Come mai in genere si ritiene (molto spesso anche nella filosofia....) che la felicità come stato permanente di "beatitudine" sia la cosa più importante in assoluto? A ben guardare, anche se istintivamente verrebbe da dire che è ovvio, secondo me non è affatto così. Infatti ciò che rende l'uomo un essere mentalmente evoluto non è il grado di felicità, ma il livello di consapevolezza della realtà in cui vive: la consapevolezza, di per sé, presuppone anche un certo grado di sofferenza, quando ci si rende conto che la realtà in cui vivi è negativa, non corrisponde a ciò che giustamente tu desideri. In quanto persona ritengo di essere evoluto in quanto consapevole, non in quanto più felice. Si può fare un esempio lampante: un drogato nel momento in cui è sotto l'effetto dello stupefacente sta bene, prova sensazioni piacevoli, ma vista obiettivamente la sua è una miserevole condizione in cui egli distrugge intelligenza e consapevolezza in nome di un paradiso artificiale. Addirittura si può dire che mettere al primo posto la felicità porta a disumanizzazione e che sia un'idiozia pericolosa ricercarla a tutti i costi sempre. Infatti se io voglio a tutti i costi inseguire un ideale di fredda serenità spacciandola per felicità, ecco che rischio di disumanizzarmi: infatti è chiaro che se io ipoteticamente giungessi a non dare più nessuna importanza alle persone non mi aspetto nulla da loro e quindi posso anche vivere più sereno, ma divento anaffettivo, arido e la mia scelta si paga con la perdita dell'umanità. La filosofia stoica, con il suo ideale di accettazione di tutto in nome della felicità, a mio avviso è un inno all'anaffettività, all'idea del saggio come persona fredda ed indifferente a qualsiasi legame emotivo. Inoltre quando la persona inizia a maturare? Quando impara dai suoi errori, ma anche questo presuppone la capacità anche di soffrire: se l'esperienza in cui ho errato mi ha fatto star male, io giustamente non la ripeto, ma se io sono incapace di provare questo tipo di emozione ecco che l'errore non si imprime nella mia mente e io non apprendo! L'uomo nella storia ha cambiato le cose in positivo proprio quando ha provato sentimenti che etichettiamo negativi, come la rabbia e l'astio verso chi lo opprimeva, se avesse accettato tutto beatamente sarebbe rimasto schiavo L'esperienza del tormento interiore, inoltre, ha permesso che grandi poeti ed artisti producessero le loro opere migliori che ancora oggi leggiamo, apprezziamo, quindi si può dire che il loro dolore li ha resi creativi, è probabile che se fossero stati felici non avrebbero raggiunto tali traguardi. Di conseguenza si può dire che assolutizzare la felicità sia un pericoloso errore?
Interessante..
In effetti anche secondo me andrebbe fatta una prima riflessione sull'idea che abbiamo (noi oggi) di felicita e se sia stata davvero sempre la stessa per tutti o se addirittura non vi siano state delle civiltà che non ne sentivano manco l'esigenza...sembrerebbe strano ma secondo me e' cosi, anche perché e' proprio la nostra di civiltà che ha fatto della felicita un esigenza, quindi un bisogno e un desiderio e che alla fine non poteva che diventare paranoia...e nel momento che accade questo..e' la stessa felicita a non presentarsi.
Citazione
Sì, anche secondo me pretendere di assolutizzare la felicità é un pericoloso errore.
Secondo me "felicità" é sinonimo di "appagamento di desideri" o di "conseguimento di obiettivi": per "felicità" si intende il fatto che le cose vanno come si vorrebbe che vadano, per infelicità il fatto che le cose non vanno come si vorrebbe che vadano. Ma l' uomo prova tanti diversi desideri non tutti fra loro compatibili (botte piena e moglie ubriaca), per cui la felicità può di fatto essere maggiore o minore, ma comunque é sempre relativa, limitata, parziale, mai assoluta (per nessuno le cose vanno integramente, assolutamente, al 100% come vorrebbe che andassero, ma solo più o meno parzialmente). Quello della conoscenza e della verità é uno fra gli altri desideri umani, che può capitare sia soddisfatto unitamente a tanti altri o anche alla condizione che tanti o pochi degli altri siano insoddisfatti; e a seconda dei rapporti fra maggiore o minore soddisfazione del desiderio di sapere e maggiore o minore insoddisfazione di altri desideri con esso incompatibili si può esere più o meno (ma ai completamente, assolutamente!) felici.Questo per quanto riguarda la conoscenza come fine a se stessa.Ma la conoscenza é anche mezzo indispensabile per valutare la compatibilità o meno dell' appagamento di diversi desideri e i mezzi necessari e i prezzi da pagare per conseguire gli uni e/o gli altri. Lo stoicismo, come altre filosofie saprattutto antiche ma anche moderne occidentali (e certamente orientali; purtroppo non le conosco) non consiglia l' anaffettività aprioristica e acritica, bensì proprio l' analisi razionale dei desideri, la loro ponderazione, la valutazione critica razionale degli insiemi di desideri soddisfacibili reciprocamente alternativi e dei mezzi da usare e dei prezzi da pagare per ottenere l' appagamento degli uni oppure degli altri di essi, onde cercare fondatamente di ottenere la maggiore felicità plausibilmente possibile.Non é facile a farsi come lo é a dirsi (concordo anche che questo presuppone la capacità anche di soffrire)
, ma così inesorabilmente stanno le cose.
La filosofia aveva inizialmente promesso una felicità diversa da quello stato di beatitudine tanto simile all'ottundimento del fumatore di oppio di cui parla Socrate78. Una felicità più vera, diciamo così, autentica. Il che comportava la capacità di distinguere i veri beni dalle illusioni distruttive. Dunque implicava la conoscenza.
Le cose sono cambiate dopo la condanna a morte di Socrate.
Se la polis aveva lasciato che venisse ucciso il suo cittadino più saggio, il filosofo per eccellenza, che cosa ne conseguiva?
Che era guerra aperta tra comunità e filosofo.
Da qui la necessità di mettere in piedi, da parte del filosofo, strategie difensive dirette alla realizzazione di una certa autarchia.
L'ascetismo, che prima veniva esercitato moderatamente con il fine di evitare di essere posseduti da passioni distruttive, diventava così un sistema per la riduzione al minimo dei bisogni (vedi il cinismo).
Quello stato di impassibilità così disumano è cioè una condizione difensiva. Il massimo che si può ottenere in uno stato di guerra.
Del resto quando si è in guerra quello che conta è subire meno ferite possibili...
Concordo in parte con @Kobayashi. Ritengo che tutte le persone in "fondo al cuore" vogliano "stare bene" e vogliano quello che è meglio per loro. Il problema è che ci sono moltissimi tipi di "benessere". Per esempio c'è il "benessere" dato dalle droghe che ha il difetto di rovinare il corpo e la mente dell'uomo ma c'è anche il "benessere" dato dall'amore del prossimo e così via. Se la saggezza antica ci insegna qualcosa... ci insegna che quella "felicità" che è veramente degna d'essere cercata è molto faticosa da "ottenere". Dobbiamo in un certo senso "meritarcela".
Per esempio l'"eudaimonia" ricercata dai greci era una "pace interiore" autentica ed era molto spesso (tra l'altro) l'obbiettivo della filosofia stessa. E in un certo senso anche nelle religioni dove è ricorrente, per esempio, l'idea di una "caduta" - compresa in modi estremamente diversi nelle varie tradizioni - da uno stato di "pace". E le religioni stesse si configurano come un "aiuto" per raggiungere quello stato di "benessere" perduto. E inoltre nel pensiero antico ricorre molto spesso l'idea che tale stato può essere "raggiunto" con molto sacrificio di sé, con molta fatica ecc.
Ergo si potrebbe dire che è giustissimo cercare la "felicità". Tuttavia ci sono differenti tipi di "felicità" che hanno valore differente tra di loro. E i saggi di ogni tempo hanno affermato che è "giusto" cercare la felicità di più alto valore anche se ciò causa tormenti mentali (i quali tra l'altro producono spesso opere d'arte ecc). Dunque la sofferenza è un importantissimo mezzo per raggiungere una "migliore" felicità. Viceversa ritengo abbastanza "perverso" e anti-etico avere come obbiettivo la sofferenza in-sé. In fin dei conti pensare alla sofferenza come mezzo è anche un modo per darle una giustificazione ed un significato - e questo, credo, aiuta moltissimo. [Ad esempio la produzione di opere d'arte è spesso segnata da grandi sofferenze, tuttavia la "felicità" data dall'esperienza estetica e dalla produzione artistica danno "significato" anche alla sofferenza.]
