La Riflessione Indice
…e in principio fu il verbo
di Gianni Maria Serughetti
- Settembre 2019
- Introduzione - Quadro Storico - Considerazioni - Conclusione
- Origine della parola
- Anatomia del linguaggio
- Linguaggio e genetica
- Linguaggio e cervello
Linguaggio e genetica
Nel 740 mila avanti Cristo l’Homo Erectus ha già invaso il vecchio mondo, poche centinaia di generazioni e migliaia di anni e già si ritrova oltre che in Africa e in oriente, in Cina Europa Asia Grecia Balcani Russia, nelle Americhe giungerà più tardi, quando sarà già Sapiens. In questa espansione ogni generazione è sorretta dal patrimonio di capacità e conoscenze ereditate dai padri e dalle trasmissioni verbali di informazioni.
I processi evolutivi biologici non sono però ancora terminati.
Vari gruppi finiscono per estinguersi. Altri invece sviluppano caratteri che col tempo si fissano in caratteristiche di specie.
Non se ne sa molto, data anche la scarsità di reperti fossili.
Tranne che per due protagonisti di questo processo: il primo rappresentante della specie Sapiens, l’Uomo di Neandertal (così chiamato dalla località ove è stato rinvenuto il secolo scorso il primo reperto fossile) e il Sapiens Sapiens, come con scarsa modestia ci classifichiamo noi stessi. Il Neandertal è infatti già un Sapiens.
La sua scatola cranica – ci informano i reperti fossili – ha una capacità di oltre 1.500 centimetri cubici, oltre un chilo e mezzo di materia grigia. Non è un “anello di congiunzione” con l’animalità come si riteneva un tempo: ha sviluppato una sua, sia pure rozza, cultura, seppellisce i propri morti, tutto lascerebbe credere che abbia sviluppato credenze in un al di là. Eppure il Neandertal – come gli altri discendenti di Erectus “specializzatisi” nel corso di un milione di anni – sparisce all’arrivo dei nostri diretti antenati. E, come vedremo, uno dei “gialli” della paleoantropologia, è forse una chiave per capire qualcosa di più su noi stessi. Intanto, in un appartato angolo della costa africana o del Vicino Oriente (le ipotesi sul luogo sono ancora contrastanti) un altro gruppo di Erectus nel corso dei millenni aveva dato luogo a un altro processo di speciazione. E da quel clan o tribù “separata” discendiamo tutti noi, tutti gli esseri umani che oggi popolano la Terra. La prova di questa comune discendenza è in un organello cellulare, il mitocondrio, minuscola centrale energetica della cellula. A differenza di altri organi cellulari, il mitocondrio è provvisto di DNA (acido desossiribonucleico, la macromolecola che contiene il “codice genetico”, le informazioni basilari per la “costruzione” di ogni essere vivente).
È quindi probabilmente il frutto di una simbiosi avvenuta un milione e ottocento anni fa, al momento della nascita delle cellule eucariote, destinate a fornire poi architettura e mattoni per gli organismi pluricellulari. Il mitocondrio – a differenza del DNA e del nucleo della cellula – si trasmette solo attraverso l’ovulo e non lo spermatozoo. È quindi solo la femmina a tramandare ai discendenti l’“informazione mitocondriale”, e questo in un certo senso semplifica l’identificazione dell’albero genealogico genetico. Inoltre il DNA mitocondriale è soggetto a mutazioni con maggiore frequenza e regolarità di quello nucleare: è una specie di “orologio biologico” evolutivo. Queste caratteristiche hanno consentito ai genetisti “storici” delle popolazioni di tracciare una mappa evolutiva che partendo dagli individui oggi viventi sul pianeta risale con una certa precisione agli antenati (o meglio, alle antenate) comuni, e anche di seguire il percorso geografico del DNA mitocondriale e quindi stabilire la provenienza e i punti di confluenza dei vari ceppi e le presumibili date delle loro biforcazioni. Grazie a questo lavoro – che ha comportato l’analisi del sangue e delle cellule praticamente di tutte le popolazioni attuali – i genetisti sono giunti ad alcune conclusioni. La principale è che tutti i rami dell’albero evolutivo riconducono ad un unico ceppo di esseri viventi che vivevano, tra cento e duecentomila anni or sono, sulle coste africane o nel Medio Oriente. In pratica riconducono a una donna (la famosa “Eva nera”) il cui patrimonio genetico mitocondriale era già quello dei moderni Sapiens Sapiens. Questi nostri