino; esiste solo un accadere di un passeggiare. Io sono l'accadere di un passeggiare; quindi, sì, io sono una passeggiata, anzi, meglio, un passeggiare.
Salve. Per Il_Dubbio : l'attitudine alla conoscenza non è una vera e propria azione in senso materiale, ma io dicevo che il soggetto è colui che compie un'azione OPPURE INTERPRETA UN RUOLO ATTIVO, ed in questo caso certo la conoscenza richiede un ruolo attivo da parte del soggetto.
Citazione di: viator il 03 Febbraio 2018, 17:48:53 PM
Salve. Per Il_Dubbio : l'attitudine alla conoscenza non è una vera e propria azione in senso materiale, ma io dicevo che il soggetto è colui che compie un'azione OPPURE INTERPRETA UN RUOLO ATTIVO, ed in questo caso certo la conoscenza richiede un ruolo attivo da parte del soggetto.
Avere un ruolo attivo mi pare un po' troppo generico. Una biglia colpisce un'altra biglia. La prima biglia ha un ruolo attivo rispetto alla seconda.
Al limite potremmo trovarci di fronte ad una biglia "progammata" per colpire biglie di un certo colore, o programmata per attivarsi ad un certo orario oppure biglie che in modo random colpiscono altre biglie in modo casuale. La biglia programmata ha certamente un ruolo attivo, ma è pure sempre un oggetto che compie un'azione.
Essere programmati per conoscere il mondo non è esattamente un'azione . Diventa un'azione solo nel momento in cui si compie l'azione di osservare il mondo. Nel momento in cui si osserva il mondo si entra in contatto con esso. Lo scambio tra l'oggetto osservato e l'oggetto osservante è motivato dal programma.
Il programma diventa la causa dell'azione che muove uno dei due oggetti. Pensare però che l'oggetto programmato sia il soggetto dice poco. Anche una mela che cade da un albero è programmata dalle leggi della fisica per muoversi e magari colpire la testa (oggetto) di un ignaro passante.
insomma, come lo scambio delle tesi fra cannata e socrate (piu sopra) "Io cammino, quindi
sono una passeggiata"
a me non fa per nulla piacere di essere una passeggiata, ma che altro offre la filosofia? Non mi pare niente di piu se no cose prese a prestito dalle religioni o da teorie nelle quali si predilige l'idea che la coscienza sia una realtà fondamentale dell'universo e no solo un epifenomeno della materia. Quindi la coscienza come un programma simile alle leggi fisiche fondamentali e che sembrano i soli ad essere a fondamento dell'evolversi dell'universo.
@Il dubbio: Neanche a me fa molto piacere essere una passeggiata, e ancora peggio per l'essere altre azioni più "volgari" relative ad altri verbi! ;D
Senza offesa per Hobbes, ma "penso, quindi sono una sostanza pensante" equivale piuttosto a "cammino, quindi sono una sostanza camminante", non "una camminata" ;)
Meglio ancora, direi sono un "camminente", un ente che cammina (e non posso essere un "passeggiare" perché il verbo richiede sempre un soggetto logico, anche quando è grammaticalmente impersonale: il "passeggiare" presuppone un soggetto indefinito, ma non assente... il camminare è sempre camminare-di-qualcuno, altrimenti chi cammina? ;D ).
Capisco le esigenze della grammatica, ma la filosofia possiede la capacità di mettere in questione la grammatica. Inoltre possiamo pensare a come in grammatica si sia stati costretti a creare l'idea di "verbi impersonali" per venire incontro a esigenze di pensieri senza soggetto. Si pensi ad esempio alla frase "sbagliando s'impara": essa è del tutto priva di soggetto, al punto che si è stati costretti ad introdurre in grammatica il concetto di forme del verbo "impersonali". È la grammatica che deve adeguarsi alle esigenze del nostro pensiero; l'adeguamento del pensiero alle esigenze della grammatica può essere semmai uno strumemto di comodo, senz'altro utile, ma non c'è ragione di considerarlo criterio da cui non poterci sottrarre.