Salve. Tipico dell'uomo desiderare ciò che non conosce. Infatti la felicità è desiderata dagli infelici, dagli insoddisfatti, dai curiosi che ancora non la conoscono. In questo modo tutti costoro desiderano appunto ciò che non hanno conosciuto mai.
Naturalmente costoro sanno perfettamente ciò che vogliono, anche se non lo conoscono. Ma non sanno come ottenerlo e - ironia delle cose umane - non sanno neppure se ciò che vogliono, una volta ottenutolo troveranno sia veramente ciò che a loro serviva.
Avete presente quanti uomini e donne sapevano benissimo quale compagno sarebbe servito loro e, una volta sposatolo, si accorsero che non era precisamente così ??.
Io invece cerco di stare il più possibile alla larga della felicità ed il più vicino possibile alla serenità.
La serenità è una condizione di soddisfacente equilibrio all'interno di una vita normalmente condotta.
La felicità invece consiste nello stato in cui risultino soddisfatti tutti i bisogni e tutti i desideri.
Nessuno la raggiunge da vivo poiché i bisogni (che solo semplicemente l'insieme di quelli detti "fisiologici") si rinnovano automaticamente mentre i desideri (che sono l'insieme delle facoltà, cioè di tutto cio che vorremmo fare una volta liberi dalla costrizione dei bisogni, e che consistono quindi semplicemente nella ricerca del piacere) ci perseguiteranno per tutta la vita a causa del nostro invincibile amore per le novità ed appunto i piaceri.
L'unica possibilità di raggiungere una felicità definitiva consiste quindi nell'eliminare in via definitiva sia i bisogni che i desideri.
A questo punto..........tranquilli !! Ci penserà la morte la quale, a questo punto, si rivelerà essere la porta d'ingresso alla felicità tanto stoltamente agognata da moltissimi. Salutoni.
Ultimamente è balzata alle cronache la notizia di una famiglia affetta da sindrome di Marsili, ovvero incapaci di provare dolore . Gli stessi descrivono le loro vicissitudini raccontando di essersi rotti un arto o subendo danni fisici, ma non avvertendo il dolore, non avvertendo nemmeno stimoli che gli suggerissero di interrompere le loro attività, con il risultato di "sciare con una spalla rotta".Il dolore è utile, lo ben sappiamo, diverse dottrine spirituali propongono tra i vari balocchi, in maniera esplicita o meno, di allontanare la vita del credente dal dolore, non solo quello fisico ma anche quello "spirituale", spiritualità analgesica. Ma è davvero desiderabile una vita senza dolore? E non solo quello fisico, ma anche quello emozionale? Eppure le distanze che prendiamo dal dolore sono assolute, nello stesso modo con cui vorremmo avvicinarci assolutamente alla felicità. Creiamo cosi i nostri obbiettivi intimi, inseguendo assoluti immaginari, immagini utopiche, paradisi e inferni, ci piace metterci in cammino verso l'oasi nel deserto, non verso la realtà che avrebbe, se la conoscessimo, ben poco di desiderabile o perlomeno non a sufficienza dal motivarci in molte delle nostre ben assurde e importanti azioni.
Credo perchè così ci hanno insegnato.
Ovviamente uno specchio per le allodole (che noi siamo).
Certo che se la reazione a questo infimo stratagemma, è la convinzione che il dolore faccia maturare....allora non vivete certo nelle periferie milanesi.
Mi pare l'altra faccia dello stesso medaglione con cui ci abituano a pensare agli unicorni: quando invece la gente soffre in una maniera che faccio sempre più fatica ad accettare.
Quando vedi la vita spegnersi di fronte a te CHE FAI??? SOCRATE CHE FAI????
Citazione di: green demetr il 22 Dicembre 2017, 22:08:31 PM
Quando vedi la vita spegnersi di fronte a te CHE FAI??? SOCRATE CHE FAI????
Personalmente (salvo in caso di morte di persone decisamente malvage e spregevoli) spero che sia stata una vita complessivamente felice, che chi l' ha vissuta sia stato contento di viverla e la rivivrebbe se -per assurdo- dipendesse da lui.
Così come spero di morire a mia volta deliberatamente (per mia scelta libera da costrizioni estrinseche alla mia propria intrinsecamente deterministica volontà) consapevole che un' ulteriore sopravvivenza mi procurerebbe con ogni probabilità più dolore che felicità, dicendo a me stesso di esserne (stato) contento e che se -per assurdo- dipendesse da me la rivivrei, con tutte le tremende e meravigliose sofferenze e i dolori che ha comportato e con tutte le piacevolissime gioie e tutta la felicità che (parimenti) l' hanno arricchita e resa interessante e assai degna di essere vissuta, come credo sia (stata) finora di fatto.
Ma ovviamente spesso la vita e la morte sono ben diverse da così, di tutto ciò non v' é alcuna certezza, lo si può solo sperare.
E per questo, se ne avessi la possibilità, non farei un altro figlio, esponendolo inevitabilmente al rischio dell' infelicità (oltre che alla speranza della felicità) complessiva senza il suo (logicamente impossibile) preventivo consenso.
Ulteriore considerazione (ringrazio GreenDemetr per la stimolante domanda)E se vedo morire un infelice o un malvagio penso che per lo meno la sua infelicità o la sua malvagità hanno fine.(Probabilmente ho la fortuna di essere di temperamento ottimistico).
Citazione di: green demetr il 22 Dicembre 2017, 22:08:31 PMCredo perchè così ci hanno insegnato. Ovviamente uno specchio per le allodole (che noi siamo). Certo che se la reazione a questo infimo stratagemma, è la convinzione che il dolore faccia maturare....allora non vivete certo nelle periferie milanesi. Mi pare l'altra faccia dello stesso medaglione con cui ci abituano a pensare agli unicorni: quando invece la gente soffre in una maniera che faccio sempre più fatica ad accettare. Quando vedi la vita spegnersi di fronte a te CHE FAI??? SOCRATE CHE FAI????
1) No, credo che sia per il fatto che naturalmente ci aspettiamo qualcosa di "positivo", come dice Simone Weil: "
C'è nell'intimo di ogni essere umano, dalla prima infanzia sino alla tomba e nonostante tutta l'esperienza dei crimini commessi, sofferti e osservati, qualcosa che ci si aspetta invincibilmente che gli faccia del bene e non del male."
2)il dolore può far maturare se ha un "significato"... Di certo non tutto il dolore e non tutta la sofferenza hanno significato.
3) spesso le persone però per un dolore con "significato"
4) Socrate (la filosofia?) è anche una terapia e da significato alla sofferenza grazie alla convinzione che la ricerca della verità, della virtù, del bene ecc siano obbiettivi per cui vale la pena soffrire ;)
Citazione di: Apeiron il 23 Dicembre 2017, 11:40:29 AM
Citazione di: green demetr il 22 Dicembre 2017, 22:08:31 PMCredo perchè così ci hanno insegnato. Ovviamente uno specchio per le allodole (che noi siamo). Certo che se la reazione a questo infimo stratagemma, è la convinzione che il dolore faccia maturare....allora non vivete certo nelle periferie milanesi. Mi pare l'altra faccia dello stesso medaglione con cui ci abituano a pensare agli unicorni: quando invece la gente soffre in una maniera che faccio sempre più fatica ad accettare. Quando vedi la vita spegnersi di fronte a te CHE FAI??? SOCRATE CHE FAI????
1) No, credo che sia per il fatto che naturalmente ci aspettiamo qualcosa di "positivo", come dice Simone Weil: "C'è nell'intimo di ogni essere umano, dalla prima infanzia sino alla tomba e nonostante tutta l'esperienza dei crimini commessi, sofferti e osservati, qualcosa che ci si aspetta invincibilmente che gli faccia del bene e non del male."
