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Riflessioni Filosofiche

Riflessioni Filosofiche   a cura di Carlo Vespa   Indice

 

Credo credo

L'unico, il solo onnisciente, vuole e non vuole essere chiamato Zeus
di Mario Cialfi
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L’anello

Una volta il pensiero mi appariva così potente da convincermi che si può dubitare di tutto e che nessuno potrà mai decidere pro o contro qualcosa. Il dubbio può andare ben al di là del cartesiano sospetto, poiché, come si è sostenuto che tutto potrebbe essere un sogno o il prodotto di un dio ingannatore, così si può ammettere che tutto sia l’opposto di tutto, che nessuna cosa o nessuna proposizione sia tale come ci sembra, che il nostro universo non sia, o si sgretoli nella relatività, che tutto quello che dico sia semplicemente altro, che la forza del pensiero sia la sua debolezza.
Ma in questo universo ambiguo e sfuggente io cerco l’assoluto – dicevo – l’incondizionatamente vero: forse inattingibile, immaginario e pronto a smentire sé stesso: ma resta che lo cerco o credo di farlo con un pensiero che trafigge la propria impotenza. Il superamento del cogito cartesiano. Ma come vincere il dubbio nel dubbio?
Dapprima fu la tentazione eroica: inventare questo assoluto. Ossia - indipendentemente dal fatto che sia o no un assoluto, una realtà, una possibilità - creare un assoluto così come è assolutamente per me, vero secondo la mia verità: nessuno poteva togliermi questa giovanile pretesa anche se era una pretesa illegittima, e anche se verità forse non c’è.
Questo assoluto non basta. Esso sembra giustificare sé stesso come un fulmineo bagliore, ma la pazzia può finire e se non è eterna, che vale? Sarebbe il tradimento della verità, così come un riso nel sogno e lo sguardo degli innamorati. La verità dev’essere senza confini, e quella mia sicurezza era ingiusta e impudente.
Ma c’è l’assoluto che splende nella parola tutto, se il tutto, qualunque sia la sua realtà, fisica o metafisica, vera o falsa, ebete o forsennata, include veramente tutto, quindi non solo il mio arbitrario progetto ma quello che si definisce come assoluto, l’assoluto in sé. Ma neanche questo mi può accontentare: io cerco l’assoluto incondizionato dunque non soltanto una parte del tutto. Ma il tutto non è una parte di sé, il tutto è veramente tutto: si autogiustifica in quanto comprende anche il contrario, la sua distruzione e illusorietà. E’ ciò che vince le possibilità perché le contiene, supera ogni determinazione e ogni opposizione passando sopra di esse: verità che fonda la sua logica sopra di sé e che nessuno potrà mai scalfire – anche se è una verità vuota, anche se non esiste. Perché, qualunque cosa si verifichi o non si verifichi, il tutto l’ha già compresa, trasformata in sé. Il tutto è oltre sé stesso ed è l’assoluto.
Allora la mia aspirazione diventa: ricercare il tutto, ricorrendo all’antico eroismo perché, certo, tutto rimane da dimostrare e il mio slancio, ogni passo della ricerca può risultare inutile. Pur tuttavia rischiarato dal fine: un fine che può mantenersi sempre al di là, ma che in quanto fine mi tocca.
