Riflessioni Filosofiche a cura di Carlo Vespa Indice
La gestione del punto di vista. Spunti per un'ermeneutica del cambiamento in Epitteto.
di Lucio Scognamiglio
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Il giudizio, inoltre, non è affatto un processo necessitato. Lo si deve esperire solo se indispensabile alla nostra persona (tenendo conto che non solo nessuno ci obbliga a farlo in un modo rispetto ad un altro, ma che possono anche non esserci le condizioni per giudicare). Se abbiamo deciso di decidere, allora occorre farlo con cura, come la scelta di un abito da indossare a pennello. Cosa significa ciò? Cosa dobbiamo domandarci prima di assumere una decisione piuttosto che un'altra?
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Anzitutto dobbiamo considerare che se percepiamo come positivo o negativo un certo evento è solo una nostra opinione e non l’evento in sé. Come tale la realtà è un dato, la cui “coloritura” dipende dal filtro ottico che usiamo.
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Come noi abbiamo la nostra lente, così gli altri utilizzano la loro; la nostra lente non è l'unico modo di “leggere” il reale che ci circonda, ce ne possono essere altre che, al pari della nostra, possiamo o dobbiamo considerare.
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Non possiamo perciò essere sicuri che il giudizio che possediamo in relazione a una certa situazione, sia quello più giusto (anche se ne siamo assolutamente certi). La forza della nostra convinzione, soprattutto se ha i caratteri di una re-azione, è indice del risentimento per una violazione che riteniamo di aver subito.
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Rispetto ad una situazione data, è opportuno essere consapevoli che il nostro è solo una delle possibili posizioni da assumere (evidentemente anche il soggetto destinatario del nostro giudizio ritiene di essere nel giusto) e di cui ce ne assumiamo interamente la responsabilità. Tocca solo a noi scegliere se seguire o liberarci del primo giudizio, sospenderlo in attesa degli eventi, investigare su possibili alternative, sceglierne uno più idoneo ai nostri interessi o ai nostri valori o decidere di non decidere, prendendo atto della realtà al pari delle condizioni meteo.
La “disponibilità” del giudizio individuale rientra in una sfera di consapevolezza altrimenti occulta. Renderla evidente è lo straordinario messaggio di Epitteto che non solo legittima l'individuo a liberarsi dalle sue vecchie opinioni, ma lo rende, per questa via, “aperto” ad acquisire nuova conoscenza e nuove opinioni. Questa consapevolezza è strategica sotto due profili.
Anzitutto è una buona pratica per una valutazione della realtà corrente (senza sbarazzarsi delle vecchie impostazioni e categorie di giudizio non è possibile accogliere il nuovo). Se la realtà diventa “puro fatto”, perde peso anche la nostra personale convinzione riguardo alla medesima, si innalza il nostro punto di osservazione ed entrano a far parte nuovi elementi che altrimenti non intercetteremmo. Ciò induce un atteggiamento di maggiore apertura senza essere troppo legati al contingente e ci rende più facilmente consapevoli che il reale non ci viene fornito già etichettato, ma siamo noi a doverne identificare gli ingredienti. La consapevolezza che ciascuno può disporre del proprio giudizio è un'importante leva per realizzare a livello individuale quello slittamento di paradigma, di cui parlava Kuhn a livello scientifico. Essendo coscienti che disponiamo della capacità di giudizio, rompiamo il trinomio realtà = convinzione = parte di noi stessi, a cui prima si è fatto riferimento. In questo modo la realtà come ci appare è un dato da studiare, da sperimentare e il giudizio, scisso da questa, è frutto di un processo indipendente.
In secondo luogo questa consapevolezza può rappresentare l’“uscita di emergenza” per le situazioni di crisi quando cioè sfugge il senso di ciò che avviene. Proprio perché ne abbiamo la disponibilità, possiamo “calibrare” il giudizio rispetto ad una situazione critica; sia adottando quello meno gravoso, sia addirittura decidendo di non decidere. La sospensione del giudizio è anch’essa un’attività funzionale alla conoscenza essendo fuorviante fotografare elementi ancora in movimento.