2)il dolore può far maturare se ha un "significato"... Di certo non tutto il dolore e non tutta la sofferenza hanno significato.
3) spesso le persone [soffrono*] però per un dolore con "significato".
4) Socrate (la filosofia?) è anche una terapia e da significato alla sofferenza grazie alla convinzione che la ricerca della verità, della virtù, del bene ecc siano obbiettivi per cui vale la pena soffrire ;)
________________
* Credo ti sia rimasto "nelle dita sulla tastiera"; un tempo si sarebbe detto "nella penna".
Concordo in pieno, salvo che con la citazione di Simon Weil.- Infatti purtroppo accadono anche suicidi per disperazione: la nostra irresistibile attesa di "qualcosa di positivo" ha dei limiti, più o meno ampi a seconda delle esperienze personali vissute da ciascuno; e capita purtroppo anche che questi limiti vengano superati dall' infelicità e dalla disperazione.
Citazione di: sgiombo il 23 Dicembre 2017, 14:52:36 PM
Citazione di: Apeiron il 23 Dicembre 2017, 11:40:29 AM
Citazione di: green demetr il 22 Dicembre 2017, 22:08:31 PMCredo perchè così ci hanno insegnato. Ovviamente uno specchio per le allodole (che noi siamo). Certo che se la reazione a questo infimo stratagemma, è la convinzione che il dolore faccia maturare....allora non vivete certo nelle periferie milanesi. Mi pare l'altra faccia dello stesso medaglione con cui ci abituano a pensare agli unicorni: quando invece la gente soffre in una maniera che faccio sempre più fatica ad accettare. Quando vedi la vita spegnersi di fronte a te CHE FAI??? SOCRATE CHE FAI????
1) No, credo che sia per il fatto che naturalmente ci aspettiamo qualcosa di "positivo", come dice Simone Weil: "C'è nell'intimo di ogni essere umano, dalla prima infanzia sino alla tomba e nonostante tutta l'esperienza dei crimini commessi, sofferti e osservati, qualcosa che ci si aspetta invincibilmente che gli faccia del bene e non del male." 2)il dolore può far maturare se ha un "significato"... Di certo non tutto il dolore e non tutta la sofferenza hanno significato. 3) spesso le persone [soffrono*] però per un dolore con "significato". 4) Socrate (la filosofia?) è anche una terapia e da significato alla sofferenza grazie alla convinzione che la ricerca della verità, della virtù, del bene ecc siano obbiettivi per cui vale la pena soffrire ;) ________________ * Credo ti sia rimasto "nelle dita sulla tastiera"; un tempo si sarebbe detto "nella penna".
- Concordo in pieno, salvo che con la citazione di Simon Weil.
- Infatti purtroppo accadono anche suicidi per disperazione: la nostra irresistibile attesa di "qualcosa di positivo" ha dei limiti, più o meno ampi a seconda delle esperienze personali vissute da ciascuno; e capita purtroppo anche che questi limiti vengano superati dall' infelicità e dalla disperazione.
Uno compie certi atti perchè pensa che la non-esistenza sia meglio della vita stessa, i.e. cerca di evitare il male. Ergo compie quel gesto cercando di realizzare il "bene".
In una
vecchia trasmissione di Piero Angela si vede un cieco che è persuaso di vederci (a proposito, ho visto che
hanno messo su Youtube l'intera serie, che considero molto istruttiva: consiglio di vederla): l'intervistatore gli muove il microfono davanti agli occhi, il cieco non se ne accorge, ma continua ad affermare di aver acquistato almeno buona parte della sua capacità di vedere.
Ora, se un cieco può essere persuaso di vederci, figuriamoci se una persona che sta anche malissimo non possa essere persuasa di essere felice. Questo mette in questione non solo l'attendibilità del parere di chi si ritiene felice, ma qualsiasi discorso sulla felicità: siamo costretti ad ammettere che non sappiamo di cosa stiamo parlando, esattamente come il cieco, che dicendo di vederci non sapeva di cosa stava parlando.
Questo non significa che siamo condannati a non poter parlare di nulla: basta parlarne con consapevolezza della criticabilità di ciò che diciamo e quindi ricerca delle vie migliori di esplorazione della questione.
Che vie seguire dunque?
È chiaro che il discorso sulla felicità s'intreccia con quello sul bene, a proposito del quale ci ritroviamo rimandati al relativismo a cui in pratica mi sono appena riferito. Ma il relativismo è un problema solo per chi ritiene che ciò che vale siano soltanto le affermazioni assolute, certe veritiere, indipendenti. Nella mia prospettiva invece ciò che vale è l'opinione che abbia l'umiltà di riconoscersi opinione.
Che vie possiamo seguire in questa condizione di esseri umani costretti ad essere umili?
Per me la via migliore è quella del cercare, che poi non è altro che un riesprimere ciò che con un linguaggio filosofico più astratto si dice divenire, di eraclitea memoria.
Tutto questo mi dice che per me il meglio da cercare non è la felicità, né il bene, ma il cercare stesso. Se sono in ricerca, se sto cercando, allora sono nel meglio delle mie possibilità, nel massimo delle mie facoltà e non ho nulla da invidiare a chi sostiene di essere felice.
Allora la domanda che è il tema di questa discussione viene a risultare una domanda che implicitamente si riferisce alla massa, alla gente che non riflette, a persone che purtroppo il mondo ha ridotto a burattini manovrati: sono queste le persone persuase di dover inseguire la felicità, o peggio, di averla raggiunta. Anch'io sono un burattino manovrato, ma sono un burattino che cerca. La persona che dice di essere felice è colei che, a proposito di ciò su cui si ritiene felice, ha smesso di cercare, di interrogarsi; se infatti si ponesse dubbi in proposito, non potrebbe più sostenere di essere felice. Il dubbio dunque impedisce di sostenere di essere felici, ma in cambio dona la coscienza di star esercitando il meglio delle proprie facoltà.
Di fronte a questo, non ho alcuna invidia di chi dice di essere felice e non desidero affatto essere felice: desidero solo non fermarmi su nulla. Ciò non significa che io neghi a me stesso qualsiasi soddisfazione o piacere concessi dalla vita: non li nego affatto, ma li vivo come parte della ricerca, la quale comprende anche momenti di sosta, di ristoro, visto che si tratta di ricerca umana.
Citazione di: Apeiron il 23 Dicembre 2017, 16:05:33 PM
Citazione di: sgiombo il 23 Dicembre 2017, 14:52:36 PM
Citazione di: Apeiron il 23 Dicembre 2017, 11:40:29 AM
1) No, credo che sia per il fatto che naturalmente ci aspettiamo qualcosa di "positivo", come dice Simone Weil: "C'è nell'intimo di ogni essere umano, dalla prima infanzia sino alla tomba e nonostante tutta l'esperienza dei crimini commessi, sofferti e osservati, qualcosa che ci si aspetta invincibilmente che gli faccia del bene e non del male."
- Concordo in pieno, salvo che con la citazione di Simon Weil.
- Infatti purtroppo accadono anche suicidi per disperazione: la nostra irresistibile attesa di "qualcosa di positivo" ha dei limiti, più o meno ampi a seconda delle esperienze personali vissute da ciascuno; e capita purtroppo anche che questi limiti vengano superati dall' infelicità e dalla disperazione.
Uno compie certi atti perchè pensa che la non-esistenza sia meglio della vita stessa, i.e. cerca di evitare il male. Ergo compie quel gesto cercando di realizzare il "bene".
CitazioneQuindi un bene relativo al male ancor peggiore che sarebbe il continuare a vivere...
Però a me l' espressione "qualcosa che ci si aspetta invincibilmente che gli faccia del bene e non del male." non dà l' idea del "male minore" o della "limitazione del danno" (non mi fa immaginare che si possa identificare anche con la propria morte autonomamente ricercata onde porre fine a una vita insopportabilmente infelice e ritenuta esserlo irrimediabilmente), ma invece mi fa pensare al "bene in senso positivo", e tale anche indipendentemente dalle alternative ancor peggiori che il suicida può aspettarsi, in cui può sperare dalla continuazione della vita.
E' un po' la differenza fra "suicidio" ed "eutanasia".