Cercare, perseguire il tutto: che comprende anche quello che non sono io, quello che è o diviene realmente o illusoriamente, coscientemente o incoscientemente, che non fu mai immaginato e neppure sarà. Nel tutto tutto è possibile e questo, che sembra dissolvere le mie speranze, nello stesso tempo le innalza e le fa invincibili, se anch’io sono una possibilità, se sono nel tutto: se quello che io desidero nel tutto c’è, se il tutto si fa per mio mezzo assoluto.
Ma, ancora una volta, lo slancio è frenato e la fatica sembra rendersi vana. Se io sono qui, come posso pensare di essere là e di varcare l’abisso? Se il tutto è un delirio, come crederlo una verità? come vincere l’astrazione del termine “tutto”? E’ qui l’ultimo impegno, l’ardimento e la sconfitta della filosofia.
Ma qualcosa mi giunge che sembra soccorrermi, e se pure la certezza svanisce quanto più mi allontano dal lampo rivelatore, mi viene incontro come una benedizione o un leggerissimo assenso. E’ la parola infinito: questo svolgimento o uso incessante delle antiche forze, questo essere in noi e proseguire oltre di noi, emozione, verbo, concetto – forse metafora dell’assoluto, se l’infinito non lo realizza ma ne serba intatta l’eventualità. Infinito al di là della morte e come inganno sempre ridesto. E se esistono altri poteri, li comprende anch’essi.
Ma che è l’infinito per noi se non l’universo? Non è questa la manifestazione dell’assoluto, la figura del tutto? L’universo è ciò in cui quello che io cerco si compie naturalmente, l’assoluto sensibile, l’inganno che è anche una verità. Io sono vero perché sono nell’universo, perché cado nell’universo, mentre passo dal dubbio assoluto al dubbio metodico, cioè alla valutazione delle certezze del nostro universo, con le sue leggi e gli ipotetici fini.
La vita che germoglia non è solo fisica: è un sottrarsi a sé stessa, un’ascesa, dal tutto come quantità al tutto come valore, quindi l’evoluzione e la storia, la civiltà del cosmo, la pietà come ultima istanza, se essa è il mezzo per patire tutto e comprendere tutto, momento in cui la mente si apre e l’orizzonte sembra raggiunto.
Ma non è raggiunto; un universo è poco rispetto alle attese e il desiderio non si può limitare; la quiete dell’infinito è una quiete ingannevole, l’amore va al di là di ogni corpo fisico metafisico, e l’unica condizione di un adempimento sta nel non finire, nel passare oltre. L’ordine del possibile non si può esaurire anche se è minacciato dall’estasi e il percorso è pieno di spettri.
Se confronto la storia con l’assoluto vedo sorgere dio. E’ come se paragonandosi all’assoluto l’universo dovesse esprimere dio, come se dio fosse non tanto il signore dell’assoluto, quanto lo strumento per attingere l’assoluto riassumendo tutti i gradi della ricerca e racchiudendo in un misterioso connubio l’essere e l’essere nulla. Un dio creato da chi sa che non c’è. Una grazia per chi l’ha perduta.
Dall’eroico e arbitrario fingere un assoluto al riceverlo come un dono. Dopo tutto è questa l’essenza di qualunque fede, questo votarsi nel dubbio totale, senza di cui la religione non avrebbe senso, mentre solo all’offerta risponde qualcuno e l’illusione diviene realtà: è questo l’inizio della cultura del mondo, il primitivo incontro con l’assoluto che da sempre è già qui – l’indissolubile cerchio e il ricordo che non si può cancellare, anche se ciò in cui crediamo è un errore o una graziosa impostura. Ed ecco la frenesia dei miei ultimi anni.
