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Riflessioni in forma di conversazioni

Riflessioni in forma di conversazioni

di Doriano Fasoli

Interviste a personaggi della cultura italiana e straniera - Indice


La mente e il gesto

Conversazione con Giuseppe Ponzio
di Doriano Fasoli per Riflessioni.it

- luglio 2014

 

È da giovanissimo che Giuseppe Ponzio, in una terra che ne segna la nascita (una ex colonia italiana) ma che la drammaticità storica ne ha reso confusa l’appartenenza, si pone l’istanza fondamentale di come sia possibile tradurre in un oggetto lo spazio e il tempo.

Il vissuto esistenziale e la formazione di una identità culturale ricca di sovrapposizioni ed intersecazioni, di confini e dispersioni sono i territorio sul quale si dispiegano le costanti strutturali  del suo lavoro.

Giuseppe PonzioSovrapposizioni  o svolgimenti divengono il paradigma formale nelle opere di Ponzio dove i segni  traggono  origine dalla fascinazione visiva e calligrafica per gli  alfabeti, quello latino e quello   amarico (sillabico) dell’adolescenza e per gli ideogrammi cinesi della maturità.

Come presentare spazio e tempo è la domanda, come si diceva, che segna un percorso artistico costellato e al tempo stesso confortato da alcuni punti fissi che personalità e movimenti artistici del novecento (dal suprematismo russo al  minimalismo americano) hanno avuto il potere di illuminare.

L’amore per l’architettura (e la seguente formazione accademica) non è bastato ad arginare la pressione costante per la sperimentazione di altri mondi e modi espressivi.

La pratica professionale poi si è intrecciata fortunatamente e forse non a caso, con quella artistica attenuando nel tempo la conflittualità latente, in alcuni momenti lacerante, fra le due attività sino a individuare e maturare una possibile sintesi.

Sintesi duttile sempre pronta a ricomporsi facilitata anche dal realizzarsi dello sconfinamento auspicato (forse in modo ideologicamente ingenuo) ma reso oggi drammaticamente ineluttabile, degli ambiti disciplinari, pittura, scultura e architettura che la storia recente  celebra. Di tutto ciò l’operare di Giuseppe Ponzio si fa discreto, il cui linguaggio sembra in ultima analisi sfociare in un silenzio mistico, quel silenzio che è pienezza di ogni espressione e che conserva nel suo profondo spirito le tracce di un antico garbo.
Il complesso dei segni preliminari per lo sviluppo di un progetto, volto a definire spazi e funzioni si è mano a mano  sovrapposto, e viceversa, a grafemi dalle potenzialità alfabetiche o a tracciati  colti in modo automatico attingendo fra mente e gesto da un territorio arcaico, sempre presente, che spinge e si interroga su matrici e genealogie dell’universo oggettivizzante, perno di tutta la cultura occidentale.

L’avvertire come quest’ultima sempre pronta a collassare sui propri miti (razionalità e tecnica), saturante ogni residualità resistente e intravvedere  attraverso le crepe che necessariamente questo procedere totalizzante produce, corrispondenze fra i presupposti di alcune avanguardie artistiche novecentesche ed estetiche estremo orientali (non esplicitate abbastanza da una storia corrente), ha reso possibile una ricerca che pone come prioritaria ed eticamente necessaria “l’esperienza”, che non può essere altro che silenziosa, dello spazio e del tempo estranea, per quanto possibile, alla sedimentazione storica di un  pensiero astratto e aprioristico.

Il segno che non rimanda più ad una significazione, sia semantica sia di contorno alla figura ma che diventa paradossalmente superficie nel suo sovrapporsi, stratificarsi, addensarsi o rarefarsi e soprattutto libero di formare tracciati diventando campo seminato e trama quindi un segno non più utile a tracciare sul piano un rappresentazione (spazio illusorio) o comporre una scritto (spazio economico).

Giuseppe PonzioTessuto di segni  che funge come figura dialettica nel divenire come nello sottostare, nello svolgere  come nell’avvolgere coprendo o scoprendo in un’azione che permane in potenza in una dimensione atemporale, all’interno di uno  spazio fisico strutturato ( geometricamente elementare) che accoglie in molti dei lavori di Ponzio come possibile sintesi lo strumento del tracciare (stiletto, asta…) mantenendone sospesa l’azione come già avvenuta o futura, divenendo segno esso stesso.