Manuale, 14
(...) Il padrone di ogni uomo è colui che ha il potere sulle cose che quest'uomo vuole o non vuole, sia nel procurargliele che nel sottrargliele. Chiunque voglia essere libero non deve né volere né rifuggire nessuna delle cose che dipendono dagli altri. Altrimenti è necessario che sia schiavo.
Il messaggio è chiaro, quando ci si attende (o non ci si attende) qualcosa da altri se ne diventa schiavi. Ovviamente una massima così netta sarebbe impossibile da applicare in un sistema di forte relazionalità come quello attuale, fondato sulle “aspettative”, quindi su elementi di corresponsione reciproca. Però ci induce una domanda: quanta parte di noi stessi inseriamo nelle nostre aspettative? Se l'aspettativa è un'attesa di realtà, potremmo recuperare il ragionamento svolto in precedenza. L'aspettativa è una realtà di cui auspichiamo (o non auspichiamo) l'avverarsi. Per cui se leghiamo preventivamente il giudizio (positivo o negativo) alla realizzazione (o meno) dell'evento auspicato, ci troviamo nuovamente a “subire” il nostro giudizio.
Pertanto quando Epitteto ci dice che: “Chiunque voglia essere libero non deve né volere né rifuggire nessuna delle cose che dipendono dagli altri”, non ci invita all'inazione, ma semplicemente a non pre-giudicare l'esito di una nostra attesa, ad assumere un atteggiamento di apertura. La scissione tra realtà e giudizio è un approccio ermeneutico a doppia via, applicabile non solo alla realtà che subiamo, ma anche a quella che attendiamo.
Manuale, 26.
Si può imparare a conoscere la volontà della Natura attraverso le cose su cui non siamo differenti gli uni dagli altri. Per esempio, lo schiavo di un altro rompe una coppa e subito si dice in modo del tutto naturale: “Sono cose che capitano”. Sappi che, quando la tua coppa si rompe, devi essere tale quale eri quando a rompersi era la coppa di un altro. Trasferisci questo a cose più gravi. Il figlio o la moglie di un altro sono morti? Tutti senza eccezione diranno: “Sono cose che capitano agli esseri umani”. Quando uno perde un figlio, dice subito: “Ahimè” e “Sventurato che sono!” Invece dovremmo ricordarci di ciò che provavamo quando sentivamo parlare delle stesse cose a proposito di altri.
Come mi comporterei se un altro si trovasse in una condizione analoga alla mia? L'invito a porci questa domanda è un ulteriore sprone alla disidentificazione dalla realtà attraverso l'acquisizione di un giudizio che la renda meno gravosa. Mentre nel paragrafo 5 del Manuale si relativizza il giudizio riguardo alla realtà (giudizi diversi per un'unica realtà), in questo paragrafo si relativizza invece la realtà riguardo al giudizio (identico giudizio per realtà diverse). Il giudizio sulle cose che capitano agli esseri umani deve essere lo stesso a prescindere da chi ne è colpito.
L'ulteriore riflessione che questa massima stimola, riguarda l'identificazione dell'interesse. Un corretto approccio per tentare di orientarsi in una realtà fortemente mutevole, presuppone una costante e reale onestà intellettuale, cioè la capacità di tentare una “lettura” della condizione personale, prescindendo il più possibile dalla propria persona. Sforzandoci di attivare meccanismi di disidentificazione riusciamo meglio anche a conoscere i nostri interessi. Di cosa siamo convinti? Quanto il nostro giudizio è offuscato dal perseguimento di un interesse personale? Normalmente abbastanza. Questo non significa che non dobbiamo orientare la nostra esistenza verso ciò che ci sta più a cuore, ma ne dobbiamo essere consapevoli, dopo un'attenta lettura del reale il più possibile oggettiva. In tal modo pure la definizione di una strategia orientata al risultato atteso sarà più evidente e più mirata.