L' eutanasia é per esempio quella che personalmente vorrei potermi dare (...non troppo presto): la morte onde evitare probabili sofferenze future tali da non essere adeguatamente compensate da gioie, di modo che "valga la pena" di sopportarle, potendo ben essere soddisfatti della vita che si é vissuta, cosìcché e se -per assurdo- dipendesse da se stessi la si rivivrebbe.
Invece il suicidio per così dire (ma non senza un doveroso senso di pietà per chi vi ricorra) "classico" é il darsi la morte per disperazione, senza essere affatto contenti della propria vita, cosicché se -per assurdo- dipendesse da se stessi ci si guarderebbe bene dal decidere di riviverla.
La tua obiezione é certamente ineccepibile sul pano della logica formale.
Ma talmente ineccepibile in termini di logica formale da apparirmi piuttosto ovvia e (senza intenzioni polemiche e men che meno offensive) un po' banale.
Non volevo riferirmi alle tematiche del lutto e del suicidio.
Io mi riferivo a chi rinuncia alla ricerca della felicità.
Inoltre per essere forse più chiaro, vedo che non avete idea di cosa comporti accettare la sofferenza, la povertà e altri mali della società: che si crea una sacca di violenza, che è prima interiore personale, prima che sociale, che ne è solo il sintomo.
Dice bene Angelo quindi, perchè la gente violenta pensa infatti di essere felice, e invece la violenza è proprio la lampadina intermittente che suggerisce situazioni di sofferenza, tutt'altro che felici.
E' un bene il vostro ottimismo (perchè così lo considero) cari Apeiron e Sgiombo.
Ma evidentemente non vivete in situazioni di disagio sociale.
Citazione di: green demetr il 24 Dicembre 2017, 00:29:05 AM
Non volevo riferirmi alle tematiche del lutto e del suicidio.
Io mi riferivo a chi rinuncia alla ricerca della felicità.
Inoltre per essere forse più chiaro, vedo che non avete idea di cosa comporti accettare la sofferenza, la povertà e altri mali della società: che si crea una sacca di violenza, che è prima interiore personale, prima che sociale, che ne è solo il sintomo.
Dice bene Angelo quindi, perchè la gente violenta pensa infatti di essere felice, e invece la violenza è proprio la lampadina intermittente che suggerisce situazioni di sofferenza, tutt'altro che felici.
E' un bene il vostro ottimismo (perchè così lo considero) cari Apeiron e Sgiombo.
Ma evidentemente non vivete in situazioni di disagio sociale.
Citazione
Sì, io per primo ritengo di avere la fortuna di essere ottimista.
Inoltre non vivo attualmente situazioni di disagio.
Ma in passato ne ho vissute anche di gravi, sia sul piano personale - affettivo fin da bambino per traversie familiari (e su queste non credo sia il caso di soffermarmi), sia sul piano professionale (pesantemente perseguitato, leso nei miei diritti e "mobbato" da dirigenti ignoranti, incapaci, prepotenti e arroganti; giungendo a pensare al suicidio, anche se a dire il vero non "per l' immediato", cioé senza arrivare a compiere "preparativi pratici concreti", che sarebbe certo stato un salto di qualità; ma solo come extrema ratio nel caso la battaglia giudiziaria che avevo ingaggiato fosse finita in una sconfitta, probabilità di cui l' avvocato mi aveva reso edotto fin dall' inizio, date le deplorevoli condizioni della giustizia nel nostro paese e altrove; ma non essendo uso ad arrendermi senza prima combattere con tutte le mie forze, avevo accetto il rischio), sia sul piano delle mie convinzioni e ideai politico-sociali.
A questo proposito sono nato che Stalin era ancora in vita (poco meno di un anno prima che morisse) e la storia sembrava avviata ad un' inarrestabile marcia trionfale verso il progresso e una civiltà superiore e ora mi trovo in un periodo di reazione e di autentica decadenza civile di una gravità tale che la storia umana credo ne abbia conosciuti ben pochi altri simili.
Modestia a parte, quando ancora molti (anzi quasi tutti, che io sappia) a destra e a sinistra non capivano dove andava a parare la "perestroika" gorbacioviana e rispettivamente temevano o speravano un miglioramento e un ulteriore sviluppo del socialismo reale, mi ero reso conto benissimo che era in corso un pericoloso processo tendente verso disastrosi esiti controrivoluzionari; ho ancora una sorta di dossier con ritagli di giornali di allora -1986 - 1987!- soprattutto sovietici, cui avevo messo il titolo "L' inizio della fine dell' URSS?" (punto interrogativo suggeritomi dal mio ottimismo), e mia moglie ancora ricorda quegli anni come i più rabbiosi della mia vita, quelli nei quali ero relativamente più irritabile e talora perfino intrattabile; per fortuna le mie gravi traverse sul lavoro sono di un paio di decenni dopo).
Spesso dico che il mio e quello dei pochissimi miei coetanei che non si sono venduti alla reazione é "il destino di Filippo Buonarroti" (personaggio che potrebbe essere il protagonista di un' eventuale interessantissimo film sull' epoca attuale), il rivoluzionario compagno di Babeuf nella Congiura degli Eguali che, scampato per un pelo il patibolo, visse ancora per più di mezzo secolo: cinquant' anni e più di restaurazione e di sconfitte del progresso e della civiltà, durante i quali tantissimi compagni di lotta dei tempi migliori tradirono gli ideali della loro gioventù e si piegarono -spessissimo ricavandone privilegi e vantaggi personali: proprio come adesso!- al' andazzo corrente, mentre lui rimase sempre ostinatamente e fieramente un irriducibile rivoluzionario; e morì, a tarda età, proprio alla vigilia della "ripresa del cammino della storia" coi moti del '48.
Quindi credo di avere vissuto anche sofferenza, dolore, difficoltà, che hanno contribuito a rendere più interessante la mia vita e a farmene apprezzare e gustare ancor di più i largamente preponderanti "lati positivi".
Con tutto ciò resto convinto di essere (stato; almeno finora) decisamente fortunato oggettivamente, oltre che soggettivamente ottimista (il che é anche un' ulteriore oggettiva fortuna).
@sgiombo, le tue obiezioni sono certamente fondate, nel senso che sono una possibile interpretazione almeno di certi atti che vengono compiuti in certe condizioni depressive. Tuttavia rimango dell'idea che in genere si agisca per quello che si ritiene bene (anche inconsciamente, quando ad esempio ritrai la mano da un oggetto che scotta). Questo chiaramente non significa che in effetti uno cerchi di preferire il bene, sempre - in effetti è una "presa di posizione" molto forte che non sempre è fondata ma che è una posizione che è molto comune nel mondo antico e moderno tra i pensatori. Ovviamente ammetto che chi ha la "mente confusa" agisca per quello che si ritiene meglio anche se ciò in realtà è falso a causa di un fraintendimento della natura del "meglio" (tema molto ricorrente, ripeto). Mi sembra una "spiegazione" che funziona bene però capisco che in certi casi renda molto perplessi ;) [riguardo alla parola "soffrono" sì ogni tanto mi capita di dimenticarmi parole e devo dire che con la tastiera è ancora più facile che con la penna :) Grazie della segnalazione]
@Green, come ben sai mi affascina il buddhismo e con esso ritengo che quasi tutta la sofferenza è puro "dukkha", ovvero qualcosa che dovrebbe essere evitato. Miseria, disagio sociale, guerre ecc per esempio non portano a nessun "bene superiore", creano solo altra sofferenza. Viceversa certa sofferenza invece porta veramente a un "bene superiore" e questa sofferenza invece è "giusto" "sopportarla".
@Angelo, idem non invidio chi dice di essere felice. Anche perchè spesso la felicità "superficiale"a differenza di quella che si prova durante (e dopo) la ricerca è qualcosa di minor "valore". La cosa "brutta" è che chi non riflette crede che chi cerca è una sorta di masochista che si crea problemi e talvolta questa convinzione viene "acquisita" dallo stesso cercatore nei momenti più bui della sua ricerca. Semplicemente chi non prova a cercare non comprende. E nella nostra società devo dire che si ha una vera e propria paura della ricerca.
