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Riflessioni Filosofiche

Riflessioni Filosofiche   a cura di Carlo Vespa   Indice

 

Chi sei tu?

La domanda di Arjuna la notte prima della battaglia
di Mario Cialfi

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CHI SEI TU?

...il rileggere ciò che si è scritto è causa di un turbamento che spinge a riscrivere tutto, a mutare certe frasi eccitate e perfino patetiche: "quando, dopo molti anni di oblio, la parola dio tornò a farsi udire nella mia mente...". Sembra che ci fosse argomento per una lotta di démoni o per una radiosa alba di resurrezione - o fu per un affiorare di nostalgia, un declino della ragione - forse soltanto un arbitrio e quasi un gioco verbale? Eppure quella parola evocava un millenario problema, l'irresistibilità di una prova, una giustificazione che il nichilismo, padrone dei secoli, sembrava aver stornato per sempre. Inutile ricorrere a funambolismi mentali: se un'ultima prova doveva essergli chiesta, questa non poteva consistere che in un invito ad esporsi alla suprema eresia, abbracciare la sua nullità e mostrare che cosa potesse uscire da quell'incontro.
Nessuno poteva sinceramente credere in lui, tanto meno nelle sue perfezioni: e si rafforzava il sospetto che non l'incredulità ma la fede giustificasse qualunque delitto. Dunque la sola alternativa era: credere nella morte di dio o fare di quella morte la prova della sua verità, che gli eventi del Golgota avevano adombrato duemila anni prima. Ma parlare di morte di dio è già un arrendersi al mito:  bisognava accettare non la morte ma l'inesistenza di dio, perché solo su quella poteva elevarsi un'autentica dimostrazione, quasi che, dopo una lotta più stringente di quella d'Abramo, dovesse scaturire l'ultima verità e trionfare la nuda evidenza, ossia la logicità della fede - credere in un dio che non c'è, e credere perché non c'è.
Nessuna perfezione poteva annidarsi in chi ha una somiglianza troppo palese con la nostra specie. Da Eschilo a Dostoevskij l'argomento comune contro il riconoscimento di dio era quello morale, cioè il rifiuto della teodicea, e mi sorprendevo a pensare che solo se dio non esiste poteva apparire buono, così come soltanto un dio ucciso era parso corrispondere per un istante al nostro ideale, a quello che l'uomo crede possa essere dio. Ma infine, perché identificare dio con la perfezione? non è questa un'umana pretesa, e forse paura di fronte all'oceano delle possibilità? Si doveva andare più avanti, osando di credere che dio non abbia bisogno di nessun attributo e neppure di esistere, se la sua verità è più potente di ogni concetto. Dunque un problema che non poteva essere espunto, ma affrontato nella sua estrema tensione, a costo di cadere nel paradosso. Forse io non avevo peccato di troppa passione in ciò che scrivevo, ma di eccessiva prudenza? Devo dunque tornare a quelle frasi assillanti e, per un erto verso, rituali?
Mi allettavano allora due interpretazioni possibili di questa logica dell'assenza: da una parte il riconoscimento di una terribile astuzia, quasi che soltanto un dio inesistente potesse essere un dio vittorioso per l'eternità, dall'altra la prova di una sovrana grandezza, di un rispetto verso le creature, quasi che il creatore avesse voluto annullarsi per lasciar libero il mondo di crearsi da sé, di cercare da sé le sue strade, le sue salvezze o le sue perdizioni. Astuzia trascendentale o vertiginosa delicatezza - o ancora dimostrazione di una potenza che s'imponeva di non aver paura di non esistere, che anzi era questo l'argomento di un dio, mentre la fede del mondo doveva inalzarsi sulla invisibilità del signore, sulla certezza della sua inesistenza per essere veramente fede....Ma tutto questo era ancora mitologia, cioè un'insana teodicea, mentre dentro di me bruciava uno spirito di purezza, insieme all'orgoglio di poter riassumere quell'esperienza in queste parole: io posso credere in dio solo se non esiste.
Assurdità? irriverenza oltraggiosa? Forse la perfetta eresia - quindi, come ogni eresia, prossima alla verità, tanto che in questi tentativi di andare più avanti, di esprimere tutto, sentivo celarsi qualcosa di profondo e persino mistico: di un misticismo più radicale di quello canonico, un misticismo che rinnega splendori, paradisi e forti parole osando affermare che nessun dogma è divino, e che dio non è e non sarà mai, perché è questa l'essenza della sua eternità e solo attraverso la morte si può sognare di giungere a lui.
Ma forse era anche questa una falsa argomentazione, retorica e mitologia: neanche questa religiosità poteva resistere nel tempo del nichilismo compiuto, e nessuna speculazione, nessun eroismo, nessuna santità o temeraria metafora sarebbe valsa a farla rinascere, a far cessare il lamento mortale di un dio davanti alla vampa dell'assoluto.

