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Riflessioni Filosofiche

Riflessioni Filosofiche   a cura di Carlo Vespa   Indice

 

La ricerca della sapienza

Seconda parte - Prima parte
di Marco Calzoli - Giugno 2023


Questo capitolo si apre con la congiunzione ebraica ki in posizione enfatica, con valore assertivo “certamente”. La maggior parte degli studiosi ritiene che questo inno sia una interpolazione tardiva al poema perché mal si adatta a quanto detto finora da Giobbe: sembra un capitolo “dallo stile freddo e accademico, manca di vivacità, e il contenuto non corrisponde al resto del libro” (Morla).
Osserviamo che i vv. 3-11 possono essere intesi in una maniera duplice e opposta: o possono essere riferiti a Dio (le cui opere manifestano la sua infinita sapienza) oppure all’uomo (che lotta contro le forze della natura e che riesce a impadronirsi dei tesori nascosti nelle viscere della terra, estraendo dal suolo metalli e pietre preziose, ma non può conoscere la sapienza di Dio).
Comunque fa pensare che Giobbe alla fine del libro pronuncia un discorso nel quale dice di aver conosciuto Dio, “prima ti conoscevo per sentito dire, ora i miei occhi ti vedono”: queste parole non avrebbero senso se nel capitolo 28 Giobbe affermi che l’uomo non può conoscere.
Il capitolo 28 ha tre temi: homo faber (la tecnica, che non conduce alla sapienza), homo oeconomicus (il commercio, che nondimeno non approda alla sapienza), homo religiosus (che alla fine arriva alla sapienza). La sapienza è quindi un dono di Dio. In questo caso, se l’uomo può approdare alla sapienza, anche se per dono di Dio, è leggermente incongruente affermare, pochi versetti sopra, che l’uomo non può conoscere. Secondo una tesi, la Bibbia sarebbe un’opera collettiva, nascerebbe nel tempo per aggiunte sempre nuove, quindi non avrebbe mai un solo autore umano. Anche il capitolo 28 si sarebbe venuto formando per opera di più mani, che esprimevano idee diverse tra loro. Per quanto riguarda Giobbe, il libro sarebbe una sorta di tradizione che cresce, dunque la stesura definitiva del libro risalirebbe alla tarda epoca persiana (non dopo il III a.C.), mentre la parte in prosa sembra una novella didattica composta all’epoca del Primo Tempio (cioè prima della deportazione degli ebrei tra il VII-VI a.C.), mentre le parti poetiche avrebbero la loro origine durante l’epoca esilica: soltanto dopo l’esilio, il libro avrebbe assunto la sua forma consueta, comunque prima delle riforme di Esdra e Neemia (in Giobbe infatti non c’è traccia della Legge e del culto).
L’ebraico biblico è una lingua arcaica (presenta una sintassi rudimentale, manca di un sistema ipotetico vero e proprio, non ha una vera comparazione) e molto povera (soltanto 5000 vocaboli). Supplisce a tale povertà lessicale impiegando le poche parole a disposizione con significati assai diversi. Il libro di Giobbe utilizza questa polisemia in una maniera talmente ardita (poeticamente motivata) che molti brani sono incomprensibili. A ciò si aggiunga che il vocabolario di Giobbe è costituito spesso di parole sconosciute nel resto della Bibbia (più di 100). Per tali motivi si stima che il 30% dell’intero libro di Giobbe non viene compreso, quindi ne abbiamo solamente una traduzione congetturale, cioè che gli studiosi semplicemente ipotizzano. Per questo motivo la traduzione greca della Settanta tralasciava molte sezioni di Giobbe (il cui testo greco risalirebbe attorno al 150 a.C). Il capitolo 28 non sfugge a questo: quasi la metà del capitolo non viene tradotto in greco dalla Settanta. Facciamo un esempio di incomprensibilità del testo ebraico. In 6, 5-6 è scritto: “Raglia forse l’asino selvatico con l’erba davanti o muggisce il bue sopra il suo foraggio? Si mangia forse un cibo insipido, senza sale? O che gusto c’è nel succo di malva?”. Nonostante questa traduzione della CEI, nessuno sa cosa significhi l’espressione ebraica berir chalamut, sulla quale gli studi si sono arenati. Siero del latte? Succo di malva? Chiara d’uovo? Anche nel resto della Bibbia le parole attestate una sola volta (dette hapax legomena), e quindi dal significato non chiaro, sono presenti in maniera non esigua. A tal proposito segnaliamo lo studio di Cohen (“Biblical Hapax Legomena in the Light of Akkadian and Ugaritic”). 
Ricordiamo che la traduzione della Settanta era stata approntata per i giudei colti ellenistici della città di Alessandria d’Egitto: pertanto alcuni studiosi hanno ipotizzato che i traduttori di questo libro saltano molte parti perché non interessanti per quell’uditorio. La Settanta omette molte sezioni anche nei Salmi e nel libro di Geremia, ma per altre motivazioni, quelle di tipo testuali. Ma c’è anche chi ha sostenuto che i traduttori in greco non avessero davanti agli occhi il testo masoretico di Giobbe.   
Nel passato l’ebraico del libro di Giobbe è stato accostato ora all’arabo ora all’accadico ora all’aramaico. Manca ancora uno studio completo sull’ebraico di Giobbe ritrovato a Qumran. Molti studiosi ritengono che un apporto importante per la comprensione di questa lingua possa venire dal confronto con l’ugaritico.
In Giobbe c’è una forte commistione tra poesia e teologia, infatti il libro metterebbe in campo una sorta di discesa agli inferi di Giobbe, il quale, dopo essere stato in tensione con Dio, incontra il Dio paterno (Giobbe in ebraico significherebbe “dov’è mio padre?”). Il libro di Giobbe fa amplissimo uso di metafore, perlopiù desunte dal mondo della creazione, spesso usate per mettere in discussione le dottrine prestabilite su Dio. Risalta anche l’uso dell’ironia, c’è chi pensa che in Giobbe l’ironia serva a decostruire i preconcetti che i benpensanti hanno di Dio. 
Nel v. 11 del capitolo 28 sarebbe meglio tradurre “le sorgenti dei fiumi” (mibeki neharot). Il testo masoretico vocalizza il significato più frequente della parola ebraica beki e quindi traduce alla lettera “dal pianto dei fiumi”. Tuttavia la traduzione proposta (“le sorgenti dei fiumi”) legge il testo consonantico ebraico in altro modo ed è supportata dal confronto con l’ugaritico mbk nhrm (Aqhat n. 47), “le sorgenti dei fiumi”. In modo simile intendono anche la versione greca della Settanta (bathē de potamōn) e quella latina della Vulgata (profunda quoque fluviorum) che rendono entrambe con “le profondità dei fiumi”.
Nel v. 13 c’è un’altra problematica filologica: “l’uomo non ne conosce il valore (della sapienza) e non la si trova nella terra dei viventi”. Seguendo la Settanta “la sua via” (odon autēs) la versione CEI presuppone l’ebraico darekah. Invece il testo masoretico ha cherekah, quindi la sapienza viene dichiarata preferibile ai metalli preziosi, che non possono competere con il suo valore (così la Vulgata con pretium eius, “il suo prezzo”).
L’uomo non possiede la sapienza, nonostante le sue abilità tecniche. La sapienza, infatti, è una prerogativa di Dio (vv. 23-24). Dio “discerne” (bin) la sua via e “conosce” (jada) il luogo in cui essa si trova; “volge lo sguardo “ (nabaṭ) fino alle estremità della terra e “guarda” (ra’a) tutto ciò che è sotto il cielo. Lo sguardo di Dio abbraccia ogni realtà esistente, quindi anche la sapienza.
Nel v. 23 c’è “discerne” (in ebraico hebin). Ora, come pochi manoscritti, la Settanta con eu sunestēsen (“ha stabilito”) deve aver letto l’ebraico hekin, in seguito a uno scambio consonantico tra K e B. il parallelismo con il verbo “conosce” della seconda parte del versetto induce i filologi a preferire la lezione “discerne” così come presente nel Codice di Leningrado.    
Nel v. 24 la CEI traduce la particella ki con “perché”. Altri studiosi ritengono che vada intesa come un “quando”: “Dio ha intuito la via che vi conduce, egli ha conosciuto il suo luogo, quando volgeva il suo sguardo alle estremità della terra e vedeva tutto quello che sta sotto i cieli”. Secondo questa lettura, il “quando” esplicita il luogo dove sta la sapienza: la sapienza viene intuita/vista/conosciuta da Dio quando egli volge il suo sguardo alle estremità della terra e vede tutto quello che sta sotto i cieli. 
Il Salmo 138 contiene uno stupendo inno alla Sapienza di Dio:


“1 Al maestro del coro. Di Davide. Salmo.
Signore, tu mi scruti e mi conosci,
2 tu sai quando seggo e quando mi alzo.
Penetri da lontano i miei pensieri,
3 mi scruti quando cammino e quando riposo.
Ti sono note tutte le mie vie;
4 la mia parola non è ancora sulla lingua
e tu, Signore, già la conosci tutta.
5 Alle spalle e di fronte mi circondi
e poni su di me la tua mano.
6 Stupenda per me la tua saggezza,
troppo alta, e io non la comprendo.
7 Dove andare lontano dal tuo spirito,
dove fuggire dalla tua presenza?
8 Se salgo in cielo, là tu sei,
se scendo negli inferi, eccoti.
9 Se prendo le ali dell'aurora
per abitare all'estremità del mare,
10 anche là mi guida la tua mano
e mi afferra la tua destra.
11 Se dico: ‘Almeno l'oscurità mi copra
e intorno a me sia la notte’;
12 nemmeno le tenebre per te sono oscure,
e la notte è chiara come il giorno;
per te le tenebre sono come luce.
13 Sei tu che hai creato le mie viscere
e mi hai tessuto nel seno di mia madre.
14 Ti lodo, perché mi hai fatto come un prodigio;
sono stupende le tue opere,
tu mi conosci fino in fondo.
15 Non ti erano nascoste le mie ossa
quando venivo formato nel segreto,
intessuto nelle profondità della terra.
16 Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi
e tutto era scritto nel tuo libro;
i miei giorni erano fissati,
quando ancora non ne esisteva uno.
17 Quanto profondi per me i tuoi pensieri,
quanto grande il loro numero, o Dio;
18 se li conto sono più della sabbia,
se li credo finiti, con te sono ancora.
19 Se Dio sopprimesse i peccatori!
Allontanatevi da me, uomini sanguinari.
20 Essi parlano contro di te con inganno:
contro di te insorgono con frode.
21 Non odio, forse, Signore, quelli che ti odiano
e non detesto i tuoi nemici?
22 Li detesto con odio implacabile
come se fossero miei nemici.
23 Scrutami, Dio, e conosci il mio cuore,
provami e conosci i miei pensieri:
24 vedi se percorro una via di menzogna
e guidami sulla via della vita”.