Potrebbe essere opportuno precisare un inganno in cui mi sembra che spesso si cade: il fatto che molti mali possano essere trasformati in bene viene scambiato con l'idea che il male, almeno per molti versi, possa essere in sé stesso un bene. Questa è una deduzione micidiale, perché sdoganare il male significa aprire la via all'oppressione del prossimo, una volta che ci siamo persuasi che sia un giusto prezzo da fargli pagare, una medicina amara per il bene, per il progresso.
Questa distinzione tra male e bene potrebbe essere criticata, giudicata priva di senso, visto che, in una prospettiva relativista, non è possibile distinguere nettamente tra male e bene. Come dicevo prima, però, il relativismo non c'impedisce di parlare: basta parlare con coscienza di criticabilità, opinabilità. In questo senso, quando dico che il concetto di bene va mantenuto più che possibile separato e contrapposto a quello di male, non lo dico da un punto di vista oggettivo, ma come un appello alle sensibilità: io ho questo sensibilità, la ritengo utile, costruttiva, e allora faccio appello alle sensibilità altrui.
Il male può essere trasformato in bene, ma ciò non significa che esso possa essere considerato bene già in partenza. Il male è male. Se non viene trasformato resta male e produce male.
Così, ad esempio, se in occasione di un lutto o una sofferenza la mia sensibilità viene affinata, la mia spiritualità risulta approfondita, sarebbe micidiale concludere che per certi versi quel lutto o quella sofferenza siano stati un bene. Sono e restano un male. Trasformarli in bene è tutto un altro discorso, che non ci autorizza a creare confusioni micidiali.
Citazione di: Angelo Cannata il 23 Dicembre 2017, 16:41:37 PM
In una vecchia trasmissione di Piero Angela si vede un cieco che è persuaso di vederci (a proposito, ho visto che hanno messo su Youtube l'intera serie, che considero molto istruttiva: consiglio di vederla): l'intervistatore gli muove il microfono davanti agli occhi, il cieco non se ne accorge, ma continua ad affermare di aver acquistato almeno buona parte della sua capacità di vedere.
Ora, se un cieco può essere persuaso di vederci, figuriamoci se una persona che sta anche malissimo non possa essere persuasa di essere felice. Questo mette in questione non solo l'attendibilità del parere di chi si ritiene felice, ma qualsiasi discorso sulla felicità: siamo costretti ad ammettere che non sappiamo di cosa stiamo parlando, esattamente come il cieco, che dicendo di vederci non sapeva di cosa stava parlando.
CitazioneL' esempio del cieco inconsapevole della propria patologia non dimostra che si può essere "illusi di essere felici": felici (in maggiore o minor misura, ovviamente) o si é oppure non si é .
Ci si può illudere circa una eventuale felicità futura o circa la realtà delle cause, dei motivi della propria felicità presentemente attuale, non di quest' ultima.
Infatti "felicità" significa appagamento di desideri e aspirazioni, e questa -che sia per una corretta, veritiera oppure per un' illusoria, errata valutazione della realtà oggettiva- é una condizione soggettiva che (in maggiore o minor misura) può essere reale o non essere reale; non può apparire falsamente reale (casomai falsamente ritenuti reali ne possono essere i motivi).
Per esempio un tossicodipendente che avesse la (molto rara, di fatto) fortuna di potersi curare adeguatamente e di provvedersi costantemente la droga sarebbe realmente felice (nel suo "paradiso" falso e illusorio, oltre che "artificiale").
E questo perché le sue aspirazioni, per banali e meschine che si possano ritenere da parte di altri, per effimere e malsicure per il futuro che possano oggettivamente essere, al momento sarebbero realmente soddisfatte (= al momento lui sarebbe realmente felice).
Allo stesso modo, ammettiamo che per il cieco dell' esempio il (sapere, veracemente o meno di ) vederci realmente sia ciò a cui aspira; non ci vede realmente, ma "ciò che gli risulta -sia pur erroneamente, falsamente- accadere", ciò che realmente sa é che ci vede realmente (anche se é una conoscenza falsa, anche se non accede realmente che ci veda); in questo caso il cieco sarà (illusoriamente, falsamente vedente, ma comunque) veracemente, effettivamente, realmente felice.
Questo non significa che siamo condannati a non poter parlare di nulla: basta parlarne con consapevolezza della criticabilità di ciò che diciamo e quindi ricerca delle vie migliori di esplorazione della questione.
Che vie seguire dunque?
È chiaro che il discorso sulla felicità s'intreccia con quello sul bene, a proposito del quale ci ritroviamo rimandati al relativismo a cui in pratica mi sono appena riferito.
CitazioneV' é un indubbiamente un intreccio ma non si devono confondere i concetti:
Una persona gretta e meschina, e anche una malvagia, può benissimo essere felice se la sua grettezza, meschinità o anche malvagità sono appagate dagli eventi che vive, esattamente come può esserlo una persona magnanima e generosa se la sua magnanimità e generosità sono appagate dagli eventi che vive.
Personalmente non scambierei una (pretesa, per quanto personalmente mi riguarda) felicità nella grettezza, meschinità e men che meno nella malvagità, con un' (pretesa, per quanto mi riguarda) infelicità nella magnanimità e nella generosità: per me, come per gli antichi stoici, "la virtù é premio a se stessa"; il che significa che la mia aspirazione maggiore di tutte é la "virtù"; e se questa é appagata, a dispetto dell' inappagamento di qualsiasi altra di gran lunga minore, il mio "bilancio interiore complessivo" é un' esperienza di felicità
Ma il relativismo è un problema solo per chi ritiene che ciò che vale siano soltanto le affermazioni assolute, certe veritiere, indipendenti. Nella mia prospettiva invece ciò che vale è l'opinione che abbia l'umiltà di riconoscersi opinione.
Che vie possiamo seguire in questa condizione di esseri umani costretti ad essere umili?
Per me la via migliore è quella del cercare, che poi non è altro che un riesprimere ciò che con un linguaggio filosofico più astratto si dice divenire, di eraclitea memoria.
Tutto questo mi dice che per me il meglio da cercare non è la felicità, né il bene, ma il cercare stesso. Se sono in ricerca, se sto cercando, allora sono nel meglio delle mie possibilità, nel massimo delle mie facoltà e non ho nulla da invidiare a chi sostiene di essere felice.
CitazioneInfatti sei felice perché la tua aspirazione alla ricerca é appagata (riesci a praticarla), esattamente come sarebbe felice un delinquente che riuscisse a d appagare la sua aspirazione a delinquere (facendola franca); sia chiaro che non c' é alcun intento offensivo in queste parole, esse valgono tali e quali anche per la mia propria felicità e per quella di chiunque altro: "esattamente come" si riferisce all' essere felici, non certo ai modi e alle condizioni dell' esserlo!
Allora la domanda che è il tema di questa discussione viene a risultare una domanda che implicitamente si riferisce alla massa, alla gente che non riflette, a persone che purtroppo il mondo ha ridotto a burattini manovrati: sono queste le persone persuase di dover inseguire la felicità, o peggio, di averla raggiunta. Anch'io sono un burattino manovrato, ma sono un burattino che cerca. La persona che dice di essere felice è colei che, a proposito di ciò su cui si ritiene felice, ha smesso di cercare, di interrogarsi; se infatti si ponesse dubbi in proposito, non potrebbe più sostenere di essere felice. Il dubbio dunque impedisce di sostenere di essere felici, ma in cambio dona la coscienza di star esercitando il meglio delle proprie facoltà.
Di fronte a questo, non ho alcuna invidia di chi dice di essere felice e non desidero affatto essere felice: desidero solo non fermarmi su nulla.
CitazioneErgo: fin che non ti "fermi" sei felice, poichè stai ottenendo ciò che desideri, esattamente come chi desiderasse "fermarsi" e riuscisse a "fermarsi" (per la cronaca: non é nemmeno il mio personale caso), che pure starebbe ottenendo ciò che desiderasse.
Ciò non significa che io neghi a me stesso qualsiasi soddisfazione o piacere concessi dalla vita: non li nego affatto, ma li vivo come parte della ricerca, la quale comprende anche momenti di sosta, di ristoro, visto che si tratta di ricerca umana.
CitazioneHai le tue aspirazioni, che per tua fortuna sono sostanzialmente soddisfatte (= sei felice).