antenati, già profondamente trasformati rispetto all’Erectus, nello spazio di poche decine di migliaia di anni erano già ovunque, insediandosi nelle nicchie occupate dai loro cugini. Contemporaneamente al loro arrivo spariscono le tracce degli altri: per un breve periodo vi sono tracce di “coabitazione” con l’altro Sapiens, il Neandertal, poi anche questo svanisce senza lasciare tracce. Non sapremo mai come e perché sia avvenuta questa tragedia che sembra precedere e presagire la storia. C’è tra gli scienziati chi sostiene che forse Sapiens Sapiens era “portatore sano” di qualche virus micidiale per gli altri ominidi (o uomini). Chi pensa invece che l’estinzione dei rami collaterali della famiglia Homo fosse già avvenuta all’arrivo dei nuovi venuti (ma ciò è indimostrabile per il Neandertal). È comunque certo che i nostri antenati erano in possesso di una superiorità intellettuale e tecnologica che consentiva loro non solo di sopravvivere meglio, ma anche di avere facilmente il sopravvento in caso di confronto. Una superiorità, in un certo senso, “militare”: i gruppi di Sapiens Sapiens sapevano comunicare informazioni e rapide previsioni agli altri gruppi, probabilmente si trasmettevano con efficacia informazioni logistiche e culturali e le descrizioni del terreno. In altre parole erano in possesso di un linguaggio ricco e articolato: una superiorità strategica equivalente, oggi, all’uso delle comunicazioni elettromagnetiche. Una dote che probabilmente gli altri discendenti dell’Erectus, compreso il Neandertal, possedevano in misura molto minore. Questo spiegherebbe perché proprio i figli di Eva nera abbiano stabilmente conquistato il mondo mentre i loro parenti sparivano.
Ma “come” parlavano i nostri antenati? Le ricerche di genetica storica hanno aperto una prospettiva che ancora qualche anno fa sarebbe apparsa da fantascienza. Ancora una volta la “bacchetta magica” è quel minuscolo organello a trasmissione femminile: il mitocondrio.
La comparazione della diffusione e trasformazione del DNA mitocondriale con i fenomeni linguistici sembrerebbe indicare una sovrapposizione dei due fenomeni. In altre parole, le lingue autoctone si differenzierebbero l’una dall’altra a partire da un ceppo originario seguendo le stesse linee di diffusione del DNA mitocondriale, con un tasso di trasformazione tanto più alto quanto sono più lontane dal punto comune di origine. E allora, come cento o duecento mila anni fa esisteva un ceppo mitocondriale “originario”, antenato di tutti quelli attuali, così sarebbe contemporaneamente esistita una lingua madre, il linguaggio del piccolo gruppo di Eva nera, dal quale sarebbero nate per progressive differenziazioni tutte le migliaia di lingue e dialetti parlati oggi dagli esseri umani.
I risultati raggiunti in molti anni di studio e di lavoro da Cavalli, Sforza, Menozzi, Piazza, nell’analisi dell’evoluzione dell’uomo moderno, indicano che i dati genetici, archeologici, e linguistici con le loro rispettive classificazioni, datazioni, stratificazioni convergerebbero in un’unica storia evolutiva, i cui legami andrebbero ricercati anche nell’analogia tra alcuni meccanismi di trasmissione dell’informazione biologica e linguistica. Si pensi agli effetti di una barriera geografica e alla selezione genetica che favorisce la diffusione di mutanti più adatti all’ambiente.
Tuttavia bisogna ammettere che ancora poco sappiamo sul controllo genetico dei tratti culturali dell’uomo ed ancora meno del determinismo sul linguaggio.
E’ su questa strada che il linguista J. H. Greemberg e A. C. Wilson biochimico, hanno avviato le loro ricerche consentendoci di sapere, per esempio, che a partire da 12.000 anni fa vi furono tre importanti ondate migratorie attraverso lo stretto di Bering dall’Asia in America, lavoro confermato dai dati archeologici; che la distanza genetica tra africani e non africani è circa due volte quella tra australiani e asiatici ed è più che doppia rispetto a quella tra europei e asiatici, confermando l’origine africana della nostra specie. I tempi di separazione suggeriti dai paleoantropologi seguono gli stessi rapporti: 100.000 anni circa per la separazione tra Africani e Asiatici, 50.000 anni per quella tra Asiatici e Australiani e dai 35.000 ai 40.000 tra asiatici ed Europei.
