Vorrei provare a discutere con coi di un modo laico, indipendente, di considerare e praticare i riti. Come sapete, tra le religioni si riscontrano queste pratiche, che hanno, come ogni pratica umana, i loro pro e i loro contro. Un rito che tutti conosciamo, ad esempio, è, in ambito cattolico, la Messa. L'orizzonte può essere esteso fino a considerare gesti semplicissimi che a volte non disdegniamo di chiamare riti: per certuni, ad esempio, è un rito irrinunciabile il caffè preso a una certa ora, un rito che può includere anche il modo preferito di prepararlo e poi prenderlo; spesso è un rito in noi il modo di eseguire certe azioni, perché col tempo ci siamo formati uno standard su come portarle a termine.
Un difetto essenziale di ogni rito è quello di creare abitudini sempre uguali e quindi distogliere dal progredire, creare originalità, essere spontanei. Un pregio è invece la capacità del rito di affermare e sistematicamente riaffermare, con forza, nell'esistenza del singolo o delle società, l'importanza di certe azioni, eventi, elementi della vita comune o individuale. Possiamo pensare, ad esempio, al minuto di silenzio che a volte viene osservato, di comune accordo, in occasione di qualche evento socialmente tragico che si è verificato, oppure alle varie festività civili.
Potremmo notare che ai nostri giorni sono venuti a nascere certi riti che si sono imposti da sé: si potrebbe considerare un rito il controllo periodico dell'email, di facebook, o anche la lettura o ascolto delle ultime notizie. In questo senso, perfino il controllo periodico o l'inserimento dei messaggi in questo forum può assumere degli aspetti di ritualità.
Ora, se i riti, oltre ad avere ovvi difetti e inconvenienti, possiedono anche pregi e vantaggi, al punto che in molti casi li introduciamo volentieri nella nostra vita, oppure essi stessi vi s'introducono da sé con forza, per abitudine o per necessità, perché non sfruttarli con più consapevolezza, in modo trarne al meglio i vantaggi possibili?
Ad esempio, un modo di sfruttare con maggiore consapevolezza un certo tipo di riti può essere quello di stabilire per sé un ritmo di lettura di libri, oppure una periodicità con cui inserire messaggi in questo forum, allo scopo di favorire la riflessione in se stessi e negli altri. Naturalmente ogni tipo di rito ha bisogno poi di precisazioni, dettagli e adattamenti per poter dare i suoi frutti migliori.
In altre parole: perché lasciare solo alle religioni i vantaggi di una ritualità consapevole? La domanda è simile a quella più generale che ci si può porre riguardo alla spiritualità: perché lasciare alle religioni i vantaggi del praticare con impegno una spiritualità?
Citazione di: Angelo Cannata il 19 Agosto 2017, 06:31:25 AM
Vorrei provare a discutere con coi di un modo laico, indipendente, di considerare e praticare i riti. Come sapete, tra le religioni si riscontrano queste pratiche, che hanno, come ogni pratica umana, i loro pro e i loro contro. Un rito che tutti conosciamo, ad esempio, è, in ambito cattolico, la Messa. L'orizzonte può essere esteso fino a considerare gesti semplicissimi che a volte non disdegniamo di chiamare riti: per certuni, ad esempio, è un rito irrinunciabile il caffè preso a una certa ora, un rito che può includere anche il modo preferito di prepararlo e poi prenderlo; spesso è un rito in noi il modo di eseguire certe azioni, perché col tempo ci siamo formati uno standard su come portarle a termine.
Il rito nasce come gesto simbolico rivolto a Dio. Per cui, dal punto di vista religioso, il cosiddetto "rito civile" è una variante degradata del suo significato originario, una sorta di idolatria in cui l'autorità dell'uomo sostituisce quella divina: celebrazione del matrimonio davanti al sindaco, di un processo giudiziario davanti al giudice, di un contratto davanti al notaio, ecc..
Se è vero che anche il sacerdote dei riti religiosi è un uomo, non dobbiamo dimenticare che egli non celebra il rito a titolo personale, ma in nome di Dio, così come il giudice e il notaio celebrano i loro processi in nome della "Dea bendata" Giustizia. ...E il sindaco? La sua autorità ("...in nome del popolo...") è legittima? Solo nella misura in cui è vero che "Vox populi, vox Dèi"! :)
in ambito ecclesiale il rito indica la procedura o l'esecuzione degli atti liturgici secondo norme codificate, invece l'aggettivo "rituale" si riferisce al "libro", al testo liturgico che descrive i riti o esecuzioni da praticare nella celebrazione del culto e nella gestione dei sacramenti.
Ho cercato nei due unici messaggi che precedono il tuo, ma non sono riuscito a trovare la parola "rituale", né "rituali".
Comunque, quando "rituale" viene usato nel senso di "libro", non è aggettivo, ma sostantivo. Il significato di "libro" non è l'unico significato possibile di "rituale" usato come sostantivo. Se, come sostantivo, "rituale" viene usato nel senso di "insieme di cerimonie", allora diventa perfettamente interscambiabile con "rito": entrambi significano l'identica cosa. Basta consultare un qualsiasi vocabolario.
Citazione di: Carlo Pierini il 23 Agosto 2017, 10:44:28 AMIl rito nasce come gesto simbolico rivolto a Dio.
Il rito nasce dove vogliamo farlo nascere noi, in base a quanto vogliamo estendere il significato della parola. Basti pensare che anche tra gli animali si riscontrano riti, riti di corteggiamento, riti di accoppiamento, che non sono sicuramente gesti simbolici rivolti a Dio.
Angelo ha scritto: Citazioneperché lasciare solo alle religioni i vantaggi di una ritualità consapevole?
Si, Angelo, hai ragione. Mi hai preceduto con la risposta mentre modificavo il mio precedente post. Comunque mi riferivo alla parola "ritualità" che ho quotato.
Tu cosa sostituiresti a "ritualità" nella mia frase che hai citato?
Citazione di: Angelo Cannata il 23 Agosto 2017, 16:49:43 PM
Tu cosa sostituiresti a "ritualità" nella mia frase che hai citato?
Un sinonimo potrebbe essere ripetitività. :)
Citazione di: Angelo Cannata il 23 Agosto 2017, 16:42:53 PM
Citazione di: Carlo Pierini il 23 Agosto 2017, 10:44:28 AMIl rito nasce come gesto simbolico rivolto a Dio.
Il rito nasce dove vogliamo farlo nascere noi, in base a quanto vogliamo estendere il significato della parola. Basti pensare che anche tra gli animali si riscontrano riti, riti di corteggiamento, riti di accoppiamento, che non sono sicuramente gesti simbolici rivolti a Dio.
...E cosa ne sappiamo? Anche gli anima-li hanno un'anima, per quanto "in nuce"! :)
Angelo,
penso che il rito sia una forma di codificazione temporalizzata, con delle precise successioni che incorpora o un evento o addirittura una narrazione in quelli più complessi. Necessita di simboli.
Psichicamente la compulsione è un rito dove ad un evento si fa corrispondere determinati gesti.
Prima di uscire di casa ogni volta devo controllare il gas, controllo di nuovo, e ancora.
il rito in sè è un controllo simbolico su delle paure, timori. Dall'altra è socializzazione, o ripetuta memorizzazione di una tradizione.
Io le chiamerei abitudini, più che vere e proprie ritualità, certi incontri periodici con amici, il trovarsi il luogo di un un tal giorno della settimana, ecc.
Citazione di: altamarea il 23 Agosto 2017, 16:13:16 PM
in ambito ecclesiale il rito indica la procedura o l'esecuzione degli atti liturgici secondo norme codificate, invece l'aggettivo "rituale" si riferisce al "libro", al testo liturgico che descrive i riti o esecuzionida praticare nella celebrazione del culto e nella gestione dei sacramenti.
Appunto, il rito è un atto simbolico, cioè un atto che ha un significato
ulteriore che trascende quello oggettivo dell'atto in sé; è un atto che rimanda ad
altro, ad un valore ideale, a un principio, ad un "oggetto" di culto. Altrimenti anche un libretto di istruzioni per il montaggio di un mobile Ikea può essere visto come una "procedura che segue norme codificate per l'esecuzione di un atto liturgico". :)
alcune riflessioni.
l'oggetto di un rito, il perchè lo si compia, deve avere l'oggetto più potente per noi che vi partecipiamo.
Un rito di iniziazione, di purificazione, sacrificatorio, la transustanziazione in una Messa, l'ostia del "corpo di Cristo" che ne è il "cuore" simbolico, fino ad un giuramento laico per una legge, per un'iniziazione massonica deve avere questo oggetto"potente".
Se la spiritualità diciamo in una visione laica dovesse avere un rito, forse è la stessa spiritualità a cui i partecipanti devono fortemente credere.Forse il problema diventerebbe la "consistenza" di questa spiritualità.
I riti laici ,procedurali, diventano iter come un processo giudiziario,dove è la legge che è ritenuta potente che incorpora ancora il giusto e lo sbagliato, la sanzione e la pena.
Penso che in una spiritualità laica si possa considerare potente ciò che riesce a farsi apprezzare come crescita. Questo dipende sia dall'oggetto che dal soggetto. In una partita di calcio, per esempio, si possono riscontrare ritualità sia tra i tifosi che tra i giocatori. La potenza sta in quel gioco specifico, di cui si sente tutta la forza liberatrice, come anche nei tifosi e giocatori, che hanno imparato ad apprezzarne le capacità liberatorie (mi riferisco a liberazione dell'istinto a vincere, a servirsi di tattiche, a collaborare in squadra). Uno che non s'interessa di calcio percepirà quelle ritualità come insignificanti, non toccano il suo interesse e le sue emozioni, così come i gesti della Messa sono insignificanti per chi non è addentro nel Cristianesimo.
Una spiritualità laica può cercare simboli potenti che riescano a farsi apprezzare come tali da chiunque. Si pensi ad esempio al semplicissimo rito del salutarsi, diverso nelle varie parti del mondo, ma mi sembra che il salutarsi in sé, al di là dei gesti con cui viene fatto, sia una pratica universalmente apprezzata. Certe cose possono invece essere apprezzate in seguito ad un cammino di crescita, di formazione. In questo senso una spiritualità laica può chiedersi per che cosa di potente valga la pena di spendere energie per formarsi ad apprezzarla e perfino goderne. In questo senso io penso alla scuola, cioè la formazione in sé, l'istruzione, che può essere anche istruzione alla conoscenza delle migliori e più grandi spiritualità del mondo, come potenze che può valere la pena di imparare ad apprezzare.