Indefinibile, ambigua, istrionica, voce di un dio che vive nella sua nullità. Un dio altro, un dio fuori del mondo. Un dio malvagio, un dio inafferrabile? Se è malvagio non può essere dio: si può temerlo, curvarsi ad esso come a un destino, ma per noi non è dio – e se è inafferrabile è soltanto un enigma. Dio è ciò che noi vogliamo sia dio: non il totalmente altro ma forse colui che si apre a tutto, che benedice la storia, che scompare nell’infinito, nell’interminabile schiera di vivi e di morti.
Si è parlato d’amore e solo per questo dio sarebbe qualcosa nell’assoluto e si renderebbe accessibile a noi, se l’amore permette di comprendere tutto, se in esso si nasce e si muore, e quello diventa il perché supremo. Amore come ultimo demone. Come baluardo estremo di Zeus. Ma che bisogno c’è di Zeus? non basta il mio desiderio? Se anche è una menzogna, una finzione dell’uomo, se sfugge a qualsiasi maledizione e preghiera, alla sua stessa pietà – è forse meno dio per questo? Non è tutto qui il suo mistero? non è questa la sola forza di un dio, il fatto che non esiste? e se la storia dovesse vincere definitivamente, se dovesse sparire lo stesso concetto di dio, ne sarebbe tolta la sua verità?
Dio, solamente dio. Ma al di sopra di sé, di qualunque specie e di qualunque universo, quindi una negazione dell’essere, la verità del non essere. Egli è quell’ultimo insorgere, quel guizzo finale, quel “non c’è perché c’è” che ha guidato la mia litania – è lo strido dell’assoluto, e chiamarlo dio è dopo tutto inutile. Ma perché disperare? Ciò che è oltre di noi è più prossimo al tutto, è questa la speranza della materia, togliendo la quale tutto può ancora iniziare. E che cos’è quell’ultimo mito, quel sovrapporsi di forme, quella stoltezza o relatività che fa inorridire il pensiero, quel trascendere il male ed il bene? La mente si perde in un gaudio che non sarà mai concesso, di ciò che è ancora un inganno, una certezza di ciò che non c’è, che non si può ottenere e nemmeno lasciare, se a questo punto bisogna curvarsi o lottare per l’impossibile, ribellarsi o ricadere nel fango terrestre.
Sì, ogni pensiero può essere respinto o accettato, trovato in qualche modo esatto: solo il pensiero di dio è sempre sbagliato – se un dio concepito dall’uomo, immaginato dall’uomo, servito oppure odiato dall’uomo è una misera cosa in confronto con l’assoluto. Ma se quest’assoluto è sospeso al nostro volere, al nostro folle ardimento, allora esso assume davvero sembianze divine, la sua verità sta nella sua irrealtà cioè nella nostra fede: che ritorna, col suo millenario potere e la sua spada di grazia. Dio: un’infatuazione che permette lo svolgersi di un’intera storia, ed è possibile sciogliersi da quel rapimento e da quell’ultimo credo? impedire alla storia di consacrarsi a quel fine, a quella rivelazione che chiude il teatro del mondo nella sognata catarsi? Allontanare la morte sembra essere il dovere dell’uomo, ma la morte è l’unica soluzione: è la verità delle cose. Poiché solo allora sarà rivelato, il dio inesistente e creatore. Per sconfiggere il dubbio non resta che attendere: quando la fine è il principio e l’anello è definitivamente chiuso.