Non a caso distinguevo il piano logico da quello grammaticale: la necessità del soggetto è logica (e filosofica) a prescindere dalla grammatica, dove "impersonale" non significa privo di soggetto logico, bensì con un soggetto indefinito (ma logicamente presente, seppur implicito).
Quando dico "sbagliando, si impara" il soggetto logico c'è: è come dire "quando qualcuno sbaglia, impara".
Altrimenti, domando: chi sbaglia, se non un presunto soggetto generico?
Lo sbagliare, come il camminare, presuppone un soggetto logico che sbagli, anche se la grammatica non lo esplicita. D'altronde, che significano "sbagliare" e "camminare", se non sono associati ad un possibile agente logico (sia esso umano, animale o cibernetico)? Riusciamo davvero a pensare ad un camminare-senza-un-camminatore, per quanto indefinito?
Vediamo cosa succede ponendo la questione nei termini seguenti.
Si potrebbe pensare che un soggetto non può esistere se non è soggetto di qualche verbo, fosse come minimo il verbo essere, esistere. Sappiamo tutti che in grammatica l'essenziale per avere una frase di senso compiuto è il verbo; se ne potrebbe dedurre che anche a livello di pensiero sia impossibile pensare un soggetto qualsiasi se non come soggetto che compie un'azione, come minimo l'azione di esistere.
Questo ci potrebbe far sospettare che ogni soggetto non sia altro che il localizzarsi, nello spazio e nel tempo, dell'esistere universale. L'esistere universale sarebbe composto da tanti "esistere" particolari.
Ci si può chiedere quali possano essere i vantaggi di una concezione del mondo fatta di soli verbi senza soggetti.
Anzitutto una semplificazione generale di tutti i pensieri, non più sdoppiati o triplicati da soggetti, verbi, oggetti, complementi: tutto unificato a soli verbi.
Il "tutto scorre" di Eraclito diverrebbe estremamente logico e intuitivo: ci fu bisogno di lui proprio perché il pensiero era sdoppiato e triplicato come ho detto sopra; in un pensare di soli verbi non ci sarebbe stato bisogno della scoperta di Eraclito: sarebbe stata considerata troppo scontata, già pensata, già parte del pensare di tutti.
Si semplificherebbero tante questioni sull'esistere, soprattutto riguardo a enti uguali (due atomi possono essere uguali, ma non sono lo stesso atomo; perché? Perché sono due localizzazioni diverse dell'estere come atomo) e ancora di più riguardo al mistero della nostra autocoscienza: cos'è il mio sentirmi io? Nient'altro che un effetto della localizzazione dell'esistere come uomo.
Sparirebbe un sacco di problemi metafisici riguardo alla composizione dell'essere: materia, forma, sostanza, anima, corpo, essenza, spirito, sarebbero nient'altro che stratagemmi mentali per risolvere i problemi creati dal pensare soggetti separati dal loro verbo.
Si tratta comunque di idee che sto provando ad esplorare, non di chiarezze dimostrabili o sostenibili con argomentazioni decisive.