Citazione di: Angelo Cannata il 24 Agosto 2017, 00:04:44 AM
Penso che in una spiritualità laica si possa considerare potente ciò che riesce a farsi apprezzare come crescita. Questo dipende sia dall'oggetto che dal soggetto. In una partita di calcio, per esempio, si possono riscontrare ritualità sia tra i tifosi che tra i giocatori. La potenza sta in quel gioco specifico, di cui si sente tutta la forza liberatrice, come anche nei tifosi e giocatori, che hanno imparato ad apprezzarne le capacità liberatorie (mi riferisco a liberazione dell'istinto a vincere, a servirsi di tattiche, a collaborare in squadra). Uno che non s'interessa di calcio percepirà quelle ritualità come insignificanti, non toccano il suo interesse e le sue emozioni, così come i gesti della Messa sono insignificanti per chi non è addentro nel Cristianesimo.
Una spiritualità laica può cercare simboli potenti che riescano a farsi apprezzare come tali da chiunque. Si pensi ad esempio al semplicissimo rito del salutarsi, diverso nelle varie parti del mondo, ma mi sembra che il salutarsi in sé, al di là dei gesti con cui viene fatto, sia una pratica universalmente apprezzata. Certe cose possono invece essere apprezzate in seguito ad un cammino di crescita, di formazione. In questo senso una spiritualità laica può chiedersi per che cosa di potente valga la pena di spendere energie per formarsi ad apprezzarla e perfino goderne. In questo senso io penso alla scuola, cioè la formazione in sé, l'istruzione, che può essere anche istruzione alla conoscenza delle migliori e più grandi spiritualità del mondo, come potenze che può valere la pena di imparare ad apprezzare.
"ll marxismo e la psicologia del profondo hanno illustrato l'efficacia della cosiddetta demistificazione quando si voglia scoprire il vero - o l'originale - significato di un comportamento, di un'azione o di una creazione culturale. Nel nostro caso, dobbiamo cercare una demistificazione alla rovescia, vale a dire dobbiamo 'demistifìcare' i mondi apparentemente profani e i linguaggi della letteratura, delle arti plastiche e del cinema per rivelare i loro elementi 'sacri', sebbene si tratti, naturalmente, di una 'sacralità' ignorata, camuffata o degradata. In un mondo desacralizzato, quale il nostro, il 'sacro' è presente e attivo soprattutto negli universi dell'immaginazione. Ma le esperienze dell'immaginazione sono parte dell'essere umano nella sua totalità, non meno importante delle sue esperienze diurne. Ciò significa che la nostalgia per le prove e le atmosfere d'iniziazione, che appare in tante opere letterarie e plastiche, rivela la ricerca da parte dell'uomo moderno di un totale e definitivo rinnovamento, di una renovatio capace di cambiare la sua esistenza". [M. ELIADE: La nostalgia delle origini - pg.143]
Citazione di: Angelo Cannata il 24 Agosto 2017, 00:04:44 AM
Si pensi ad esempio al semplicissimo rito del salutarsi, diverso nelle varie parti del mondo, ma mi sembra che il salutarsi in sé, al di là dei gesti con cui viene fatto, sia una pratica universalmente apprezzata.
Come si ci saluta è molto più interessante di quanto si possa immaginare, la stretta di mano occidentale è quasi certo fosse un modo per "perquisire" l'altro (i romani arrivavano fino all'avambraccio) in cerca di coltelli nascosti, offrire una stretta di mano era quindi sinonimo di "vengo in pace" e fugava i sospetti che l'altro potesse essere armato. Abbastanza significativo di un certo clima di sospetto e di società militarizzate. Non differentemente shalom\salam (pace), dove altro se non in medio oriente la pace poteva essere un saluto gradito da assicurare prima di un incontro? I saluti orientali differiscono, l'inchino si spiega da solo, le mani giunte sono sinonimo di contatto tra due tensioni superficiali (parlo del saluto, non pratiche meditative). Penso che, al di la dei conformismi sociali, queste due diverse tipologie di saluto instaurino un clima diverso nell'incontro, una riverenza amicale e disponibilità d'animo nel caso orientale, un accordo di non belligeranza e di fiducia nel caso occidentale, femmineo il primo masculino il secondo. Se fossimo davvero aperti ai costumi del mondo, potremmo imparare ad usarle entrambe a seconda delle circostanze e delle aspettative dell'incontro che abbiamo davanti.
Se teniamo conto di quest'aspetto del saluto come segno di non belligeranza, penso che sarebbe fruttuoso portarne più avanti il significato, altrimenti si ridurrebbe a qualcosa di negativo, anche se si tratta di negazione della belligeranza. Un passo in avanti potrebbe essere una considerazione del saluto come segno di disponibilità alla collaborazione, alla conoscenza reciproca, alla responsabilità: ti saluto per dirti che mi fa piacere conoscerti. D'altra parte, si tratta proprio di un'espressione tipica: "piacere di conoscerla" nel dare la mano. Invece di ridurre il gesto a un rito puramente formale, si può riflettere sul suo senso: mi sta facendo davvero piacere conoscere questa persona? Sto apprezzando tutte le potenziali e reali ricchezze che vi sono in essa proprio in quanto persona? Che rapporti di crescita potrei avviare con questa persona? Naturalmente non si tratta di porsi queste domande in modo troppo programmatico, meccanico, ma di apprezzare e coltivare l'atteggiamento a cui esse guidano.
A me sembra che l'associazione rito-spiritualità sia alquanto ristretta. La ritualità ha caratteristiche prettamente biologiche, oltretutto evoluzionisticamente spiegabili, il ripetere meccanicamente un comportamento che è già stato inquadrato come utile per l'individuo da il vantaggio di non spendere energie per decidere cosa fare.
Per questo noi chiudiamo gli sportelli, spegniamo la luce etc. automaticamente, senza accorgercene.
Con lo stesso meccanismo funzionano i riti di saluto, o di comunicazione (Tipo dire "come va" per iniziare un discorso).
La specificazione per me interessante è quella di "rito sociale", cioè di un rito che fa identificare l'individuo nel suo ruolo sociale. Anche il saluto è un rito, se io saluto neile forme consuete, indico agli altri che sono parte della loro comunità.
I riti religiosi sono riti sociali, magari in passato lo erano molto di più, ma anche oggi in realtà periferiche come quella in cui vivo io, i riti religiosi hanno significato sociale, se non partecipi questo condiziona l'opinione che gli altri hanno di te.
Certo Gesù ci ha detto che dobbiamo pregare nel segreto della stanza, ma chi lo è stato a sentire?
Credo che la spiritualità abbia molto da guadagnare se intesa anche come esperienza sociale. La definizione di partenza di spiritualità è "vita interiore", ma credo che ogni forma di vita interiore sia valida nella misura in cui si riconosce condizionata anche dalle relazioni con gli altri. Il pregare nel segreto della stanza ha senso se in quel segreto mi porto il ricordo, la memoria degli altri. Se mi isolo nella preghiera con la pretesa di dimenticare l'altro, gli altri, penso che in questo caso stia cominciando a costruirmi una spiritualità viziata, slegata dall'universo principale in cui siamo inseriti, che non è l'universo fatto di pianeti e galassie, ma quello fatto di persone.
Da questo punto di vista, il rito inteso come elemento di spiritualità ha tutto da guadagnare nel relazionarsi con la società e viceversa, cioè anche il rito inteso come semplice fatto sociale può arricchirsi di senso nel momento in cui venga reso oggetto di meditazione, crescita, che in questo modo può diventare crescita, maturazione di tutta la società.
Citazione di: anthonyi il 25 Agosto 2017, 18:11:31 PM
I riti religiosi sono riti sociali, magari in passato lo erano molto di più, ma anche oggi in realtà periferiche come quella in cui vivo io, i riti religiosi hanno significato sociale, se non partecipi questo condiziona l'opinione che gli altri hanno di te.
Certo Gesù ci ha detto che dobbiamo pregare nel segreto della stanza, ma chi lo è stato a sentire?
Quindi, nel rito della messa, la consacrazione dell'ostia, l'elevazione del calice, l'incensazione delle offerte, ecc., sono solo pretesti per fare combriccola?
Citazione di: Carlo Pierini il 25 Agosto 2017, 19:11:21 PM
Citazione di: anthonyi il 25 Agosto 2017, 18:11:31 PM
I riti religiosi sono riti sociali, magari in passato lo erano molto di più, ma anche oggi in realtà periferiche come quella in cui vivo io, i riti religiosi hanno significato sociale, se non partecipi questo condiziona l'opinione che gli altri hanno di te.
Certo Gesù ci ha detto che dobbiamo pregare nel segreto della stanza, ma chi lo è stato a sentire?
Quindi, nel rito della messa, la consacrazione dell'ostia, l'elevazione del calice, l'incensazione delle offerte, ecc., sono solo pretesti per fare combriccola?
Probabilmente tu non hai lo stesso livello di cultura sociale che ho io. Il concetto di rito sociale è un qualcosa di assai più importante di una combriccola, è alla base di quelle strutture di costruzione del senso collettivo senza delle quali la società non esisterebbe, non esisterebbero le istituzioni, non esisterebbe la filosofia (Che ha anch'essa i suoi riti sociali). E quest'importanza non ha alcun rapporto con la verità del mondo spirituale, l'importante è crederci perché si realizzino quegli effetti sociali.
Citazione di: anthonyi il 26 Agosto 2017, 10:47:18 AM
Citazione di: Carlo Pierini il 25 Agosto 2017, 19:11:21 PM
Citazione di: anthonyi il 25 Agosto 2017, 18:11:31 PM
I riti religiosi sono riti sociali, magari in passato lo erano molto di più, ma anche oggi in realtà periferiche come quella in cui vivo io, i riti religiosi hanno significato sociale, se non partecipi questo condiziona l'opinione che gli altri hanno di te.
Certo Gesù ci ha detto che dobbiamo pregare nel segreto della stanza, ma chi lo è stato a sentire?
Quindi, nel rito della messa, la consacrazione dell'ostia, l'elevazione del calice, l'incensazione delle offerte, ecc., sono solo pretesti per fare combriccola?
