Certi quesiti esistenziali sembrano molto più grandi di noi perchè vi si possa dare risposta.
L'unica possibilità di riuscire a rispondervi quindi è che noi, senza saperlo, siamo più grandi di loro.
Non si tratta di essere presuntuosi , se non nel senso di fare un esperimento mentale in cui ci immaginiamo di essere una specie di dio, creatore di mondi, che ha perso memoria delle sue costruzioni, che perciò ora sembrano vivere di vita propria.
Si può provare a spiegare in diversi modi questa perdita di memoria, ma tutti probabilmente riconducibili a un principio generale di natura, che ciò che non serve si perde in un economia di sussistenza.
Così, una volta creato il mondo in cui viviamo, non serviva per viverci ricordare la sua origine, e le domande esistenziali che ci facciamo da un pò senza trovare risposta potrebbero essere il sintomo di quanto questo mondo inizi a starci stretto.
Naturalmente noi non siamo veramente Dio, e il mondo che abbiamo creato non è la realtà, ma qualcosa che per essa può essere confusa, almeno finché riusciamo in modo sufficiente ad arginare le sue contraddizioni ed incoerenze, cioè finché riusciamo a fare finta di non vederle, finché non diventano troppo pressanti, come un pulcino che vuole rompere il guscio di quello che fino a un certo punto è stato il suo mondo, vissuto come se fuori di quello non ve ne potessero essere altri, e perciò coincidente di fatto con la realtà.
Questo è appunto un esperimento mentale esposto in forma di favola, che inizia con ''Cera una volta un Dio...''
E ovviamente quello che cerchiamo di rompere è un uovo culturale che sta al posto della realtà come se vivesse di vita propria.
Se così stanno le cose, rotto l'uovo ci dovremmo ritrovare dentro a un altro uovo, in un destino matrioska.
Ma l'uovo è solo una forma, e il mondo nuovo potrebbe avere quindi una diversa forma, e magari così insolita da non sembrare tale, pronto ad essere confuso ancora una volta con la realtà, alla quale magari per esistere non necessità avere una forma, e per questo si presta sempre a prendere la forma che noi gli diamo, almeno finché riusciamo a dargliela, perchè del mondo nuovo che si sta profilando è difficile anche solo immaginare la forma, forma di cui però, proprio come succede alla realtà, potrebbe non avere bisogno.
E' proprio questa supposta non necessità di avere una forma per esistere, ad autorizzarci a pensare che la realtà sia una , ma traducibile in una molteplicità di forme, nessuna delle quali rappresentative in modo univoco della realtà, per il motivo che appunto la realtà una forma non c'è l'ha.
Non ce l'ha perchè la forma è un fatto puramente culturale, da cui la realtà non è dipendente, ed è invece solo un modo possibile fra tanti per noi di sopravvivere alla realtà.
La "forma" è l'aspetto più arcanamente antropico della metafisica causale aristotelica. Dio è la forma storica data al nostro bisogno di immortalità. La morte di questa millenaria, ancestrale, forma ha creato un abisso di senso difficile da colmare. Ammesso e non concesso che sia possibile e/o ne valga la pena.
O, magari, tornare ad Anassimandro, facendoci carico da umani maturi del debito "entropico" assunto con l'evoluzione universale.
Citazione di: Ipazia il 12 Maggio 2024, 06:02:06 AMLa "forma" è l'aspetto più arcanamente antropico della metafisica causale aristotelica. Dio è la forma storica data al nostro bisogno di immortalità. La morte di questa millenaria, ancestrale, forma ha creato un abisso di senso difficile da colmare. Ammesso e non concesso che sia possibile e/o ne valga la pena.
O, magari, tornare ad Anassimandro, facendoci carico da umani maturi del debito "entropico" assunto con l'evoluzione universale.