Citazione di: Socrate78 il 03 Febbraio 2018, 10:24:16 AMIn realtà etimologicamente e anche dal punto di vista grammaticale "soggetto" significa qualcosa di assai diverso rispetto al significato universalmente e comunemente impiegato, che denota di fatto ignoranza dell'etimologia e del vero significato. In realtà "SOGGETTO" deriva da "sub-iectum", che significa " essere gettato sotto, essere posto in posizione subordinata". In posizione subordinata rispetto a che cosa? Rispetto al verbo! Infatti è il verbo il centro vero della frase a cui tutto è subordinato e attorno a cui tutto ruota. La definizione di soggetto come "colui che compie l'azione" è falsa anche perché il soggetto nella forma passiva del verbo è "colui che subisce l'azione", quindi come puoi vedere la definizione comune non rispecchia la vera realtà del soggetto nella grammatica. In filosofia, invece, le cose stanno diversamente e quindi in quel caso il soggetto è veramente ATTIVO: la parola soggetto indica la persona che conosce e sperimenta la realtà, mentre l'oggetto è ciò che viene conosciuto: la passività del soggetto della grammatica viene capovolta quindi in un soggetto attivo, che conosce, vede, tocca e sperimenta. Nella storia del pensiero vi furono poi interessanti evoluzioni nel concepire il rapporto tra soggetto ed oggetto: nella filosofia medievale la conoscenza non è altro se non "adeguatio intellectus rei" (adattamento della ragione alla realtà), il che vuol dire che esisterebbe un mondo oggettivo, autentico, esterno al soggetto che conosce e la ragione deve quindi adattarsi a tale verità esterna. Poi, da Cartesio in avanti passando per Kant e per finire con Husserl, ecco che il soggetto non si limiterebbe a conoscere, ma anche a costruire la realtà in base a criteri interni, come sono le forme a piori kantiane: la realtà esterna non sarebbe altro che una costruzione del soggetto e quindi la stessa conoscenza sarebbe costruita. Si parla per questo di rivoluzione copernicana kantiana della filosofia, poiché il centro della conoscenza non è più l'oggetto, ma il soggetto che conosce.
Condivido l'opportuno richiamo alla distinzione fra le due accezioni semantiche dell' idea di "soggetto". Al contempo, messe le cose in un certo modo, le due accezioni non sarebbero di per sé necessariamente in reciproca contraddizione: l'idea di "ciò che soggiace" sembra rimandare ad un carattere di passività, ma può anche specificarsi come concetto di "substrato", ciò che definisce l'ente in quanto sostanza. Sulla falsariga dello schema aristotelico delle categorie (per quel che poco per cui mi pare di averlo compreso...), l'idea di "substrato" definisce la categoria principale, quella di "sostanza", nella quale l'ente viene posto come un "per sé", come l'invariante unitaria a cui si riferiscono le varie categorie accidentali, che invece costituiscono dei predicati che non hanno esistenza autonoma e che sono reali solo se riferite all'ente inteso come "sostanza", cioè substrato e soggetto. In questo contesto cade la contrapposizione semantica tra soggetto come "attivo" e soggetto come "substrato", in quanto anche nella seconda accezione lo "stare sotto" avrebbe un senso più che altro metaforico e figurato, lo "stare sotto" gli accidenti, ma non nel senso di un subirli passivamente, bensì di esserne la base necessaria. Invece, costituendo il carattere di sostanzialità e dunque di autonomia, il soggetto come "substrato" sarebbe ciò che definirebbe l'ente come esistenza autonoma, e dunque capace di entrare in connessioni causali reali col mondo, cioè l'essere attivo: le due accezioni finirebbero così non più nell'escludersi ma nell'implicarsi.
Per quanto riguarda il discorso più storico... l'idea della conoscenza come costruzione soggettiva la vedrei come propria dell'idealismo immediatamente postkantiano (Fichte, Hegel), ma non lo vedo come un risultato necessario dalle premesse della critica kantiana, che invece (anche se per me in modo che mi lascia delle perplessità) mantiene comunque una distinzione tipicamente realista tra "fenomeno" e "noumeno", e pone come momento originario della conoscenza l'esperienza sensibile, precedente l'attivazione delle categorie soggettive (per quanto cieca e incomprensibile senza esse). La fenomenologia husserliana, anzi, la trovo come rafforzativa dell'aspetto realista di autonomia dell'oggetto... fino dal considerare come fattore trascendentale e costitutivo della coscienza l'intenzionalità, per la quale essendo la coscienza sempre coscienza "di qualcosa", l'oggetto più che produzione secondaria del soggetto diviene un "contropolo" necessario al costituirsi stesso del soggetto, oppure dagli studi sulla "sintesi passiva" per la quale l'Io non crea arbitrariamente ma forma i suoi schemi percettivi sulla base degli stimoli esterni di oggetti che "colpiscono" l'attenzione dell'Io orientandola a evidenziare un senso delle cose che è preesistente agli schemi percettivi soggettivi. Al di là del discorso specifico sulle singole correnti, penso che il grande merito critico della modernità, quello di far precedere ogni ontologia dall'analisi critica delle strutture conoscitive del soggetto pensante, non necessariamente determina la riduzione dell'oggetto di conoscenza all'attività mentale del soggetto, bensì è aperto anche ad ammettere un livello di autonomia della realtà oggettiva, fintanto però che tale autonomia non viene posta dogmaticamente (realismo ingenuo), ma viene riconosciuto come fattore necessario per possibilità di una conoscenza e di un pensiero soggettivo stessi, cioè ciò da cui l'indagine ha preso piede, e questo ciò che andrebbe definito "realismo critico", riconoscimento della realtà dopo però essere passato per il filtro metodologico dell'autocoscienza
Citazione di: Phil il 04 Febbraio 2018, 17:01:10 PMRiusciamo davvero a pensare ad un camminare-senza-un-camminatore, per quanto indefinito?