Probabilmente tu non hai lo stesso livello di cultura sociale che ho io. Il concetto di rito sociale è un qualcosa di assai più importante di una combriccola, è alla base di quelle strutture di costruzione del senso collettivo senza delle quali la società non esisterebbe, non esisterebbero le istituzioni, non esisterebbe la filosofia (Che ha anch'essa i suoi riti sociali). E quest'importanza non ha alcun rapporto con la verità del mondo spirituale, l'importante è crederci perché si realizzino quegli effetti sociali.
Il fatto che un rito abbia
anche una funzione di coesione sociale, non significa che questa sia la
sola funzione o che sia la più centrale o la più importante.
Per esempio, da giovani si va a scuola
anche per socializzare, ma la funzione principale della scuola è quella di istruire; oppure, un processo penale si celebra per stabilire chi è innocente e chi è colpevole, non solo per un generico "socializzare"; ecc..
Ciao Angelo, ben rivisto.
Credo di capire cosa intendi per spiritualità laica. E credendolo quindi sbaglio sicuramente.... ;)
Tralasciando la questione simbolica, che non c'entra nel tuo discorso, mi piacerebbe approfondire la questione della ritualità come socialità.
Effettivamente la vedevo più come un affare solitario, dove il rito, è una specie di mettere dei paletti, un esercizio spirituale, volto a non perdere la concentrazione sul proprio agire e pensare spirituale.
Di fatto la socialità mi pare così sul momento, definirsi proprio dalla necessita di richiamare l'attenzione su qualcosa di importante.
Siccome richiama la ritualità del giudizio, ha a che fare, come al solito, con la questione gerarchica.
(laica o religiosa che sia)
Non mi pare che la cosa vada a braccetto rispetto alla strada che avevamo intrapreso prima dell'estate!(ma quando arriva un pò di fresco???? ;D )
Urge chiarimento. :-\
Simbolo significa segno, i segni si adoperano per comunicare, la comunicazione è un fatto essenzialmente sociale, dunque i simboli sono un fatto sociale. In questo senso, se un rito viene inteso come simbolo, allora lo si sta intendendo come fatto sociale.
Mi sembra che poi tutto dipenda da come i simboli vengono gestiti, valorizzati, in modo che non si trasformino in gabbie. In questo senso perfini la società può diventare una gabbia per i singoli.
x angelo
ah ok.
certamente se spostiamo la questione sul piano simbolico, qui nell'accezione di segnico, siamo d'accordo.
sostanzialmente proporresti un fare insieme che si riconosca nei segni.
torneremmo così alla proposta "laica" che si basa sul gesù giovanneo, come la cena insieme etc...
ti pongo un problema filosofico però: nella società contemporanea bombardata dai segni, è possibile ancora trovare grandi possibilità come lo fu per la religione nei tempi andati? Quando cioè il tempo era lo stesso improntato da Dio ossia dalla Chiesa?
Penso che nonostante sono d'accordo sulla possibilità di pensare a forme segniche comuni, non so se siano potenti come immagino tu vorresti. (ma dovrei sbagliarmi, non sei un sostenitore del pensiero debole?)
visto la situazione e se sposiamo le tesi del pensiero debole, allora dovremmo guardare con massimo sospetto a qualsiasi forma di simbolo, persino quello proposte da noi stessi.....anzi sopratutto dalle nostre.
saluti!
Le connotazioni di debole e potente possono risultare ambigue a questo punto della discussione. Trovo meglio chiarire lo scopo. Un simbolo, debole o potente che sia, deve servire alla crescita sociale; ma tutti sappiamo che in ogni epoca i simboli e i loro linguaggi sono stati sfruttati per lo scopo opposto, cioè impedire alle masse di crescere, in modo da poterle dominare. Così torniamo a ciò che ho scritto in partenza: un uso più consapevole dei riti e dei simboli, che siano sociali, o religiosi, o individuali, credo che sarebbe utile a favorire la crescita di tutti.
Ma dunque ti riferisci a riti già pre-esistenti?
No, mi sembra che ciò che ho scritto si possa applicare a qualsiasi cosa vogliamo considerare dal punto di vista del suo essere rito o simbolo, per esempio anche queste stesse parole che sto usando in questo messaggio.
Angelo ha scritto: CitazioneSimbolo significa segno
Per Jung il concetto di simbolo va distinto dal concetto di segno.Significato simbolico e significato semiotico sono diversi. Il simbolo non è significante e non è il significare, ma l'indicare, il mostrare. Significanti sono le parole che riconducono a ciò che è indicato nel simbolo. Il simbolo collega od unisce due realtà apparentemente differenti. Solo un accordo, una convenzione più o meno tacitamente concordata crea il legame che una volta accettato diventa anche emotivamente significativo (per esempio la bandiera o l'inno di una nazione, non sono la Nazione e tuttavia riescono ad emozionarci).Il segno, invece, (un disegno, una scritta o altro) indica direttamente ciò che vuole significare.
Citazione di: altamarea il 26 Agosto 2017, 20:54:01 PM
Angelo ha scritto:
CitazioneSimbolo significa segno
Per Jung il concetto di simbolo va distinto dal concetto di segno.Significato simbolico e significato semiotico sono diversi. Il simbolo non è significante e non è il significare, ma l'indicare, il mostrare. Significanti sono le parole che riconducono a ciò che è indicato nel simbolo.
Il simbolo collega od unisce due realtà apparentemente differenti. Solo un accordo, una convenzione più o meno tacitamente concordata crea il legame che una volta accettato diventa anche emotivamente significativo (per esempio la bandiera o l'inno di una nazione, non sono la Nazione e tuttavia riescono ad emozionarci).
Il segno, invece, (un disegno, una scritta o altro) indica direttamente ciò che vuole significare.
Esattamente.Anche il simbolo è un segno. Ma mentre il segno è un grafema (o un fonema) essenzialmente convenzionale che noi associamo univocamente ad un oggetto noto (o a una classe di oggetti strettamente simili) per distinguerlo dagli altri oggetti (per esempio, un nome di cosa o di persona), il simbolo archetipico:1 - contiene in sé (come un palinsesto) diversi strati di significato reciprocamente indipendenti (se pur complementari);2 - mette in relazione significati conosciuti con significati completamente sconosciuti o poco conosciuti."Anche ai nostri giorni ci è dato di osservare la formazione spontanea di veri e propri simboli religiosi nell'individuo; essi spuntano dall'inconscio come fiori di specie ignota, e la coscienza rimane smarrita e non sa bene che cosa fare con tale nascita. Non è troppo difficile stabilire che quei simboli individuali provengono, per il loro contenuto come per la forma, da quello stesso "Spirito" inconscio (o quel che esso sia) da cui provengono le grandi religioni degli uomini. L'esperienza prova comunque che le religioni non sorgono quali frutti di una elucubrazione cosciente, ma provengono dalla vita naturale dell'anima inconscia, che in qualche modo esprimono adeguatamente. Ciò spiega la loro diffusione universale e la loro straordinaria efficacia storica sull'umanità". [JUNG: Realtà dell'anima - pg.157]"Per il suo carattere sacrale, il simbolo sfugge ai limiti del mondo profano. Esso indica sempre una sorta di raccordo sulla via che collega il visibile all'invisibile. In tal modo il simbolo è irruzione nel nostro mondo di qualcosa che non appartiene al nostro mondo. Rudolph Otto accenna a qualcosa di totalmente altro, das ganz Andere. [...] Tuttavia, sul piano sacrale, il simbolo rimane polivalente. Rivela significati diversi e perfino contrari. Al cuore stesso delle zone del reale che esso esprime, ogni simbolo rimane il segno di una realtà trascendente che concerne il sacro, il divino". [M.- M. DAVY: Il Simbolismo medievale - pg.109]"Se c'è un punto su cui concordano unanimemente le società primitive e le civiltà di tipo tradizionale più diverse, è proprio l'origine 'non umana' dei simboli e, in particolare, della simbolica dei Misteri magico-religiosi, dei miti e dei riti collegati alle iniziazioni. Ai livelli arcaici di cultura, però, il mondo umano e i segni che l'esprimono non costituiscono un sistema chiuso al 'non umano', sia esso 'infraumano' o 'sovraumano'. ll mondo degli 'Esseri divini', per 'trascendente' che sia sul piano del 'completamente diverso' implicante l'esperienza del Sacro, resta comunque accessibile grazie a riti e a simboli i quali non figurano né 'allegoricamente' né 'concettualmente' questo mondo 'non umano', ma lo riattualizzano dinamicamente". [R. ALLEAU: La scienza dei simboli - pp.49-50]
Scusami Carlo, ho bisogno di un ulteriore chiarimento.
Nel mio precedente post ho quotato la frase di Angelo che dice: "Simbolo significa segno" ed io ho risposto dicendo che simbolo e segno sono due entità diverse.
Tu hai replicato per dire: "Esattamente. Anche il simbolo è un segno." ed hai spiegato la tua opinione. Però non capisco se concordi con Carlo o con me.
A prescindere dagli archetipi di Jung, se dal punto di vista linguistico segni e simboli hanno la funzione di attribuire un senso a quanto si vede e sono distinti per funzioni, allora perché considerarli sovrapponibili? Il linguista Ferdinand de Saussure definisce bene le caratteristiche del segno e non mi sembrano uguali a quelle del simbolo.
Il segno: è un'entità bifacciale, composta da significato e da significante. Come entità bifacciale ha la correlazione tra significato e significante.
Il significato è il concetto espresso, il significante è il supporto materiale che lo esprime, per esempio il cartello stradale.
Il simbolo, invece, può essere considerato come un ponte verso una realtà che non può essere spiegata solo con le parole. Per esempio la teologia usa molti simboli per colmare il divario tra immanente e trascendente. Anche nel linguaggio figurativo dell'arte la simbologia è molto usata.
Un simbolo può avere evocazioni molteplici, un segno ha un solo significante ed un solo significato.
Citazione di: Angelo Cannata il 26 Agosto 2017, 17:07:15 PM
No, mi sembra che ciò che ho scritto si possa applicare a qualsiasi cosa vogliamo considerare dal punto di vista del suo essere rito o simbolo, per esempio anche queste stesse parole che sto usando in questo messaggio.
Si certamente lo possiamo fare, ma così dicendo la questione mi sembra piuttosto generale, e a mio parere rischia di cadere nel qualunquismo.
Infatto il punto è proprio quale ritualità usare?
Per esempio le olimpiadi sembra che funzionino come una grande festa che unisca tutte le persone.
In generale i fenomeni sportivi.