 

L’ultima abiura

No, nessuna chiusura. Tutto deve restare aperto, aperto per sempre. Così sono costretto a ritrattare quello che ho scritto, a rinunciare a quell’attesa di dio e a quell’ultimo fanatismo. Il mistico è l’eroe delle religioni, che possono apparire come misticismi frenati, rovesciati, mondanizzati. Pure anche il mistico deve vincere le sue tentazioni, le sue orge psichiche, quell’eloquenza e quell’amplesso gaudioso, il brivido del carisma e i trastulli allegorici: con balzi audaci deve superare sé stesso, spezzare il fantomatico cerchio, procedere verso il fine che lo trascende, così da consentire alla storia di esistere tutta, privata di ogni parabola consolatoria, legittimata da quel solo fine. Dio non c’è, non c’è mai: perché è il fine della storia, ma di tutta la storia. E’ ancora misticismo questo? o superamento di ogni menzogna, della religiosità in tutti i suoi stili e per il suo vero trionfo, che si celebra sulla sua scomparsa, immedesimandosi con la storia stessa – la totalità, l’armonia sulla morte degli esseri.
L’armonia si sfiora respingendo il divino oltre ogni verbo e sogno creatore, lasciando la materia libera di occupare tutto come un fiume di lava, mentre geni ed eroi si consumano in essa, tramontano gli atavici spettri e la storia si getta nell’assoluto se non lo pretende ma lo respinge da sé. Niente più metafore e trasfigurazioni, il primo è soltanto l’ultimo: vuol dire questo rinunciare a dio? Ma noi sentiamo la sua pressione, il raggio che di là promana e ci invade impregnandoci di strane emozioni, così che dobbiamo insieme vincere il raggio e accoglierlo nella nostra carne. Ascesa o discesa? Come il primo giorno, quel giogo ci stringe.
E’ l’anello la vera figura di dio? allargata per sempre, gettata nell’infinito. Ma no, neppure l’infinito ci basta: nessuna mistificazione, nessuna seduzione mistica; noi possiamo solo cercare con una fede che non sarà mai premiata anzi una fede superflua, se la religione deve sparire e la storia deve da sé e in sé inventare il suo fine – un fine che non la tradisce ma l’alimenta, la attrae in sensibilità più sottili, conoscenze più vaste, imprese più atroci e forse più sante. Il nichilismo del mistico è ancora superbia: egli non deve ignorare la storia ma percorrerla tutta, odiando e amando il suo senso, abbracciandola sino a oltrepassare ogni bibbia e pia tradizione con un fervore capace di pacificarsi e annullarsi in sé. Niente genesi né apocalissi. Se volessimo immaginare un ultimo evento, un collasso o una trasfigurazione dell’essere, quello sarà ancora un evento del mondo e, per chi bada alle sorti dell’uomo, un evento storico, una guerra o una civiltà dell’oro. E se è concesso alla fantasia di spingersi oltre, verso quello che si attendeva come il giudizio di dio, ebbene quell’ultimo stacco dovrà essere colmato da noi e non da qualcuno che ci viene incontro e paralizza la storia impadronendosi di quella vibrazione segreta, quell’increspatura che la percorreva in tutto il suo corso e che non l’ha interrotta neppure nelle ore di paradisiaca illuminazione. Angoscia e acquietamento finale, un rantolo di contrizione o di libertà – il giudizio di dio non potrà che essere questo. Anche se non ci saremo più e l’ultimo evento riguarderà altri occhi e altre menti. Anche se la verità sarà diversa da quello che la scienza ci fa trapelare e che la storia ci suggerisce, così come dio si allontana dagli artigli di religioni e eresie.
Non resta che continuare nel nostro cammino, anche se ci aspetta la tenebra, se l’infinito precipita e non si può più chiedere nulla. Se la vita è la verità, è questa la grazia. Se il nulla è la verità è questa la grazia. E a chi domanda: perché l’assoluto? la risposta non è: perché l’assoluto è dio, ma perché l’assoluto è assoluto. E non vi è altro perché.

a M.

 

 