Infatti anche di noi stessi ci dobbiamo fidare poco, visto che spesso ci imbrogliamo a nostra insaputa. Occorre sapere se una nostra azione, progetto o desiderio è dettato solo da un interesse puramente egoistico o, viceversa, da un interesse condiviso o condivisibile. Per capire come stanno le cose, basta valutare dall'esterno questa realtà, come se non riguardasse noi, ma qualcun altro (Come mi comporterei se un altro si trovasse in una condizione analoga alla mia?). Della sincerità di un'onesta valutazione può garantire solo la nostra coscienza, il nostro livello di consapevolezza e conoscenza. Se siamo così sinceri e bravi da ammettere l'esistenza di un interesse personale, sarebbe allora opportuno domandarsi subito dopo cosa vogliamo proteggere e tentare di identificarla.
Ulteriore passaggio sarebbe poi quello di interrogarsi sulla sua legittimità: se si tratta di un interesse condivisibile il cui raggiungimento non contrasta con quello di altri, ma semmai contribuisce alla crescita comune o alla difesa degli interessi di una collettività (ad esempio: la protezione della propria famiglia, il benessere della comunità alla quale si appartiene, la crescita della propria azienda ...), oppure si tratta di un interesse esclusivamente egoistico (ad esempio: tramare per acquisire benefici non meritati, violare i diritti altrui a fini personali... ). Parimenti dovremmo interrogarci su quanto siamo disposti a “pagare” per conseguirlo (vedi a questo proposito Manuale, 25: Chi infatti non va assiduamente a bussare alle porte di qualcuno, come potrebbe ottenere vantaggi uguali a colui che ci va assiduamente? Come potrebbero esserci vantaggi uguali tra colui che non si preoccupa di far parte del seguito e colui che invece si preoccupa di farne parte? Tra colui che non fa complimenti e colui che invece ne fa? Tu sarai dunque ingiusto e insaziabile se, non pagando il prezzo al quale si vendono certe cose, vuoi ottenerle gratuitamente. Ma in realtà, quanto costa la lattuga? Magari un obolo. Se quindi uno paga il suo obolo e prende la sua lattuga, mentre tu, non avendo pagato, non prendi la lattuga, non credere di avere meno di colui che ha avuto la lattuga, tu hai l'obolo che non hai speso. ...).
Manuale, 20.
Ricordati che quello che ti offende non è colui che ti ingiuria, né colui che ti colpisce, ma il tuo giudizio che ti fa pensare che queste persone ti oltraggiano. Perciò quando qualcuno ti irrita, sappi che è il tuo giudizio di valore a irritarti. Di conseguenza comincia a non lasciarti trascinare dalla tua rappresentazione. Infatti quando avrai guadagnato tempo e avrai ottenuto un rinvio sarai più facilmente padrone di te.
Quanta emotività mettiamo nel giudizio, soprattutto quando qualcuno ci accusa? Totò, in uno sketch del 1966 a Studio 1 ripropone una celebre scenetta con Mario Castellani, la sua tradizionale spalla. Racconta - ridendo - che un pezzo di giovanotto gli si era avvicinato per strada appellandolo: “Pasquale! è un pezzo che ti cercavo ...”, così dicendo il giovane gli tira un ceffone, poi ancora un altro. Castellani allibito, lo incalza chiedendogli come avesse reagito. “Pensavo, chissà 'sto stupido dove vuole arrivare ...”, risponde Totò ancora ridendo di cuore. Intanto il giovanotto lo strattona, lo schiaffeggia finché non gli chiede di togliersi il cappello per dargli un cazzotto per sfondargli la testa. “ ... e tu che hai fatto?” gli chiede Castellani. “Non me lo sono fatto ripetere due volte”, risponde Totò “guarda (togliendosi il cappello) ho ancora la ficozza”. Allora esasperato dall'inerzia dell'amico, sbotta: “Macché ridi! ... Macché ridi! Mi fai rabbia! Ride, ride, ma pensavo, pensavo ... Ma scusa eh, ma perché non hai reagito?”. “Che me frega a me! Mica 'so Pasquale io! Ahò ... ”, conclude Totò facendo ondeggiare la mano con le tipiche dita chiuse a cono.