Più che riuscirci, si potrebbe notare che vi siamo obbligati. Possiamo parlare di camminatore distinto dal camminare solo nella misura in cui pensiamo di poter individuare qualcosa che permane nel tempo. È questo infatti che ci rende possibile dare un nome alle cose: l'impressione di una loro permanenza nel tempo. Il problema è che è solo un'impressione, derivata da un modo superficiale, nient'affatto accurato, di osservare le cose. Sappiamo infatti che più andiamo a fondo nell'osservazione di ogni cosa, più osserviamo un continuo divenire. Questo ci costringe a concludere che, in ultima analisi, come ho detto, possiamo assegnare nomi alle cose solo grazie ad una misura di trascuratezza del loro divenire. Dov'è allora il camminatore, se ogni attimo sappiamo che ci è del tutto impossibile individuare che cosa di lui è rimasto uguale rispetto a un attimo prima? In questo senso risulta più accurato ammettere che in realtà tutti i nomi, quindi sia tutti gli oggetti che tutti i soggetti, sono in realtà dei verbi, poiché, alla nostra osservazione che si sforzi di essere accurata, ciò che risulta più evidente è un divenire, mentre risulta falso pensare di riuscire ad individuare alcunché di permanente.
L'istinto a parlare di nomi, piuttosto che di verbi, deriva dal nostro istinto a predare nei modi meno dispendiosi, proprio come i leoni predano i bufali adottando i metodi che richiedono loro il minimo dispendio di energie. L'approssimazione è senz'altro un ottimo sistema per orientarci nel mondo senza perderci in mezzo a tutte le sue complessità.
Citazione di: Angelo Cannata il 09 Febbraio 2018, 23:19:38 PMSappiamo infatti che più andiamo a fondo nell'osservazione di ogni cosa, più osserviamo un continuo divenire. Questo ci costringe a concludere che, in ultima analisi, come ho detto, possiamo assegnare nomi alle cose solo grazie ad una misura di trascuratezza del loro divenire. Dov'è allora il camminatore, se ogni attimo sappiamo che ci è del tutto impossibile individuare che cosa di lui è rimasto uguale rispetto a un attimo prima? In questo senso risulta più accurato ammettere che in realtà tutti i nomi, quindi sia tutti gli oggetti che tutti i soggetti, sono in realtà dei verbi, poiché, alla nostra osservazione che si sforzi di essere accurata, ciò che risulta più evidente è un divenire, mentre risulta falso pensare di riuscire ad individuare alcunché di permanente.
Concordo, ciò che consideravamo "essere" a ben guardare è solo un'illusione.
Tuttavia questo "divenire" non può più allora essere inteso come cambiamento di "qualcosa". Perché il qualcosa, inteso come ciò che "permane", non ha alcuna reale consistenza: nulla davvero permane.
E se nulla permane... nulla neppure può divenire.
Abbiamo qui il possibile superamento della scissione soggetto/oggetto, del nostro stesso "esserci".
Che comporta il ripensamento di quale significato dare a ciò che accade.