Mi sarei potuto limitare a cliccare un ''mi piace'' al tuo post, se non sentissi anche il bisogno di esprimere sorpresa di aver trovato qualcuno che in qualche modo concorda con la mia favola, puntellandola con riferimenti puntuali ???
dei quali a me è chiaro il primo, e un pò meno il secondo. :)
Citazione di: Ipazia il 12 Maggio 2024, 06:02:06 AMLa "forma" è l'aspetto più arcanamente antropico della metafisica causale aristotelica. Dio è la forma storica data al nostro bisogno di immortalità. La morte di questa millenaria, ancestrale, forma ha creato un abisso di senso difficile da colmare. Ammesso e non concesso che sia possibile e/o ne valga la pena.
Rileggendo il tuo post, mi viene da chiedermi se, non riuscendo a trovare un senso alle cose, possiamo anche fare senza.
Il fatto che l'intelligenza artificiale, la quale ci sostituirà/integrerà sempre di più, non possieda il senso delle cose sembra confermarcelo.
Come dice col suo genio poetico Vasco Rossi: ''Voglio trovare un senso a questa vita, anche se questa vita un senso non ce l'ha.''
Il senso quindi sarebbe un di più che da forma alla realtà, anche se questa realtà una forma non ce l'ha, e una una volta datagli una forma la si può vivere come fosse la realtà.
La forma quindi non sarebbe la proiezione sulla nostra coscienza della realtà, ma un interfaccia fra noi e la realtà che vale un modo di viverla come tanti, nessuno dei quali in se necessario.
Se noi siamo gli artefici di quella forma, nella misura in cui la si confonde con la realtà, noi siamo Dio.
O, come afferma qualcuno in questo stesso forum, siamo destinati a ricongiungerci ad un uno dal quale non ci siamo mai allontanati, separati dall'uno dall'interposizione di una forma in se non necessaria.
In sostanza si può vivere anche senza saperlo, e se possiamo dire questo è perchè almeno in parte lo sappiamo.
La vera presunzione allora appare a me non paragonarsi a Dio, anche se solo in una esperimento mentale, ma credere di saperla, o di poterla sapere tutta quanta la questione del vivere, trovando una risposta ad ogni quesito esistenziale.
La geometria come scienza delle forme è stata l'inizio di una avventura che diventa sempre più informe togliendo spazio all'immaginazione.
Non sembra essere una prospettiva appetibile a cui ci si possa facilmente rassegnare, a meno che non si riprenda coscienza dell'uso che ne facciamo, usandola appunto, e scrollandoci di dosso la sensazione di lasciarci usare, o meglio scrollandoci di dosso una sensazione di essere usati che equivale ad una sensazione di evidenza di una realtà che accogliamo in modo passivo dentro di noi, passività di cui il metodo scientifico è la sublimazione.
Niente in contrario per carità. Io sono il primo dei suoi sostenitori, ma è solo il passo successivo alla scienza delle forme in una storia che và avanti, e che possiamo continuare a immaginare/costruire se smettiamo di confonderla con la realtà.
Si può vivere senza sapere di farlo, ma una volta acquisita questa coscienza sembra difficile potervi rinunciare.
Ciò che bisogna evitare è commettere l'errore che questa coscienza sia lo scopo , e non un semplice, per quanto meraviglioso, supporto alla vita, perchè
la coscienza potrebbe avere lo stesso effetto di una droga creando dipendenza, non essendo quindi un caso che le droghe stesse alterino lo stato di coscienza.
Si spiegherebbe così lo strano caso delle droghe che accompagnano da sempre la storia dell'uomo, e a cui non sembra siamo capaci di rinunciare, e che anzi, più proviamo a censurare più gli facciamo pubblicità.
Iano, se dici che ci sono "contraddizioni e incoerenze" nella visione che abbiamo della realtà, tanto da sentirci spinti a sostituire di tanto in tanto tale visione con un nuovo paradigma, allora vuol dire che implicitamente accetti che la realtà una forma ce l'abbia (per quanto inconoscibile nella sua purezza o totalità), e che il sapere cerca di darne una rappresentazione il più possibile adeguata (la contraddizione sarebbe appunto il sintomo di un'incoerenza tra realtà e sapere).