Sinceramente quando sento filosofi affermati sostenere queste idee con un certo fervore, mi chiedo sempre ma dove andremo a finire di questi tempi??
A mio parere la scelta del rito è tutt'altro che semplice, e forse è un bene, perchè la gente è ora che pensi con la propria testa.
altamarea, è la seconda che ti vedo fare una distinzione e poi, nel momento in cui ne spieghi le particolarità, in realtà gli elementi che presenti fanno concludere il contrario, cioè che non c'è distinzione.
La prima volta è accaduto in questa stessa discussione, poco sopra, tra rito e rituale.
Adesso mi dai la stessa impressione riguardo a segno e simbolo. Infatti, nel descrivere le particolarità del simbolo rispetto al segno, hai scritto "Il simbolo, invece, può essere considerato come un ponte verso una realtà che non può essere spiegata solo con le parole". Ora, tu stesso poco sopra hai fatto riferimento alla bandiera come simbolo: tu pensi che in una bandiera, per esempio la bandiera italiana, ci siano cose che non possono essere spiegate a parole? Addirittura, se ci riflettiamo, possiamo osservare l'opposto: non è difficile pensare a segni che contengono un mare di elementi impossibili da dire a parole. Pensiamo per esempio al segno del bacio: penso che non sia difficile essere d'accordo sul fatto che un bacio comunica un mare di cose impossibili da dire a parole. Possiamo pensare alle espressioni del volto come segno della nostra personalità, o di ciò che stiamo provando: non sarà difficile concordare sul fatto che un'espressione del volto è un segno che comunica un'infinità di cose impossibili da esprimere a parole. Come fai quindi a sostenere che "Il simbolo, invece, può essere considerato come un ponte verso una realtà che non può essere spiegata solo con le parole"? Poi, per confermare questo, hai fatto riferimento alla teologia. Ma la teologia non è fatta di simboli, è fatta di parole, e la teologia si fa proprio per tentare di spiegare. Esiste la teologia apofatica, oppure possiamo osservare che le parole stesse sono in grado di rinviare all'indicibile. Ma questo non fa che confermare che le parole, i segni, rinviano anch'esse all'indicibile, quindi non è certo un'esclusiva del simbolo rinviare all'indicibile.
Poi hai scritto che "Un simbolo può avere evocazioni molteplici, un segno ha un solo significante ed un solo significato", ma questo non è affatto vero: se, per esempio, consideriamo la poesia, le parole di cui è composta hanno esattamente questo scopo: essere ricchissime di significati. Il poeta si sforza di rendere le parole che scrive un vero concentrato di significati. Inoltre basta consultare un vocabolario qualsiasi per accorgersi senza ombra di dubbio che per molte parole vengono indicati una marea di significati possibili, quindi come fai a sostenere che "Un simbolo può avere evocazioni molteplici, un segno ha un solo significante ed un solo significato"?
Citazione di: green demetr il 28 Agosto 2017, 08:09:07 AMA mio parere la scelta del rito è tutt'altro che semplice, e forse è un bene, perchè la gente è ora che pensi con la propria testa.
A me sembra che stiamo sostenendo la stessa cosa. Infatti, quando io dico che sarebbe un bene cercare di vivere i riti con consapevolezza, certamente non intendo dire che la consapevolezza debba limitarsi ad una conferma di quello che già si fa. Per me consapevolezza significa anche senso critico, e senso critico significa anche scegliere i riti da compiere. Ora tu hai scritto che la scelta del rito è un bene, quindi mi sembra che stiamo sostenendo la stessa cosa.
Angelo abbi pazienza per la mia testardaggine. Ma se un linguista come Ferdinand de Saussure dice che il segno è soltanto composto da significato e significante, perché lo assimili al polisemico simbolo ?
Se sono uguali che necessità c'è di usare due termini anziché solo la parola simbolo ?
Considerando la differenza e non l'unicità o la sovrapposizione tra segno e simbolo, il bacio a cui ti riferisci è un segno o un simbolo ? Quando è segno e quando è simbolo ? Il bacio sulle labbra della partner quando è affetto e quando è desiderio sessuale ?
Hai scritto: "non è difficile pensare a segni che contengono un mare di elementi impossibili da dire a parole." In tal caso voglio capire se sbagli te, confondendo segno e simbolo o sbagliano i linguisti che affermano per il segno: un solo significante ed un solo significato.
Hai anche scritto: "Possiamo pensare alle espressioni del volto come segno della nostra personalità, o di ciò che stiamo provando: non sarà difficile concordare sul fatto che un'espressione del volto è un segno che comunica un'infinità di cose impossibili da esprimere a parole."
Al contrario di te penso che l'espressione del volto non è un segno ma un simbolo, perché all'espressione del volto (significante) quale unico stato d'animo corrisponde ? Se non è unico ma molteplice è simbolo.
Idem per la poesia. Se ha più significati è simbolica e non segno.
Cerca con pazienza di convincermi del contrario. :) Grazie
Citazione di: altamarea il 28 Agosto 2017, 07:50:03 AM
Scusami Carlo, ho bisogno di un ulteriore chiarimento.
Nel mio precedente post ho quotato la frase di Angelo che dice: "Simbolo significa segno" ed io ho risposto dicendo che simbolo e segno sono due entità diverse.
Tu hai replicato per dire: "Esattamente. Anche il simbolo è un segno." ed hai spiegato la tua opinione. Però non capisco se concordi con Carlo o con me.
Forse volevi dire ...se concordo con Angelo (hai scritto "con Carlo") o con te. Concordo
con te nella necessità di una
distinzione tra segno e simbolo; ma questa distinzione è riferita alle diverse
proprietà dell'uno e dell'altro, non alla loro categoria di appartenenza. Nel senso che, sia il segno che il simbolo sono
significanti che trovano il loro
significato in "altro da sé", nella "cosa" che indicano e che rappresentano sul piano del linguaggio; ed è questa caratteristica comune che li colloca all'interno di una medesima categoria di appartenenza (infatti, molto spesso, specialmente in teologia, "segno" e "simbolo" sono usati come sinonimi; p. es.: "...i segni del Cielo"). Ma mentre il segno si associa univocamente (e convenzionalmente) a qualcosa di noto, i grandi simboli associano
analogicamente qualcosa di noto a qualcosa di sconosciuto o di non ancora conosciuto, cioè, mettono sapientemente in relazione il sensibile con il sovrasensibile, l'immanente con il trascendente; ed è proprio questa loro singolare e misteriosa saggezza nel mostrare il reale come metafora (o allegoria o analogia) del "metafisico" che induce da sempre l'uomo a vederli, appunto, come "segni del Cielo", come "lingua degli dèi". Scrive Alleau:
"Il latino symbolum (propriamente 'caratteristica, segno') deriva dal greco sumbolon, 'segno', da sumballein, 'gettare insieme, riunire'». (...) Si tratta cioè di evocare un movimento che 'riunisce', che 'accomuna' degli elementi precedentemente separati gli uni dagli altri, e designarne i risultati. Di conseguenza, se si tratta dell''atto di riunione' che unisce delle parti contraenti giuridicamente e per iscritto, si chiama il suo redattore, il notaio professionista, sumbolai graphos, letteralmente «colui che scrive il simbolo giuridico». Perciò i documenti redatti dai notai privati erano detti sumbolaia o, più esattamente, sumbolaiaagoraia, nell'accezione giuridica giustinianea". [RENÉ ALLEAU: La scienza dei simboli - pg.27]"La lingua universale dell'analogia e dei simboli, è non soltanto la 'lingua degli dei', ma anche la lingua della natura, del 'sovrumano' e dell"infraumano', la lingua dello spirito ma anche quella delle profondità del corpo". [RENÉ ALLEAU: La scienza dei simboli - pg.69]"Tutte le tradizioni iniziatiche e religiose hanno ammesso la necessità dell'interpretazione della «lingua degli dèi», sia nelle sue forme arcaiche, di tipo divinatorio e oracolare, sia nelle sue complesse espressioni di insegnamenti trasmessi da testi sacri. La casta sacerdotale, costituendo nel suo insieme un organo di relazione tra gli uomini e gli dèi era necessariamente investita del potere e del compito di riunire conservare e spiegare le istruzioni, gli avvertimenti, i consigli, le visioni, i presagi e i segni ricevuti dagli indovini e dai profeti". [RENÉ ALLEAU: La scienza dei simboli - pg.171]
Citazione di: altamarea il 28 Agosto 2017, 13:42:15 PM...voglio capire se sbagli te, confondendo segno e simbolo o sbagliano i linguisti che affermano per il segno: un solo significante ed un solo significato.
Forse mi sbaglio, ma ho l'impressione che ti sia creato un malinteso, a causa del fatto che in linguistica, così come in tante altre discipline, spesso, per semplificare le spiegazioni, si parla delle cose al singolare, anche quando sono molte. Ad esempio, in grammatica è normale dire che in una frase è possibile distinguere soggetto, predicato e complemento. Ma ciò non significa affatto che una frase, per essere corretta, debba avere un solo soggetto, o un solo predicato, o un solo complemento. Quando si parla di animali è normale dire, ad esempio, che tra i leoni, il maschio si accoppia con la femmina; ma ciò non significa affatto che tra i leoni ci sia sempre un solo maschio che si accoppia con una sola femmina. Allo stesso modo, dire che nel segno è possibile distinguere significante e significato non implica che il significato debba essere per forza uno solo. A pensarci bene, non esistono segni di alcun tipo il cui significato sia uno solo. Forse una cosa del genere è riscontrabile in alcune scienze che si sforzano di essere al massimo precise, stringenti, e quindi il più possibile povere di significati, per esempio la matematica, oppure la fisica o la chimica. Ma, a parte questi casi speciali, non mi sembra che in altri campi ci sia alcuno sforzo di vincolare i significati a uno solo. Non vedo alcun motivo per cui ciò che intendiamo, o che si intende in linguistica, con la parola "segno", debba necessariamente implicare un solo significato. In linguistica ci si occupa specialmente di parole e non c'è alcuna regola che dica che una parola debba avere un solo significato. Non mi pare che De Saussure abbia mai voluto dire che un segno, per poter essere chiamato tale, debba avere un solo significato; magari avrà detto "un significato", ma ciò è diverso dal dire "un solo significato".
D'altra parte, se cerco nel vocabolario la parola "segno", tra i suoi significati trovo anche "simbolo"; se cerco "simbolo", trovo anche "segno". Le due parole hanno senza dubbio sfumature diverse, in base come si è soliti usarle nei vari contesti, ma non mi sembra che tra di esse ci sia una differenza radicale.