Senza arrivare ad essere aggredito senza reagire, Epitteto ci rammenta che ad irritarci non è chi ci critica, ma è il nostro giudizio, non sono le ingiurie a farci male, ma il valore che diamo alle medesime. Totò in questo senso è stato illuminante perché si è completamente disidentificato. Se mostriamo il petto a chi con una pistola tenta di spararci, gli diamo la possibilità di colpirci, viceversa se tentiamo di schivare il colpo, probabilmente ci salviamo. Quando facciamo entrare l'emotività nel processo di percezione di una qualsiasi situazione, ne alteriamo l'efficacia rendendoci ipersensibili ad alcuni aspetti. Allorché si tratta di critiche palesi al nostro agire, ecco che ci sentiamo coinvolti direttamente e così ci trasformiamo in animali feriti: ci esponiamo agli strali del nostro interlocutore facendoci trafiggere.
Dobbiamo anche tener conto che chiunque, anche quando parla male o agisce male nei nostri confronti, lo fa seguendo un suo ineludibile percorso mentale (Manuale, 42. Quando qualcuno agisce male nei tuoi confronti o parla male di te, ricordati che agisce o parla credendo che sia suo dovere farlo. Non è dunque possibile che egli si lasci guidare da ciò che appare a te, ma da ciò che appare a lui. Se ciò che gli appare è sbagliato, è colui che si inganna che subisce un danno. E infatti se qualcuno giudica falsa una proposizione congiuntiva vera, non è la proposizione congiuntiva che subisce un danno, ma colui che si inganna. Con queste premesse, tu sarai disposto con dolcezza nei confronti di colui che ti insulta. Infatti in ogni situazione di questo genere, aggiungi per te stesso: “Questo è stato il suo giudizio”).
Quando qualcuno ci critica può essere utile ripetere a se stessi, e soprattutto alla nostra sfera emotiva che scalpita che, quello dell'interlocutore, è solo il suo giudizio, risultato obbligato di un percorso che l'avversario non poteva non seguire. Non appartiene a noi, ma a lui. A questo punto il tempo è essenziale per scollegare la reazione dalla violazione che subiamo. Coscienti che siamo padroni della prima e non della seconda, mettiamo il tempo a disposizione dell'emozione contingente. Ciò ci consente di “regolare” la tensione di un dato momento non rispondendo immediatamente ad un atto ostile, ma “riservandosi” di farlo in seguito. Il tempo è utile non solo per tamponare l'emergenza, ma anche per valutare la situazione con maggiore lucidità. Più tempo passa più l'emotività si affievolisce, più la mente elabora l'evento, ridimensionando l'accaduto o predisponendosi al cambiamento, all'innovazione: una reazione immediata rappresenterebbe un colpo di freno al cambiamento, una reazione ponderata rappresenta invece un “passaggio di livello” della consapevolezza.
Possiamo quindi prenderci tempo, che è una risorsa strategica nelle situazioni più complesse e difficili nelle quali una reazione immediata potrebbe avere effetti distruttivi. Nessuno ci obbliga a reagire immediatamente, anzi facendolo potremmo andare incontro alle aspettative dell'avversario e contro le nostre. Successivamente sarebbe utile chiedersi anche se le critiche sono prive di fondamento o sono giustificate. Se sono infondate, il danneggiato è colui che è in errore, quindi è possibile con maggior pacatezza e acutezza controbattere evidenziando i dati a supporto della posizione soggetta a critica se, viceversa, le critiche sono fondate può essere l'occasione buona per trarne le conseguenze e migliorare se stessi.
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