Nel precedente topic "Oltre Cartesio" facevo una domanda, a cui molti di voi hanno gentilmente risposto. Resto del parere che siamo ancora immersi nel modello cartesiano, ovvero in un modello potentissimo di uso strumentale del mondo materiale ai nostri fini. Cartesio è stato un grande filosofo. Lungi da me volerlo minimamente criticare (cosa di cui non sarei neanche capace, visto che di lui ho letto solo "de relato"). E' stato il pensatore che ha visto con lucidità quali forze immani si stavano scaraventando contro il mondo e come lo avrebbero modificato ed ha cercato di razionalizzare quel flusso di idee, culture, scoperte, liberando l'umanità dai lacci e dalle catene mentali e materiali del mondo medievale.
Ma quel modello è un modello che, a fin di bene, ha sovradimensionato la parte tecnico-ordinativa del nostro agire a scapito di tutto il resto. La conclusione è la seguente: se il mondo può essere "usato" come "oggetto", posso altresì usare anche la natura e i suoi tesori, come oggetto, gli altri esseri viventi, come oggetto e infine anche i miei simili posso ridurli ad oggetto, e in conclusione posso "oggettificare" anche i miei sentimenti, che ridurrò ad una loro pietosa caricatura.
Ma prima che queste considerazioni affiorino, il '600 e il '700 scorrono sulla cresta dell'onda di questo pensiero tecnico-scientifico e più il tempo passa e meno ci si deve preoccupare di processi inquisitoriali, al punto che nel '700 si poteva criticare aspramente la Chiesa, senza essere minimamente perseguiti, ed anzi, riscuotendo applausi durante gli incontri nei salotti di Parigi.
Ma con Rousseau la fede nelle magnifiche sorti del progresso scientifico, iniziano a incrinarsi e tanto più si incrineranno in Germania. Dopo Kant una nuova generazione di pensatori ritiene il pensiero oggettivante che risale a Cartesio, come un peso, un pericolo, una fallacia destinata a generare dolore.
Hegel è colui che proverà a superare il modello cartesiano. E lo farà anticipando in modo sorprendente alcuni attuali teorie neuroscientifiche così come alcune teorie psicologiche.
Il modello, come noto, è quello della dialettica, intesa come confronto fra idee e posizioni diverse che devono giungere ad un'armonia finale. Un'armonia sempre temporanea, perchè collegata allo spirito del tempo, ovvero alla storia. Ma è possibile che in certi periodi questa armonia si verifichi, come accadde, secondo Hegel, al tempo dell'antica Grecia.
Pertanto la razionalità non può essere solo quella che proviene dall'intelletto (qui Hegel riprende una distinzione kantiana), ovvero dalla capacità di distinguere, di separare, di calcolare, di operare su un oggetto distinto dal soggetto. Deve essere qualcosa in più che permetta l'unione fra oggetto e soggetto. E per fare ciò occorre fare affidamento sui sentimenti, perchè solo attraverso di essi è possibile creare un senso di fiducia collettiva, che il solo intelletto non è in grado di fornire.
Le sollecitazioni di un libro come "Fenomenologia dello spirito" sono tantissime e credo che vi annoierei, se continuassi. Credo però che il primo pensatore che ha risposto in modo coerente e straordinario a quelle domande su Cartesio, sia stato proprio Hegel. La sua complessità non è altro che la complessità del mondo moderno, del quale non rinnega nulla. Hegel non cammina in avanti, guardando indietro, per usare una definizione che Le Goff ha usato per definire la cultura medioevale. La fenomenologia dello spirito è un tentativo di farci fare un grande salto in avanti. E' certo che le sue intuizioni e i suoi pensieri siano stati influenzati dalla sua epoca. Non potrebbe essere altrimenti. Ma, nonostante ciò, la sua attualità è sorprendente, poichè nonostante tutto, il pensiero cartesiano, dopo un breve tentennamento, ha ripreso il controllo della storia moderna, lasciandosi Hegel alle spalle. Oggi il suo dominio è evidente. Il monoteismo della logica strumentale non prevede sacrifici umani come altri passati e recenti monoteismi, ma questa sua apparente mitezza è riservata (non sempre ma tutto sommato spesso) solo a noi abitanti dell'Occidente, mentre nel resto del mondo scatena i suoi demoni e le sue persecuzioni.
Pertanto, ad Hegel, più che a tutti i successivi critici della razionalità occidentale, dobbiamo risalire, per comprendere come sarebbe potuta essere la società occidentale e come invece non è stata.
Personalmente, se devo pensare ad un filosofo che mi dica come la storia del mondo occidentale sarebbe potuta andare e non è andata, mi viene in mente Rousseau, non Hegel.
Hegel è quello che mi dice come la storia del mondo sarebbe potuta andare... ed è andata.
Non attriburei ai filosofi le responsabilità dei politici. I filosofi cercano di interpretare il mondo, ma spetta ai politici cambiarlo. Se siamo intrappolati nelle spire del Capitale e delle sue leggi inumane la faccenda è tutta politica, nella sua dialettica con l'economia, come aveva correttamente interpretato Marx.
Per Ipazia. Eppure proprio Marx da te citato è l'esempio di come un filosofo può influenzare la politica. In Hegel scorgo delle intuizioni, delle tracce di pensiero che cercano di armonizzare uomo e natura, progresso e tradizione, unità e pluralità. Hegel è in questo senso importante perché è il primo pensatore moderno che supera il principio di identità e di non contraddizione.