Come posso riassumere la mia storia? Dopo tanti esercizi fantastici, poesie astratte e romantiche, animosità metafisiche, ho cominciato a pensare per opera della Grecia, anzi di Omero e di Eschilo. Il rapporto-contrasto fra i due poeti ellenici, o fra l’epica e la tragedia, ha costituito (era ancora in corso la guerra) il mio primo sistema o lo schema dialettico dell’esistenza: nell’epica affidata solo a sé stessa, alle sue forze e capacità “eroiche” di reggersi e di svilupparsi – nella tragedia rivolta contro di sé, cioè contro l’eroe, al quale si oppone una fatale salvezza (la nullità dell’eroe) e la misteriosa attesa del coro. L’intera storia del mondo mi sembrava vibrare fra queste due soluzioni, che entravano in conflitto in quelle epoche auree che, proprio perché liberatrici utopiche dell’esistenza, dovevano provocare l’opposizione al delirio eroico e al mito che di là nasce e promana. Ma il processo storico intero sembrava compreso in questa dialettica fino a produrre, col romanticismo e le rivoluzioni novecentesche, il tentativo di sorpassare i tradizionali limiti dell’esistenza, di dominare e trasfigurare il sangue del mondo, finché, nell’orrore e nei tormenti di questo secolo doveva apparire l’assurdità di quel folle ideale costringendo la storia  a mostrare la sua tragica verità, che nessun gioco di satiri, nessun dio o titano poteva illudersi di mascherare e avrebbe condotto alla distruzione dell’essere: una catastrofe che, presentita dai geni dell’epoca, mi pareva avanzare inesorabilmente e costituire il fine reale, la sintesi della colpa e della purificazione storica. Ma proprio il processo storico – che avrebbe dovuto rappresentare la prova della concezione tragica riducendo la storia a un mito sceneggiato nell’immenso teatro, sembrava invece, quanto più lo seguivo e quanto più la storia si svolgeva davanti a me – dissolvere la tragedia, farla uscire dalla sua forma emblematica, scomporla in una drammaticità più sfuggente se anche non meno angosciosa: la tragedia sembrava favorire la storia anziché consumarla, donare ad essa il suo orrore e il suo anelito di redenzione. In fondo, non raggiava in essa una strana malia, una possibilità di dimenticare gli errori; non era la tragedia una moralità adatta alle epoche arcaiche, un sacrificio celebrato su un’ara di pietra? Fu così che la storicità prevalse sullo schema drammatico, una storicità che sembrava riflettere l’epica della Grecia con la sua capacità di superare i mostri del mito in una percezione delle lotte e della civiltà dei popoli, mentre nella successione di eventi traspariva il disegno di un’evoluzione e forse di un’elevazione etica: in effetti la vecchia dialettica di epos-tragedia divenne per me la nuova dialettica di tragedia-infinito.
Due mi apparivano le posizioni possibili di fronte alla storia volgare, quella che procede inconsapevolmente come fame di vivere e brutalità di morire: la tragedia, che illumina l’intero universo ma lo fissa in un giudizio infallibile, una legge abbagliante e funerea – l’infinito che non distrugge ma alimenta le epoche e non può essere arrestato da nessuna magia, nessun dogma e nessuna ossessione, neppure l’ossessione dell’infinito, e rappresenta, nel suo estendersi senza confini, la ricchezza e la dignità dell’esistere. Nella tragedia non si può vivere, nell’infinito sì: anche se la prima appare ai suoi corifei come la vera realtà e l’infinito soltanto un sogno.
Sogno o realtà? Mi esercitai a capire la storia nelle sue vicende epocali, nel susseguirsi di forme, riflussi ed insurrezioni, di onde gettate avanti, da cui soltanto sembrava venire un ordine, una spiegazione, una moralità, mentre tutti i tentativi di oltrepassare la storia, distruggerla o possederla d’un colpo dovevano risultare vani e alla fine nefasti: come dimostravano non solo  le pazzie geniali e rivoluzionarie, ma le estasi religiose, quei primitivi assalti alla verità del cosmo. La storia rifiutava tutti gli schemi e diveniva in ogni momento un'unità di passato e futuro, di indolenza ed azione, di uno e di molti; un processo che non poteva aver termine se al suo concetto non bastava una storia dell’uomo e neppure una storia del mondo, se esso portava all'orizzonte dell'essere, all'oceano delle possibilità, assumendo l’intera potenza del negativo. E proprio qui era il fondamento dell’infinito, in quell’essere del non essere, in quel nero fulgore che già negli anni d’infanzia mi aveva