Anche il soggetto è messo in discussione, perché pure il "Penso quindi sono" cartesiano è da intendersi, secondo me, come: "Penso quindi
ci sono". In quanto anche il pensare è manifestazione dell'esserci, ossia scissione soggetto/oggetto.
Secondo me, queste considerazioni portano inevitabilmente a domandarci cos'è che conta davvero in questa nostra vita. Cosa vale davvero?
E penso che si possa dare una sola risposta: il Bene.
Un Bene che ben difficilmente potrà essere "trovato" nell'incessante fluire di eventi, ma che può essere solo ricercato in noi stessi. Che Dio sia, dipende solo da noi.
Anch'io ritengo che abbia importanza la ricerca del bene. Situato però in questo discorso, viene a trattarsi di un bene che è critico nei confronti di sé stesso, non può trattarsi di un bene oggettivo. Si tratta quindi di ciò che volta per volta la nostra soggettività, in mezzo ai propri inganni e alle proprie illusioni, sente come bene. Trattandosi di illusione, l'importanza di cercarlo non consiste nel suo essere bene, ma nel suo essere impulso gestibile, un impulso comunque presente, che può meritare di essere gestito. Il fatto che si tratti di illusione credo che fornisca una traccia importante su come gestirlo: conviene gestirlo come miglioramento, cioè in senso dinamico. Che questo dinamismo sia del tutto inutile è un dubbio senza importanza, perché in quanto dubbio radicale non potrà mai giungere a certezza.
Nella mia visione miglioramento viene a coincidere con ciò che uso chiamare crescere, oppure camminare, progredire, evolversi, cercare, insomma non è altro che la spiritualità, spiritualità umana.
Una volta pervenuti a ciò, credo che si possa guadagnare un ulteriore elemento: un modo ottimale di gestire il bene, o migliorarsi, o camminare, è quello di lavorarci su, cioè mettersi a tavolino e cominciare a progettare, progettare una gestione ottimale sia di esso, della sua ricerca, sia della relativa critica.
Da qui poi credo che segua un'altra conseguenza ovvia: ognuno caratterizzerà questo lavoro in base alle proprie inclinazioni personali e gran parte del tempo potrà essere impiegato nell'arricchirci a vicenda, grazie allo scambio di esperienze sui campi di ricerca del bene in cui ognuno ha preferito specializzarsi. È il camminare insieme.
Ciò può essere in parte un semplice prendere atto di ciò che già da sempre l'umanità fa nel mondo, ma ci sono anche importanti peculiarità. Trattandosi, ad esempio, di un lavoro a stretto contatto con la critica, si abolisce il fanatismo, il fondamentalismo, l'adesione a certezze che, in quanto tali, non sono altro che abolizione della critica.
Questo abolire il fanatismo potrebbe suonare male, potrebbe essere sentito come ciò che Ratzinger chiamò "dittatura del relativismo", ma a me sembra che egli abbia semplicemente fatto un gioco di prestigio con le parole: relativismo significa libertà e l'abolizione del fanatismo verrebbe a significare obbligare tutti ad essere liberi; un obbligo che il suo stesso contenuto non può che smentire il suo essere obbligo inteso come limitazione.
Credo che la stessa cosa possa essere espressa anche in questi termini: cercare in continuazione, insieme, nel nostro convivere planetario, il massimo di possibilità per il maggior numero di persone e per la loro maggiore diversità.
Anche per me il relativismo è un punto di partenza imprescindibile nella ricerca della Verità.
Anche se può sembrare paradossale, è proprio il relativista colui che manifesta l'autentica fede.
Ritengo che vi sia molta confusione riguardo al relativismo, viene confuso con il nichilismo.
Ma il nichilismo vive invece nel cuore di chi crede di possedere, di aver compreso anche solo in parte, la Verità.
Di modo che, sotto ogni dichiarazione di "verità assolute", non importa se religiose, scientifiche, politiche, si cela il convincimento nichilista: niente ha valore, tutto è nulla.