 

...perché era questo il vero nemico di dio, l'assoluto. Il solo certissimo, inconfutabile, indistruttibile nella sua irrealtà. La verità di ciò che noi non sappiamo se sia verità, ma che è verità, e che ride delle nostre pretese di averla. La tenebrosa potenza che ha suscitato e distrutto le religioni, fatto crollare gli Olimpi, spinto nell'abisso uno Zeus dopo l'altro e abbattuto altari nell'insorgere di una fede nuova. Ora mi rendevo conto che proprio questa parola - assoluto - mi aveva sottratto all'infanzia e allontanato da tutte le religioni, perché era l'unica fede logica, un concetto significante senza significato, nudo di ogni rivelazione e conforto, ma suggellante il valore della verità, qualunque sia verità - dio o non-dio, essere o nulla. Chi può dubitare che la verità sia? che l'assoluto -  togliendo da esso qualunque attributo e quindi rinunciando a ogni nostra speranza - sia veramente assoluto? E non c'era bisogno d'altro.
E tuttavia, la storia esisteva, l'universo esisteva, nella sua tenace trasformazione, nella ricerca di ciò che sembrava dipendere dalle sue forze, da quello spasimo di totalità che era il presagio di una futura rivelazione - poiché il tutto comprende tutto e fuori di esso non sarebbe altro, perché esso è anche l'altro e quindi s'identifica con l'assoluto: il tutto, che per me si scioglieva nell'infinito in quanto poter essere ciò che si è e non si è, e, limitandomi a un più familiare anche se forse illusorio orizzonte, trovava una sua immagine nell'universo che vedevo intorno, cioè in quello che io chiamavo la storia - storia fisica e metafisica, umana e oltre umana, che in quegli anni prese a sedurmi come il solo tema degno di studio, racchiudendo una logica pari a quella dell'assoluto e che non avrebbe potuto essere contestata mai - purché si intendesse come storia infinita.
Assoluto e storia, assoluto e infinito - una duplicità che, come testimoniano quelle pagine, si è impadronita delle mie ore e che  s'imponeva come la struttura della mente e dell'universo: secondo una logica superiore a ogni logica e una fede superiore a ogni fede, in un'autoconfermata evidenza, immune contro ogni possibilità di errore perché inafferrabile ed aperta a tutto, anche alla sua inesistenza.
Assoluto e infinito. La folgore e la speranza. Una divisione insanabile o un'ambiguità destinata a risolversi in una superiore armonia? In quell'affinità di assoluto e infinito aleggiava un arcano evangelo e il guizzare di un’esile luce. Forse era questo il solo possibile segno di dio, una trascendenza che ammetteva la possibilità di inseguirla illimitatamente, verità che il mondo doveva cercare di realizzare nel non raggiungerla mai.