turbato e che si ripresentava ora nella parola “tutto”. Il tutto sembrava imporre il suo valore assoluto per una sorta di argomento ontologico sconsacrato e per un’infallibile autoconferma: poiché il tutto è ciò che si salva dal dubbio metodico, se contiene tutto e quindi la definitiva certezza, ciò che noi pensiamo o vogliamo debba essere l’assoluto e costituire lo scopo di una ricerca, seppure perennemente deluso e mai conseguibile. Nel tutto, comunque concepito e comunque perduto, è il lampo dell’assoluto, mentre la nostra ricerca diviene il solo legame con esso, il solo filo di luce, la sola eventualità di salvezza. Ma che si poteva sperare di fronte a una salvezza certissima ma inattingibile, cioè a una sconfitta sicura? Chi può accontentarsi di questo pensiero e trovare dolce il morire? Forse il fiume dei sensi, l’ansimo della materia poteva sorreggere le speranze e rivelare il mio vero potere? O la storia, quest’ininterrotto frammento, questa fisica-metafisica è per noi la sola realtà del tutto e consacrarsi ad essa diviene la via per connetterci con l’assoluto? Il mio pensiero, il mio modo di essere  e scrivere era votato al frammento; custodivo gelosamente la mia libertà e sentivo in quest’espressione il ritmo nudo dell’essere, quel riavere la frase e portarla più prossima al tutto – frammento non come lacerazione ma vita dell’infinito, in un tentativo continuo di strutturazione ciclica, abbattimento e disperato piacere. Sì, io avevo toccato lo spasimo dell’amore, il suo veleno inguaribile. Ero colmo del sangue della natura, spinto a seguire i suoi vortici e a propagarli immaginosamente. Ma che c’era al fondo di quella passione, quale poteva essere l’ultima frase?
Progressivamente e insensibilmente mi trovai a ripetere parole dimenticate: ero sull’orlo dell’ultima tentazione, di fronte a una religione che non potevo più ripudiare, se la religione si era posto fin dal principio quel fine assoluto in maniera perfino più audace della filosofia: religione come fede nell’assoluto, nel tutto come assoluto – e allora perché aspettare, se l’assoluto è qui? Ma la religione è una fissazione spettrale. Se anch’essa muore e risorge, se si esprime per cicli, questi non portano avanti: in una continua ripetizione, una vibrazione che sembra liberare le cose ma in realtà le incatena. L’umanità doveva uscire da questa inservibile rete, la religione non poteva che costituire l’errore fatale, il distacco dall’assoluto nonostante o proprio in ragione delle sue alate parole e del suo credere in esso. Quanto più affascinante una fede, tanto più grande il pericolo: la Grecia aveva affrontato e vinto il pericolo parificando uomini e dèi, ritagliando tutti in una sola materia, esaltandoli nell’eroismo o bruciandoli nella tragedia, e non si poteva tornare indietro. Per aver fede dovevo sottrarla al suo incanto, mondarla della sua idolatria, lasciare la storia libera di proseguire per sempre. Ma io non odiavo la religione, anche se nessuna mi appariva una religione vera – nessuna religione e nessuna eresia. Di più: lo stesso concetto di dio si lacerava dentro di sé: per essere dio doveva superare sé stesso, resistere all’intera storia e alla sua sconfessione. Cercavo in mezzo agli dèi il dio vero e vidi che era il dio inesistente, più oscuro di quello dei mistici: il dio fine, il dio oltre, il dio possibilità, il dio simbolo.  Il demone dell’ironia sembrava sorridere: dio come colui che non c’è, che solo per questo può essere dio.
Ma più che un’immagine di vittoria l’assenza di dio mi portava un’immagine di pietà, quasi di un sacrificio compiuto per lasciar liberi noi e sollevare la creazione. Una pietà che si rispecchia nel mondo se è per il mondo la sola legge morale, ciò che può aprire gli esseri al tutto e quindi a dio stesso. Il verbo cristiano come suggello di una storicità priva di dio. Ma non era, in fondo, ancora una giustificazione della fede tradizionale, una teodicea per la gloria dell’imperscrutabile? Dunque neanche questo poteva bastare; dio sembrava sfuggire a qualunque termine. Tutto ciò che di umano, materiale o fantastico ardiva sfiorarlo era una parodia d’assoluto: parlare di dio è un sintomo di pazzia, questa tentazione ultima della ragione, questa salvezza illusoria – oppure è soltanto un gioco. Ironia, amore, pazzia: dio non può che essere oltre, trascendendo ogni dubbio e ogni credo – il dio che si perde, che non si potrà mai avere ma che, se non