Se invece la realtà è solo una parola astratta che sta ad indicare solo che là fuori c'è qualcosa, ma senza che si possa distinguere sapere ed essere, allora sì, possiamo dirci interni a successioni di visioni del mondo il cui motore non è l'ingenua adeguatezza della rappresentazione, che appunto non può basarsi su alcuna forma specifica della realtà, ma miscugli di cause che spetta a te, relativista confesso, approfondire e descrivere. ;)
Citazione di: Koba II il 12 Maggio 2024, 09:56:24 AMIano, se dici che ci sono "contraddizioni e incoerenze" nella visione che abbiamo della realtà, tanto da sentirci spinti a sostituire di tanto in tanto tale visione con un nuovo paradigma, allora vuol dire che implicitamente accetti che la realtà una forma ce l'abbia (per quanto inconoscibile nella sua purezza o totalità), e che il sapere cerca di darne una rappresentazione il più possibile adeguata (la contraddizione sarebbe appunto il sintomo di un'incoerenza tra realtà e sapere).
Se invece la realtà è solo una parola astratta che sta ad indicare solo che là fuori c'è qualcosa, ma senza che si possa distinguere sapere ed essere, allora sì, possiamo dirci interni a successioni di visioni del mondo il cui motore non è l'ingenua adeguatezza della rappresentazione, che appunto non può basarsi su alcuna forma specifica della realtà, ma miscugli di cause che spetta a te, relativista confesso, approfondire e descrivere. ;)
Relativista confesso, è vero, ma allo stesso tempo innamorato delle apparenze, che vorrei perciò salvare dalla fine del mondo in atto.
Quindi, non ripudiare le apparenze una volta presane coscienza, ma avendone preso coscienza farne appunto un uso consapevole.
Nessuno ci ha ingannati sulla realtà.
Ci siamo ingannati da soli, e se lo abbiamo fatto e siamo ancora qua, avremo avuto un buon motivo per farlo, per cui possiamo diversamente continuare a farlo, precisando che la creatività è la vera natura dell'inganno.
Siamo in grado di disegnare la realtà non perchè la natura ha un disegno, ma perchè possediamo dentro noi un disegno della realtà.
Non è tanto che la realtà sia una parola astratta, ma è il mondo in cui viviamo ad essersi mostrato alla fine come una astrazione della realtà, e neanche rappresentativa, in quanto non univoca, per cui la realtà, per dirla con Cacciari, è stata degradata a metafisica concreta, che in fondo è un modo per dare un ancora di salvezza ad una concretezza sempre più evanescente, ponendola dietro alle quinte, e mettendo in primo piano una finzione, il mondo in cui viviamo, che aspetta solo di essere emendata dal nostro pregiudizio.
Citazione di: iano il 12 Maggio 2024, 10:16:14 AMRelativista confesso, è vero, ma allo stesso tempo innamorato delle apparenze, che vorrei perciò salvare dalla fine del mondo in atto.
Quindi, non ripudiare le apparenze una volta presane coscienza, ma avendone preso coscienza farne appunto un uso consapevole.
Nessuno ci ha ingannati sulla realtà.
Ci siamo ingannati da soli, e se lo abbiamo fatto e siamo ancora qua, avremo avuto un buon motivo per farlo, per cui possiamo diversamente continuare a farlo, precisando che la creatività è la vera natura dell'inganno.
Siamo in grado di disegnare la realtà non perchè la natura ha un disegno, ma perchè possediamo dentro noi un disegno della realtà.
Non è tanto che la realtà sia una parola astratta, ma è il mondo in cui viviamo ad essersi mostrato alla fine come una astrazione della realtà, e neanche rappresentativa, in quanto non univoca, per cui la realtà, per dirla con Cacciari, è stata degradata a metafisica concreta, che in fondo è un modo per dare un ancora di salvezza ad una concretezza sempre più evanescente, ponendola dietro alle quinte, e mettendo in primo piano una finzione, il mondo in cui viviamo, che aspetta solo di essere emendata dal nostro pregiudizio.
