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Vecchio 22-08-2007, 21.31.26   #11
Patri15
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Riferimento: la tragicità greca

Citazione:
Originalmente inviato da Aegritudo
La tragedia greca è viva. Estremamente viva. E' vero, non siamo molti a interessarcene e ad amarla. Io credo che studiare la cultura greca dia grande profondità. Sin dallo studio della lingua. La trovo perfetta nella sua precisione.
Riguardo alla morte di Antigone, sai che le eroine morivano in modo diverso dagli eroi? Cioè i suicidi femminili non avvenivano nelle modalità maschili. Era questo il segno distintivo, anche. Antigone si impicca. Come Giocasta, del resto. Fedra, anche. Un 'eccezione fu Deianira che si trafigge. Lei era la moglie di Eracle, del resto, prototipo dell'eroe greco tradizionale. Ma anche lei, si uccide nel chiuso del suo talamo, cmq. La morte delle donne doveva essere, in genere, senza spargimento di sangue. Troppo maschile altrimenti.
Erano meravigliosi i Greci.

Anch'io adoro i Greci.

Voglio provare a riflettere sul rapporto originario e costitutivo che lega mito e tragedia.

La tragedia assunta come occasione esemplare per un ripensamento del problema interno della filosofia: il luogo cioè che esibisce in forma simbolica la <domanda fondamentale> della filosofia.

La domanda che il pensiero rivolge a se stesso, interrogando il proprio costituirsi e le condizioni trascendentali che lo rendono possibile.

Cioè la rappresentazione tragica come interrogazione della finitezza e come spiegazione del rapporto che lega senso e non-senso, visibile e invisibile, mito e pensiero.

Attraverso la rielaborazione drammatica del mito, infatti, la tragedia mostra per così dire IN OPERA il paradosso costitutivo del pensiero e le sue contraddizioni insolubili.

Tragica infatti è l'impossibilità di togliere la finitezza nella quale, già da sempre, siamo immersi.

Così come irriducibilmente tragico è il rapporto che unisce e insieme divide arte e vita, etica ed estetica, rappresentazione e irrappresentabile.

La nascita della tragedia - in questa prospettiva - è la "nascita della rappresentazione", di ogni rappresentazione: della rappresentazione come tale.

La tragedia greca perciò io la vivo come esibizione della insuperabile finitezza del comprendere e del nostro "farci rappresentazioni" del mondo.
La capacità, cioè, di conservare, nella memoria, la nostra finitezza e tutto ciò che questa implica: sofferenza, dolore, morte.Tragica, allora, è la redenzione che custodisce e accetta fino in fondo il limite.

Mito e tragedia.. Da Sofocle a Nietzsche, ciò che emerge,è lo stesso problema di fondo, la stessa tragica consapevolezza, di volta in volta attualizzata e rinnovata.

Rimane una occasione decisiva per ripensare noi stessi e il senso profondo - e contraddittorio - della nostra civiltà.

Ciao a tutti
Patri15 is offline  
Vecchio 22-08-2007, 22.02.48   #12
renzananda
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Riferimento: la tragicità greca

Belle riflessioni. Viene in mente anche la Simone Weil delle riflessioni sull'Iliade come poema della forza. La considerazione che tutto è necessità, che la physis nel suo ac-cadere si fa gioco dell'hybris delle individualità empiriche e dei loro voleri-valori. Ma, coerentemente con il riconoscimento virile della soggezione di tutto alla necessità, è altresì l'attingimento nietzschiano: "amor fati, ego fatum". Il massimo dell'asservimento alla necessità ed al tragico, il sì incondizionato a ciò che ac-cade, il volere ciò che accade conduce ad identificarsi, nello sfondamento dell'idea di soggetto, all'accadere stesso sino a coincidere con esso. Redenzione del tragico attraverso il tragico...
renzananda is offline  
Vecchio 23-08-2007, 08.33.10   #13
emmeci
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Riferimento: la tragicità greca

