Il pensiero debole, espressione così antipatica per me ( e non saprei dire il perchè) che dal sapere di cosa si tratti mi sono tenuto fin qui lontano.
E' pur vero che trattandosi del filosofo italiano contemporaneo più citato, non ho potuto fare a meno di sentir esporre il suo pensiero, seppur a spizzichi e bocconi, ma solo quel tanto che basta per rafforzare la mia antipatia per esso.
Questioni troppo cervellotiche per poter suscitare il mio interesse, e anzi a dirla tutta l'essenza delle seghe mentali.
Però, la prima volta che vado ad indagarne veramente il suo pensiero, cioè cinque minuti fa, su un sito della rai, è dir poco che esso mi è apparso chiaro, perché mi è apparso il mio pensiero.
Evidentemente, anche ciò che non si studia, alla fine lo si può far proprio solo respirando il clima culturale, per cui il mio libero pensiero tanto libero non è, e di questo io non mi ero mai illuso, facendomi bastare la sensazione di un libero pensiero.
Riassumendo si tratta di ridurre la verità ad interpretazione, e la realtà a descrizione, e ditemi se di questo io non vi abbia abbondantemente ammorbati fin qui, tanto che mi chiedo quanto perciò possa esservi risultato antipatico.
Però lasciatemelo dire, che scelta infelice quella dell'espressione ''pensiero debole''.
Come dicono a Genova, nell'acqua che non si vuol bere ci si annega, e io sono annegato mio malgrado nella filosofia di Vattimo, almeno per quel poco che ho fin qui sorseggiato, ma pur con la sensazione che non ci sarebbe altro da aggiungere a quanto sopra detto, per quanto le cose si possono sempre ben complicare a volerlo.
Cos'altro potrei aggiungere dunque, per scoprire magari poi che Vattimo già l'aveva detto?
Aggiungo che nella misura in cui l'uomo ammetterà le sue presunzioni, allora non avrà più limiti insuperabili.
La falsa modestia nell'ammettere i propri limiti, vale la dichiarazione di un fine raggiungibile solo superandoli.
Però a me piace pensare a un uomo libero, e libero in particolare da ogni finalità, anche quando ciò si riducesse a una pura sensazione di libertà, alla quale comunque non saprei rinunciare.
Chi siamo e dove andiamo?
Seppure potessimo io non vorrei saperlo.
Però qualunque favola a tal proposito è la benvenuta, se accompagnata dalla consapevolezza che lo sia.
Questa consapevolezza però mi pare sia finora mancata, e semmai vi si giunga, occorre aggiungere ad essa quella della sua importanza vitale per noi.
Una favola, o descrizione della realtà, da rivalutare dunque, ma per quel che è, come ciò di cui non possiamo fare a meno per vivere.
E' una filosofia della responsabilità che sostituisce le interpretazioni alla verità, sapendo che da quelle interpretazioni dipende la nostra esistenza che nessuna verità potrà garantire salvandoci dall'ansia di vivere.
Quell'ansia è la vita stessa, capace di raccontare sempre favole nuove, che non si annoierà chi vorrà ascoltarle.
Nell'ascoltarle si configurerà un mondo, come se ci vivesse davvero dentro, almeno nel tempo in cui la favola viene raccontata.
Se le favole sono vitali per l'uomo, nessuna supererà in importanza la sua vita, ed esse dunque non saranno mai verità a cui la sua vita potrà essere sacrificata, come è avvenuto finora.
D'altra parte l'uomo ha sempre dimostrato di saper sacrificare la propria vita per gli altri, consapevole che essa non inizia e finisce nella sua individualità.
L'individualità comporta diversità, che è la strategia della vita, e più che la singola vita è dunque l'individualità che non va sacrificata. Io avrei potuto essere voi, ma ho il dovere di essere io, perché più siamo, più idee abbiamo, e più idee abbiamo, di più soluzioni disponiamo, non potendo mai prevedere quale sarà quella giusta, per quel momento, e per quell'uomo che di volta in volta lo abita.