L'obiezione era: come fai a parlare di apparenze se non credi esista un livello oggettivo della realtà (in quanto, tu dici: la realtà non ha una forma)?
Senza un livello oggettivo della realtà (conoscibile o inconoscibile che sia) non ci sono più le apparenze, ma soltanto verità.
E da questo punto di vista, da quello relativista, il nostro modo di vivere non può nemmeno essere descritto come più o meno lontano dalla realtà, perché la nostra realtà è appunto proprio quella visione in cui siamo immersi.
Citazione di: Koba II il 12 Maggio 2024, 11:01:54 AML'obiezione era: come fai a parlare di apparenze se non credi esista un livello oggettivo della realtà (in quanto, tu dici: la realtà non ha una forma)?
Senza un livello oggettivo della realtà (conoscibile o inconoscibile che sia) non ci sono più le apparenze, ma soltanto verità.
E da questo punto di vista, da quello relativista, il nostro modo di vivere non può nemmeno essere descritto come più o meno lontano dalla realtà, perché la nostra realtà è appunto proprio quella visione in cui siamo immersi.
In effetti io credo fermamente a un livello oggettivo di realtà, per quanto possa oggettivarsi una fede.
Non credo cioè che le apparenze abbiano una generazione spontanea, e credo che non siano univoche, ma non perciò che siano gratuite.
La realtà non è conoscibile non avendo forma.
La conoscenza è forma, ed è un prodotto della nostra interazione con la realtà, che quindi quantomeno non riguarda la realtà in modo esclusivo.
La conoscenza cioè dice di noi non meno che della realtà e non è possibile separare ciò che dice di noi da ciò che dice della realtà, posto che noi ne siamo separati.
Quella della conoscenza obiettiva è cioè un illusione, non potendo prescindere da un biocentrismo, ed è un illusione per fortuna secondo me, perchè riflettendo sull'utilità di una conoscenza oggettiva non riesco a vederci nulla di buono, a meno che non si consideri cosa giusta e buona vivere in un eterna contemplazione della verità.
Con ciò non ripudio la scienza che l'oggettività sembra perseguire, e che vedo anzi come un passo notevole in un progressivo uso di coscienza incrementale che l'evoluzione sembra aver deciso per noi.
A dirla in breve ciò che perseguo è la rivalutazione di un illusione contro cui una giovane scienza ancora inesperta aveva mosso guerra.
Errori di gioventù, appunto, di una scienza che deve ancora giungere a piena maturità, e vi giungerà quando non riuscendo a sconfiggere l'illusione se la farà amica.
Credo anche che se un mondo ci appare è perchè noi abbiamo una capacità ineludibile di credere, possiamo cioè scegliere in cosa credere, ma non possiamo scegliere se credere.
Perciò di una fisica che tendenzialmente, quanto inutilmente, cerca di ripudiare ogni fede, mi interessa capire su quale fede inconscia si basi, detta anche a volte metafisica.
Mi interessa ciò pur conscio del fatto che una metafisica svelata smette di svolgere la sua funzione, perchè funziona solo finché resta immune da critiche, e ciò è possibile solo finché rimane nascosta da potersi considerare contigua alla verità, come ciò che non si può negare.
Ma una metafisica svelata lascia solo il posto ad una altra ancora da scoprire, ed è così che procede la nostra storia imperniata sulla nostra capacità di credere, non disattivabile, per quanto ci sforziamo a farlo, finché viviamo, per cui crederemo sempre di vivere in un mondo che della realtà però fa solo le veci.
L'idea migliore di Dio è quella di una singolarità eterna.
Da essa promana il big bang come sua metafora mentre l'altro lato della medaglia ci sono i buchi neri.