@Angelo, bravo hai fatto bene a puntualizzare. Non è che il "dolore" in sé sia "positivo". Tuttavia è una sorta di "male necessario" ;)
Citazione di: sgiombo il 24 Dicembre 2017, 10:37:44 AML' esempio del cieco inconsapevole della propria patologia non dimostra che si può essere "illusi di essere felici": felici (in maggiore o minor misura, ovviamente) o si é oppure non si é .
Ci si può illudere circa una eventuale felicità futura o circa la realtà delle cause, dei motivi della propria felicità presentemente attuale, non di quest' ultima.
Infatti "felicità" significa appagamento di desideri e aspirazioni, e questa -che sia per una corretta, veritiera oppure per un' illusoria, errata valutazione della realtà oggettiva- é una condizione soggettiva che (in maggiore o minor misura) può essere reale o non essere reale; non può apparire falsamente reale
Si tratta di chiarire se il soggetto può ingannare sé stesso oppure no. A me sembra di sì. Il motivo mi sembra dimostrabile: la persona che dice di essere felice può anche trovarsi in una condizione psicologica che la induce a trascurare, rimuovere dalla coscienza, ciò che le dice che non è vero che è felice. Questo mi sembra che accada, ad esempio, nei fanatici delle religioni, oppure in chi è stato plagiato da guaritori impostori: il bisogno di sicurezza, di sentire di aver avuto successo, di aver raggiunto lo scopo proposto, può indurre a far finta che tutto vada bene e autoconvincersi che tutto sta andando bene. Una persona che si trova in queste condizioni dirà di essere felice soltanto perché in quel momento sta eliminando dalla propria coscienza tutto ciò che smentisce il suo bisogno psicologico di sentirsi felice.
Può accadere che lo stesso interessato riconosca, in un momento successivo, che si stava ingannando, che aveva scelto di far parlare solo una parte di sé e metterne a tacere altre. Cosa diremo ad una persona in questa situazione? Le diremo "No, non è vero, tu eri davvero felice, perché la felicità non può apparire falsamente reale"?
Citazione di: Apeiron il 24 Dicembre 2017, 10:39:01 AM
Non è che il "dolore" in sé sia "positivo". Tuttavia è una sorta di "male necessario"
La parola "necessario" mi suona pericolosa. Necessario per chi? Gli Americani possono ritenere che sganciare bombe in un paese sia un male
necessario per esportare democrazia.
Preferirei dire:
qui ed
ora questo male
mi sembra inevitabile; però continuerò a fare di tutto per cercare in ogni momento, se possibile, di evitarlo, perché potrei sbagliarmi.
Citazione di: Angelo Cannata il 24 Dicembre 2017, 11:10:03 AM
Citazione di: Apeiron il 24 Dicembre 2017, 10:39:01 AMNon è che il "dolore" in sé sia "positivo". Tuttavia è una sorta di "male necessario"
La parola "necessario" mi suona pericolosa. Necessario per chi? Gli Americani possono ritenere che sganciare bombe in un paese sia un male necessario per esportare democrazia. Preferirei dire: qui ed ora questo male mi sembra inevitabile; però continuerò a fare di tutto per cercare in ogni momento, se possibile, di evitarlo, perché potrei sbagliarmi.
Complimenti, Angelo ;) hai ragione... con "necessario" intendevo proprio questo! nel senso che potrei appunto pensare che non sia "inevitabile"!
Una tipica insidia delle comunicazioni scritte ;)
Buon Natale a tutti!
Citazione di: Angelo Cannata il 24 Dicembre 2017, 10:53:11 AM
Citazione di: sgiombo il 24 Dicembre 2017, 10:37:44 AML' esempio del cieco inconsapevole della propria patologia non dimostra che si può essere "illusi di essere felici": felici (in maggiore o minor misura, ovviamente) o si é oppure non si é .
Ci si può illudere circa una eventuale felicità futura o circa la realtà delle cause, dei motivi della propria felicità presentemente attuale, non di quest' ultima.
Infatti "felicità" significa appagamento di desideri e aspirazioni, e questa -che sia per una corretta, veritiera oppure per un' illusoria, errata valutazione della realtà oggettiva- é una condizione soggettiva che (in maggiore o minor misura) può essere reale o non essere reale; non può apparire falsamente reale
Si tratta di chiarire se il soggetto può ingannare sé stesso oppure no. A me sembra di sì. Il motivo mi sembra dimostrabile: la persona che dice di essere felice può anche trovarsi in una condizione psicologica che la induce a trascurare, rimuovere dalla coscienza, ciò che le dice che non è vero che è felice.
CitazioneCerto, concordo.
Ma in questo modo é (realmente) felice (molto probabilmente si tratta di una felicità molto "precaria", effimera, destinata a venir meno col probabile venire al pettine prima o poi dei nodi della realtà che il soggetto in questione ignora o circa i quali si illude; ma comunque al momento é una reale, autentica, non illusoria felicità, sebbene fondata sull' illusione).
Illusori, falsi sono i motivi della felicità, reale é quest' ultima (pensa alle considerazioni di Giacomo Leopardi sulla maggior felicità dei primitivi, con le loro mitologiche illusioni, rispetto ai moderni, con le loro vere conoscenze).
Questo mi sembra che accada, ad esempio, nei fanatici delle religioni, oppure in chi è stato plagiato da guaritori impostori: il bisogno di sicurezza, di sentire di aver avuto successo, di aver raggiunto lo scopo proposto, può indurre a far finta che tutto vada bene e autoconvincersi che tutto sta andando bene. Una persona che si trova in queste condizioni dirà di essere felice soltanto perché in quel momento sta eliminando dalla propria coscienza tutto ciò che smentisce il suo bisogno psicologico di sentirsi felice.
Può accadere che lo stesso interessato riconosca, in un momento successivo, che si stava ingannando, che aveva scelto di far parlare solo una parte di sé e metterne a tacere altre. Cosa diremo ad una persona in questa situazione? Le diremo "No, non è vero, tu eri davvero felice, perché la felicità non può apparire falsamente reale"?
CitazionePotremmo dirgli (ma sarebbe un' inutile "girare il coltello nella piaga", dal momento che già se ne sarà reso amaramente conto) che, purtroppo, la sua felicità reale, fondata sull' illusione, si é rivelata effimera e ha lasciato posto a un' infelicità altrettanto reale ma che potrebbe rivelarsi ben più salda e duratura, essendo fondata sulla conoscenza vera di come stanno le cose realmente.
Citazione di: Apeiron il 24 Dicembre 2017, 12:17:21 PM
Citazione di: Angelo Cannata il 24 Dicembre 2017, 11:10:03 AM
Citazione di: Apeiron il 24 Dicembre 2017, 10:39:01 AMNon è che il "dolore" in sé sia "positivo". Tuttavia è una sorta di "male necessario"
La parola "necessario" mi suona pericolosa. Necessario per chi? Gli Americani possono ritenere che sganciare bombe in un paese sia un male necessario per esportare democrazia. Preferirei dire: qui ed ora questo male mi sembra inevitabile; però continuerò a fare di tutto per cercare in ogni momento, se possibile, di evitarlo, perché potrei sbagliarmi.
Complimenti, Angelo ;) hai ragione... con "necessario" intendevo proprio questo! nel senso che potrei appunto pensare che non sia "inevitabile"!
Una tipica insidia delle comunicazioni scritte ;)
Buon Natale a tutti!
CitazioneMa talora può anche accadere e talora purtroppo effettivamente accade che l' infelicità non sembri essere a chi la prova superabile (e perfino che non la sia effettivamente, in realtà); e allora l' unica soluzione ragionevole é il suicidio, come male minore ovvero come bene relativo (alla vita ritenuta, a torto o magari anche a ragione, irrimediabilmente infelice).
Irrimediabilmente la vita (in generale, complessivamente intesa; e ancor più e a maggior ragione la vita autocosciente) é per certi aspetti meravigliosa e bellissima, per altri orrenda e cattivissima.
Se si vuole "guardare in faccia la realtà", bisogna riconoscere che questo é in generale inevitabile (pur essendo spesso superabili, e dunque da cercare ad ogni costo di superare, magari a costo di durissimi sacrifici, condizioni particolari concrete di infelicità).