c'è, bisogna creare, poiché nessun fine può apparire degno di un universo se non è un fine divino. E non è questo che cerchiamo dal primo istante di vita? non è il ripetersi di un vecchissimo rito, di una immortale armonia, di quell’incontro di fede e di grazia che fu visto sempre come l’essenza del religioso e che potrebbe essere l'ultimo abbaglio o la spiegazione suprema? Che importa se la grazia è così sottile da non donare che un fuggente respiro e da consentire la ferocia del mondo, se neppure l’esistere, neppure l’essere può attribuirsi a dio? Proprio così si manifesta la sua assolutezza. Il fascino del mistero sembra travolgermi: anche se io sapevo che il mistero è soltanto un equivoco, un’inutile scenografia, che in esso è l’ignoranza di un ordine superiore e difficile da conquistare.
Dio non c’è: qualunque prova è risibile, qualunque definizione è sbagliata. Possibilità, desiderio, invenzione, fine, simbolo, sacrificio: le più alte figure di dio sono vane metafore. Qualunque cosa si possa pensare di dio, egli è dio solo a una condizione: di identificarsi con l’assoluto. Ma in tal modo egli svanisce di fronte a sé stesso,  a ciò che non si può né lodare e neppure pregare e che si appella a una fede più esile e più potente. L’assoluto non c’è, esso è solo la nostra assurda  ricerca, e questo lo avvicina a dio, a quella totalità inafferrabile, quella perfezione che viene incontro alla storia e ostinatamente le sfugge, quella certezza che si nega e rinasce dovunque, quell’ “è anche se non è” che rende intramontabile il fantasma divino scaturendo dal nulla, creando la sua verità. Sarà dunque qui il decisivo cimento, in questo che non è più un confronto fra dio e la storia ma fra dio e l’assoluto, cioè fra un assoluto umanizzato e aggraziato e un assoluto irraggiungibile e senza schermi. Forse è così che si mostra la benevolenza dell’assoluto, in questo atteggiarsi a dio e porgerci un soccorritore prezioso? o è il nostro ultimo inganno? Siamo noi che non osiamo negarlo, che da millenni volgiamo lo sguardo lassù e ci ostiniamo a chiamarlo dio, mentre è una semplice ombra, e noi dovremmo capire qual è il nostro errore se bestemmie e preghiere sono un solo rosario sgranato nella cella murata dei nostri cuori. Ma forse è proprio qui la sua giustificazione, se egli è al di sopra di favori e vendette e di ogni passione mistica o profanatrice, e noi possiamo pure chiamarlo dio, poiché i nomi sono tutti vani e sicura è soltanto quella vuota certezza, la sola che si può opporre al dubbio divoratore e che è la ragione del conforto che attraversa le nostre tragedie e può rendere gioia il dolore, se non qui più avanti, se non in me in altri cuori, alla fine nel fiammeggiante universo. Anche se un sentimento più mite sembra toccarci in questo riconoscimento finale, in questa fede e santificazione dell’irraggiungibile, in questo essere che non ha bisogno di essere e dio che non ha bisogno di dio: in cui splende qualcosa che la storia sembrava aver debellato per sempre superando le religioni e lasciandole ai barbari – quando essa ritorna, per quanto lucida e senza illusioni, a quel ritmo iniziale e a quella dolcezza mai obliata, ricongiungendo i popoli in un unico abbraccio con la resurrezione dei morti e una pietà che riecheggia intrecci remoti e armonie più antiche dei cori dell'Ellade.
Così, attraverso quest’universale ricongiungimento si scioglie l’orgasmo di un’estasi primordiale, quel bagliore che sferzò dapprincipio il nostro pensiero e che alla fine non è più che una fatua sopravvivenza, mentre sentiamo che la nostra brama è superflua, che l’assoluto vive della nostra illusione ed è questa che lo assimila a dio: una fede che non può tramontare perché  è sempre delusa ed è il respiro del tutto e la sua pace inviolata. Quella penombra, quel silenzio che redimono le religioni e alimentano la speranza di una futura rivelazione.

Anche se, fino all’ultimo istante, io potrò chiedermi se l’assoluto è davvero questo, o se prescinde da qualunque speranza del mondo, da qualunque immaginazione serafica, come la fiamma pura dell’essere o quello che disperatamente temiamo, abisso del nulla. Ma anche il nulla sarebbe: ed è la tua folgore, dio, la tua parola creatrice, che attraversa la tenebra e ride dei nostri sforzi e del nostro gracile amore. Quando nel nulla la tua esistenza è dimostrata per sempre.

 

Mario Cialfi

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