Alimenta così altri problemi ed altre questioni, compresa quella di essere uno dei padri del marxismo, ma a me, in questo momento, interessa evidenziare il suo tentativo di superare il pensiero digitale cartesiano.
Cartesio è stato ammirevole nel suo siglare la modernità, relegando nel passato dell'umanità gli artefatti oscurantisti e irrazionali del medioevo. Hegel ha nuovamente messo in moto la storia, ma senza abbracciare una nuova causa, come fa Rousseau. Ha preferito comprendere il moto "assoluto" di essa, cercandolo nella transitorietà e contemporaneamente nella "potenziale" direzione di uno sviluppo positivo, che lo pone all'apice del periodo classico della filosofia tedesca.
L'uomo, nella sua pluralità, è il tema di Hegel. Ma Hegel non dimentica i restanti passaggi. Non fa tabula rasa, come, dopo di lui, proveranno a fare i pensatori del sospetto. Accumula il pensiero della storia e lo districa per darne una configurazione che bilanci l'esigenze degli individui con quelle della società ed inventò a questo scopo un nuovo termine "sittlichkeit", tradotto in eticità.
Bene la dialettica che supera la sillogistica, ma Hegel prescinde totalmente dalle cause materiali dello "Spirito". Così non si va molto lontano nella comprensione della storia umana. C'è voluto il "capovolgimento" causale marxiano per comprendere la storia. E per innovare la filosofia in filosofia della prassi. Ma la prassi poi tocca ai politici realizzare.
Da comune uomo della strada, inciampato per caso in qualcuna delle riflessioni di quel filosofo monumentale, mi pare di aver capito che in quella visione della storia non può esistere un progresso evolutivo dell'umanità che non passi( attraverso un necessario superamento conservativo) sotto le luci e le ombre dello spirito di cui in ogni tempo le civiltà sono pervase.
Lo spirito dei tempi d'oggi , in questa visione, mi pare si stia evolvendo a livello planetario, assuefacendo all'amaro frutto della civiltà occidentale tutte le altre culture. Questo frutto non credo possa più consistere nell'asservimento e nella profusione di tutte le nostre energie verso l'accrescimento del capitale, esso pare essersi ora trasformato nel compulsivo agire tecnico sul mondo, un agire apparentemente fine a sé stesso ,un agire imbrigliato da secoli per servire il capitale ,e che ,ora scatenato, affrancato da esso , sembra essere diventato l'unico vero padrone dei nostri destini.
Salve and1972rea. Certo. Secondo me funziona cosi : Il mondo, sin dalla propria origine, contiene l'impulso alla propria diversificazione. La diversificazione è necessaria per permettere la sopravvivenza del mondo stesso nel suo insieme (il destino particolare dei suoi singoli ingredienti ed aspetti è escatologicamente ininfluente).
La diversificazione, spinta ai suoi effetti "estremi" (ovvero una diversificazione insistita non sappiamo fino a quanto !) da un lato produce evidentemente - tra i suoi effetti - l'intelligenza umana, la quale dovrebbe anche consistere nella capacità di opporsi agli effetti umanamente indesiderati della diversificazione stessa.
Simultaneamente e collateralmente però, la diversificazione continua a svilupparsi anche in ogni altra direzione ed effetto, evidentemente travolgendo ogni capacità ed intenzione umana di limitarne certi effetti, per cui l'uomo finisce per trovarsi inizialmente coinvolto e parzialmente arterfice di una diversificazione (progresso, per gli sciocchi) la quale purtroppo è destinata a prendere il sopravvento su di noi, visto che innesca sempre nuovi meccanismi che magari inizialmente ci entusiasmano, ma che sono destinati a sfuggire alla nostra volontà. Tu che dici ?.
Io avrei intitolato il topic "Hegel: una terapia". Una cura insomma al generale rimbambimento che in questi ultimi due anni sta toccando livelli veramente importanti.
Forse sono io che sono un po' paranoico, allora diciamo che si tratta di una psicoterapia individuale che con me sta funzionando.
Come esempio di terapia del pensiero: la dialettica, naturalmente.
La dialettica, che non viene mai presentata da Hegel come un processo composto da tesi-antitesi-sintesi, formula che è quindi solo una semplificazione storiografica, ma come costituita dai seguenti momenti:
1) momento astratto-intellettuale: i concetti vengono tenuti fermi nella loro distinzione, ci si concentra su una certa cosa che viene così distinta e separata da tutte le altre;
2) momento negativo-razionale: è il momento dialettico in senso proprio, il momento in cui i concetti sono visti nella loro relazione-opposizione, la cosa che prima era isolata ora è vista nel rapporto con le altre, richiama le relazioni con le altre cose;
3) momento positivo-razionale: il momento speculativo in cui si coglie l'unità tenendo insieme le distinzioni.
Insomma le distinzioni semplici, immediate, sterili, sono state lavorate dal pensiero, il pensiero ha ripercorso le relazioni, e il processo della conoscenza appare così come il raggiungimento di un'unità organica, complessa.
Ai nostri tempi ci si accontenta di battute più o meno colte, di opposizioni che banalizzano l'altro, di vincere (senza giocare realmente)...