Ma la pretesa di conoscere la Verità, in qualsiasi forma avvenga, non è altro che superstizione. Anche il nichilismo.
Penso che la strada verso il Bene, debba necessariamente passare attraverso lo svuotamento di noi stessi.
La rinuncia a noi stessi, il distacco, sono necessari affinché "ciò che è" possa manifestarsi.
Secondo me il relativismo é la pretesa che qualsiasi affermazione (anche affermazioni reciprocamente contraddittorie!) é vera (é comunque "una" verità) quanto qualsiasi altra.
Ben diversamente dallo scetticismo, che é dubbio circa qualsiasi affermazione (che potrebbe essere vera o falsa).
Si tratta di due reciproci contrari "quasi perfetti", per esprimere il concetto con un pacchiano ossimoro: da una parte tutto può (parimenti) essere vero, ossia può essere vero -e si può ben credere "lecitamente" con certezza- "di tutto e di più", dall' altra parte tutto può essere falso (oltre che vero), e dunque é degno di dubbio, é incerto "di tutto e di più".
Immagino si tratti solo di intenderci sui termini.
Il termine "relativo" mi pare indichi già di per se stesso la relatività di ogni possibile "verità".
E non la accettazione di ogni "verità"...
Di modo che ritengo corretto intendere con "relativismo" il rifiuto di ogni "verità assoluta". Come d'altronde così è inteso in ambito filosofico.
Lo scetticismo altro non è che relativismo.
Viceversa, l'accettazione di ogni verità implica ben altro atteggiamento. Che è senz'altro nichilistico.
Ossia consiste nell'indifferenza nichilista verso qualsivoglia valore. Per il nichilismo, tutto è nulla.
I portatori di "verità assolute" accusano il relativismo dei propri stessi difetti.
E infatti lo assimilano al "nichilismo". Mentre è proprio il nichilismo l'autentica origine del pensiero assolutista.
Il relativista, proprio in quanto rifiuta ogni "verità assoluta oggettiva" e allo stesso tempo si ritrova comunque fare scelte morali, è costretto a ricercare il Vero, ben sapendo di non poterlo mai possedere.
Questa è l'unica autentica fede: fede nella Verità.
Viceversa, le verità assolute, proclamate in sostanza come rimedio al nichilismo sono l'opposto della fede (così come la medesima "verità nichilista"). Esse sono solo superstizione, ossia pretesa di conoscere la Verità.
Certamente si tratta di intendersi sui termini.
E poiché in generale si può sbagliare in due modi, "per eccesso o per difetto" (o, come si diceva ai bei tempi della mia gioventù fra di noi militanti "stalinisti" -quale io ostinatamente rimango anche da vieux babacu, per la cronaca- "si può deviare a destra oppure a Sinistra"), é chiaro che chi tende a peccare di dogmatismo tende a tacciare chi é nel giusto di "relativismo" o "nichilismo" e chi tende a peccare di "relativismo nichilistico" (per così dire) tende a tacciare chi é nel giusto di "dogmatismo".
A me pare comunque che di fatto non pochi dichiarati relativisti (qualcuno dei quali anche qui nel forum) tendano a dare del relativismo stesso un' interpretazione "tendente al nichilismo", per così dire, come da me da me accennata.
D'altronde, mi sembra davvero difficile mantenere un'effettiva posizione relativista.
E' molto duro non lasciarsi tentare da una "verità" a cui aggrapparsi oppure cedere e abbandonarsi al nichilismo (che offre anch'esso una "sua" verità).
Non di rado la mia fede si fa incerta. A volte tutto sembra dimostrare che questa fede non è altro che una mera illusione.
E così il mio cuore tentenna tra il fissare una verità positiva e finalmente credere!, o il cedere al nichilismo.
E' come se tutto il destino dipendesse da me e allo stesso tempo appare in tutta evidenza la mia nullità...
Il nichilismo è comunque una sfida, che sono convinto debba, prima o poi, essere affrontata.
E' lo sguardo della Medusa che richiede una risposta.