 

....è attraverso questa rispondenza di termini che si è ridestato in me il ricordo dell'antica fede? ma perché riportarli a dio? e perché il pensiero è tratto a dare una religiosa tintura ai concetti non appena essi esorbitano dal nostro orizzonte? forse perché è un pensiero ozioso e perché vede, al di là dell'orizzonte, sé stesso? Ma forse c'è qualcosa di più, se trascendenza e immanenza sono non solo i due tratti d'una religione - di qualsiasi religione - ma il nodo nel quale è riposta la sconfitta o la vittoria di dio - ossia la ragione d'una miscredenza definitiva o di una sovrana evidenza.
La scissione dei termini potrebbe infatti costituire la tragedia di dio - l'impossibilità di dimostrarlo e tanto più di raggiungerlo nella trascendenza e nell'immanenza,  nel momento come nell'ininterrompibilità della storia, quasi la sua piaga inguaribile. Ma l'ambiguità resta, cioè il richiamarsi dei termini, con la presunzione di una possibile saldatura, che è un invito a non disperare e a cercare l'ultima prova.
Il dio trascendente è colui che è vietato, che dissolve ogni definizione e ogni tentativo di  immaginarlo, e che ci fa esclamare: non esiste, non è esistito, non esisterà mai. Ma nell'immanente, cioè nella storia incessante, dio sembra diventare la meta possibile, anche se non sarà mai raggiunta, anche se l'universo dovesse crollare, perché nella storia l'assoluto è una costruzione e un lavoro, un progetto che dipende da noi o meglio dall'intero universo. Ed è qui che dio sembra riemergere medicando quella tragica piaga - se egli non è soltanto il demone fuggitivo ma il fine che ci poniamo - cioè se al fondo della storia balena qualcosa che non ci è estraneo del tutto ma sembra riverberare la nostra ragione, perfino la nostra pietà; se al fondo della storia balena quel volto. Ho così raggiunto l'ultima prova? reso a dio l'assoluto?

 

....prima della luce è la tenebra. Prima della certezza il dubbio. E solo se lo si è accolto in tutta la sua devastante potenza, pensando, come qualche saggio cinese, che se si può dubitare niente è sicuro, che l'essere può non essere e la verità una non-verità, la filosofia può arrogarsi il pregio di chiamarsi critica - fuori di lì, per quanto possa apparire geniale e suscitare ammirazione e stupore, per quanto possa pretendere di essere logica, non ha un fondamento sicuro, anzi non ha nessun fondamento. Dunque rinuncio a ogni svolazzo fantastico e torno alla pura evidenza, la sola che può resistere al dubbio totale e che mi si è presentata in due forme ugualmente certe. Ora voglio tentare di metterle a fronte e di stringerle in un unico sillogismo:
- l'assoluto in quanto assoluto può essere qualunque cosa, anche estranea alla nostra comprensione e ai nostri ideali, così come ai destini dell'universo
- ma se l'assoluto è infinito sembra in qualche modo accostarsi a noi, alla nostra intelligenza e alle nostre attese o alle attese dell'universo, cioè divenir simile a un dio
-  così dio in quanto assoluto sfugge del tutto e nello stesso tempo sembra accogliere tutto cioè la storia in ogni senso continua. E in questa sintesi è il segreto di una fede logica.
(Ma un sillogismo, come ogni esercizio logico, perde quella pura evidenza e, rimandando su altro la prova della sua correttezza, si libra nel vuoto e lascia un varco all'immaginazione e all'arbitrio. Ed è questo, forse, che mi ha reso sempre diffidente di fronte alla logica, mi ha frenato il pensiero e impedito di inventare una accettabile filosofia: anche se disprezzavo la logica perché cercavo una logica vera).