La questione della critica di Feuerbach e Marx.
La si può vedere come la ripetizione della disputa medievale tra realisti e nominalisti (i primi che credono che l'essenza della realtà sia l'universale, i secondi l'individuale).
Ovviamente F. e M. stanno dalla parte del finito, dell'individuale, di ciò che è singolare. Certo, a partire dalla materia è possibile costruire generalizzazioni, concetti, e certo la natura rivela regolarità, ma questo non vuol dire che sia il pensiero a porre tali concetti nel finito.
Per Hegel invece è l'Assoluto che pone il reale, anche se poi l'Assoluto riesce a raggiungere la coscienza di se stesso (diventando così Spirito) solo ritrovandosi nell'altro da se', nel finito, nel mondo. Dunque si tratta di un Infinito immanente al finito.
Ma il punto è che Hegel inizia il suo percorso filosofico dalla critica dell'idea di cosa in se' di Kant.
L'argomento è il seguente: non esiste una dimensione della realtà che non sia raggiungibile dal pensiero perché il solo porre un confine della conoscenza significa pensarlo, significa stabilirlo nella conoscenza.
Quindi il livello della logica è lo stesso di quello dell'ontologia, c'è identità tra pensiero ed essere. Ma questo monismo non è facile da tenere fermo perché il senso comune così come tutta la filosofia moderna ci dicono che da una parte c'è il soggetto, dall'altra la realtà.
Tenendo però presente questo presupposto, mi chiedo: che senso ha criticare in generale la filosofia di Hegel per non essere riuscita a confutare adeguatamente la posizione nominalista, per esempio nella prima parte della "Fenomenologia dello spirito" nella sezione dedicata alla percezione sensibile, cioè al rapporto con ciò che è immediato, ciò che appare all'uomo come la singola cosa (in tutto quella sezione Hegel non fa che mostrare come il contatto con il particolare rimanda ineluttabilmente all'universale, che non c'è mai autentico contatto con la cosa singola che sempre è pensata tramite un concetto che per sua natura non può che essere universale)?
Voglio dire che se assumiamo il punto di vista dell'identità di pensiero ed essere, le osservazioni critiche che presuppongono un rapporto tra il soggetto e la realtà non sono più ammissibili, perché appunto basate su questo dualismo, che il presupposto monistico hegeliano rifiuta in partenza (rifiuto che nasce dal voler superare i paradossi del concetto di cosa in se' kantiana).
Si può rifiutare in toto il presupposto di questa filosofia, ma non mostrare le sue debolezze che hanno senso solo da un presupposto differente, insomma.
Per questo motivo si può asserire che ciò che è razionale è reale, e ciò che è reale è razionale.
Perché ovviamente non c'è da una parte la razionalità umana e dall'altra la realtà, il mondo.
Più che una visione che vuole giustificare la realtà (le istituzioni storiche, etc.) mi sembra l'effetto della coerenza di un punto di vista filosofico opposto a quello del senso comune.
@Jacopus.
Ma qual'e' l'alternativa a considerare tutto come oggetto e a manipolare ogni cosa come oggetto?
Io credo che l'unica alternativa sia trattare tutto come oggetto, ma senza aver piena coscienza di farlo.
Non voglio qui sottacere l'assunto su cui baso le mie brevi ( spero) osservazioni:
"Ciò che possiamo fare usando coscienza possiamo farlo ugualmente, ma in diverso modo, senza usare coscienza."
Cosa è questo pensare di pensare se non un prendere atto di aver in parte esplicitato i nostri processi mentali?
E quali risvolti negativi nuovi dovrebbe comportare questo surplus di uso di coscienza che non fossero già prodotti da un agire meno cosciente, se non il fatto che di essi più difficilmente si può oggi tacere o ammantare di fumose auree ideali che compensavano la nostra vista corta di allora?
La questione a me pare quindi molto semplice.
Ciò di cui rimane da discutere è se sia bene o meno l'incremento di coscienza.
Non è ne' bene e ne' male.
C'è un incremento di fatto che viene da lontano, testimoniato dalla reazione di lunga data per un ritorno alla inconsapevolezza beata originaria.
Se con Galilei abbiamo aperto gli occhi, dopo Cartesio non possiamo più chiuderli.
Non si torna più indietro.
Possiamo solo dire del come andare avanti.
Motivo, in estrema sintesi, per cui non mi è mai piaciuta la filosofia di Hegel, e neanche quella di Parmenide:
il mondo esiste perché c'è differenza, e non identità, tra essere e pensiero.
Differenza, differimento, sfasatura: io proprio non riesco a pensare l'eventuale identità di essere e pensiero se non come solipsismo, e istintivamente, e anche a ragion veduta, rifiuto il solipsismo.
Il mondo è più grande, di quello che noi possiamo pensare, è più veloce, di quello che noi possiamo pensare, è più vario, di quello che noi possiamo pensare, è più dettagliato, di quello che noi possiamo pensare, è popolato da esseri la cui volontà in generale non può volere la permanenza temporale di nessun voluto, a differenza del pensiero che di questa volontà ci possiamo fare.
Il mondo non sta dentro la nostra testa.
Possiamo pensare il falso, l'immaginario, l'inesistente. Possiamo pensare il vero per puro caso.