Questi risultati concordano con quelli delle mutazioni del DNA dei mitocondri. Il DNA mitocondriale è composto da una sequenza di 16.569 nucleotidi, cioè di una sequenza molto più corta di quella riscontrata nel DNA contenuto nei cromosomi 200.000 circa più lunga.
Lo studio da Wilson si è basato sull’analisi della sequenza di due segmenti del DNA mitocondriale in 189 individui di diversa origine geografica. Dalle differenze osservate in queste sequenze è stato possibile ricostruire un albero filogenetico dal quale si evince ancora l’origine africana della nostra specie.
Inoltre, paragonando la sequenza dello scimpanzè con quella umana per calibrare la cronologia relativa della ramificazione Africani - non Africani, si ottiene che il mitocondrio umano dal quale tutti gli altri sono discesi ha un’età che sta tra 166.000 e 250.000 anni.
Tutti questi dati ci permettono di concludere che la classificazione su base geografica delle differenze genetiche corrisponde sorprendentemente bene alla classificazione in famiglie linguistiche.
Tale correlazione pone delle implicazioni.
In primo luogo l’evidenza genetica suggerisce un’origine unica (monocentrica) dell’uomo anatomicamente moderno, perché è difficile pensare alla scomparsa dell’uomo anatomicamente arcaico (Neandertal per l’Europa) e alla sua successiva e totale sostituzione da parte dell’Homo sapiens sapiens come al risultato di una selezione e/o culturale manifestatasi simultaneamente in luoghi diversi. In modo del tutto analogo si deve porre il problema dell’origine unica o multipla delle lingue, riconsiderando senza pregiudizi l’ipotesi “poligenetica” oggi favorita da molti linguisti (soprattutto studiosi di lingue indoeuropee, alla luce di uno studio più documentato dell’ipotesi “monogenetica”. Un contributo alla discussione di questo problema è stato portato dalla scuola di linguisti russi (Illich-Svitych, Dollgopolsky, Sehevoroshkin) che, adottando senza conoscerle le argomentazioni ben precedenti (1905) del glottologo italiano Trombetti, sostengono l’esistenza di “superfamiglie” linguistiche, o addirittura di una proto-famiglia unica, il cosiddetto NOSTRATICO. Resta questo un problema aperto che in futuro potrà essere chiarito dagli Atlanti linguistici.
In secondo luogo, il parallelismo tra evoluzione genetica ed evoluzione delle lingue può contribuire indirettamente alla soluzione di un altro problema: quando hanno avuto origine le migliaia di lingue che oggi si parlano nel mondo?
La differenziazione genetica pone dei limiti a tali date, nel senso che una lingua non può avere avuto origine prima dell’origine genetica di chi parla. Se l’origine della lingua umana è unica e se a essa si associano non solo le capacità di comunicare che è propria della specie Homo e di altre specie animali, ma anche le capacità di rappresentazione simbolica, allora è la cultura del Paleolitico superiore, circa 40.000 mila anni fa, che dobbiamo riferirci ed è in questo periodo che l’uomo anatomicamente moderno (sapiens sapiens) fa la sua comparsa in Europa sostituendo l’uomo anatomicamente arcaico rappresentato dal Neandertal.
La nostra analisi ha messo in luce analogie fra evoluzione genetica ed evoluzione linguistica che sono probabilmente il risultato di movimenti di popolazioni in una preistoria e in una storia antica che ancora lasciano le proprie tracce. Occorre tuttavia chiarire che geni e linguaggi non sempre seguono i movimenti storici delle popolazioni per almeno due ragioni: la lingua, come ogni tratto culturale, ha una velocità di diffusione incomparabilmente maggiore del carattere genetico, e una minoranza di individui può imporre la sua lingua a una popolazione molto più facilmente di quanto non possa imporre i suoi geni. Questo significa che la sostituzione completa di una lingua può avvenire più facilmente che la sostituzione completa di un patrimonio genetico.
Discontinuità genetiche e discontinuità linguistiche, quando non sono provocate da barriere geografiche, possono quindi non coincidere: è il caso per esempio degli Ungheresi, che parlano una lingua Uralica imposta dai Magiari del Medioevo, ma che da un punto di vista genetico sono più simili agli Europei che parlano lingue Indoeuropee.
Tuttavia, una volta identificate le eccezioni che vanno studiate caso per caso, siamo convinti che Homo Sapiens e Homo Loquens abbiano avuto la stessa storia, una storia che, forse ancora per poco, abbiamo la possibilità di decifrare e integrare in un approccio interdisciplinare.
3) Anatomia del linguaggio - 5) Linguaggio e cervello
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