Hawking diceva che, in fondo, l'universo assomiglia a un buco nero all'incontrario e non aveva tutti i torti.
Prima del big bang non esisteva un bel niente nei termini a noi noti.Il big bang stesso è noto solo a partire dal suo orizzonte primario apparente,per dirla alla Hawking e ricordando la sua idea sul cosmo che ho citato prima.
Dunque Dio è fuori da ogni possibile definizione,misura,rappresentazione se non quella di considerarlo simile a una singolarità eterna ma anche questa sarebbe solo una metafora.
Noi stessi siamo metafore di singolarità e ogni cosa esistente lo è,dal quark all'universo,ma lo è in un modo molto diluito,parziale relativo e contingente.
Tutto è cominciato da una singolarità secondaria di cui noi vediamo solo l'orizzonte apparente primario grazie ai nostri telescopi più potenti.
Quella primaria è irraggiungibile,imprendibile, inavvicinabile.
Citazione di: iano il 12 Maggio 2024, 07:36:30 AMMi sarei potuto limitare a cliccare un ''mi piace'' al tuo post, se non sentissi anche il bisogno di esprimere sorpresa di aver trovato qualcuno che in qualche modo concorda con la mia favola, puntellandola con riferimenti puntuali ???
dei quali a me è chiaro il primo, e un pò meno il secondo. :)
Ciò [apeiron] da cui proviene la generazione delle cose che sono, peraltro è ciò verso cui si sviluppa anche la rovina, secondo necessità: le cose che sono, infatti, pagano l'una all'altra la pena e l'espiazione dell'ingiustizia, secondo l'ordine del tempo.
(Anassimandro [in Simplicio], fr. 12 B)
Questa ti dovrebbe piacere, perchè tradotta in moderno scientificese suonerebbe all'incirca così:
L'universo da cui provengono le
cose che sono è pure la destinazione della loro necessaria rovina. Le cose che sono (ta panta, enti) pagano, interagendo tra loro, il furto di entropia, che rimborsano all'universo, estinguendosi secondo il tempo di vita loro concesso.
Per quel che mi riguarda in questo frammento c'è già tutto il senso sapienziale della nostra origine e fine.
Fine, che girata al maschile è pure il nostro destino. La nostra
causa finale, niccianamente da amare.
Citazione di: Ipazia il 12 Maggio 2024, 18:28:05 PMCiò [apeiron] da cui proviene la generazione delle cose che sono, peraltro è ciò verso cui si sviluppa anche la rovina, secondo necessità: le cose che sono, infatti, pagano l'una all'altra la pena e l'espiazione dell'ingiustizia, secondo l'ordine del tempo.
(Anassimandro [in Simplicio], fr. 12 B)
Questa ti dovrebbe piacere, perchè tradotta in moderno scientificese suonerebbe all'incirca così:
L'universo da cui provengono le cose che sono è pure la destinazione della loro necessaria rovina. Le cose che sono (ta panta, enti) pagano, interagendo tra loro, il furto di entropia, che rimborsano all'universo, estinguendosi secondo il tempo di vita loro concesso.
Per quel che mi riguarda in questo frammento c'è già tutto il senso sapienziale della nostra origine e fine.
Fine, che girata al maschile è pure il nostro destino. La nostra causa finale, niccianamente da amare.
Marc Cohen[30] e Carlo Rovelli[31] interpretano l'ápeiron come la prima "entità teorica" nella storia della scienza: una entità naturale non direttamente osservabile, ma la cui esistenza è postulata per organizzare rendere conto in maniera naturalistica della complessità fenomeni osservabili.
Direi che apeiron è pure la prima intuizione del concetto di universo e di entropia sganciati da disegni intelligenti e antropomofismi creazionistici vari. Cosa peraltro già contenuta nella koinè ionia dei quattro elementi aria-acqua-terra-fuoco in cui Anassimandro, Leucippo, Democrito,... erano immersi.