Non sempre il contenuto di pensiero e il piano dell'empirico-reale ci appaiono in rapporto di semplice identità: a volte di complessa analogia, a volte di contrasto.
Perciò, quando diciamo che c'è identità tra essere e pensiero, per me è solo una figura retorica di sineddoche, la parte per il tutto: una microparte dell' "essere" trascorre più o meno nitidamente nostro pensiero, e sulla generalizzazione di questo pezzetto di mondo conosciuto a esempio e norma della totalità, costruiamo il rapporto di identità. Ma quanto sia in generale deducibile il "totale" i il "vero" da un qualsiasi quanto di conosciuto-finito è a sua volta un inconoscibile.
Quindi più che "so di non sapere" (attribuita a Socrate) la questione è che "non sappiamo se sappiamo o se non sappiamo" (attribuita a Democrito).
Credo che l'identità di pensiero ed essere in Hegel vada concepita a partire dal fatto che ogni cosa singola che incontro la posso conoscere solo tramite universali, concetti.
Non molto diversa, mi sembra, è la posizione di chi poi nel Novecento, riflettendo sul linguaggio, dirà che si può andare alla fontana solo perché ho la parola "fontana".
Certo, rimane la questione etico-politica della predilezione che può andare a cadere o sull'aspetto più generale o su quello particolare.
Cioè la questione che nella frase "Socrate è uomo" devo decidere se dare maggior rilievo al soggetto (Socrate nella sua singolarità, nella sua vicenda particolare etc.) o al predicato (all'umanità di Socrate, alla razionalità cui lui partecipa come tutti gli uomini).
Per quanto riguarda il solipsismo, si tratta di un rischio che riguarda più il soggettivismo moderno che una filosofia come quella di Hegel.
Basta pensare a Cartesio che scatena il dubbio per ottenere un criterio per distinguere ciò che è sicuramente vero, per fondare la nuova epistemologia, e alla fine si ritrova con l'ipotesi che anche ciò che è chiaro ed evidente possa essere solo una colossale illusione (l'ipotesi del genio maligno), ipotesi che può scongiurare solo tramite il Dio cristiano.
Nella bella discussione su Cartesio che ha preceduto questo topic, a un certo punto lo "scontro" si è concentrato tra una lettura di Cartesio come libero pensatore e Cartesio come sincero cristiano.
A me sembra che su questo abbia ragione Lou: Cartesio fa appello a Dio per le esigenze del suo sistema, per uscire da un impasse teoretico di difficile soluzione.
Anzi, di impossibile soluzione. Perché se si arriva al livello di scetticismo che anche ciò che è certo può essere solo un'illusione sofisticata, che senso ha allora, rimanendo all'interno di questo livello di dubbio, parlare di prova ontologica di Dio? Quale affidabilità potrebbe mai avere in questa fase del sistema?
È interessante però vedere l'elemento paradossale della filosofia di Cartesio. Combatte la Scolastica per fondare la nuova epistemologia moderna. Per questo si lascia alle spalle ogni credenza, ogni presupposto culturale, ogni autorità. Sceglie quindi la via distruttiva dello scetticismo. Ma volendo arrivare a ciò che è assolutamente incontrovertibile è costretto a esagerare con il dubbio da cui può però liberarsi solo affidandosi a Dio.
Più solido vuole essere il sistema e maggiore è la necessità di presupposti metafisici indimostrabili.
La stampella Dio al sistema cartesiano odora indubbiamente di deus ex machina, per permettere alla macchina-sistema di funzionare (...ha ragione Lou...), ma odora pure di dissonanza con tutto il ragionamento precedente: dubbio metodologico; e seguente: morale provvisoria, ghiandola pineale e meccanicismi vari risolti matematicamente grazie alle assi cartesiane e al calcolo infinitesimale. Spinoza ci aggiungerà la logica. Hegel vi aggiunge ben poco mutando Dio in Spirito ed elaborando sopra tale sostituzione una macchina-sistema assai formalmente raffinata (dialettica) ma ben poco prolifica proprio a causa dell'ipotesi spirituale.
A mio avviso la soluzione, e il superamento della dissonanza, la dà il materialismo, sostituendo Dio-Spirito con l'intelligenza umana ponderata intersoggettivamente. Tale sostituzione non garantisce alcuna verità assoluta, ma permette al processo conoscitivo (episteme) di evolversi evitando lo stallo. Che tale evoluzione sia irta di pericoli e fantasmi la Covidemia ce lo sta mostrando in alta definizione. Ma non abbiamo alternative. La verità cui tendere è quella possibile al nostro grado di sapere e nessuna Verità metafisica ci è concessa. Filosofia è farsene una ragione di ciò.
Citazione di: Kobayashi il 05 Settembre 2021, 09:46:12 AM
Credo che l'identità di pensiero ed essere in Hegel vada concepita a partire dal fatto che ogni cosa singola che incontro la posso conoscere solo tramite universali, concetti.
Non molto diversa, mi sembra, è la posizione di chi poi nel Novecento, riflettendo sul linguaggio, dirà che si può andare alla fontana solo perché ho la parola "fontana".
Certo, rimane la questione etico-politica della predilezione che può andare a cadere o sull'aspetto più generale o su quello particolare.
Cioè la questione che nella frase "Socrate è uomo" devo decidere se dare maggior rilievo al soggetto (Socrate nella sua singolarità, nella sua vicenda particolare etc.) o al predicato (all'umanità di Socrate, alla razionalità cui lui partecipa come tutti gli uomini).