Il testo del salmo è molto corrotto, quindi la traduzione non sempre è certa. In questo salmo risuona per 7 volte il verbo ebraico jada, il verbo della conoscenza, che in tutto il salterio compare 92 volte (31 con soggetto Dio). La filologia dimostra come questo verbo “conoscere” indica una penetrazione totale del conoscente nell’oggetto della sua conoscenza, quindi ben si adatta a Dio, il quale conosce tutte le cose perché creandole le penetra intimamente.
La mentalità semitica è concreta, quindi supplisce a questa mancanza di astrazione con le immagini. Pertanto la totalità della conoscenza di Dio sulle sue creature è espressa dai polarismi o merismi (per esempio jšb-qum, sedersi-alzarsi), dalle azioni (r’h-drk, mlh, pensiero-via-parola), dalla superiorità (rḥq-‘alaj kap-sgb-pl’, lontano-sopra di me la mano-elevato-meraviglioso). 
Anche nelle altre culture del Vicino Oriente antico si cantava la Sapienza di Dio. A Ugarit si dice che “dalla sua bocca la parola non era ancora uscita” eppure era già stata conosciuta dalla divinità. Nell’Inno I, 28-29 di Qumran abbiamo: “Prima ancora che esse si formino tu hai sottoposto le parole alla misura, l’affiorare del soffio sulle labbra al peso”. Anche il Corano (XX, 7) riprenderà queste immagini: “È inutile che tu parli a alta voce: Egli conosce l’intimo tue e cose ancora più occulte”, che nell’originale arabo suona wa-in tajhar bil-qawli fa-innahu ya’lamu l-sira wa-akhfā.
La sapienza, Chokmah, di cui parla la letteratura biblica (nel testo masoretico si trova 149 volte), non è un sapere astratto bensì eminentemente pratico, cioè rivolto alla vita. La radice semitica è attestata in senso gnoseologico già all’inizio. Invece nelle lingue indoeuropee la sapienza (greco sophia, latino sapientia) deriva da una radice che significa “avere sapore” (greco saphēs, “gustabile”, latino sapĕre, “aver sapore”, sapiens, “colui che gusta”). Nel greco, lingua assai conservativa, la sophia era all’inizio l’abilità tecnica, la prudenza, la saggezza (era quindi qualcosa di eminentemente pratico, per Pindaro infatti il sophos è il poeta in quanto “abile” nella costruzione della poesia, in greco poiesis, che deriva dal verbo “fare”).
La radice semitica della sapienza compare in accadico (ma nel recente dialetto neo-assiro, tanto che Zimmern pensò a una origine nord-occidentale) nel senso di “capire, sapere, informarsi”. Nella stele bilingue in fenicio e in luvio geroglifico di Karatepe (720 a.C.) il re di Danuna si vanta che ogni re lo avrebbe scelto come signore in virtù della sua giustizia, sapienza (bḥkmtj) e magnanimità. Quindi abbiamo a che fare con una sapienza quale virtù del regnante, che si presume essere di taglio concreto. Il mondo biblico non sfugge a questo campo semantico, la Bibbia, infatti, ama poco l’astrazione, pur non ignorandola del tutto. In Proverbi 8, 14-15 si legge: “A me appartengono consiglio (‘eṣa) e successo (tusijja), mia è l'intelligenza (bina), mia è la potenza (ghebura). Per mezzo mio regnano i re e i prìncipi promulgano giusti decreti”. Abbiamo un parallelismo, dove si pongono in relazione consiglio/intelligenza e successo (tusijja)/potenza (ghebura). La parola ebraica tusijja, mediante il parallelismo con “potenza”, è ascrivibile al campo semantico della forza; ma, secondo quanto viene dopo, è ascrivibile alla sapienza, ma non astratta bensì alla ragione pratica, quella dei governanti. Non sappiamo l’esatto significato della parola tusijja, per capirlo bisogna ricorrere al contesto. Questa attestazione (assieme ad altre) la pongono nel campo semantico della sapienza, quindi andrebbe tradotta con “intelligenza pratica, avvedutezza, prudenza”. Probabilmente tusijja deriva da una radice jšj, “essere”, quindi dovrebbe significare “ciò che è presente”, da ciò il senso di “forza, abilità”, ma in relazione all’agire avveduto, che è un forte asso nella manica di chi lo possiede. Invece “intelligenza” (bina), altra radice connessa al campo semantico della sapienza, si relaziona con il sostantivo bajin, “spazio intermedio”, significa quindi fondamentalmente “distinguere”. Al qal bjn significa “prestare attenzione, notare”: Proverbi 7, 7: la donna straniera guarda sporgendosi dalla finestra e “nota” un giovane; Deuteronomio 32, 7: bisogna “prestare attenzione” alle generazioni precedenti per rendersi conto di come Dio abbia scelto Israele.  
Pertanto la “sapienza” biblica è in realtà una “saggezza”, se vogliamo usare un linguaggio occidentale, vale a dire che il sapiente biblico ha imparato quelle regole necessarie per la vita, più che collezionare idee. Quindi la sapienza biblica può riassumersi in una espressione cara a questa letteratura, cioè il timore del Signore. Allora abbiamo a che fare con l’orizzonte di senso dell’incontro tra Dio e uomo, cosa che determina la vera sapienza, quindi la salvezza. E nel mondo biblico la vasta trama dei rapporti interpersonali e divini è espressa dal verbo jada, “conoscere”, che ha anche il significato di “amare”. In Osea 4, 1 si legge: “non c’è “conoscenza di Dio nel paese”, certamente il popolo di Dio era istruito riguardo la Legge di Dio, quindi vi era conoscenza razionale, ma ciò che mancava era l’amore nei riguardi di Dio. È significativo che in egiziano antico la parola rx, cambiando il determinativo, significa sia “conoscere” sia “amare”. Pertanto il vero sapiente è colui che stringe un rapporto profondo, amorevole, con Dio, tanto da conoscerlo fino al punto di temerlo e, allo stesso tempo, di amarlo fino all’effusione del sangue. Il timore è cosa diversa dalla paura, esso infatti è il rispetto verso la grandezza. Tra le varie letture del Cantico dei Cantici, stupendo poemetto sapienziale biblico incentrato sulla storia d’amore tra due giovani, c’è quella del rapporto sponsale tra Dio e il popolo eletto, quindi il credente di ogni tempo. È significativo, secondo un midrash, che il re Salomone, che costituisce una autorità per la letteratura sapienziale biblica, consacrò il Tempio proprio il giorno nel quale si sposò con la regina egiziana.  
Per questo lo stolto è innanzitutto colui che trasgredisce la parola del Signore, cioè in definitiva colui che non ha timore di Dio, incorrendo quindi nella punizione. Baruc (3, 12-14): “Tu hai abbandonato la fonte della sapienza! Egkatelipes tēn pēgēn tēs sophias! Se tu avessi camminato nella via di Dio, avresti abitato per sempre nella pace, katōikeis an en eirēnēi ton aiōna. Impara dov'è la prudenza, dov'è la forza, dov'è l'intelligenza, per comprendere anche dov'è la longevità e la vita, dov'è la luce degli occhi e la pace”.
Siracide 6, 22 afferma che la sapienza è dura come pietra per sé stessa: si allude al valore etimologico del termine ebraico per sapienza (msr), che indica tanto “sapienza” quanto “correzione”, “castigo”. Aristotele diceva che i frutti della conoscenza sono dolci ma le radici sono amare. Praticare la via della sapienza di Dio, e quindi della virtù, è difficoltoso perché, come insegna la tradizione cristiana, bisogna combattere contro la carne, il mondo e il diavolo. Gesù nel Vangelo di Giovanni (15, 5) dice chiaramente: “Senza di me non potete fare nulla”.
Bisogna chiarire che nel Vicino Oriente antico vi erano due sapienze: una negativa (pessimista, che critica in continuazione) e una positiva (che ammira la creazione di Dio). La prima è presente anche in Qoelet, il quale addirittura critica la sapienza stessa: “… anche se il saggio pensa di sapere, non può però trovarla” (8, 17). “Io ho esaminato tutto questo con saggezza. Ho detto: Voglio acquistare saggezza. Ma essa è rimasta lontana da me” (7, 23). L’altra sapienza, quella positiva, è presente nel resto della letteratura sapienziale biblica.
Ma tracce di questa doppia connotazione della sapienza antica se ne trovano qua e là nella Bibbia. Il serpente della Genesi (capitolo 3) è detto “astuto” (chadum), cioè “sapiente”. Perché? La sapienza del serpente è insidiosa, induce in tentazione. È la sapienza negativa. Non per nulla nel testo ebraico della Genesi “serpente” è nachash, che significa anche “indurre in tentazione”. Il serpente allude pure ai culti idolatrici cananei, che tentano il pio ebreo con una falsa visione della vita e lo spingono al male. È da millenni che si scontrano queste due sapienze. Sempre nella Genesi il seme del serpente “attenterà” al tallone del seme della donna e quest’ultimo “attenterà” alla sua testa: il verbo è identico. L’idolatria è il grande peccato di Israele, quello che lo spinge a trasgredire l’alleanza con il vero Dio. È significativo che Giona 2, 9 chiama “nullità” (hebel) gli idoli adorati. L’idolatria ha sempre serbato un certo fascino nel popolo dell’Alleanza tanto che questo fece un vitello d’oro durante l’esilio, fatto gravissimo, perché Dio lo aveva appena liberato dalla schiavitù d’Egitto. In Naum 2, 8 si legge della distruzione della città pagana assira di Ninive, ove tra le macerie “la bellezza viene portata via, le sue ancelle gemono con voce come di colombe, battendosi il petto”. La traduzione “bellezza” si ricava con l’aggiunta di uno yod alla fine della parola ebraica per darle un senso: possiamo intenderlo come “regina”, signora”. Dato che Bellezza era l’epiteto della divinità mesopotamica della fertilità, Istar, qui ci sarebbe una allusione alla statua della divinità portata via, ma anche al fascino che la bellezza dei culti idolatri esercita sui popoli.  (Gli studiosi intendono questa parola anche in un’altra maniera: il termine hussab non indicherebbe “bellezza” ma sarebbe un verbo, per la precisione la forma hofal del verbo ebraico nsb, “porre, mettere, stabilire”, che qualcuno collega con il v. 7 proponendo la traduzione: “Il palazzo regale è dissolto, sebbene fermamente stabilito”). 
Il cristianesimo sposa la sapienza positiva, il più puro spirito evangelico è la lode del Signore per le sue creature, come sarà quella di Francesco d’Assisi nello stupendo Cantico delle creature. La critica cristiana è invece riservata al “mondo”, inteso in senso giovanneo, come quella entità malvagia che in sé stessa si oppone a Cristo. Il cristianesimo non è una religione a sé stante, ma per certi versi continua l’ebraismo. Il cristianesimo si rifà all’Antico testamento che deve essere portato a compimento e non abolito (Matteo 5, 17, 19), anche riguardo alla sapienza. Dio stipulò con gli ebrei la prima Alleanza (berit), poi con i cristiani la Nuova Alleanza (kainē diathēkē). In Marco 1, 15 si legge: “Il Regno di Dio si è fatto vicino”, il verbo greco usato è enguzzein, che ha valore di futuro (“essere vicino”, quindi prossimo), ma è coniugato al perfetto. Quindi si sottintende che vi è un avvicinamento che è già in parte compiuto e nel Nuovo testamento si sta realizzando in pienezza.
In Sapienza 9 vi è anche una preghiera per ottenere la sapienza:


“1 Dio dei padri e Signore della misericordia,
che tutto hai creato con la tua parola,
2e con la tua sapienza hai formato l'uomo
perché dominasse sulle creature che tu hai fatto,
3e governasse il mondo con santità e giustizia
ed esercitasse il giudizio con animo retto,
4dammi la sapienza, che siede accanto a te in trono,
e non mi escludere dal numero dei tuoi figli,
5perché io sono tuo schiavo e figlio della tua schiava,
uomo debole e dalla vita breve,
incapace di comprendere la giustizia e le leggi.
6Se qualcuno fra gli uomini fosse perfetto,
privo della sapienza che viene da te, sarebbe stimato un nulla.
7Tu mi hai prescelto come re del tuo popolo
e giudice dei tuoi figli e delle tue figlie;
8mi hai detto di costruirti un tempio sul tuo santo monte,
un altare nella città della tua dimora,
immagine della tenda santa
che ti eri preparata fin da principio.
9Con te è la sapienza che conosce le tue opere,
che era presente quando creavi il mondo;
lei sa quel che piace ai tuoi occhi
e ciò che è conforme ai tuoi decreti.
10Inviala dai cieli santi,
mandala dal tuo trono glorioso,
perché mi assista e mi affianchi nella mia fatica
e io sappia ciò che ti è gradito.
11Ella infatti tutto conosce e tutto comprende:
mi guiderà con prudenza nelle mie azioni
e mi proteggerà con la sua gloria.
12Così le mie opere ti saranno gradite;
io giudicherò con giustizia il tuo popolo
e sarò degno del trono di mio padre.
13Quale uomo può conoscere il volere di Dio?
Chi può immaginare che cosa vuole il Signore?
14I ragionamenti dei mortali sono timidi
e incerte le nostre riflessioni,
15perché un corpo corruttibile appesantisce l'anima
e la tenda d'argilla opprime una mente piena di preoccupazioni.
16A stento immaginiamo le cose della terra,
scopriamo con fatica quelle a portata di mano;
ma chi ha investigato le cose del cielo?
17Chi avrebbe conosciuto il tuo volere,
se tu non gli avessi dato la sapienza
e dall'alto non gli avessi inviato il tuo santo spirito?
18Così vennero raddrizzati i sentieri di chi è sulla terra;
gli uomini furono istruiti in ciò che ti è gradito
e furono salvati per mezzo della sapienza”.