Anassimandro sistematizza il tutto, ma purtroppo con l'idealismo platonico l'episteme prenderà un'altra via e ci cucchiamo l'Essere e l'ontologia metafisica, variamente feticizzata, fino ai nostri giorni.
Senza peraltro risolvere la questione del significato della nostra vita e dei ta panta, già così cristallinamente chiaro alla riflessione presocratica.
Citazione di: Ipazia il 13 Maggio 2024, 08:18:05 AMAnassimandro sistematizza il tutto, ma purtroppo con l'idealismo platonico l'episteme prenderà un'altra via e ci cucchiamo l'Essere e l'ontologia metafisica, variamente feticizzata, fino ai nostri giorni.
Dividere la realtà in due mondi, quello delle perfette idee, e quello delle cose fisiche imperfette, in fondo è una trovata geniale, ma si è prestata a trasformare l'umanità in tifosi per l'uno o l'latro mondo, con l'aggravante che Platone è il primo dei tifosi.
La soluzione alternativa è mantenere l'unità del mondo cercando di far convivere tutte le sue apparentemente diverse sostanze.
Se poi si riesce a dar conto di queste apparenze, ancora meglio.
Ma finché si rimane all'apeiron, senza introdurre l'altro attore principale, che è l'osservatore, come ci suggerisce di fare la fisica dei nostri giorni, non si riesce ad andare oltre Platone.
L'aperiron di Anassimandro potrebbe corrispondere a ciò che ho chiamato realtà, spostando la realtà dal primo piano a dietro le quinte.
E' cio' che resta celato, ma che rende possibile la rappresentazione.
In primo piano c'è un nuovo attore, ed è l'osservatore.
Non è dall'apeiron che nascono le cose, ma dal rapporto fra osservatore ed osservabile.
L'apeiron/realtà è l'indefinito da cui nasce il finito, il senza confini da cui nasce ciò che ha confine, ma essendo relativo il rapporto fra osservatore ed osservabile, relativi sono i suoi prodotti, che non sono propriamente astrazioni, come estratti momentaneamente dalla realtà , creando un disequilibrio in essa secondo Anassimandro, che può essere ristabilito solo riposando al suo posto il mal tolto.
Non c'è nessun disequilibrio, non si è commessa alcuna ingiustizia cui porre rimedio.
Attuo una specie di ribaltamento fra fisica e metafisica, ma più precisamente non mi faccio problemi di trattarli alla pari, senza privilegiare l'uno o l'altro, perchè in ogni cosa che il rapporto di cui sopra produce, mi sembra ci sia parte dell'uno e dell'altro.
Il concreto se lo guardi da sempre più vicino diventa sfuggente, e il suo contrario a furia di considerarlo sembra materializzarsi.
Questi prodotti non sono pezzi estratti dalla realtà, come il quadro pittorico non viene estratto dai pigmenti colorati . L'osservatore non è colui che li estrae, ma ha un ruolo attivo nella loro produzione.
Un ruolo che può essere più o meno consapevole, e in ragione di ciò questi prodotti saranno un mix di concreto e di evanescente, laddove è l'inconsapevolezza ha contribuire alla concretezza, e la consapevolezza a contribuire all'evanescenza.
Il prodotto puramente teorico di cui dice Rovelli viene prodotto in modo del tutto consapevole.
Quando questa consapevolezza manca il prodotto si presenta come immanente, cioè come ciò che tradizionalmente chiamiamo realtà fisica.
Il mondo in cui viviamo ci manca sempre più sotto i piedi non perchè il bau bau nichilistico è alle porte della città, ma perchè ciò rende conto dell'aumento di consapevolezza.
Ma allora come farebbe un astrazione a reggere il nostro peso?
Come facciamo a stare ancora in piedi e non sprofondare?
La risposta l'ha data per primo Anassimandro a quanto pare.
Noi ci reggiamo sulla terra che si regge da sola...allo stesso modo in cui da sole si reggono le idee.