Per quanto riguarda il solipsismo, si tratta di un rischio che riguarda più il soggettivismo moderno che una filosofia come quella di Hegel.
Basta pensare a Cartesio che scatena il dubbio per ottenere un criterio per distinguere ciò che è sicuramente vero, per fondare la nuova epistemologia, e alla fine si ritrova con l'ipotesi che anche ciò che è chiaro ed evidente possa essere solo una colossale illusione (l'ipotesi del genio maligno), ipotesi che può scongiurare solo tramite il Dio cristiano.
Nella bella discussione su Cartesio che ha preceduto questo topic, a un certo punto lo "scontro" si è concentrato tra una lettura di Cartesio come libero pensatore e Cartesio come sincero cristiano.
A me sembra che su questo abbia ragione Lou: Cartesio fa appello a Dio per le esigenze del suo sistema, per uscire da un impasse teoretico di difficile soluzione.
Anzi, di impossibile soluzione. Perché se si arriva al livello di scetticismo che anche ciò che è certo può essere solo un'illusione sofisticata, che senso ha allora, rimanendo all'interno di questo livello di dubbio, parlare di prova ontologica di Dio? Quale affidabilità potrebbe mai avere in questa fase del sistema?
È interessante però vedere l'elemento paradossale della filosofia di Cartesio. Combatte la Scolastica per fondare la nuova epistemologia moderna. Per questo si lascia alle spalle ogni credenza, ogni presupposto culturale, ogni autorità. Sceglie quindi la via distruttiva dello scetticismo. Ma volendo arrivare a ciò che è assolutamente incontrovertibile è costretto a esagerare con il dubbio da cui può però liberarsi solo affidandosi a Dio.
Più solido vuole essere il sistema e maggiore è la necessità di presupposti metafisici indimostrabili.
Insomma, alla fine di fatto Cartesio è come se avesse voluto rimettere a verifica l'ipotesi divina, confermandone la necessità.
Quello che manca all'ipotesi divina e' però il carattere di evidenza, di modo che Cartesio dimostra che l'evidenza si basa su una non evidenza.
Non so', confesso, fino a che punto ho stiracchiato la questione per portare acqua al mulino dell'idea che insiste nel mio cervello attualmente, che appunto una evidenza non può che basarsi su una ipotesi nascosta, quindi indicibile, un Dio innominabile.
Come controprova di ciò, quando le ipotesi non sono nascoste, le conseguenze non sono evidenti.
Possono con difficoltà intuirsi, e con pari difficoltà a volte dimostrarsi, senza ancora che il risultato, con tutto ciò, seppur vero, ci appaia evidente.
Mi sembra così, applicando il metodo del dubbio Cartesiano, di poter distinguere il vero dall'evidente, i quali a noi sembrano coincidere ,come caso particolare , seppur notevole, solo nell'ambito della nostra percezione sensibile.
Da ignorante, e da quello che voi dite, e in particolare dal tuo bel post, traggo che Cartesio ha quasi portato a termine il compito che si è prefissato, mancando solo qualche dettaglio finale, che toccherebbe scrivere a noi.
Io provo a riscrivere il finale ammettendo un Dio , ma solo in quanto indicibile. In quanto ipotesi nascosta, senza la quale non può esservi alcuna evidenza. La verità non può basarsi dunque sull'evidenza, se questa a sua volta è figlia di ipotesi di cui possiamo solo dire che sono ignote quanto potenzialmente arbitrarie.
A riprova di ciò, man mano che la scienza con l'uso affina il suo metodo, scovando con crescente abilità ed eliminando le ipotesi nascoste, le sue conclusioni appaiono sempre meno evidenti .
Eppure, se, come voglio , non dirò vere, sono però sempre più congruenti ad interfacciarci con la realtà nel nostro agire, quanto sempre meno evidenti.
La verità ha carattere di immediatezza. Ciò dimostra che non esiste alcuna verità, perché non esiste nulla che non sia mediato. Quando non appare la mediazione appare una verità.
Ciò che noi perseguiamo come meta massima di sapienza è figlia di necessaria ignoranza.
Per dirla con un Socrate riadattato, so' di non sapere, e ciò è sapere gia tanto, come ho provato a spiegare.
Infatti più cose so' , meno verità mi appaiono.
Citazione di: Ipazia il 05 Settembre 2021, 10:39:32 AM
La stampella Dio al sistema cartesiano odora indubbiamente di deus ex machina, per permettere alla macchina-sistema di funzionare (...ha ragione Lou...), ma odora pure di dissonanza con tutto il ragionamento precedente: dubbio metodologico; e seguente: morale provvisoria, ghiandola pineale e meccanicismi vari risolti matematicamente grazie alle assi cartesiane e al calcolo infinitesimale. Spinoza ci aggiungerà la logica. Hegel vi aggiunge ben poco mutando Dio in Spirito ed elaborando sopra tale sostituzione una macchina-sistema assai formalmente raffinata (dialettica) ma ben poco prolifica proprio a causa dell'ipotesi spirituale.