Facciamo una breve osservazione riguardo il v. 6: “Se qualcuno fra gli uomini fosse perfetto, privo della sapienza che viene da te, sarebbe stimato un nulla”. Nell’originale greco abbiamo la parola teleios, “perfetto”. Bisogna osservare che la parola greca è un termine tecnico della filosofia stoica e indica colui che eccelle nelle virtù. Infatti Plutarco scriveva: “Non è perfetto chi non possiede tutte le virtù” (teleion einai ton mē pasas echonta tas aretas). Allora l’autore del libro biblico vuole dire, così come faceva Filone, che è “perfetto” solo chi ha Dio come maestro. Non per nulla la traduzione greca della Settanta usava la parola teleios secondo il linguaggio comune, riferito anche agli animali. Pertanto l’autore biblico vuole dirci che solo chi viene ammaestrato da Dio ha la perfezione, essendo veramente sapiente.
Il sapiente biblico denominato Qoelet, soprannome che è un participio ebraico femminile, scriveva (7, 4-6): “Il cuore dei saggi è in una casa in lutto e il cuore degli stolti in una casa in festa. Meglio ascoltare il rimprovero del saggio che ascoltare la lode degli stolti: perché quale il crepitìo dei pruni sotto la pentola tale è il riso degli stolti”. Questo sapiente pone davanti ai nostri occhi della mente due scene: un banchetto con risa e lazzi e un funerale con pianti e grida di dolore, ebbene il piacere ottunde la nostra mente, fa rammollire i nostri sensi e il nostro corpo, mentre il dolore è un grande insegnamento, ci fa scoprire il senso della vita, cioè la nostra caducità terrena e la conseguente apertura all’Assoluto, poi è esperienza comune che si impara più da una sconfitta che da una vittoria, quindi Qoelet descrive il cuore dello stolto in mezzo ai piaceri di una festa, invece il cuore del saggio in una casa in lutto. Pertanto cosa di buono potrà mai venire dall’elogio recato da uno stolto? Qoelet con un gioco di parole possibile solo in ebraico compara il šir, l’“elogio” dello stupido e il suo riso, ai pruni, sirim, crepitanti sotto una caldaia (sir) raggiungendo così l’effetto di un sibilo: keqol hassirim taḥat hassir, ken seḥoq hakkesil. Le sibilanti dell’ebraico rimandano alla vera realtà del chiasso adulatore degli stolti, che è fumo, fiamma caduca, sterpaglia bruciata, è cenere, in una parola “vanità”, in ebraico hebel, parola chiave del libro del Qoelet, che non ha tanto un senso morale ma indica l’evanescenza di una realtà, il vuoto insito in ogni cosa, quindi hebel habalim, “vanità di vanità”, è un superlativo ebraico che veicola l’idea di un “immenso vuoto”.
Nel Documento di Levi, testo aramaico risalente al III secolo a.C., levi chiede a Dio il dono della “sapienza, della conoscenza e della forza” (ḥkmh wmnd’ wgbwrh). Secondo quanto afferma l’Epistola di Enoc (91, 10), la sapienza sarà concessa ai giusti al momento della risurrezione; nel tempo escatologico i libri di Enoc verranno dai “ai giusti, ai devoti e ai saggi … per avere molta sapienza”, in modo che nella loro sapienza possano testimoniare contro i figli della terra.
Le Massime di Ptahhotep si aprono con queste parole: “Insegnamento del sovrastante alla città, il visir Ptahhotep, sotto la maestà del re dell’Alto e del Basso Egitto, Isesi, viva egli eternamente e per sempre!”.
Ma guardiamo un attimo l’originale egiziano, che è molto più pregnante della traduzione della Bresciani che abbiamo riportato. La prima parola che vediamo è sebayt, “insegnamento”. Uno dei libri più antichi dell’umanità si apre con questo termine così significativo. 
L’originale egiziano prosegue così: sebayt nyt jmy-ra, “insegnamento del (nyt) sovrintendente (jmy-ra)”. Jmi-ra è formato da jmy, che è nisbeh della preposizione "m", cioè “in": jmy: interno, che è dentro; r(A) = bocca, quindi jmi-ra significa: colui che è dentro la bocca, vale a dire colui che parla per, portavoce, rappresentante. In Egitto ci sono molti jmy-ra, cioè molti rappresentanti, portavoce, ma questo di cui parla il Papiro Prisse è jmy-ra nyw.t, “rappresentante della città (nyw.t)”, “sindaco”, “sovrintendente”. Una curiosità filologica. A volte jmy-ra è scritto con il segno della lingua, in egiziano nes. Il gioco di parole è chiaro: la lingua sta dentro la bocca, come il sovrintendente che è “dentro la bocca”, quindi gli egiziani per abbreviare facevano questo gioco di parole. Certe volte il “sovrintendente della città” era pronunciato nes nyw.t, “lingua della città”, lo sappiamo perché i greci tramandano la parola greca lesonis, “sovrintendente, sindaco”, dove il termine greco richiama la lingua (in greco leschen è il “chiacchierone”).
Ptahhotep è detto ta-ty, “vizir”, una carica assai importante, cioè il primo ministro, il braccio destro del re. Her em sut byty Isesi, “presso (her) la maestà (em) del sovrano dell’Alto e Basso Egitto (sut byty), Isesi”. Ankh (=w) D.t nHH, “possa egli vivere (ankh=w) eternamente e per sempre (D.t nHH)”. Gli egiziani avevano due termini per l’eternità: quella terrena, riguardante gli uomini (D.t) e quella celeste, riguardante gli dei (nHH). Quando gli egiziani auguravano l’eternità ad un re usavano entrambi i termini perché il faraone era un uomo dio. Ankh (=w) è terza personale singolare maschile di “vivere” (ankh), è detto stativo iussivo, cioè con valore di augurio. Una curiosità. Nella Messa in latino si dice per saecula saeculorum, “per i secoli dei secoli”, si tratta della traduzione latina di una espressione ebraica che sta nella Bibbia: le ‘olam wa ‘ed, “per sempre (‘olam) e per sempre (‘ed)”, dove compaiono le due eternità, quella terrena (‘olam) e quella celeste (‘ed). Gli studiosi ritengono che la espressione ebraica ricalchi le due eternità dell’egiziano antico.         
Le Massime di Ptahhotep si aprono con il motivo per cui sono state scritte: il vizir Ptahhotep è vecchio e vuole un successore. Ptahhotep ha 110 anni, l’età della saggezza per gli egiziani. Non è infrequente nel mondo antico che la vecchiaia sia associata alla sapienza/saggezza. In un testo ugaritico la dea Athirat pronuncia al sommo dio El una preghiera nella quale fa seguire a “sei veramente saggio” (lḥkmt) il sintagma “sei vecchio” (rbt), che riprende la linea nella quale si legge “il grigio della tua barba ti fa veramente istruito” (šbt  dqnk ltsrk). In egiziano “vecchiaia” è iaw, che deriva da un verbo egiziano che significa “adorare”: quindi il vecchio era molto stimato, era un “venerabile”, certamente per la sua saggezza. In questo senso dallo stesso verbo deriva iawt, “funzione pubblica”, che era molto considerata dagli egiziani.
In egiziano l’essere sapienti è indicato da radici quali śAA (śAt, “sapienza”) e śAr. Il verbo śjA significa “conoscere”. In egiziano “conoscere” si dice anche rx. La etimologia di quest’ultima parola è incerta. Ember (1926) lo riconnette all'ebraico rwH, "annusare", e all'arabo rwH, "sentire qualcosa, come un odore" (cfr. il verbo arabo arf, "conoscere" = assiro eresu, "annusare"). Tuttavia la H semitica corrisponde alla H egiziana e non alla x egiziana. Vycichl (1934) lo connette al berbero reh, "vedere" (cfr. greco oida, “so perché ho visto”); tuttavia questa parola corrisponde al semitico rA, "vedere", e la A semitica non corrisponde alla x egiziana. Roessler (1966) lo paragona all'ebraico jada, "sapere", considerando d = r e a ('ayin) uguale a x, ma le corrispondenze fonetiche proposte da questo autore sono troppo audaci (per consenso della comunità scientifica) per essere accettate: la ayin semitica corrisponde alla x egiziana solo in alcune ristrette condizioni (non le presenti), mentre la d semitica non corrisponde di norma alla r egiziana. Invece “parlare, dire” si dice Dd, da una radice che indica “stabilità”. Jed medu sono le “parole da dirsi” del faraone, quindi le sole durevoli. Il termine “parola” è medu, scritto con il geroglifico del bastone, come se la parola fosse l’unica cosa stabile cui appoggiarsi. Medu neter, “parole del dio”, sono i geroglifici.
Per gli antichi egiziani la sapienza è innanzitutto una qualità del dio e di coloro ai quali il dio voglia rivelarlo. Nell’Inno di Aton, celebre documento in neoegiziano scritto da Amenofi IV per il suo dio unico, Aton, si dice chiaramente del dio creatore Aton: “Non sei visto nelle tue membra” (v. 119). La divinità, che tutto crea, nondimeno resta in sé stessa misteriosa, la sapienza con la quale il dio crea il mondo resta oscura. È simile alla concezione di Isaia del Dio Oscuro (45, 15). Per questo abbiamo a che fare con lo stesso orizzonte di senso che compare nel Siracide (1, 1-8): Dio è l’unico saggio. Nello stesso Inno di Aton si legge: “Non c’è nessun altro che ti conosca, tranne il tuo figlio” (vv. 122-123). Viene in mente un passo di Matteo (11, 27): “Il Padre, nessuno lo conosce se non il Figlio e coloro ai quali il Figlio voglia rivelarlo”. 
Spesso la radice egiziana śAA indica la sapienza profonda, tipica degli dei e di coloro che sono istruiti dagli dei. Quando in una massima Ptahhotep dice che “nessuno nasce sapiente” (nn msy śAw), usa tale radice in quanto la vera conoscenza è dono del dio. Tuttavia nella iscrizione di Hezi si osserva che il faraone ha una conoscenza profonda (rx), mentre i sudditi hanno una semplice capacità in qualche cosa (śAA).
Gli insegnamenti sapienziali egiziani hanno come oggetto Maat, la personificazione della sapienza. Il significato originario della parola maat è “dirittura” e “atto del dirigere”. Il suo senso più profondo è quello di giusto stato nella natura e nella società fissato all’atto della creazione: partendo da ciò si ricavano i significati di giusto, bene, ordine, giustizia, verità. Pertanto maat è ciò che si oppone al caos (isf.t). Il mantenimento della maat spetta al faraone. Nei Testi delle Piramidi si dice che il re morto ha stabilito maat al posto del disordine. Amenemhet scaccia il disordine essendo apparso come Atum, questo vuol dire che ripete in tale maniera l’atto della creazione. Pertanto la sapienza egiziana ha lo scopo di conformare il discepolo all’ordine divino insito nella creazione. Ricordiamo infatti che Maat sta a prua della barca del sole il cui percorso illustra l’ordine cosmico.
Maat è la moglie del dio Thoth, il dio della sapienza. Il dio Thoth si incarna in un ibis, il cui passo equivale a un cubito, che entra nel geroglifico della parola maat. Il cubito è detto in egiziano meh, parola che significa anche “pensare”, “meditare”, “portare a compimento, essere completo”.
La circostanza, per cui Ptahhotep vuole un successore, dà all’autore l’occasione per un esercizio di stile fra i più cari ai poeti egiziani: la lamentazione (altri celebri esempi sono le Lamentazioni di Ipu-Ur, il Dialogo tra un Uomo e il suo Ba, le Lamentazioni di Kha-kheper-Ra-se-neb). Un piccolo sottogenere delle lamentazioni sono quelle per la vecchiaia, di cui quelle di Prahhotep sono probabilmente l’esempio più eccellente. Un parallelo si trova verso la fine del libro di Sinuhe, nella lettera del re al protagonista. Qui invece è il protagonista che parla al re, spiegandogli attraverso la descrizione minuziosa dei dolori della vecchiaia, la necessita di un “bastone della vecchiaia”, cioè un giovane pronto a recepire gli insegnamenti dell’anziano Ptahhotep. Anticamente gli insegnamenti si davano in forma orale, oralmente da maestro a discepolo, oggi invece noi usiamo molto di più la scrittura, anche se è significativo che in egiziano antico il determinativo del papiro, oltre a indicare una cosa astratta, indicava anche una cosa positiva, come a dire che la scrittura è il massimo grado delle cose positive. 
“La vecchiaia si è prodotta, la senilità è calata”. Nell’originale egiziano abbiamo: Teny (vecchiaia intesa come indebolimento del corpo) si è prodotta (keper =w), iaw (vecchiaia vera e propria) è scesa (ha=w). Si tratta di un parallelismo. Gli egiziani sono molto raffinati nell’usare le figure retoriche, il parallelismo è una delle più frequenti.
“La debolezza (ugeg) è venuta (jw=w), il dolore (jHw) si è rinnovato (Her mAw)”. Il verbo è di quartae infirmae: mAwj, “rinnovarsi”. Nei Testi delle Piramidi, il verbo mAwj è attestato semplicemente come mA(j): TdP 220, 7, 195c: nfr=w(y) Hr=T, Htp=tj, mA=tj, rnpw=tj - "Com'è bello il tuo (f.) volto! Tu sei in pace, rinnovata, ringiovanita" (l'allocutaria è la corona wr.t-HkA.w, "la grande di magia"). Quindi attenzione al verbo mAwj: è una radice con irregolarità e polimorfismi. Aggiungiamo che mAwj non è lo stesso termine usato nel contesto della festa del rinnovamento del Sovrano (Festa Hb-sd). In essa viene usato il lemma rnpi per "rinnovarsi", da cui il termine di anno, rnpt.