D' altra parte ogni concetto umanamente pensabile é inevitabilmente relativo: non potremmo avere coscienza del bene se non avessimo coscienza del male, né del "bello" senza il "brutto", della "gioa" senza il "dolore", della "felicità" senza l' infelicità", ecc.
C'é una sorta di profonda "saggezza elementare" nel mito mesopotamico (poi ebraico e cristiano, ma probabilmente in parte frainteso e deformato in queste ultime accezioni) del peccato originale e della perdita del "paradiso terrestre" (alquanto indifferente piuttosto che buono, non avendosi colà e allora "conoscienza del bene e dl male"), in seguito all' assimilazione del frutto "dell' albero della conoscenza del bene e del male": parafrasi a mio avviso straordinariamente trasparente del passaggio dell' umanità dall' animalità inconsapevole di se stessa e della propria vita all' autocoscienza, dalla "storia naturale" alla cultura o "storia umana").
Inoltre io credo che la felicità o l'infelicità non dipendano da ciò che ci accade, ma da come interpretiamo i fatti secondo il nostro giudizio. Soffriamo perché formuliamo, istintivamente, un giudizio negativo su un determinato fatto. Ad esempio se scopriamo che un falso amico ha sparlato di noi e ci ha diffamato la reazione quasi universale è provare delusione, sofferenza, ma scoprire questo è proprio così negativo? Nient'affatto, anzi, può essere visto come un bene poiché ci apre gli occhi su quella persona ed è meglio scoprirlo piuttosto che continuare a condividere la vita con un soggetto che può sempre farci del male senza che noi lo comprendiamo. Secondo me se ci allenassimo a vedere gli aspetti positivi anche nel male saremmo certamente più vicini alla felicità, molte cose "negative" diventerebbero meno terribili di quanto ci appaiono.
Sì, molte cose negative diventerebbero meno terribili, ma si verifica anche l'opposto, cioè molti mali di cui non ci accorgevamo ci risulteranno molto più gravi e quindi ne soffriremo molto di più.
In tutto questo, sembra che il bilancio complessivo sia negativo, come insegna Dante nel purgatorio: "il perder tempo a chi più sa più spiace", oppure anche il proverbio "Il riso (= la felicità) abbonda nella bocca degli sciocchi".
In questo senso è possibile aumentare la felicità soltanto adottando interpretazioni più impoverite. Quanto più useremo interpretazioni intelligenti, critiche, aperte, tanto più saremo infelici.
C'è da aggiungere però che le interpretazioni intelligenti forniscono in aggiunta due strumenti contro l'eccesso di infelicità: la critica di sé stesse e una certa maggiore, più profonda, consapevolezza anche di ciò che è positivo, costruttivo, incoraggiante.
È per questo che la persona più intelligente preferisce la consapevolezza, l'intelligenza, nonostante da ciò derivi una diminuzione del ridere e festeggiare (dico diminuzione, non azzeramento, altrimenti ci sarebbe qualcosa che non va, qualcosa di patologico): perché la persona intelligente, anche quando non è felice, tuttavia vive, percepisce, dentro di sé, delle ricchezze e delle profondità che trova di gran lunga preferibili a ciò che lo sciocco chiama felicità, anche perché non essere felici non significa necessariamente essere infelici: può anche significare, ad esempio, trovarsi in profonda e serena contemplazione di un'esperienza, un paesaggio, un'opera d'arte. Ad esempio, penso che a molti sia accaduto che, ascoltando una musica o leggendo un romanzo, si percepiscano delle profondità che l'autore di quell'opera riesce a trasmetterti, profondità che non suscitano propriamente felicità, ma piuttosto piacere di navigare in significati che dolcemente di avvolgono, ti abbracciano, ti trasportano e senti che stai conoscendo cose di cui prima non avresti neanche potuto immaginare l'esistenza.
È questo che mi fa pensare che i marziani, cioè mondi del tutto sconosciuti, inesplorati, inimmaginabili, esistono davvero, ma si trovano sotto i nostri occhi, vicini, raggiungibili, si trovano nell'arte, nel camminare dello spirito, nel crescere, senza alcun bisogno di scomodare energie fantasiose di tipo New Age, o la fisica quantistica, o esoterismi di ogni sorta, che poi sono cose che hanno tutte in comune lo stesso difetto: non sono altro che metafisica, cioè tentativo di oggettivare i luoghi della felicità in modo da sentirli padroneggiabili, raggiungibili senza impegnare un crescere della propria soggettività.
a mio avviso non ha senso concepire mete esistenziali alternative alla felicità, se si indica con questo concetto quella condizione di sommo appagamento esistenziale nel quale la persona vedrebbe pienamente esauditi e concretizzati tutti suoi più fondamentali profondi desideri ed auspici (certamente irraggiungibile nell'imperfezione di questo mondo). In questo senso la ricerca della felicità andrebbe posta come un "trascendentale", l'elemento necessario ed inevitabile che giuda ogni pulsione ed ogni agire di un essere, e non un'opzione fra le tante. Ciascuno di noi persegue differenti valori, e la felicità è il vissuto che sorge in noi nella coscienza della realizzazione di tali valori, la felicità non è un valore accanto gli altri, ma ciò che ne accompagna la realizzazione di essi, qualunque essi siano. Non ha senso contrapporre o considerare un'alternativa fra la ricerca della felicità, ad esempio, all'amore per la verità e la conoscenza. Chi desidera dedicare la sua vita al sapere porrà la ricerca della felicità come condizionata da tale valore, cioè la conquista di un livello massimo di conoscenza, in quel caso la conoscenza sarebbe ciò che rende felici. Così come non ha senso contrapporre la felicità alla virtù. Piuttosto la felicità andrebbe visto come quel sentimento concomitante alla coscienza di aver agito secondo virtù, cioè quel senso di soddisfazione nel vedere di aver contributo alla realizzazione del proprio ideale di Bene. Occorrerebbe arrivare a dire che un virtuoso non felice di essere tale, o di agire come tale, che vede il suo perseguire la virtù in termini prevalentemente di sacrificio non andrebbe considerato veramente come "virtuoso", dato che il suo agire non coinciderebbe con le sue intenzioni profonde, intenzioni, fondate sui nostri valori, dovrebbero una volta realizzate darci quel senso di appagamento dato dalla constatazione della coerenza fra la realtà e questi valori. La felicità è immorale solo quando malvagie sono le intenzioni il cui esaudimento la determina. L'errore sta nell'identificare i desideri il cui esaudimento produce felicità solo come intenzionati all'acquisizione di beni e valori superficiali, legati alla sfera del mondo sensibile, esteriore, non comprendendo che, accanto a un livello di piacere superficiale, che accade nell'immediatezza del contatto dell'Io con gli stimoli esteriori, esiste un livello più profondo, per il quale il piacere segue alla realizzazione di valori spirituali che sono il correlato oggettivo dei sentimenti soggettivi che sorgono dal nucleo profondo della nostra personalità, quel livello di sensibilità assiologica più profondo, costante, che caratterizza l'individualità al di là delle varie contingenze inerenti le mutevoli situazioni in cui ci troviamo a vivere.
In base a questo tuo ragionamento sul virtuoso non felice di essere tale, Gesù, visto che mentre gli piantavano i chiodi non si dimostrava felice, non può essere considerato uno veramente virtuoso.
È da precisare che, secondo le narrazioni evangeliche, Gesù scelse di sua volontà di morire in croce, poiché poteva sottrarsi ad essa, sapeva di potersi sottrarre, sapeva cosa lo aspettava, ma non fece nulla per sottrarsi, anzi, si comportò in modo da provocare attivamente la rabbia degli accusatori contro di lui.
Paolo Borsellino, certamente non sprizzava felicità nel momento in cui diceva "Siamo dei cadaveri che camminano", ad indicare la piena consapevolezza di essere destinato a venir ucciso dalla mafia. Anche lui quindi non può essere considerato uno veramente virtuoso.