Colgo la tua ultima frase: redenzione del tragico attraverso il tragico, che potrebbe in fondo essere interpretata come una variazione “seria” al concetto aristotelico della catarsi come gioco o palpito di emozioni. Mentre io credo che alla catarsi tragica ci si possa accostare in modo diverso, cioè in modo veramente etico, anche se questo può sembrare poco compatibile con la Grecia dei libri scolastici.
Quando per la prima volta sentii il fascino di quella tragedia, mi parve che il vero problema stesse nella necessità di scoprire, al di là della travolgente potenza dell’espressione, quale senso potesse avere una “rivelazione tragica” per un pubblico educato sulle visioni di Omero, cioè su una cultura che dal mito traeva la forza di abbracciare totalmente la vita, tanto da non avere più bisogno di credere negli dei – e neppure in una moralità come forma superiore dell’esistenza. Un eroe, una stirpe, un popolo. Un’azione e una gesta. Ed è di fronte a questo gloriarsi dello spirito ellenico, a questa certezza o presunzione di un’esistenza compiuta e prossima a una vittoriosa affermazione nel mondo, che la tragedia fa la sua improvvisa comparsa: il mistero delle sue origini era, per me, tutto qui. L’ira è la colpa, l’eros è colpa, la figura eroica è la figura tragica cioè la figura dannata: così almeno vuole la logica tragica, che sembra affidare ai geni futuri il coraggio di portarla avanti e di estenderla oltre le mura di Atene. Ho detto che la catastrofe è la realizzazione del male: ma è, nello stesso tempo, la sua soppressione, ed in questo sta la ragione fondamentale della cosiddetta catarsi. La catastrofe è la catarsi: ciò che compie ed elimina l’azione eroica – come una nera grazia – almeno nelle tragedie più alte, che toccano d’altra parte il fondo di una coscienza, pronta ad andare avanti abbandonando gli spalti di Atene per scuotere altri cervelli e altri popoli, strappando alla storia la sua essenza mitica e proseguendo la sua missione fatale. Nessuna gesta è innocente. L’eroe è negato da sé. La morte rischiara la scena spogliata di quell’istrionica larva.
Così si configura la prima interpretazione possibile della catarsi tragica: se la morte, cioè la negazione fisica dell’eroe, è l’unico mezzo di purificazione. E tuttavia non si tratta già più di un evento fisico, poiché, se l’azione dell’eroe era colpa, la sua morte diviene in qualche modo un’espiazione e si afferma attraverso di essa il valore della giustizia. Per un colpo un colpo, per un sangue versato un altro sangue versato: la schiatta si trasmette questo segreto e si fa, contro ogni illusione, il processo da sé. La giustizia non si afferma sempre e sembra schernire sé stessa? O è la nostra mente incapace di seguirne gli itinerari brucianti? No, la giustizia non è minacciata da sé ma da una potenza più alta. Ed è qui che si spiega la vera funzione del coro – questa suprema invenzione dei Greci.
Il coro è l’altro popolo greco, cioè il popolo inventato dal genio per sostituire – in senso esaltante o vendicatore, lirico o tragico, quello della città reale, radicato nell’ethos eroico e in una percezione mitica inconsumabile. Il coro tragico ha però una prerogativa supplementare: esso sostituisce il pubblico del teatro, incapace di seguire un genio così diverso da quello di Omero, non tanto nelle sue sorprese espressive, quanto nel rovesciamento della coscienza, nel seguire e nell’uccidere il mito e insegnare qualcosa che diventa una condanna degli spettatori. I satiri sono il popolo altro. Sono esseri che trascendono il fango terrestre, lo sperma della natura, sono gli esseri che non sanno diventare eroi, che sanno solo gemere e contemplare, che cercano di compatire e comprendere – e soprattutto non partecipano all’azione scenica – qui la tecnica è trascinata dalla coscienza e il coro è un aprirsi a un sapere e un’etica nuova: a qualcosa che sembra negato ai protagonisti e che nel coro stesso appare inafferrabile e perfino illogico. Eppure la presenza del coro è assolutamente evidente, esso è ciò che circonda l’evento, che soffre l’azione nella sua intera parabola, che accoglie il trionfo e l’agonia degli eroi. Ed è ciò che sopravvive alla morte, perché alla fine è pietà.
E’ questo, a mio parere, il più profondo significato della catarsi. Sfuggente allo stesso genio teatrale, e naturalmente al pubblico del teatro, improvvisamente nato, rapidamente perduto, quando lo stesso poeta poteva smarrirne il significato ed essere trascinato a sognare e rappresentare altre catarsi, più facili, più civili o forse selvagge, comunque più comprensibili alla Grecia reale.
emmeci is offline  
Vecchio 23-08-2007, 12.21.23   #14
Patri15
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Riferimento: la tragicità greca

Citazione:
........Ed è qui che si spiega la vera funzione del coro – questa suprema invenzione dei Greci.
Il coro è l’altro popolo greco, cioè il popolo inventato dal genio per sostituire – in senso esaltante o vendicatore, lirico o tragico, quello della città reale, radicato nell’ethos eroico e in una percezione mitica inconsumabile. Il coro tragico ha però una prerogativa supplementare: esso sostituisce il pubblico del teatro,...

C'è anche un'altra funzionalità del coro, secondo me : soffrire in una maniera diversa per portare il dolore dei protagonisti.

Il coro non fa niente, non può far niente: e là per vivere il dolore dell'impossibilità e, senza consolazione, guarda soffrire il loro dolore.

Il Coro ha la sua propria tragedia: quella del testimone impotente, dell'esilio, del proibito, dell'esclusione, e tutto questo lo porta ad essere privato del bene più prezioso: la possibilità di agire

Credo, come Emmeci, che il Coro - immobilizzato com'è da chiodi invisibili - inchiodi al loro posto anche gli spettatori facendo loro capire che sono fatti della stessa carne dei protagonisti.

Il corpo del Coro e' percorso, calpestato, ri-calpestato dalle corse degli assassini e delle vittime. Sa tutto, ma rimane ..- un messaggero tremante della memoria.
Patri15 is offline  
Vecchio 23-08-2007, 19.56.25   #15
renzananda
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Riferimento: la tragicità greca

Ma ancora resta un'interpretazione etica della tregedia. Se di ethos si tratta non è quello della moralina nietzschiana ma semmai dell'abitare. Ma di un abitare già da sempre dislocato, illocato, nemmeno memoria chè già sarebbe serbare, conservare sia pure la memoria dell'irredimibilità dell'ac-cadere. Il Coro non ha corpo, ed il teatro (se si vuole giocare con l'etimo che lo connette al "divino") è sempre o-sceno, fuori di scena e fuor di ogni rappresentazione consolatoria. Pura phonè, Voce che non dice o che dice Ni-ente, prima ed oltre ogni articolazione, grido....
renzananda is offline  

 



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