L'ultima decina di messaggi (circa) verte sul problema della definizione (e conseguente differenziazione), fra "simbolo" e "segno", a dimostrazione di come definire adeguatamente le parole-chiave di un discorso non sia una "perdita di tempo" o uno "sterile astrattismo", ma invece rappresenti indubbiamente una doverosa fase metodologica, ineludibile per impostare un dialogo chiaro e con riferimenti semantici condivisi.
Il problema, secondo me, nasce dall'appellarsi a "vocabolari" differenti per rintracciare le suddette definizioni: c'è il "vocabolario" di Jung, quello di De Saussure, quelli di altri linguisti, quello della lingua italiana, quello delle espressioni popolari, etc.
A questo punto quale scegliere? Per me la questione è risolvibile scegliendo una definizione su cui tutti i dialoganti siano consenzienti e concordi, senza ritenere più autorevole quella di un autore specifico (a cui potrebbe essere contrapposta quelli di altri autori pertinenti, e a quel punto diverrebbe una faccenda di posizioni personali...). Moltiplicare il reperimento di fonti, citazioni e definizioni a disposizione, probabilmente renderebbe solo più inibitoria l'impasse "semiologica"...
Propongo quindi una riflessione estemporanea: la croce è un simbolo cristiano e ci si fa il segno della croce... un gesto o un rituale, come scambiarsi un "segno di pace" può avere valore simbolico (non diremmo "segnico")... al segno linguistico è solitamente connesso anche un fonema (o una dimensione fonetica), come accade per le lettere dell'alfabeto, mentre spesso i simboli hanno a loro volta un proprio nome segnico (grafemi e fonemi) nel linguaggio di riferimento (senza addentrarsi nei temi della traduzione o degli ideogrammi)... il significato simbolico di una poesia non è il significato segnico/letterale...
Provo allora ad abbozzare una proposta: se i segni sembrano essere l'elemento basilare della comunicazione (linguistica e non), il simbolo forse si differenzia per un "plus-valore semantico" che rimanda ad almeno un ulteriore significato (o più) già costituito ed indipendente dal simbolo stesso: il cristianesimo non è il "significato" del crocifisso, ma il crocifisso, nella sua autonoma identità formale/materiale, rimanda simbolicamente al cristianesimo (che esiste a prescindere da, e non si riduce a, tale riproduzione simbolica); mentre il significato intrinseco al segno della croce è "riprodurre", "raffigurare" le linee della croce, creando una simbiosi forte fra il segno e il suo significato (nel senso che il segno non è scindibile dal suo significato, come invece accadeva con la croce, che ha comunque un suo significato di base, un "referente" letterale, autonomo: struttura in legno usata per uccidere i malfattori ai tempi dei romani...).
Ma allora i segni linguistici per eccellenza, le lettere, che significato hanno/rappresentano? Direi semplicemente quello di un determinato suono che, combinato con altri suoni, forma parole significanti, quindi frasi, etc. non a caso, l'alfabeto fonetico, che si propone di unificare la traslitterazione "universale" dei suoni, è piuttosto recente (fine '800).
Dunque, interpretato così, il simbolo sarebbe più prossimo all'allegoria piuttosto che ad un semplice segno arbitrario e convenzionale, come le lettere, o il segno che ci fa il vigile quando dobbiamo accostare con l'auto, per poi mostrargli il simbolo del nostro essere legittimi automobilisti (con la speranza di non averlo lasciato a casa sul comodino ;D ).
Citazione di: Phil il 28 Agosto 2017, 19:37:58 PMLa croce è un simbolo cristiano e ci si fa il segno della croce... un gesto o un rituale, come scambiarsi un "segno di pace" può avere valore simbolico (non diremmo "segnico")... al segno linguistico è solitamente connesso anche un fonema (o una dimensione fonetica), come accade per le lettere dell'alfabeto, mentre spesso i simboli hanno a loro volta un proprio nome segnico (grafemi e fonemi) nel linguaggio di riferimento (senza addentrarsi nei temi della traduzione o degli ideogrammi)... il significato simbolico di una poesia non è il significato segnico/letterale...
Diciamo che nel simbolo della Croce si sintetizza la filosofia centrale del cristianesimo: la corrispondenza tra una analogia
verticale fondante (l'Uomo è analogia di Dio) ed una analogia
orizzontale fondata (la fratellanza-analogia Uomo-Uomo). Una doppia complementarità di opposti.
Sulla traccia di Phil che intelligentemente svolge alcune spiegazioni fra simbolo e segno, aggiungerei che il simbolo è analogico e il segno è logico.
E' il segno che è convenzione, mentre il simbolo è intuitivamente attribuibile ad un significato proprio in base ad un riconoscimento analogico di per sé esistente.
I segni possono essere arbitrari, posso inventarmi un alfabeto, costruire delle fraseologie, proposizioni, predicazioni, dentro regole semantiche e sintattiche; mentre il simbolo è più o meno il contenuto che esso esprime e quindi il significante è simile al significato,dove il significato è il concetto ed il significante è il supporto che lo esprime.
Ne consegue che il simbolo è leggibile universalmente anche da coloro che utilizzano segni linguistici completamente diversi(pensiamo al cinese rispetto all'italiano).
Si potrebbe anche dire che il segno è nel dominio della causa ed effetto, logico ed orizzontale, mentre il simbolo è correlato a principi sincronici, analogici e verticali.
Ne consegue che il simbolo è tipico del linguaggio mitico e il segno di quello razionale.
Il simbolo all'interno del concetto di inconscio collettivo di Jung presuppone una capacità universale, in ogni essere umano, di decodificazione
Ci sono anche altre parole che ricorrono e avrebbero bisogno di definizione, per esempio "laico" viene usato come "ateo" mentre significa semplicemente non confessionale, plurale, aperto, anche al teismo\deismo. E poi la cosiddetta "spiritualità", capisco che "tutto è spirito" ma se si arriva a parlare dei riti olimpionici mi pare che il tema sia stato affrontato in un senso un po troppo "laico". Per come la vedo io la parola "rito" ha un accezione puramente legata all'antichità, giustamente ora si parla più di abitudini o ricorrenze, e nel rito antico l'ingrediente fondamentale era il mistero, la contemplazione del mistero, e la funzione apotropaica della ripetizione, cioè lo stabilirsi dell'ordine di fronte al caos (ordine che poi diventa istituzione), penso che la spiritualità rituale si posizioni esattamente al confine tra caos universale e ordine antropogenico, e che se vogliamo parlare di riti e ritualità innanzitutto dovremmo andare a caccia di misteri, in un mondo che ne è estremamente avaro e dove tutto viene "scientificamente conosciuto". Al di la della ripetizione, che come è stato fatto notare è un elemento puramente "egoistico" (ripetizione di stimoli posivi), penso che si stia facendo un po il ragionamento inverso e si parta dal rito (conseguenza) anzichè dal mistero (causa).
Il mio interesse personale al riguardo riguardava la spiritualità intesa come cammino di vita interiore e la ritualità intesa come insieme di attività programmate e prestabilite nel loro svolgersi.
Ad esempio, supponendo che io voglia crescere nella mia capacità di amare il prossimo, potrei stabilire per me l'impegno a dare un euro al mese per i poveri. Già questo, in questa mia visione tutta personale, può essere fruttuosamente considerato come un rito che decido di rispettare ogni mese per la mia crescita spirituale.
Citazione di: InVerno il 29 Agosto 2017, 10:30:37 AM
Ci sono anche altre parole che ricorrono e avrebbero bisogno di definizione, per esempio "laico" viene usato come "ateo" mentre significa semplicemente non confessionale, plurale, aperto, anche al teismo\deismo. E poi la cosiddetta "spiritualità", capisco che "tutto è spirito" ma se si arriva a parlare dei riti olimpionici mi pare che il tema sia stato affrontato in un senso un po troppo "laico". Per come la vedo io la parola "rito" ha un accezione puramente legata all'antichità, giustamente ora si parla più di abitudini o ricorrenze, e nel rito antico l'ingrediente fondamentale era il mistero, la contemplazione del mistero, e la funzione apotropaica della ripetizione, cioè lo stabilirsi dell'ordine di fronte al caos (ordine che poi diventa istituzione), penso che la spiritualità rituale si posizioni esattamente al confine tra caos universale e ordine antropogenico, e che se vogliamo parlare di riti e ritualità innanzitutto dovremmo andare a caccia di misteri, in un mondo che ne è estremamente avaro e dove tutto viene "scientificamente conosciuto". Al di la della ripetizione, che come è stato fatto notare è un elemento puramente "egoistico" (ripetizione di stimoli posivi), penso che si stia facendo un po il ragionamento inverso e si parta dal rito (conseguenza) anzichè dal mistero (causa).
Mi sembra che il solo riferimento all'antichità sia restrittivo, basti pensare a tutte le ritualità legate alle istituzioni moderne, politiche, militari, giudiziarie.
Comunque il riferimento al "mistero", che è in generale il significato del rito, e al rapporto rito-mistero, mi richiama una diatriba ancora oggi aperta in ambito antropologico, che è un po' come l'uovo e la gallina.
C'è chi dice che il rito è nato per mantenere la memoria del mistero, e chi dice che il mistero venga inventato per dare senso al rito stesso. Per me è più vera la prima, comunque c'è da dire che la seconda permette di risolvere un problema, cioè spiegare l'origine del mistero, che è problematica, differentemente dal rito, la cui spiegazione originaria è più semplice essendo esso basato sulla nostra tendenza naturale a ripetere i comportamenti.
Citazione di: InVerno il 29 Agosto 2017, 10:30:37 AM
Ci sono anche altre parole che ricorrono e avrebbero bisogno di definizione, per esempio "laico" viene usato come "ateo" mentre significa semplicemente non confessionale, plurale, aperto, anche al teismo\deismo. E poi la cosiddetta "spiritualità", capisco che "tutto è spirito" ma se si arriva a parlare dei riti olimpionici mi pare che il tema sia stato affrontato in un senso un po troppo "laico". Per come la vedo io la parola "rito" ha un accezione puramente legata all'antichità, giustamente ora si parla più di abitudini o ricorrenze, e nel rito antico l'ingrediente fondamentale era il mistero, la contemplazione del mistero, e la funzione apotropaica della ripetizione, cioè lo stabilirsi dell'ordine di fronte al caos (ordine che poi diventa istituzione), penso che la spiritualità rituale si posizioni esattamente al confine tra caos universale e ordine antropogenico, e che se vogliamo parlare di riti e ritualità innanzitutto dovremmo andare a caccia di misteri, in un mondo che ne è estremamente avaro e dove tutto viene "scientificamente conosciuto". Al di la della ripetizione, che come è stato fatto notare è un elemento puramente "egoistico" (ripetizione di stimoli posivi), penso che si stia facendo un po il ragionamento inverso e si parta dal rito (conseguenza) anzichè dal mistero (causa).