Citazione di: Angelo Cannata il 26 Dicembre 2017, 22:23:54 PMIn base a questo tuo ragionamento sul virtuoso non felice di essere tale, Gesù, visto che mentre gli piantavano i chiodi non si dimostrava felice, non può essere considerato uno veramente virtuoso. È da precisare che, secondo le narrazioni evangeliche, Gesù scelse di sua volontà di morire in croce, poiché poteva sottrarsi ad essa, sapeva di potersi sottrarre, sapeva cosa lo aspettava, ma non fece nulla per sottrarsi, anzi, si comportò in modo da provocare attivamente la rabbia degli accusatori contro di lui. Paolo Borsellino, certamente non sprizzava felicità nel momento in cui diceva "Siamo dei cadaveri che camminano", ad indicare la piena consapevolezza di essere destinato a venir ucciso dalla mafia. Anche lui quindi non può essere considerato uno veramente virtuoso.
per quanto riguarda il dolore fisico, siamo in un'ottica di "al di là del bene e del male". Il provare dolore fisico come ad esempio quello che può aver provato Gesù sulla croce è un fenomeno che la vittima subisce al di là del suo libero arbitrio, indipendentemente dai valori personali, dai quali invece dipende il piacere e il dolore a livello spirituale. Quindi il dolore fisico che si può subire come conseguenza di un agire virtuoso non ci rivela nulla dello spessore morale (cioè spirituale) della persona, ma semplicemente che questa persona non è un angelo, un puro spirito, ma ha anche un corpo, mentre la moralità è una realtà tipicamente spirituale. La spiritualità entrerebbe in causa invece nel l'esempio di Borsellino, e posso certamente immaginare che la coscienza di essere, come disse testualmente, "un morto che cammina", non gli provocasse alcun piacere, anzi sofferenza e profonda tristezza. ma questo non esclude o diminuisce in alcun modo la sua virtù, testimoniata dal piacere o felicità di sapere di contribuire al perseguimento del valore della legalità tramite il suo impegno antimafia. In quel caso assistiamo a un conflitto di valori: da un lato l'impegno per la legalità, dall'altro la sua vita e la sua famiglia. Anche la propria vita rappresenta certamente un valore positivo, e dunque la sofferenza nel vederla a rischio non è affatto indice di immoralità, al contrario, è coscienza del valore positivo della propria esistenza nonché dell'amore verso la propria famiglia, che certamente soffrirà profondamente la mancanza. Ogni azione che compiamo implica sempre questo conflitto fra i valori, per il quale la coerenza con alcuni di essi porta a sacrificarne altri, meno importanti evidentemente, ma comunque rilevanti. E questa rilevanza fa sì che il loro sacrificio provochi tristezza nel soggetto, ma una tristezza meno forte della soddisfazione che ci dà l'essere coerenti con i valori interiormente più importanti per noi, che sono poi quello che ispirano le decisioni concrete. Borsellino non era certamente un masochista a cui faceva piacere morire, ma la sua amarezza nulla toglieva alla soddisfazione interiore, dominante che provava nell'andare fino in fondo ai propri doveri di uomo di stato e di legge, soddisfazione che era più forte della tristezza, probabilmente non a livello emotivo-superficiale, ma a livello più profondo, perché altrimenti avrebbe agito diversamente, avrebbe rivelato una diversa gerarchia valoriale personale anteponendo la propria vita all'esercizio del proprio dovere. E solo in quel caso avrebbe avuto un senso cogliere uno sminuimento (anche se certamente umano e comprensibile) della caratura morale dell'uomo. L'agire morale costituisce un ambito complesso in cui entrano in gioco motivazioni contrastanti, per il quale la stessa linea d'azione chiama in in causa diversi fattori che determinano diversi riscontri sentimentali, e ogni valutazione presuppone un atteggiamento analitico che distingua questi singoli fattori.
Citazione di: davintro il 27 Dicembre 2017, 00:28:35 AM
Citazione di: Angelo Cannata il 26 Dicembre 2017, 22:23:54 PMIn base a questo tuo ragionamento sul virtuoso non felice di essere tale, Gesù, visto che mentre gli piantavano i chiodi non si dimostrava felice, non può essere considerato uno veramente virtuoso. È da precisare che, secondo le narrazioni evangeliche, Gesù scelse di sua volontà di morire in croce, poiché poteva sottrarsi ad essa, sapeva di potersi sottrarre, sapeva cosa lo aspettava, ma non fece nulla per sottrarsi, anzi, si comportò in modo da provocare attivamente la rabbia degli accusatori contro di lui. Paolo Borsellino, certamente non sprizzava felicità nel momento in cui diceva "Siamo dei cadaveri che camminano", ad indicare la piena consapevolezza di essere destinato a venir ucciso dalla mafia. Anche lui quindi non può essere considerato uno veramente virtuoso.
per quanto riguarda il dolore fisico, siamo in un'ottica di "al di là del bene e del male". Il provare dolore fisico come ad esempio quello che può aver provato Gesù sulla croce è un fenomeno che la vittima subisce al di là del suo libero arbitrio, indipendentemente dai valori personali, dai quali invece dipende il piacere e il dolore a livello spirituale. Quindi il dolore fisico che si può subire come conseguenza di un agire virtuoso non ci rivela nulla dello spessore morale (cioè spirituale) della persona, ma semplicemente che questa persona non è un angelo, un puro spirito, ma ha anche un corpo, mentre la moralità è una realtà tipicamente spirituale. La spiritualità entrerebbe in causa invece nel l'esempio di Borsellino, e posso certamente immaginare che la coscienza di essere, come disse testualmente, "un morto che cammina", non gli provocasse alcun piacere, anzi sofferenza e profonda tristezza. ma questo non esclude o diminuisce in alcun modo la sua virtù, testimoniata dal piacere o felicità di sapere di contribuire al perseguimento del valore della legalità tramite il suo impegno antimafia. In quel caso assistiamo a un conflitto di valori: da un lato l'impegno per la legalità, dall'altro la sua vita e la sua famiglia. Anche la propria vita rappresenta certamente un valore positivo, e dunque la sofferenza nel vederla a rischio non è affatto indice di immoralità, al contrario, è coscienza del valore positivo della propria esistenza nonché dell'amore verso la propria famiglia, che certamente soffrirà profondamente la mancanza. Ogni azione che compiamo implica sempre questo conflitto fra i valori, per il quale la coerenza con alcuni di essi porta a sacrificarne altri, meno importanti evidentemente, ma comunque rilevanti. E questa rilevanza fa sì che il loro sacrificio provochi tristezza nel soggetto, ma una tristezza meno forte della soddisfazione che ci dà l'essere coerenti con i valori interiormente più importanti per noi, che sono poi quello che ispirano le decisioni concrete. Borsellino non era certamente un masochista a cui faceva piacere morire, ma la sua amarezza nulla toglieva alla soddisfazione interiore, dominante che provava nell'andare fino in fondo ai propri doveri di uomo di stato e di legge, soddisfazione che era più forte della tristezza, probabilmente non a livello emotivo-superficiale, ma a livello più profondo, perché altrimenti avrebbe agito diversamente, avrebbe rivelato una diversa gerarchia valoriale personale anteponendo la propria vita all'esercizio del proprio dovere. E solo in quel caso avrebbe avuto un senso cogliere uno sminuimento (anche se certamente umano e comprensibile) della caratura morale dell'uomo. L'agire morale costituisce un ambito complesso in cui entrano in gioco motivazioni contrastanti, per il quale la stessa linea d'azione chiama in in causa diversi fattori che determinano diversi riscontri sentimentali, e ogni valutazione presuppone un atteggiamento analitico che distingua questi singoli fattori.
Citazione
Concordo in pieno: la perfezione non esiste in generale, e in particolare non esiste la felicità perfetta (non é possibile avere la botte piena e la moglie ubriaca, come mi piace ripetere).
Se Gesù Cristo ha liberamente (da coercizioni estrinseche) scelto la croce malgrado il dolore e la morte che comportava, se Paolo Borsellino ha liberamente (da coercizioni estrinseche) scelto di continuare la sua battaglia contro la mafia malgrado l' altissima probabilità (o "quasi-certezza") di essere ammazzato che comportava era perché la felicità recata loro dalla "virtù" era ben maggiore dell' infelicità recata loro dal dolore, e dunque la loro magnanimità li ha intrinsecamente determinati a scegliere il rispettivo sacrificio.
In una discussione sulla felicità, non può mancare l'intervento del mio omonimo, colui il quale si può meritare il titolo di Filosofo della Felicità. ;D
Lettera a Meneceo sulla Felicità, di Epicuro:
qui.