Commettendo lo stesso errore di Platone, e tifando per le astrazioni, da non confondere con le indebite estrazioni di Anassimandro, di cui poi dovremo pagare il fio, il mondo in cui viviamo è una astrazione non del tutto consapevole che fà l'osservatore, ed è concreto nella misura in cui non sa di farla.
Quindi è un mondo relativo quello in cui viviamo, relativo a noi non meno che alla realtà, dove la realtà fa un passo indietro per far posto all'osservatore.
Questa relatività comporta che il mondo in cui viviamo cambia con noi, senza che ciò comporti necessariamente di dover accantonare i vecchi mondi.
Si può vivere contemporaneamente in vecchi e nuovi mondi senza necessariamente praticare fra essi una scissione chirurgica platonica, ed è in effetti quello che facciamo. Non c'è una stretta necessita di ridurre questi diversi mondi ad uno, per quanto ciò resti sempre desiderabile dal punto di vista operativo, perchè nessuno di questi mondi passati presenti e futuri intaccherà mai l'unità dell'apeiron di Anassimandro.
Ma parlare dei prodotti di cui sopra riferendosi ad oggetti non esaurisce la questione di come questi siano cause reciproche di azioni.
Non può esercitarsi una forza far corpi se prima non ci sino i corpi.
Dunque prima i corpi e poi le forze che rendono conto della loro natura dinamica.
Però in effetti non c'è un prima e un dopo, e le forze sono contemporanee ai corpi.
Le forze quindi nascerebbero insieme ai corpi, e quindi, se pure i corpi venissero estratti dall'apeiron creando disequilibrio, le forze stesse annullerebbero questo disequilibrio già in partenza.
perchè allora facciamo venire prima i corpi e le forze dopo come conseguenza?
Per via dell'immanenza dei corpi dovuta alla inconsapevolezza contenuta nella loro creazione.
Le forze vengono dopo, ma nel senso che le dobbiamo ricavare in modo consapevole, ed è perciò che non possoggono le stessa concretezza dei corpi.
Non solo, ma più le indaghiamo, meglio le conosciamo, più si fanno astratte.
All'inizio della storia le forze agivano solo localmente, cioè per contatto dei corpi, e per l'intimità che avevano coi corpi stessi sembravano condividerne, seppur indirettamente, la concretezza.
Poi con l'azione non locale della forza di gravità di Newton ( la forza di gravità agisce a distanza, quindi non più localmente) la foglia di fico di concretezza cade dalla forze, che aumentano il loro grado di astrazione.
Come dire che , più se ne sà, e più le cose diventano sfuggenti, e meno ci sembra di capire.
Quindi di fatto nel tempo si è attuata una separazione fra sapere e comprensione.
Più ne sappiamo e meno ci capiamo. :))
Anche qui sembra quindi che nostro malgrado, due mondi si siano separati, quello del sapere e quello della comprensione, ed alla loro ricomposizione che adesso dovremo dedicarci, inadgandone neglio la natura.
Se l'idealismo non è ancora morto é perché non siamo una colonia di coralli. E mentre ci arrovelliamo la mente nel dubbio amletico se non sia tutto un sogno creato dal fantomatico osservatore (perché dovrebbe essere più reale della realtà che nega ?), la realtà ci punisce con una serie infinita di dolorosi accidenti, che sembrano inventati apposta per punirci della nostra miscredenza.
Quesito per topolini intelligenti:
Se la totalità di osservatori osserva l'esito della caduta della totalità delle mele quando si staccano dall'albero possiamo ritenere oggettiva - pure quando gli osservatori dormono - una cosa che abbiamo chiamato "forza di gravità", corredandola di formula e calcoli ?
Citazione di: Ipazia il 13 Maggio 2024, 17:00:13 PMSe la totalità di osservatori osserva l'esito della caduta della totalità delle mele quando si staccano dall'albero possiamo ritenere oggettiva - pure quando gli osservatori dormono - una cosa che abbiamo chiamato "forza di gravità", corredandola di formula e calcoli ?