A mio avviso la soluzione, e il superamento della dissonanza, la dà il materialismo, sostituendo Dio-Spirito con l'intelligenza umana ponderata intersoggettivamente. Tale sostituzione non garantisce alcuna verità assoluta, ma permette al processo conoscitivo (episteme) di evolversi evitando lo stallo. Che tale evoluzione sia irta di pericoli e fantasmi la Covidemia ce lo sta mostrando in alta definizione. Ma non abbiamo alternative. La verità cui tendere è quella possibile al nostro grado di sapere e nessuna Verità metafisica ci è concessa. Filosofia è farsene una ragione di ciò.
Ma lo Spirito nella filosofia di Hegel è ben diverso dal Dio dei filosofi (e a maggior ragione dal Dio biblico).
Per Hegel quando la struttura razionale della realtà arriva a manifestarsi nell'uomo, si manifesta come logos, e quindi quando questa razionalità diventa consapevole di se' nell'autocoscienza umana, ecco che si parla di Spirito.
Le differenze rispetto all'intelligenza umana ponderata intersoggettivamente in realtà non sono molte.
Infatti noi sappiamo che il cuore della natura è il DNA, ovvero un codice dalla cui traduzione viene tutta la materia vivente. Un codice, una memoria, e una tecnica di traduzione. Non si tratta forse della stessa razionalità che gira nelle nostre menti?
E quando ci accostiamo alle istituzioni storiche non riteniamo forse, studiandole, di trattare di qualcosa che ha in se un senso, una razionalità?
Quindi la grande differenza con il pensiero di Hegel, rispetto a quello contemporaneo dominato dalla scienza, è il finalismo, da noi rinnegato.
Per noi il cuore della natura è razionale, ma il processo che conduce alla differenziazione delle varie forme viventi è invece casuale (casuali mutazioni genetiche lavorate poi dalla selezione).
Quindi nella nostra visione l'Uno è razionale, mentre il processo che porta ai Molti invece è casuale, non ha nulla di necessario.
A differenza della filosofia di Hegel, che interpreta il processo come sviluppo che ha una finalità immanente.
Posso concordare sul dualismo natura-cultura, soma-psiche, dna-memoria storica, ma non vedo alcun finalismo al di là del legittimo e razionale desiderio della psiche umana di vivere bene e in buona salute.
Trasferire tale desiderio in meccanismi finalistici precostituiti sa più di religione che di scienza e lo stesso uso del Geist crea più di qualche confusione col Got, svolgendo entrambi la stessa funzione finalizzatrice.
La storia dimostra che non vi è alcun messianico Spirito a dirigere le vicende umane, come non vi è nell'intelligenza intersoggettiva che si arrabatta, toppando spesso clamorosamente, per ottimizzare la vita sociale. Cosa che non accadrebbe se vi fosse una scienza infusa a priori.
La "razionalità" della natura è la risposta che ogni organismo vivente elabora per sopravvivere. Si tratta per lo più di automatismi che hanno superato l'esame evolutivo e la cui efficacia retroattiva "appare" razionale. Il reale (evolutivo) impone la regola che noi, a posteriori, definiamo razionale facendo l'unica cosa assennata che ci è concessa: prendere atto che le cose stanno così e così. Ovvero che il reale è razionale, ma solo nel senso che è l'unica fonte autorevole di razionalità.
L'affermazione inversa (il razionale è reale) è invece millantatrice assai perché pretende di sottoporre la realtà ad autoproclamate razionalità che variano dalla saggezza al delirio. Per cui non ci farei grande affidamento. (Lo Spirito hegeliano è inaffidabile tanto quanto l'imperativo categorico kantiano)
Insomma, tutto il contrario dell'impossibile. Di cui non si sente la mancanza, essendo il possibile ancora e sempre così carico di misteri da disvelare e possibilità da realizzare.
Citazione di: Ipazia il 06 Settembre 2021, 16:53:04 PM
Posso concordare sul dualismo natura-cultura, soma-psiche, dna-memoria storica, ma non vedo alcun finalismo al di là del legittimo e razionale desiderio della psiche umana di vivere bene e in buona salute.
Trasferire tale desiderio in meccanismi finalistici precostituiti sa più di religione che di scienza e lo stesso uso del Geist crea più di qualche confusione col Got, svolgendo entrambi la stessa funzione finalizzatrice.
La storia dimostra che non vi è alcun messianico Spirito a dirigere le vicende umane, come non vi è nell'intelligenza intersoggettiva che si arrabatta, toppando spesso clamorosamente, per ottimizzare la vita sociale. Cosa che non accadrebbe se vi fosse una scienza infusa a priori.
La "razionalità" della natura è la risposta che ogni organismo vivente elabora per sopravvivere. Si tratta per lo più di automatismi che hanno superato l'esame evolutivo e la cui efficacia retroattiva "appare" razionale. Il reale (evolutivo) impone la regola che noi, a posteriori, definiamo razionale facendo l'unica cosa assennata che ci è concessa: prendere atto che le cose stanno così e così. Ovvero che il reale è razionale, ma solo nel senso che è l'unica fonte autorevole di razionalità.
L'affermazione inversa (il razionale è reale) è invece millantatrice assai perché pretende di sottoporre la realtà ad autoproclamate razionalità che variano dalla saggezza al delirio. Per cui non ci farei grande affidamento. (Lo Spirito hegeliano è inaffidabile tanto quanto l'imperativo categorico kantiano)
Insomma, tutto il contrario dell'impossibile. Di cui non si sente la mancanza, essendo il possibile ancora e sempre così carico di misteri da disvelare e possibilità da realizzare.