Mi sorge però spontanea una domanda: se tutto è interpretazione e favola, perché dovrei preferire la libertà data dall''esserne consapevole " a quella di vivere nelle favole? Se non c' è alcuna finalità, pari sono, anzi, direi che le favole sono pure più piacevoli, alla fine.
Citazione di: Alexander il 26 Luglio 2025, 12:50:25 PMMi sorge però spontanea una domanda: se tutto è interpretazione e favola, perché dovrei preferire la libertà data dall''esserne consapevole " a quella di vivere nelle favole? Se non c' è alcuna finalità, pari sono, anzi, direi che le favole sono pure più piacevoli, alla fine.
Se tu credi che la consapevolezza aumenti il tuo grado di libertà, dovresti spiegare in che senso la sua mancanza te la toglie.
Le facce di un dado hanno lo stesso grado di libertà nell'uscire, e il motivo direi che sia la mancanza di consapevolezza del dado.
Noi siamo in un certo senso un dado truccato.
Se abbiamo la consapevolezza che l'uscita della faccia uno significa ''precipitare in un burrone'', la faccia uno avrà minor probabilità di uscire rispetto alle altre.
Anche se noi abbiamo la sensazione di fare scelte libere, non possiamo dimostrarlo.
Perchè, se ammettiamo che noi scegliamo di scegliere, allora dovremo ammettere in una regressione infinita che noi scegliamo di scegliere di scegliere di scegliere...., il che renderebbe ogni scelta impossibile di fatto, se ogni scelta comporta un tempo in cui avviene.
Tutto quello che noi sappiamo è che facciamo delle scelte.
Questo cioè è un fatto.
Il come interpretarlo è tutta un altra storia.
Se stiamo alle nostre sensazioni le nostre scelte sono libere, e lungi da me il voler dimostrare il contrario.
Però oltre i fatti, che non sono la realtà, ma il risultato delle nostre esperienze nella realtà, ci sono solo le interpretazioni, con le quali ancor più dalla realtà ci allontaniamo, in un rapporto che diviene sempre più indiretto.
Nessuno però ci impedisce di dare preminenza alle nostre sensazioni, reclamando un rapporto diretto con la realtà, sostenuti anche dal fatto che le condividiamo.
Questo però, andando a ritroso, significa attribuire preminenza al fattore umano, il che non è proibito fare, purché lo si dichiari in modo netto, senza fare ricorso a un dire non detto, talchè quando si parlerà di verità occorrerà specificare che non è assoluta, ma che è la verità relativa dell'uomo, quindi non assoluta, salvo non volersi spingere ad attribuire assolutezza all'uomo.
Se però parliamo di una verità non assoluta non dovremmo più usare il termine coniato per esprimere qualcosa invece di assoluto.
Poi, in mancanza di termini nuovi, ci sta pure che si usino i vecchi in senso nuovo, ma sempre col rischio di creare fraintendimenti.
Attribuire centralità al fattore umano è quello che in effetti fanno le religioni, seppure hanno il pudore di dichiararlo in modo indiretto. Così ad esempio se si affermerà che l'uomo è fatto a immagina divina, mutatis mutandis, significa affermare che noi conosciamo il volto di Dio.
I musulmani la pensano diversamente , e per tal motivo proibiscono di dipingerlo.
Pur così la sostanza non cambia, se il dipingere è un modo diverso di descrivere Dio, con immagini, piuttosto che con parole, cosa che i musulmani non impediscono, se ammettono un libro come sacro.
Tanti sono i modi in cui possiamo descrivere la realtà, e di nessuno di questi dovremmo farne un idolo, a mio parere.
Questo possiamo evitarlo però solo se abbiamo la consapevolezza di farlo, e non mi pare che tutti abbiano la consapevolezza di aver fatto della scrittura un idolo, e non si tratta solo di una questione relegata alla religione.
Gli scienziati che ricercano la teoria del tutto hanno la stessa mancanza di consapevolezza.