Come al solito Angelo non si sbilancia mai, e non dice praticamente nulla.
Però la domanda che si era fatto è all'altezza dei tempi.
E' inutile vagheggiare ad un ritorno nel mondo magico.
Qua si parla di trovare nuovi segni che rimandino ad una semantica antropopoietica, più che apotropaica. (;D)
Ha ragione perciò a chiedersi se sia il caso o meno di scegliere insieme quale possa essere.
Il fatto è che una volta deciso che è una buona cosa farlo....
non sappiamo a quale rituale accedere.
Per questo io dico che sebbene sia cosa buona poterlo fare, NON SI PUO' fare, pena fissarsi con le cavolate olimpiche e non oso immaginare cosa altro.
E quindi caro Angelo ribalto la questione, forse è meglio usare la propria testa per altre cose. ;)
Citazione di: green demetr il 29 Agosto 2017, 23:07:30 PME' inutile vagheggiare ad un ritorno nel mondo magico.
Ne sono assolutamente convinto, ma la magia è la violazione del mistero, è la gnosi che lo razionalizza, a partire dalle forme più antiche (magia simpatica) fino alle forme più recenti (magia teologica). Ma non mi sorprendo che tu l'abbia menzionata, oggi come oggi una prospettiva antimagica viene inevitabilmente etichettata come atea o materialista, negare un miracolo è immediatamente sintomo dell'incapacità di comprendere un "bene oltre" alla materia. Io invece mi riferivo alla riverenza verso il mistero, alla distanza necessaria alla contemplazione e al successivo senso di sacralità, di "potere superiore", lungi dall'inventarsi spiegazioni! Io per esempio lo trovo guardando le stelle, e come in parte esplorato in altri topic, parebbe che l'inizio della ritualità sia partita proprio da li, dal mistero del cosmo, uno dei pochi che che è rimasto disponibile al sensibile anche se nettamente affievolito (ho una certa sicurezza che una cometa non mi prenderà in testa mentre lo contemplo ;) ). Ma si potrebbe anche solo considerare i misteri Eleusini a cui anche Platone prese parte, per ricordare che in qualche modo alla ritualità antica erano sempre collegati alterazioni degli stati di coscienza, enteogeni o endogeni, forse perchè portare il caos nella propria coscienza ci faceva illudere di essere parte più vera del "grande caos". In generale, se non si vuole relegare la questione all'antichità, io proporrei allora un altro tipo di distinzione: a) Il rito sacrale b) il rito celebrativo. Dei secondi fanno parte istituzioni moderne, religiose e laiche, olimpiadi e chi ne ha più ne metta, ma che collegamento esse abbiano con la spiritualità (intesa come ricerca di salvezza o "bene superiore") non mi è ben chiaro, che qualcuno si senta spiritualmente accresciuto il giorno della festa della repubblica mi pare quantomeno bizzarro. Lo stesso potrei dire di una ritualità "progettata" a tavolino come l'elemosina giornaliera, che è sicuramente un buon gesto che pure io ogni tanto pratico, ma non credo abbia alcuna valenza spirituale. Dov'è la vertigine del baratro spirituale?
Citazione di: InVerno il 30 Agosto 2017, 09:41:23 AM...la magia è la violazione del mistero, è la gnosi che lo razionalizza, a partire dalle forme più antiche (magia simpatica) fino alle forme più recenti (magia teologica). Ma non mi sorprendo che tu l'abbia menzionata, oggi come oggi una prospettiva antimagica viene inevitabilmente etichettata come atea o materialista, negare un miracolo è immediatamente sintomo dell'incapacità di comprendere un "bene oltre" alla materia. Io invece mi riferivo alla riverenza verso il mistero, alla distanza necessaria alla contemplazione e al successivo senso di sacralità, di "potere superiore", lungi dall'inventarsi spiegazioni!
Trovo estremamente utile questa chiarificazione, perché esprime in maniera efficace la situazione ambigua in cui si trova oggi la spiritualità, divisa appunto tra ciò che hai descritto come magia e ciò che hai descritto come mistero. Inteso nel senso in cui l'hai descritto, per me "mistero" viene ad essere sinonimo di "spiritualità".
Citazione di: InVerno il 30 Agosto 2017, 09:41:23 AMLo stesso potrei dire di una ritualità "progettata" a tavolino come l'elemosina giornaliera, che è sicuramente un buon gesto che pure io ogni tanto pratico, ma non credo abbia alcuna valenza spirituale. Dov'è la vertigine del baratro spirituale?
È chiaro che il puro gesto esterno non è creatore di spiritualità. Io ritengo importantissimo che chi voglia percorrere un cammino di spiritualità lo faccia preparandosi un buon progetto, seduto a tavolino, meglio se con l'aiuto di buoni maestri. Se si entra in quest'ordine di idee, si capisce anche che uno, che voglia percorrere un cammino di crescita spirituale e si siede a tavolino a progettare, non si metterà certamente a progettare subito l'elemosina giornaliera. È logico, basta provare a mettersi ipoteticamente nei panni di colui che si siede a tavolino a progettare. Egli si chiederà anzitutto su cosa crescere, perché crescere, quali dovranno essere le cose più importanti. In questo contesto la progettazione di elemosine quotidiane sarà soltanto un aspetto, una piccola parte di un progetto molto più complesso.
Non è la prima volta che mi accade di essere frainteso su questo e riconosco che è in gran parte colpa mia, del mio modo di esprimermi e della mia mentalità: per la mia mentalità è scontato che ogni cosa che debba essere crescita spirituale debba sempre far parte di una progettualità più complessa e più grande, ma dimentico spesso che ciò non è scontato per tutti e necessita di essere precisato.
Citazione di: InVerno il 30 Agosto 2017, 09:41:23 AM
Citazione di: green demetr il 29 Agosto 2017, 23:07:30 PME' inutile vagheggiare ad un ritorno nel mondo magico.
Io ...mi riferivo alla riverenza verso il mistero, alla distanza necessaria alla contemplazione e al successivo senso di sacralità, di "potere superiore", lungi dall'inventarsi spiegazioni!
"L'ipotesi dell'esistenza di un Dio assoluto, al di là di ogni esperienza umana, mi lascia indifferente; né io agisco su di Lui, né Lui su di me. Se invece so che Egli è un possente impulso nella mia anima, me ne devo interessare". [JUNG: Studi sull'Alchimia - pg.59]"Nel definire Dio o il Tao come un impulso dell'anima o uno stato psichico, ci si limita a compiere una asserzione su ciò che è conoscibile, e non invece su quanto è inconoscibile, intorno al quale non potremmo affermare assolutamente nulla".[JUNG: Studi sull'Alchimia - pg.63]
Citazione di: Carlo Pierini il 30 Agosto 2017, 10:59:44 AM
Citazione di: InVerno il 30 Agosto 2017, 09:41:23 AM
Citazione di: green demetr il 29 Agosto 2017, 23:07:30 PME' inutile vagheggiare ad un ritorno nel mondo magico.
Io ...mi riferivo alla riverenza verso il mistero, alla distanza necessaria alla contemplazione e al successivo senso di sacralità, di "potere superiore", lungi dall'inventarsi spiegazioni!
"L'ipotesi dell'esistenza di un Dio assoluto, al di là di ogni esperienza umana, mi lascia indifferente; né io agisco su di Lui, né Lui su di me. Se invece so che Egli è un possente impulso nella mia anima, me ne devo interessare". [JUNG: Studi sull'Alchimia - pg.59]
"Nel definire Dio o il Tao come un impulso dell'anima o uno stato psichico, ci si limita a compiere una asserzione su ciò che è conoscibile, e non invece su quanto è inconoscibile, intorno al quale non potremmo affermare assolutamente nulla".[JUNG: Studi sull'Alchimia - pg.63]
E' paradossale che citi il Tao
Chi si dedica allo studio ogni dì aggiunge,
chi pratica il Tao ogni dì toglie,
toglie ed ancor toglie
fino ad arrivare al non agire:
quando non agisce nulla v'è che non sia fatto.
Quei che regge il mondo
sempre lo faccia senza imprendere,
se poi imprende
non è atto a reggere il mondo.
P.s. Angelo, scusa per averti frainteso.
Citazione di: InVerno il 30 Agosto 2017, 11:25:32 AM
Citazione di: Carlo Pierini il 30 Agosto 2017, 10:59:44 AM
Citazione di: InVerno il 30 Agosto 2017, 09:41:23 AM
Citazione di: green demetr il 29 Agosto 2017, 23:07:30 PME' inutile vagheggiare ad un ritorno nel mondo magico.
Io ...mi riferivo alla riverenza verso il mistero, alla distanza necessaria alla contemplazione e al successivo senso di sacralità, di "potere superiore", lungi dall'inventarsi spiegazioni!
"L'ipotesi dell'esistenza di un Dio assoluto, al di là di ogni esperienza umana, mi lascia indifferente; né io agisco su di Lui, né Lui su di me. Se invece so che Egli è un possente impulso nella mia anima, me ne devo interessare". [JUNG: Studi sull'Alchimia - pg.59]
"Nel definire Dio o il Tao come un impulso dell'anima o uno stato psichico, ci si limita a compiere una asserzione su ciò che è conoscibile, e non invece su quanto è inconoscibile, intorno al quale non potremmo affermare assolutamente nulla".[JUNG: Studi sull'Alchimia - pg.63]
E' paradossale che citi il Tao
Chi si dedica allo studio ogni dì aggiunge,
chi pratica il Tao ogni dì toglie,
toglie ed ancor toglie
fino ad arrivare al non agire:
quando non agisce nulla v'è che non sia fatto.
Quei che regge il mondo
sempre lo faccia senza imprendere,
se poi imprende
non è atto a reggere il mondo.
Queste sono le parole di un poeta di 2.500 anni fa, di un precursore dell'idea di "sacrificium intellectus", che ha portato la cristianità ai roghi della "Santa" Inquisizione. Mentre...