Concordo, ma a partire da questo contesto che promette di spiegare le cose spiegabili in modo semplice , dovremmo cercare di trarre l'origine di cose che sembrano meno semplice da spiegare, come la ricerca di verità, di un senso, di una finalità. Non mi sento orfano di tutto ciò, ma credo che meritino un'analisi , perché seppure in se' non esistono, svolgono comunque una funzione.
A me sembrano ipertrofie da uso di coscienza, e la coscienza è qualcosa che se non intacca la semplicità del quadro lo rende più articolato.
L'effetto del arbitrio si avvicina al limite al caso al crescere del numero di individui coscienti.
Possiamo avere dubbi sulla realtà del libero arbitrio, ma non dovremmo averne sui suoi effetti, che al crescere degli individui viventi tende ad equipararsi al caso che agisce , se agisce, sulla materia.
Libero arbitrio e caso sono assimilabili anche nel dubbio che accompagna la loro esistenza.
Il caso più non esistere , ma la risposta che ogni organismo vivente elabora per sopravvivere non può che basarsi su esso.
Confesso a questo punto di essermi perso, ma spero di aver dato qualche spunto.
Quello che voglio sottolineare è che la convinzione che non vi sia una finalità, che condivido, sembra essere al contempo per alcuni motivo di frustrazione, la quale forse potrebbe essere mitigata da una una ipotesi da cui si origina la ricerca di un fine.
Può non esistere una finalità, ma esistono gli effetti di una ricerca di finalità.
Può non esistere una verità, ma parimenti esistono gli effetti di una ricerca di verità.
Può non esistere un senso della cita, ma gli effetti di una sua ricerca certamente esistono.
Se tutto ciò non modifica la semplicità del quadro che si vuole delineare, lo rende però più interessante.
Posso dire che non esistono verità, finalità, senso, ma non posso considerare in tal modo chiusa la questione filosoficamente.
La finalità c'è nel secondo canale evolutivo (autocoscienza) degli organismi viventi: vivere a lungo e bene. Mutuata direttamente dal reale del primo canale evolutivo basato sul dna.
Citazione di: Ipazia il 06 Settembre 2021, 18:47:31 PM
La finalità c'è nel secondo canale evolutivo (autocoscienza) degli organismi viventi: vivere a lungo e bene. Mutuata direttamente dal reale del primo canale evolutivo basato sul dna.
Io la farei ancora più semplice.
La vita è caratterizzata, e ciò infatti non vale per la materia, da una registrazione dell'esperienza che diventa pregiudiziale nell'agire.
Il processo è unico, ma la sua evoluzione, coi suoi salti, può tradursi in diverse fasi, delle quali , ultima, ma non ultima, e' l'autocoscienza.
Infatti non può esserci una differenza sostanziale fra coscienza e autocoscienza.
La fase attuale io direi essere la scienza.
Fase non ancora matura se è vero che la scienza siamo noi, ma la percepiamo ancora come aliena.
Nella misura in cui la percepiamo ancora come altro da noi , tendiamo ad attribuirgli poteri che vanno oltre le nostre possibilità, come ad esempio il potere di tendere alla verità , attribuzione che ha origine nell'iperuranio platonico, dove le distanze da noi vengono marcate dall'essere un mondo oltre il nostro, quindi tanto più oltre noi.
L'autocoscienza è quindi la demarcazione arbitraria di un processo continuo.
Un processo che coinvolge gli individui ,e anzi non può prescindere dagli individui, ma che marca i suoi punti quando le diverse esperienze diventano condivisione, quando tutti cioè, al di la' delle soggettive esperienze, iniziano a "vedere" le stesse cose, come se ie individualità ciclicamente si ricomponessero ed è ciò che da' un senso all'umanita'.
Sbagliato quindi considerare l'intersoggettivita' come probante prova di verità.
La prossima tappa del processo evolutivo della coscienza sarà quella in cui ringrazieremo il concetto di verità come il catalizzatore del risultato raggiunto , ma non più presente nel risultato.
Immaginate di possedere la coscienza di un virus, e provate a immaginare quale salto di coscienza farete ( facile a farsi) quando vi sarete evoluti in uomini, e immaginate adesso di essere uomini e un pari salto di coscienza ( facile a dirsi, più difficile a immaginarsi, o forse no? Mi sentirei però di escludere fin da adesso che in quella fase si discuta ancora di verità, percepita ormai come un astruso iperuranio di cui nessuno parla più).
Quello che è certo è che la filosofia è ancora attuale se la verità è per noi un concetto ancora così attuale.
Ma la filosofia non morirà con la verità.
Nel processo di evoluzione della coscienza occorreranno sempre catalizzatori senza dei quali non si ottiene nulla.
Seguendo la lezione di A. Kojève possiamo dire che per Hegel l'uomo è desiderio.
Se si rimane però al desiderio di un oggetto non si entra nel mondo umano vero e proprio. Ci si eleva al di sopra dell'animalità quando si desidera il desiderio di un altro essere umano, ovvero quando si desidera essere l'oggetto desiderato dall'altro. Si desidera che l'altro, con il suo desiderio, riconosca il nostro valore.