Segue la descrizione di tutte le sofferenze della vecchiaia, gli antichi non prendevano bene la vecchiaia, pensiamo a quanto la odiavano i greci Mimnermo e Alceo, anche se gli stoici la esaltavano. “Dormire è doloroso per lui ogni giorno”, sDr-n.f Xdr ra nb, dove sDr è “dormire” e ra nb “tutti i giorni”. Possibile traduzione: “egli ha dormito sofferente tutti i giorni”. Altra ipotesi: nf potrebbe essere un dativo “a lui”, “per lui”.   Per cui la frase si può tradurre: sDr n=f Xdr ra nb, “l dormire per lui (colui che è vecchio) è doloroso tutti i giorni”.
“Gli occhi sono deboli”, irety neDes=w, le orecchie sono sorde”, anx.wy jmr=w. Propriamente neDes significa “essere piccolo”, quindi “essere fragile, debole”. Il termine nDs è usato in senso di “piccolo” nel Racconto del Naufrago, quando il serpente chiede al marinaio: “chi ti ha portato piccolino?” Dd=f n=j n-mj jn tw     zp nDs n-mj jn tw (Episodio 6, versi 69-70). È una frase in distico eptametrico, due versi con sette accenti.
“La forza sta scomparendo”, nell’originale egiziano abbiamo pHty Her ak. PHty è la forza muscolare, il vigore dell’organismo, in copto (la fase finale dell’egiziano antico) diventa pakte (il dio Osiride nei testi copti è detto apakte, “il grande di forza”). Il sintagma verbale Her ak è un progressivo, in egiziano il progressivo indica una azione in fieri, e può fare anche da incoativo, “pian piano viene meno” (in indoeuropeo l’incoativo ha l’infisso –sc–, come nel latino senesco, “inizio a invecchiare”). Poi “il mio cuore è stanco”, cioè cessa (di pulsare, di vivere), nell’originale abbiamo wred ib=j. Nella letteratura egiziana Osiride viene chiamato wred ib, “lo stanco di cuore”, perché è il re dei morti, quindi il suo cuore ha cessato di pulsare.
A questo punto c’è un problema. Dal testo ieratico del Papiro Prisse sembra che vi sia la negazione nj, cioè (nj) wred ib, “non è stanco il cuore”. È probabile che si tratti di un errore di scrittura, perché dire che il cuore non è stanco per la vecchiaia, mentre si stanno elencando tutti i segni della vecchiaia, è una incongruenza. Bisogna anche aggiungere che una negazione a questo punto implicherebbe che il verbo egiziano sia un passato. Allen cerca di risolvere la questione intendendo n(j) non come una negazione ma come una preposizione, quindi sarebbe da tradurre “per (n) la stanchezza (wred) del cuore (ib)”, dove wred a questo punto non sarebbe un verbo (“essere stanco”) ma un sostantivo (“stanchezza”), che forma uno stato costrutto con “cuore”: allora bisognerebbe tradurre “la forza sta scomparendo per la stanchezza del cuore”. Tuttavia c’è chi osserva che la struttura delle frasi di questa sezione sulla vecchiaia è di solito soggetto + verbo (la vecchiaia si è prodotta, la senilità è calata …), quindi un sintagma con preposizione che introduce il dativo (“per la stanchezza del cuore”) appare insolita, perlomeno romperebbe il ritmo del dettato (variatio). Ma se analizziamo le varianti, ciò che sul Papiro Prisse sembra una negazione, appare nella tavoletta Carnarvon una preposizione.     
Questa sezione sulla vecchiaia presenta verbi sia stativi (che indicano una condizione permanente del soggetto, una azione che se già iniziata nel passato perdura nel presente) sia progressivi (che indicano una azione in progress), oltre a presentare anche altre forme verbali. Questa commistione di stativi e progressivi è stata analizzata dai filologi. Il progressivo egiziano ha anche valore di incoativo; in altri termini jw=f Hr jr.t non significa solo "egli sta facendo" (progressivo), ma anche "egli va facendo" (incoativo), ossia indica un'azione il cui compimento è graduale e costante. A differenza del progressivo, che è strettamente dipendente dal tempo di riferimento, l'incoativo è strettamente dipendente dall'azione stessa. Quindi, quando l'autore descrive, attraverso il suo personale invecchiamento, l'invecchiamento come fenomeno della vita umana, mentre usa il progressivo significa che si sta focalizzando sui processi che coinvolgono il corpo nel quadro della senilità (e che sono tuttora in corso nella sua persona), mentre quando usa lo stativo, ciò significa che si sta riferendo ai risultati dei processi.
Questo non deve necessariamente farci credere che i sintomi della vecchiaia descritti tramite lo stativo siano implicitamente precedenti ai sintomi della vecchiaia descritti tramite il progressivo incoativo: semplicemente, per quanto riguarda alcuni sintomi, l'autore li visualizza come compiuti, altri invece li visualizza nel loro divenire, e questo non è necessariamente dovuto a motivi medici, con finalità scientifiche di descrizione sintomatica di una condizione, ma può essere dovuto a motivi psico-linguistici: per l'autore, alcuni sintomi hanno più valore se visti dal punto di vista del loro svilupparsi, altri hanno più valore se visti dal punto di vista del loro compimento.
Proseguiamo nella lettura della sezione sulla vecchiaia. “La bocca è silenziosa (ra gher) e non parla (nj mdw-n=f)”. Wred (è stanco, verbo) ib (cuore, sostantivo) /ra (bocca, sostantivo) gher (è silenziosa, verbo) forma un chiasmo.
Poi “il cuore è assente e non ricorda lo ieri”, nell’originale egiziano abbiamo ib tm=w n(j) sxA-n=f sf. Anche in questo caso abbiamo una alternanza tra lo stativo (tm, è assente) e il compiuto (nj sxA-n=f, non ricorda), ma in questo caso l’alternanza tra le due forme è necessaria grammaticalmente, perché la negazione (nj) del compiuto ha un senso di presente (questa incongruenza verbale nella negazione è nota come regola di Gunn).
“Le ossa dolgono per la lunghezza (dell’età)”. Nell’originale egiziano il sostantivo è singolare, “osso”, inteso come sistema scheletrico nel suo complesso. L’originale è: qs (osso) mnn=f (duole) n (per) Aww (lunghezza). La lunghezza può riferirsi sia alla lunghezza dell’età (in senso astratto) sia all’intera estensione del sistema osseo (in senso concreto). Probabilmente la interpretazione migliore è la seconda, cioè lunghezza in senso concreto, vale a dire l’estensione delle ossa nel loro insieme. Questo perché la vita intesa come durata (lunghezza della vita) è detta in egiziano aHaw.
C’è poi un problema filologico che ha dato luogo a una lunga problematica presso gli studiosi. Alcune varianti del Papiro Prisse hanno un diverso posizionamento del determinativo in relazione al verbo mnn. Se il determinativo sta tra le due n, si forma un compiuto; invece se viene dopo le due nn e prima della f, diventa una forma geminata. Un compiuto in un contesto del genere significa che le ossa hanno smesso di dolere perché il compiuto indica una azione per l’appunto compiuta (quindi non avrebbe molto senso), pertanto è più probabile che sia una forma geminata, che esprime un incompiuto (allora le ossa stanno dolendo, non hanno smesso). Per essere più chiari, il verbo “dolere” è solitamente mn, quindi aggiungendo un’altra n si forma il compiuto (mn.n=f), se così fosse il determinativo va tra le due n. Se invece il determinativo va dopo le due n, la forma non è più un compiuto, ma un verbo incompiuto geminato, vale a dire con due nn radicali, mnn=f (forma che, per il verbo “dolere”, sarebbe attestata solo in questo passo in tutta la letteratura egiziana, sarebbe quindi un hapax legomenon).
“Ciò che era buono è divenuto (keper) cattivo”. Se un egiziano voleva dire “Ptahhotep è un vizir”, poteva dire TAty (vizir) pw (egli) ptH-http oppure jw ptH-Htp m TAty (cioè usando il cosiddetto “m dell'identità”). In maniera analoga il verbo kpr, “diventare qualcosa” si forma con la “m”.
“Ogni gusto se ne è andato. Quel che la vecchiaia fa agli uomini, è male (bin) in ogni cosa: il naso non respira (n DbA) per la debolezza, alzati (n Ntw, dove n è il formativo della nisbe) o seduti (che si sia)”. L’altro termine egiziano per male è Dw. “Non respira” è la negazione + il verbo DbA, il quale significa propriamente “cambiare”. Per gli antichi egiziani la parola “dio” (neter) deriverebbe da “altezza” (Ntw), quindi il dio era visto come colui che sta in alto. Oggi gli studiosi ritengono che neter derivi da una radice attestata anche in arabo che significa “straniero”, quindi “strano” e allora “miracoloso”, “divino”. In egiziano la parola “ateo” si forma con il pronome negativo jwty, “che non”, il quale può fungere anche da soggetto di una frase di possesso (come l’alfa privativa greca): jwty neter.f "colui che è senza il suo dio”, cioè “ateo”.
Il verbo “sedersi” è in egiziano Hms.t (infinito). Nel Papiro Prisse a volte questo verbo è scritto con un complemento fonetico, a volte no. Il complemento fonetico è un segno aggiuntivo che si inserisce anche se non è necessario (ridondanza). Perché questa “stranezza” nella presenza o meno del complemento fonetico? Nei Testi delle Piramidi lo stativo di III persona singolare maschile dei vari verbi tende a essere scritto con pochi o nessuno complementi fonetici. Questo fenomeno è stato molto analizzato dagli studiosi finché Loprieno non ha trovato la soluzione. Loprieno, nel capitolo sull’ortografia del suo testo “Ancient Egyptian: a linguistic introduction”, ha scoperto che quando una sillaba è vocalizzata, gli egiziani usavano il complemento fonetico; invece quando non è vocalizzata, non lo usavano. Come abbiamo detto, nel Papiro Prisse il verbo Hms.t a volte è scritto con il complemento fonetico, a volte no. Anche questa alternanza viene spiegata dagli studiosi con la presenza o meno delle vocali: ci sono forme in cui il verbo in questione ha la vocale, altre nelle quali la vocale manca. Per quanto riguarda lo stativo nei Testi delle Piramidi, in quella forma la radice ha un grado di vocalizzazione minore (ci sono meno sillabe, quindi meno complementi fonetici).
Vediamo nello specifico questo fenomeno. L’egiziano antico non scriveva le vocali, ma solo le consonanti. Le vocali sono ipotizzate dai linguisti mediante il confronto con il copto e le altre lingue (che invece scrivevano le vocali) in virtù di un lavoro minuziosissimo di ricostruzione. Secondo l’insigne semitista Gelb, il geroglifico egiziano è per molti aspetti un sillabario, come la scrittura sumerica. L’unità minima non è la consonante ma la sillaba (formata dalla presenza anche di una vocale, che però gli egiziani non scrivevano).
Ebbene, da quello che possiamo capire dalle trascrizioni in cuneiforme (che scrive le vocali) di stativo egiziano di III persona singolare maschile, sappiamo che lo stativo non ha la vocale sulla seconda radicale. Per esempio, WANAMA, “mangiare”, diventa allo stativo di III persona singolare maschile WANMAW. Oppure NAFARA, “essere bello”, diventa NAFRAW. Questo fa sì che le sillabe siano soltanto due, anziché tre (NA-FRAW). Inoltre il suffisso della terminazione scompare. Il suffisso della terminazione dello stativo di III persona singolare maschile è –A-W, ora questo suffisso si vocalizza (in O) e scompare. Dato che la vocale, nella quale si è trasformato AW, non è espressa, abbiamo soltanto NFR (che vocalizzato sarebbe stato NA-FRO, ma le vocali non si scrivevano). Per questa ragione lo scriba egiziano indica tale verbo con un solo segno, cioè il trilittero NFR, che è la stilizzazione dei polmoni con i bronchi. Questo è il motivo per cui lo stativo di III persona singolare maschile presenta meno segni geroglifici rispetto alle altre forme.
La ricostruzione delle vocali si chiama “pronuncia scientifica” o “pronuncia ricostruita”. Non è stato possibile ricostruire le vocali di tutte le parole egiziane, quindi si inserisce una E convenzionale in quei termini non chiari. Gli egittologi sono soprattutto archeologi e non linguisti, per questo di solito non conoscono la pronuncia scientifica, ma hanno imparato solo quel tanto di egiziano necessario alla traduzione, quindi nelle loro pubblicazioni inseriscono una E convenzionale tra le consonanti delle parole anche quando la loro pronuncia scientifica è stata determinata.
Vycichl (“La vocalisation de la langue égyptienne”) sostiene che le vocali dell’egiziano antico dovessero essere tre: A, I, U. Curiosamente manca la E. Gli studiosi hanno scoperto molte altre leggi fonetiche, pensiamo anche alla palatizzazione (analizzata da Vycichl). In italiano abbiamo una C velare, dura (casa) e una C palatale, morbida (cena). in latino, dal quale l’italiano deriva, la C era solo velare, quindi in quelle parole che hanno dato una C palatale si parla di processo di palatizzazione. In italiano la C palatizza solo davanti alle vocali E e I (come in “cena”), invece in egiziano davanti a I e U.
Ovviamente le considerazioni qui fatte sulla scrittura geroglifica valgono anche per quella ieratica del Papiro Prisse. Infatti tra geroglifico e ieratico vi è coincidenza dei vari segni. La scrittura ieratica, infatti, è semplicemente una semplificazione del geroglifico.  
Segue forse il brano più famoso del Papiro Prisse, quello sull’umiltà:


“Non essere orgoglioso del tuo sapere,
consultati dunque con il sapiente (così) come (con) l’ignorante,
(perché) nessuno ha raggiunto i limiti dell’arte
(e) non c’è artista le cui abilità siano perfette.
Una bella parola è più nascosta della malachite,
ma la si può trovare presso le operaie alla mola”.


Ptahhotep inizia il suo insegnamento sapienziale ricordando al giovane di non essere superbo. Questo atteggiamento ha influenzato il successivo pensiero egiziano e dimostra altresì che la società egiziana è esternamente gerarchizzata e maschile ma nella pratica estremamente attenta a non creare diseguaglianze, caratteri tipici di un mondo spiritualmente evoluto. Ricordiamo anche che gli egiziani non conoscono gli schiavi, ma le opere pubbliche vengono svolte dal servizio a turno dei vari sudditi. Adesso analizziamo il brano.
im aA ib Hr rx.k, “non (im) essere grande (aA) di tuo cuore (ib=k) del (Hr) tuo sapere (rx.k)”. Il verbo aAj è uno stativo, “essere grande”. Ci sono due possibili traduzioni. Secondo una resa, jb=k è “il tuo cuore” come soggetto del verbo aAj, quindi “possa il tuo cuore non essere grande” oppure “il tuo cuore non deve essere grande”. Dove k è un pronome enclitico possessivo.  Qui sarebbe un verbo intransitivo trattato come transitivo. Secondo un’altra resa, abbiamo il verbo fraseologico aA-jb “essere grande di cuore”, “tu non essere grande di cuore”, quindi k è un pronome enclitico soggettivo di verbo. Questa sembra essere la traduzione più corretta. L’espressione aA ib è uno dei sintagmi bahu-vrihi (sanscrito, “dalle molte braccia”), detti anche sintagmi nfr-Hr, "bello di volto": quando si vuole esprimere un complemento di limitazione, quel complemento di limitazione va a costituire il modificatore di uno stato costrutto, dove la testa è in stato costrutto ed è un aggettivo. Quindi: "il cui volto è bello", cioè "bello di volto", dove "di volto" è complemento di limitazione di "bello". Allo stesso modo, aA-jb, "superbo", varrebbe "grande di cuore", ossia il cui cuore è grande. Come verbo fraseologico si ottiene aAj-jb, "insuperbirsi", "essere superbo". La preposizione Hr indica la causa. Rx.k è un infinito sostantivato del verbo “sapere” (rx) con pronome suffisso –k, “tuo”.
nDnD r=k Hna xm mj rx, “consigliati (nDnD) dunque (r=k, è una particella asseverativa, “dunque”, ma letteralmente sarebbe “verso di te”, “per quanto ti riguarda”, come il greco toi, “dunque”, che all’origine era “a te”) con (Hna) l’ignorante (xm) così come (mj) il sapiente (rx)”. Xm e rx sono letteralmente dei participi, poi sostantivizzati. Hanno infatti il determinativo dell’uomo seduto (che indica per l’appunto un sostantivo).
nj jn=tw Dr.w Hmw.t, “non (nj) si è raggiunto (jn=tw, letteralmente “si è portato”, abbiamo poi il tw, che è il “si” passivizzante) il limite (Dr.w) dell’arte (Hnw.t)”. Vale a dire che nessuno è mai il migliore in assoluto. 
nj Hmww aper Ax.w=f, “non c’è artista (nj Hmww, letteralmente l’espressione egiziana è la negazione di un sostantivo, dove la negazione nj equivale a “nessuno” e sottintende il verbo essere, cioè “non c’è nessun artista”, i grammatici parlano di negazione di esistenza) fornito della sua maestria (aper Ax.w=f)” . Letteralmente abbiamo una sDm=f relativa (aper), cioè un compiuto che esprime una proposizione relativa implicita, cioè con pronome relativo sottinteso: “(che) le sue capacità si compiano”. Letteralmente Ax è un concetto religioso molto importante, “spirito luminoso”, la radice significa “brillare”, e quindi “essere utile, vantaggioso, bravo” (in copto diventa ikh, “demone”, cioè “spirito negativo”). In senso traslato Ax.w indica anche “utilità, bravura, abilità, maestria, potere spirituale” (la –w esprime gli astratti). Il termine Ax compare in Akhenaton, il titolo di Amenofi IV: esso vuol dire che il dio Aton concesse al faraone il potere spirituale (Ax).
deg=w medw nefer r waD, “è nascosta (Deg.w) la parola bella (medw nefer) rispetto alla malachite (r waD)”. L'egiziano non possiede i comparativi, come l’ittita, che li forma similmente all’egiziano. L’egiziano usa l'aggettivo (o il verbo qualitativo) al grado positivo e introduce il secondo termine di paragone con la preposizione "r" nel suo valore di "rispetto a": se voglio dire: Seneb è più alto di Mehy, sarebbe: Seneb è alto rispetto a Mehy, snb qA=w r mHy; dammi una birra più buona di questa, sarebbe: dammi una birra buona rispetto a questa: jm n=j Hnq.t nfr.t r tn.
jw gm=tw=s em a, “la si trova (jw gm=tw=s ) nel (em) braccio (a)”. Abbiamo qui un aoristo, che esprime una azione abituale. Tw esprime uno pseudopassivo: quindi non ha un valore passivo bensì impersonale. Quando ho una azione abituale, adopero un aoristo (in italiano: "vado a scuola" = "abitualmente vado a scuola, non necessariamente in questo momento"), che si contrappone al progressivo ("sto andando a scuola" = "vado a scuola in questo preciso istante e indipendente dal fatto che sia una mia abitudine"). Il progressivo si esprime con Hr + infinito: "sto andando a scuola": jw=j Hr Sm.t r kAp. Se voglio dire "vado a scuola", uso l'indicatore d'enunciazione (jw, wn, wnn), seguito da soggetto pronominale (pronome enclitico) o nominale (sostantivo o pronome dimostrativo), seguito dalla forma mAA=f, seguito dal pronome enclitico concordato in genere e numero col soggetto: "io vado a scuola" = jw=j Sm=j r kAp; "io vedo mia madre" = jw=j mAA=j mw.t=j.  Ritornando a noi, em a “nel braccio” si è grammaticalizzato come preposizione, “presso”. Secondo un’altra etimologia, em a sarebbe l’antenato di una preposizione araba (maha) che significa “con, in compagnia di”. Quindi jw gm=tw=s em a, “la si trova presso”. Dove? “La si trova presso le operaie (Hm.wt) sopra la mola (Her bnw.t)”.