"L'uomo moralmente e spiritualmente emancipato della nostra epoca non vuole più seguire una fede o un rigido dogma. Egli vuole comprendere, e non meraviglia, dunque, che egli trascuri ciò che non capisce. Il simbolo religioso rientra tra le cose difficilmente accessibili alla ragione, perciò di regola è la religione la prima ad essere gettata a mare. Il sacrificium intellectus che la fede positiva pretende è un atto di violenza contro cui la coscienza degli spiriti evoluti si ribella". [JUNG: Contrasto tra Freud e Jung - pg.141]"La fede è un carisma (dono della grazia) per colui che la possiede, ma non è una via d'uscita per chi ha bisogno di capire qualche cosa prima di credere. Giacché infine anche il credente è convinto che Dio ha dato l'intelletto all'uomo e certo per qualcosa di meglio che per mentire e ingannare. Benché in origine si creda ai simboli in modo naturale, è possibile anche comprenderli, e questa è l'unica via per tutti coloro cui non è stato concesso il carisma della fede. [...] Il simbolo è stato ed è il ponte che conduce a tutte le più grandi conquiste dell'umanità". [JUNG: Simboli della trasformazione pg. 231] "La fede può comprendere un sacrificium intellectus (premesso che ci sia un intelletto da sacrificare), ma mai un sacrificio del sentimento. Così i credenti rimangono fanciulli, invece di diventarecome fanciulli e non conquistano la loro vita perché non l'hanno mai perduta". [JUNG: Psicologia e religione - pg.493]
Citazione di: Carlo Pierini il 30 Agosto 2017, 11:59:40 AM
Queste sono le parole di un poeta di 2.500 anni fa, di un precursore dell'idea di "sacrificium intellectus", che ha portato la cristianità ai roghi della "Santa" Inquisizione. Mentre...
"L'uomo moralmente e spiritualmente emancipato della nostra epoca non vuole più seguire una fede o un rigido dogma. Egli vuole comprendere, e non meraviglia, dunque, che egli trascuri ciò che non capisce. Il simbolo religioso rientra tra le cose difficilmente accessibili alla ragione, perciò di regola è la religione la prima ad essere gettata a mare. Il sacrificium intellectus che la fede positiva pretende è un atto di violenza contro cui la coscienza degli spiriti evoluti si ribella". [JUNG: Contrasto tra Freud e Jung - pg.141]
"La fede è un carisma (dono della grazia) per colui che la possiede, ma non è una via d'uscita per chi ha bisogno di capire qualche cosa prima di credere. Giacché infine anche il credente è convinto che Dio ha dato l'intelletto all'uomo e certo per qualcosa di meglio che per mentire e ingannare. Benché in origine si creda ai simboli in modo naturale, è possibile anche comprenderli, e questa è l'unica via per tutti coloro cui non è stato concesso il carisma della fede. [...] Il simbolo è stato ed è il ponte che conduce a tutte le più grandi conquiste dell'umanità". [JUNG: Simboli della trasformazione pg. 231]
"La fede può comprendere un sacrificium intellectus (premesso che ci sia un intelletto da sacrificare), ma mai un sacrificio del sentimento. Così i credenti rimangono fanciulli, invece di diventarecome fanciulli e non conquistano la loro vita perché non l'hanno mai perduta". [JUNG: Psicologia e religione - pg.493]
Penso che la conoscenza possa essere ottenuta e abbandonata, i concetti consolidati e poi disciolti, se non sbaglio dovrebbe essere una traduzione alternativa del passo che ho citato (purtroppo non ho accesso in questo momento). Non ho alcuna fiducia per le persone che non sorridono quando parlano (e il mezzo scritto in questo lascia sistematicamente a desiderare), il sorriso sta a significare che si è consci che le parole sono parole, ma una volta ascoltate non bisogna prenderle troppo sul serio, bisogna scioglierle nuovamente entro se stessi. Lo stesso penso di "ciò che si può imparare". Non si tratta di sacrificare il proprio intelletto, ma di sapere usare la mente come la mano, poterla aprire e chiudere a piacimento, anzichè vivere in uno stato di continua diarrea mentale, un flusso di informazioni continuo. Ora io sono una persona estremamente anti-rituale, aborro e detesto la ripetizione, per correttezza dovrei persino evitare di scriverne. Tuttavia a volte capita. Per esempio sono un modestissimo apicoltore, e alla mattina dopo colazione tempo permettendo faccio una passeggiata dagli alverari. Ho le conoscenze base per capire che cosa sta succedendo (anche se ultimamente la materia si è fatta anche scientificamente misteriosa) e queste mi sono utili per operare nell'alveare. Ma se voglio meravigliarmi di questi insetti stupendi e provare un senso di comunione con essi devo abbandonare queste conoscenze, svuotare la mente, osservarli come se non sapessi nulla di loro, a partire dal semplice fatto che permanere li potrebbe fornirmi una poco meravigliosa puntura. Allora diventa possibile abbandonare la paura, lanciarsi nel baratro del mistero, camminare con le api nelle mani e nei capelli senza che esse ti pungano. Jung ha fatto una missione della sua vita il "capire" mappe disegnate per "sentire", ammirevole, ma è come usare una ruota per volersi sedere.
Citazione di: InVerno il 30 Agosto 2017, 12:11:11 PMPer esempio sono un modestissimo apicoltore, e alla mattina dopo colazione tempo permettendo faccio una passeggiata dagli alverari. Ho le conoscenze base per capire che cosa sta succedendo (anche se ultimamente la materia si è fatta anche scientificamente misteriosa) e queste mi sono utili per operare nell'alveare. Ma se voglio meravigliarmi di questi insetti stupendi e provare un senso di comunione con essi devo abbandonare queste conoscenze, svuotare la mente, osservarli come se non sapessi nulla di loro, a partire dal semplice fatto che permanere li potrebbe fornirmi una poco meravigliosa puntura. Allora diventa possibile abbandonare la paura, lanciarsi nel baratro del mistero, camminare con le api nelle mani e nei capelli senza che esse ti pungano. Jung ha fatto una missione della sua vita il "capire" mappe disegnate per "sentire", ammirevole, ma è come usare una ruota per volersi sedere.
Sono d'accordo con te, ma la tua non è una regola. La conoscenza di una cosa non impedisce la contemplazione del mistero che incarna; anzi, a me succede l'esatto opposto: più comprendo a fondo la realtà (sia materiale che spirituale) più me ne innamoro; più ne rivelo i misteri, più mi affascina il grande mistero ancora sepolto.
In altre parole, la comprensione non contraddice la contemplazione, ma la arricchisce e la rende più profonda, più piena. E' un errore tragico, secondo me, contrapporre dualisticamente queste due modalità di relazione della nostra anima col mondo. L'intelletto, se è abbastanza illuminato dal cuore, non profana i sentimenti, ma li esalta; e il cuore, se risuona con i nostri pensieri più alti, non intralcia la ragione, ma la guida.
Inverno ovviamente (spero tu l'avrai capito) io comprendo e faccio mio quello che hai scritto cos' bene sul mistero.
Ci tenevo particolarmente a dirlo.
Il mio intervento è relativo alla questione sociologica, o meglio comunitaria (che sarebbero poi la situzione attuale e quella utopica).
In un tempo dove la Scienza ha preso il posto di Dio, è difficile trovare spazio per il Mistero.
Inoltre il Mistero ha sempre più i caratti di un settarismo, orgoglioso e risentito, penso sopratutto alla Wicca e simili religioni sincretiche.
Difficile trovare gente come te, Carlo che stanno sulla doppia soglia tra lo scientifico e il misterico.
Citazione di: green demetr il 01 Settembre 2017, 09:39:25 AM
Difficile trovare gente come te, Carlo che stanno sulla doppia soglia tra lo scientifico e il misterico.
...Infatti, prendo sganassoni sia dai "mistici" che dagli "scientisti"! >:(
"Le dualità, in fondo, indicano il "sí" e il "no", gli inconciliabili opposti che "devono" essere conciliati perché l'equilibrio della vita non vada perduto. Ciò può verificarsi soltanto se ci si attiene saldamente al centro, là dove si bilanciano agire e patire. Una strada questa che corre sul filo del rasoio. E proprio nel momento culminante, quando gli opposti universali si scontrano, si apre non di rado un'ampia prospettiva che abbraccia passato e futuro. E' questo il momento psicologico in cui, come il consensus gentium ha costatato da tempi antichissimi, si producono i fenomeni sincronistici, per cui ciò che è lontano può apparire vicino". [JUNG: Archetipi e inconscio collettivo - pg.334]L'angolo musicale:
A. BRANDUARDI: I santi
https://youtu.be/g_JNj-7EHe0?t=22
Citazione di: green demetr il 01 Settembre 2017, 09:39:25 AM
Inverno ovviamente (spero tu l'avrai capito) io comprendo e faccio mio quello che hai scritto cos' bene sul mistero.
Ci tenevo particolarmente a dirlo.
Il mio intervento è relativo alla questione sociologica, o meglio comunitaria (che sarebbero poi la situzione attuale e quella utopica).
In un tempo dove la Scienza ha preso il posto di Dio, è difficile trovare spazio per il Mistero.
Inoltre il Mistero ha sempre più i caratti di un settarismo, orgoglioso e risentito, penso sopratutto alla Wicca e simili religioni sincretiche.
Difficile trovare gente come te, Carlo che stanno sulla doppia soglia tra lo scientifico e il misterico.
Ma in realtà il problema è sociologico, nel senso che la scienza ha preso il posto di Dio solamente in virtù del fatto che essa viene divulgata in questa maniera, come se ad ogni studio corrispondesse un tassello aquisito verso l'onniscienza, quando in realtà è esattamente il contrario e il problema sta in menti troppo abituate a trattare la verità come un manuale di sopravvivenza, e quindi ad assolutizzarla per i propri scopi. Non ricordo chi, disse che la scienza è come un isola artificiale dove gli scienziati scaricano tonnellate di sabbia. E' vero che l'isola man mano aumenta di diametro e di grandezza, ma è anche vero che i confini con l'ignoto (nella metafora, spiagge) diventano sempre più lunghi ed estesi. Se si passano le giornate nell'entroterra è difficile poi lamentarsi che non si vede il mare!
Ps. Carlo, concordo con il tuo ultimo intervento, io non contrappongo, e se schifassi la conoscenza non sarei qui a risponderti. Certo è un equilibrio labile e funambolico, bisogna prestare attenzione.