Quando un osservatore dorme sogna le mele che salgono in cielo, e ci crede.
Questo non dimostra che le mele salgono in cielo, ma che l'osservatore ha la capacità di credere.
Se da svegli gli osservatori vedono cadere le mele, questo non dimostra che le mele cadono, ma che gli osservatori hanno la capacità di condividere ciò che credono, comportandosi di conseguenza come un tutt'uno.
Un solo individuo con un solo credo, ma molto più potente, e questo è il potere della scienza, non la sua capacità di oggettivare.
Quello che ho scritto è volutamente provocatorio, per spostare l'attenzione dal concetto metafisico di oggettività, alla pratica del fare, dove conta credere in ciò che si fa e collaborare.
Più credo in ciò che faccio meglio lo faccio fino ad arrivare ad attribuire oggettività a ciò che faccio, cioè fino al punto di credere, se sono un falegname, che il mondo sia fatto di seghe.
Noi non manipoliamo oggettività, ma deve esserci un oggettività dietro le quinte, se noi così riusciamo ad operare.
Ma non essendoci un solo modo di fare, se a nessuno di questi vogliamo rinunciare, non dobbiamo legare l'oggettività ad uno solo di essi.
Lasciamola allora dietro le quinte di modo che tutti i diversi modi di fare possano trovarvi parimenti giustificazione.
Eviteremo così l'imbarazzo di dover manipolare le onde di probabilità come fossero oggettività, pretendendo di poterle trattare come mele, anche se ciò comporterà dover rinunciare all'oggettività delle mele, senza perciò dover rinunciare a vivere nel mondo in cui le mele sono oggettive.
Non è un problema moltiplicare i mondi in cui viviamo, se tutti sono garantiti dalla stessa realtà, realtà che a nessuno di quei mondi si può assimilare.
Noi agiamo nella realtà, e i diversi mondi in cui viviamo sono diversi modi di agire nella realtà.
Siccome siamo noi ad agire, i modi/mondi in cui agiamo ci riguardano non meno di quanto riguardano la realtà, e questo non dovrebbe sembrare strano, essendone noi parte.
E' il passo che traccia il sentiero.
Ma se non siamo stati noi a tracciarlo oppure ne abbiamo perso memoria, allora il sentiero ci apparirà in tutta la sua oggettività, assimilandolo alla terra di cui è fatto, così che la terra diventerà una molteplicità di sentieri, cosa su cui concorderanno tutti quelli che ci passano.
A questo punto, per onestà metafisica, bisognerebbe innovare anche il linguaggio e chissà che complicazioni ne deriverebbero. La lingua è realista: distingue il reale da sogno, teatro, narrazione. Se non altro perché da sogno, teatro e narrazione si resuscita, dalla morte reale, no. E se sì, si finisce in un'altra realtà, diversa dall'eventuale immaginario che la abiti.
Citazione di: Ipazia il 13 Maggio 2024, 19:52:26 PMA questo punto, per onestà metafisica, bisognerebbe innovare anche il linguaggio e chissà che complicazioni ne deriverebbero. La lingua è realista: distingue il reale da sogno, teatro, narrazione. Se non altro perché da sogno, teatro e narrazione si resuscita, dalla morte reale, no. E se sì, si finisce in un'altra realtà, diversa dall'eventuale immaginario che la abiti.
Il linguaggio ha la sua inerzia e io nel bene e nel male viaggio con poco bagaglio.
Si resuscita anche dalla vita, se è vero come oggi dovrebbe meglio apparire rispetto a ieri, che viviamo più vite in una.
Poi nella misura in cui è importante il condividere, più che concordare su oggettività sempre più problematiche, non cambia se ci passiamo il testimone da soli o lo passiamo ad altri. L'importante è avere dato nella corsa tutto ciò che potevamo, in modo da lasciare possibilmente il paradiso meglio di come lo abbiamo trovato.
Si, perchè, quando ci arrivi, come fai a sapere di essere paradiso?