Marco Calzoli


Marco Calzoli è nato a Todi (Pg) il 26.06.1983. Ha conseguito la laurea in Lettere, indirizzo classico, all’Università degli Studi di Perugia nel 2006. Conosce molte lingue antiche e moderne, tra le quali lingue classiche, sanscrito, ittita, lingue semitiche, egiziano antico, cinese. Cultore della psicologia e delle neuroscienze, è esperto in criminologia. Ideatore di un interessante approccio psicologico denominato Dimensione Depressiva (sperimentato per opera di un Istituto di psicologia applicata dell’Umbria nel 2011). Ha conseguito il Master in Scienze Integrative Applicate (Edizione 2020) presso Real Way of Life – Association for Integrative Sciences. Ha conseguito il Diploma Superiore biennale di Filosofia Orientale e Interculturale presso la Scuola Superiore di Filosofia Orientale e Comparativa – Istituto di Scienze dell’Uomo nel 2022. Ha dato alle stampe con varie Case Editrici 44 libri di poesie, di filosofia, di psicologia, di scienze umane, di antropologia. Ha pubblicato anche molti articoli.

 

Bibliografia

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  • M. Calzoli, Psiche e parola, Lecce 2017;
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  • F. Padovani, “Il nome di Osiride nella riflessione di Plutarco”, in Materiali e discussioni per l’analisi dei testi classici, No. 74 (2015), pp. 119-142;
  • G. Ravasi, Il libro dei Salmi, 3 voll., Bologna 2015;
  • G. Ravasi, Il racconto del cielo, Milano 1997;
  • G. Ravasi, Qohelet. Il libro più originale e “scandaloso” dell’Antico Testamento, Milano 1988;
  • A. Roccati, Sapienza egizia. La letteratura educativa in Egitto durante il II Millennio a.C., Brescia 1994;
  • D. Scaiola (a cura di), Naum, Abacuc, Sofonia. Introduzione, traduzione e commento, Milano 2013;
  • G. Scarpat, Libro della Sapienza, 3 voll., Brescia 1989;
  • G. Von Rad, La sapienza in Israele, Torino 1975.

Prima parte


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