E qui veniamo alla lotta per il riconoscimento. Che si spinge fino a mettere a repentaglio la propria vita. Se l'animalità ha come unico fine la propria sopravvivenza, il mondo umano si apre con l'accettazione del pericolo della morte per ottenere qualcosa, il prestigio, che non è affatto essenziale alla sopravvivenza.
Come si sa in questo duello archetipico prima o poi uno dei due si arrende, diventando il servo, mentre l'altro, il signore, ottiene con la vittoria il riconoscimento del suo valore, della sua superiorità.
Da qui in poi però la storia, secondo Hegel, sarà il progressivo ribaltamento dell'iniziale rapporto di forza.
Il signore vive di due cose: del riconoscimento e del godimento dei beni lavorati dal servo. Nient'altro. Il signore non ha un futuro, può solo sperare di prolungare nel tempo la sua condizione.
Il servo invece lavora per il signore, trasforma la realtà per produrre i beni che il signore consumerà, e vive nella paura.
Al di là dell'emancipazione che viene dal lavoro, ovvero dall'acquisizione delle tecniche per la trasformazione della natura, è interessante concentrarsi sull'aspetto dell'angoscia della morte.
Sperimentando questa angoscia con una certa continuità (essendo assoggettato al potere del signore), al di là del terrore della scena iniziale che lo ha convinto ad arrendersi, il servo prende consapevolezza di tre cose essenziali:
- l'ostilità del mondo;
- la necessità dell'autodisciplina (per eseguire sotto minaccia i lavori che gli vengono assegnati dal signore);
- la trascendenza rispetto ad ogni condizione che viene inizialmente percepita come data (infatti l'esperienza dell'angoscia della morte cancella l'ovvietà, la naturalezza, di quello che fino a quel momento era sentito come il proprio mondo e il proprio destino).
Tre cose essenziali per il cambiamento della realtà tramite lavoro e lotta.
Se non si sente l'ostilità del mondo ci può essere lavoro, ma non vera lotta. Ci sarà lavoro e godimento, un miscuglio di signoria e servitù, ma la realtà rimane tale e quale.
Quindi non ci potrà essere libertà (perché ci si sentirà legati alla necessità del mondo presente), e quindi nemmeno pensiero.
Ci sarà una riflessione illusoria (più che pensiero), una diffusa animalità (per l'appiattimento del desiderio al livello del godimento), e si continuerà a riconoscere il valore della signoria con l'idealizzazione della ricchezza.
Esattamente quello che accade nel cittadino/lavoratore dei nostri tempi, un servo abbastanza indipendente da sapersi procurare un po' di godimento, ma non abbastanza consapevole per poter accedere al pensiero.
Una favola hegeliana. La sopraffazione del "servo" è "archetipicamente" avvenuta per via violenta in conflitti bellici. Come insegnano Spartaco, giacobini e bolscevichi al netto di ogni psicologismo immaginifico sul "riconoscimento" del signore, appena i servi hanno la massa critica per rovesciare il tavolo, lo rovesciano.
Gli oligarchi attuali conoscono bene questa storia e hanno collocato in ogni dove, incluso il diritto statale e internazionale, i loro greenpass per incatenare i servi. Come il mitico Signore degli Anelli.
Koba,
Da una parte il razionalismo contemporaneo, che ancora discute sulla crisi del soggetto, nell'intento di preservare il soggetto, ossia di assoggettarlo alle sue ragioni, ovviamente la ratio vuole la ratio.
Se non fosse che il soggetto è in crisi, la ratio avrebbe già vinto.
Ma appunto non è così. Per questo c'è bisogno della stampella teologica. Con agnello sacrificale al suo seguito, come argutamente dice Ipazia.
Hegel è il primo terapeuta, sono d'accordo.
Però a me interessa il suo momento negativo, ossia l'impossibilità di legare il percetto al suo percepente.
E' proprio questa impossibilità che spinge Hegel ad introdurre il Logos, ossia Dio.
Dio è il momento negativo, da stampella, diviene immanenza.
Infatti l'oggetto in sé, non è disgiunto come in Kant, ma fa parte di ciò che magicamente appare essere ciò che è effettivamente (cioè scientificamente).
Se vedo un ramo e lo spacco sulla testa di un lupo, esso magicamente diventa effettivo.
Magicamente perché ciò che percepisco come ramo, si sostiene nel tempo fino alla mazzata finale.
La costruzione mnemonica di noi come agenti, è la filosofia di Hegel nel suo mistero più abissale.
Noi agiamo perché un Dio ci permette di farlo.
Il finalismo di Hegel è lo stesso di Heidegger ossia è il destino, il Dio ascondito, il Dio teleologico.
Perché Hegel è vanamente criticato? Perché gli viene attribuita una teleologia pre-istorica?
Ma Hegel proprio nella sua costruzione magica, rinviene nel tempo l'unico fondamento, nessuna predestinazione, è impossibile predire del lupo!
Comunque serve una lettura sistematica e intelligente, presto apriremo il topic gruppo di studio Fenomenologia dello spirito, per capire quanto profondo è il messaggio, e quanto facile sia la sua cattiva interpretazione.
Dunque il reale è razionale, non riguardo alla sua essenza, ma esattamente riguardo alla sua assenza.
E' proprio perché assente, che è dinamico, é proprio perché assente che si iscrive nella storia.