Citazione di: InVerno il 30 Agosto 2017, 12:11:11 PMNon ho alcuna fiducia per le persone che non sorridono quando parlano (e il mezzo scritto in questo lascia sistematicamente a desiderare), il sorriso sta a significare che si è consci che le parole sono parole, ma una volta ascoltate non bisogna prenderle troppo sul serio, bisogna scioglierle nuovamente entro se stessi.
Trovo utile per il discorso il tuo riferimento alle parole. Lo scopo iniziale che avevo espresso in partenza era di tentare di essere più attivi verso le ritualità della nostra esistenza, piuttosto che viverle passivamente, qualunque esse siano. Ora, mi sembra che un luogo essenziale in cui porre in atto questo tentativo sia quello delle parole. La parola, in quanto segno o simbolo, mi sembra avere una caratteristica che nessun altro tipo di segni o simboli possiede: essa è in grado di contenere in sé sia il razionale che l'irrazionale e favorisce più di ogni altra cosa il dialogo fra entrambi. Probabilmente è stata l'intuizione di questa capacità della parola a farla essere per alcune religioni un oggetto centrale della ritualità, un elemento sacro. Mi riferisco alle tre religioni Ebraismo, Cristianesimo e Islam: tutte e tre sono, tra l'altro, anche religioni del libro, cioè della parola, una parola considerata come rivelazione da parte di Dio.
Giustamente hai scritto anche che la parola, specialmente come testo scritto, lascia sistematicamente a desiderare: come tutti gli altri segni e simboli essa si presta al fraintendimento e al vuoto di significato. Non esistono garanzie di salvezza da questi problemi, ma non è detto che ciò che non garantisce salvezza non valga la pena di essere coltivato.
A questo punto, se vogliamo indagare sulle possibilità di lavoro attivo sulla parola come rito, credo che sarebbe fuorviante disquisire di scienze della parola, come per esempio semiotica, semantica, strutturalismo, scienze varie del linguaggio, sebbene esse siano delle discipline utilissime. Una ricerca sulla parola, come rito su cui tentare di agire attivamente, credo che, piuttosto che impiegare tutte le energie su questo tipo di studi scientifici, possa trarre molto frutto seguendo una via più intuitiva, che ritengo sia quella del collegamento con la persona. Insomma, allo stesso modo in cui, per trarre il massimo da una poesia, sebbene siano preziosissime tutte le scienze del linguaggio, una via essenziale sia quella di recepirla nella spontaneità della nostra umanità, così la parola in sé come rito può essere valorizzata esplorando il suo essere umana, detta o scritta da esseri umani e recepita da altri esseri umani. Questo non è altro che dire con parole diverse quello che già hai scritto tu: "bisogna scioglierle nuovamente entro se stessi". Questo scioglierle entro se stessi credo possa diventare un lavoro attivo, sebbene si tratti di un lavoro che deve fare attenzione a non trasformarsi in gabbia limitante. Una concetto di questo genere, vicino a quanto espresso, potrebbe essere quello di meditazione: la meditazione può essere considerata un lavoro che cerca di essere anche ascolto, anche passività.
Citazione di: Angelo Cannata il 01 Settembre 2017, 19:14:51 PMTrovo utile per il discorso il tuo riferimento alle parole. Lo scopo iniziale che avevo espresso in partenza era di tentare di essere più attivi verso le ritualità della nostra esistenza, piuttosto che viverle passivamente, qualunque esse siano. Ora, mi sembra che un luogo essenziale in cui porre in atto questo tentativo sia quello delle parole. La parola, in quanto segno o simbolo, mi sembra avere una caratteristica che nessun altro tipo di segni o simboli possiede: essa è in grado di contenere in sé sia il razionale che l'irrazionale e favorisce più di ogni altra cosa il dialogo fra entrambi. Probabilmente è stata l'intuizione di questa capacità della parola a farla essere per alcune religioni un oggetto centrale della ritualità, un elemento sacro. Mi riferisco alle tre religioni Ebraismo, Cristianesimo e Islam: tutte e tre sono, tra l'altro, anche religioni del libro, cioè della parola, una parola considerata come rivelazione da parte di Dio.
Giustamente hai scritto anche che la parola, specialmente come testo scritto, lascia sistematicamente a desiderare: come tutti gli altri segni e simboli essa si presta al fraintendimento e al vuoto di significato. Non esistono garanzie di salvezza da questi problemi, ma non è detto che ciò che non garantisce salvezza non valga la pena di essere coltivato.
A questo punto, se vogliamo indagare sulle possibilità di lavoro attivo sulla parola come rito, credo che sarebbe fuorviante disquisire di scienze della parola, come per esempio semiotica, semantica, strutturalismo, scienze varie del linguaggio, sebbene esse siano delle discipline utilissime. Una ricerca sulla parola, come rito su cui tentare di agire attivamente, credo che, piuttosto che impiegare tutte le energie su questo tipo di studi scientifici, possa trarre molto frutto seguendo una via più intuitiva, che ritengo sia quella del collegamento con la persona. Insomma, allo stesso modo in cui, per trarre il massimo da una poesia, sebbene siano preziosissime tutte le scienze del linguaggio, una via essenziale sia quella di recepirla nella spontaneità della nostra umanità, così la parola in sé come rito può essere valorizzata esplorando il suo essere umana, detta o scritta da esseri umani e recepita da altri esseri umani. Questo non è altro che dire con parole diverse quello che già hai scritto tu: "bisogna scioglierle nuovamente entro se stessi". Questo scioglierle entro se stessi credo possa diventare un lavoro attivo, sebbene si tratti di un lavoro che deve fare attenzione a non trasformarsi in gabbia limitante. Una concetto di questo genere, vicino a quanto espresso, potrebbe essere quello di meditazione: la meditazione può essere considerata un lavoro che cerca di essere anche ascolto, anche passività.
Si sono d'accordo, mi sembra un contributo di buon senso. Poi il fatto che linguaggio e magia nei miei post siano affiancati è perchè nella mia prospettiva uno è la derivazione dell'altra e la parentela è cosi stretta da essere difficilmente definibile, la magia come derivazione metafisica delle metafore è una chiave di lettura cosi comoda da provocare non pochi sospetti, tuttavia dal mio punto di vista veritiera. Essendo tu un ex prete, avrai tu stesso somministrato tante ostie-sineddoche :) Per quanto riguarda ritualità e linguaggio, basti pensare che anticamente proibire una parola significava proibire l'accesso a una dimensione del reale ed era una punizione che in alcune culture veniva posta in essere da una casta religiosa, che nella maggioranza dei casi parlava una lingua diversa (comunemente considerata semplicemente "dotta", ma capace di dare accesso esclusivo a reami del reale altrimenti proibiti e articolati, e pericolosi se capitati in mani inesperte). Ricordo non diversamente che il papa che assistette alla traduzione in volgare e stampa in massa della Bibbia profetizzò che questo processo avrebbe avuto come unica conseguenza la fine della Chiesa. E poi mi viene in mente Arpocrate, il Dio del Silenzio, che veniva sovente posto all'entrata dei templi (con il caratteristico dito davanti alla bocca che ancora oggi usiamo) per ammonire che davanti al divino si doveva tacere. Nella ritualità spirituale quindi c'è anche un complesso meccanismo di potere istituzionalizzato, la privazione della parola è spesso un metodo di autoconservazione del potere temporale della casta religiosa e non ha nulla a che fare con un percorso spirituale cosciente. E' quindi normale che Carlo parli di "sacrificio intellettuale", perchè questa storicamente sopratutto in occidente è stata la deviazione principale del sacrificio spirituale. La riscoperta della spiritualità e delle sue forme rituali deve quindi prima partire, come giustamente ha considerato Demetr, da una riformulazione sociale della stessa, su un piano che ad oggi rimane quasi del tutto largamente inesplorato in occidente. E' anche per questo che tantissimi hanno volto lo sguardo verso l'oriente, i millenari regimi idraulici orientali hanno meno avvilito le qualità spirituali dei percorsi, avendone meno bisogno per controllare i popoli (Arpocrate compare tardi in un Egitto già in declino proprio per rafforzare il potere monarchico, a chi mi facesse notare che anche l'Egitto era una società idraulica).
Il punto di vista della ritualità, come d'altronde ogni punto di vista, può essere talmente allargato da arrivare a comprendere qualsiasi cosa, fino a dire che tutto è rito. Questa prospettiva è evidentemente una forzatura, ma certe forzature possono evidenziare elementi e meccanismi altrimenti invisibili, così come l'introduzione di certi coloranti nelle cellule consente di visualizzare al microscopio parti e movimenti altrimenti impossibili da individuare.
Se tutto è rito, si può pensare che le religioni si siano venute a formare anche con uno scopo simile a quello che ho esposto all'inizio: gestire i riti attivamente, quindi gestire la vita attivamente, non limitarsi a lasciarsela scorrere nelle vene e negli eventi. Quello che però era nato come strumento di valorizzazione, si è poi trasformato in strumento limitante: le religioni, da strumento per valorizzare attivamente le ritualità dell'esistenza, si sono trasformate in strumenti di controllo e monopolio della ritualità, paralizzazione appropriazione del mondo intimo delle ritualità.
È tipica delle organizzazioni che hanno un grande potere la tendenza ad assumere il controllo di certi elementi chiave dell'esistenza umana, quali ad esempio l'alimentazione (si pensi in ambito religioso ai digiuni, ai cibi consentiti e cibi proibiti; ma anche il fascismo ha propagandato l'austerità nel mangiare), il sesso (è diffusissima nelle religioni la tendenza a stabilire i comportamenti sessuali leciti e illeciti; anche le dittature hanno solitamente cercato di dettare regole sulla prolificazione, per esempio incoraggiandola per fornire nuove leve all'esercito) e aggiungiamo la parola: sia nelle religioni che nella politica è facile individuare norme e costumi su ciò che si può dire e ciò che non si deve dire.
In questo contesto di idee, ipotizzare che ogni parola che diciamo e pensiamo è sempre, in quanto segno o simbolo, un rito, ne segue la possibilità di una riconsiderazione tutta nuova del parlare, del comunicare e del pensare, alla luce di questa prospettiva, soprattutto considerando anche l'opportunità già detta di tentare di vivere attivamente l'esperienza, in questo caso della parola, piuttosto che lasciarsela scorrere passivamente addosso lungo la vita di ogni giorno.