 

...dunque un solo assoluto nell'abissale distacco: assoluto che sovrasta tutto come un fulmine scomparso nella sua luce - e assoluto che è tutto e che attraversa materia vita e pensiero - entrambi inconfutabili come le due valve della verità - essi sono diventati gli assi della mia mente e dell'universo.
Forse per il ricordo di remote favole o per il diletto di poetiche trasfigurazioni e non - così spero - per debolezza senile, essi hanno acquistato nei miei ultimi anni questa qualità virtualmente sacrale, identificandosi col trascendente e coll'immanente nella loro radicale accezione di disegni massimi di religiosità, erodendo le mie istanze profane, sfidando le mie capacità di giudizio davanti al riemergere dell'antico spettro, dell'illusione o del conforto degli agonizzanti. E tuttavia la mia religiosità si accompagnava sempre alla certezza che dio non esiste, perché nessun raptus e nessun evento può coglierlo, nessun concetto per quanto in alto si elevi, nessuna lingua alla caccia della proposizione suprema, neppure l'attribuzione anselmiana d'una perfezione completa, che sarebbe soltanto la perfezione che vogliamo noi. Quell'argomento è indegno di dio. Dio non può "esistere" se è l'assoluto. Ma chi mi dimostra che è l'assoluto? che non ha bisogno di nomi, attributi, esistenza, e neppure di sé? che soltanto se resiste alla distruzione di tutte le sue qualità cioè al dubbio totale, può chiamarsi dio? che la fede vera è una fede pura?

 

....ho sognato di una verità che, se anche non c'è, è verità - di un assoluto che è sempre là e di cui siamo certi anche se questo dovesse implicare il nostro sterminio, cioè se il nulla fosse la verità: una certezza che aleggia inconsapevolmente sopra di noi, che balena da quando si forma il nostro organismo e che incombe su coloro che furono prima, in una catena che arriva all'origine delle cose. Tocco qui un tema che tutte le religioni hanno in qualche modo adombrato, se non altro identificandolo col principio dell'essere....dunque una sorta di creazione? Non volevo farmi riprendere dalla mitologia, ma c'è qualcosa in questa idea del principio che sembra sottrarla all'arbitrio e consegnarla alla logica dell'assoluto, cioè a quello che illumina me e ciò che fu prima di me, anzi prima di tutto, per quanto si affondi lo sguardo nella vita dei popoli e delle stelle, e che non è neppure remoto nel tempo ma sovrasta il tempo e lo spazio, e cui non possiamo sottrarci perché è in qualche modo ciò che ci chiama ad esistere, ossia a raggiungere quello che era già nostro ed è la molla di ogni sviluppo - divenire ciò che si è, e che è tutto, ossia tutto ciò che è possibile avvenga, attraverso una forma che è soltanto una squallida ombra.
Dunque l'intero universo è prima e più avanti di sé, è figlio e generatore dell'assoluto. Assoluto che illumina con la forza di un inesistente principio, e assoluto che spinge a un inesistente fine, cioè al fine dell'infinito - talmente infinito che ignora la formula "è" e non lascia neppure il nulla fuori dei suoi poteri.
Forse è qui la ragione del nichilismo moderno che sembra più integrale di quello dei tempi passati fino a respingere ogni idea d’assoluto: sia quello di un assoluto che trascende tutto e si offre solo nella sua vuota astrazione, sia quello di un assoluto che si identifica con la totalità delle cose e allude a una meta inesorabilmente lontana, a una totalità che è tale perché non sarà mai posseduta:  penso che indagare il primo sia da lasciare ai visionari ed ai pazzi, mentre l'altro può e deve essere indagato perché immaginato da noi, anche se in esso è una lama che ci trafigge e un fiotto di sangue che ottenebra corpi e pensieri. Ma è anche quello che ci consente o ci infligge speranza, perché la storia è nostra e, se non possiamo credere di farla assoluta, possiamo cercare di costruirla nella sua stessa rovina e passare il progetto alle specie future. Così, mentre ero ingenuamente eccitato da quelle avventate metafore in cui mi pareva di poter cogliere il mistero di dio, sentivo rinforzato quell'interesse verso la storia che mi aveva per lunghi anni guidato nello studio di epoche e eventi e che ora mi appariva più aspra, lubrica e multiforme, seppure attraversata da una strana luce.
Il principio e il fine: e in mezzo è la storia.

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