C’è un “sutra” della tradizione buddista chiamato del “cuore” che recita di opposizioni fondamentali (… forma è vuoto, vuoto è forma…) che rimangono tali se colte da un pensiero concettuale discriminante ma che una lettura emancipata dalle proprie illusioni o convenzioni, può portare ad annullarle.

Questo sutra scritto con lo spirito di chi pratica la disciplina dello “shodo” (calligrafia orientale) cercando  la verità del segno come atto privo di intenzionalità egoica, affiora dai vuoti o si avvolge intorno ad aste o rulli di molti lavori di Ponzio come ad affermare l’indeterminatezza di ogni asserzione definitiva e dove scrivere e  leggere, contenuto e forma diventa un unico fenomeno che dialoga spazialmente, mantenendone l’apertura, con il processo di costruzione materiale dell’oggetto.

 

 

Ponzio, se dovesse definirsi, come si definirebbe?

Questa domanda potrebbe contenere il cuore di uno dei problemi in cui mi imbatto,  forse da sempre. Sarebbe facile riconoscere una definizione se utilizzassi  per esempio quella di ruolo. Ruolo che,  per essere definito, necessita,  di essere “riconosciuto”.  Io, in un continuo sconfinamento tra la formazione di architetto e quella più genericamente artistica, ho trovato un mio modo, credo riconoscibile nei miei lavori, di elaborare delle sintesi tra le due attività. Sintesi , di volta in volta, pronte a ricomporsi.

 

Come considera la creatività?

Ritengo che la parola creatività sia pericolosa e insidiosa , in un’epoca di scadimento qualitativo e diventa spesso la copertura e la ragione di troppa banalità. E’ molto impegnativo poter risalire alla radice originaria con cui l’individuo ha preteso di poter raffigurare, rappresentare, esprimere  qualcosa che,  pur sotto l’occhio di tutti,  non arrivava alla coscienza. Solo  in virtù di una trasfigurazione che potrebbe coincidere con la creatività, poteva essere immessa in  una  nuova visione del reale.  A qualcuno questo può essere riuscito in maniera naturale e spontanea, quasi un medium tra terra e cielo, ad altri solo attraverso l’elaborazione e la  manipolazione.

 

Quali culture entrano in gioco nella sua educazione artistica?

La mia  scoperta fondamentale dell’arte moderna  è legata a un libro ricco di immagini sulle opere di Picasso, acquistato nel periodo dell’adolescenza  in una libreria di Asmara, in Eritrea,  città dove i libri erano rari e costosi perché d’importazione e per le mie scarse disponibilità di ragazzo. Asmara era una  città dove la modernità era  pressoché  sconosciuta e si viveva in un tempo storico sospeso, seppur immerso  nella cultura locale e dove quello che accadeva in Europa arrivava in maniera idealizzata e mediata da un atteggiamento post-coloniale.
Il libro diventò un feticcio, sia come tale sia per le immagini che conteneva e  per quel tanto di africanità che Picasso aveva avuto il dono di interpretare e valutare. Dopo questo primo abbaglio, che dischiuse per me un mondo, l’interesse per l’arte divenne anche una risposta   alla solitudine di quel tempo. Solitudine esistenziale come la si può provare in una terra di confine, dove lo spessore del confine stesso assumeva una dimensione smisurata.
E’ in questa dimensione che gli alfabeti, quello latino e quello amarico, oltre ad affascinarmi nella loro calligrafica differenza riflettevano  quella condizione di limite, che era  in altre parole il non sentirsi né europeo né africano o sentirsi entrambi.

 

Nell’ambito artistico quali sono i suoi fondamentali punti di riferimento?

Come dicevo prima, l’abbaglio provato per le opere di Picasso e il successivo interesse per il linguaggio della modernità prima e della contemporaneità dopoha generato in me molti rivoli che si sono intrecciati e sovrapposti nel tempo, ma hanno fatto sì  che emergesse con più forza quello che poneva “un grado zero” della condizione artistica. “Grado zero” che  rifletteva forse,  anche in senso  psicologico,  un mio bisogno di comporre identità e appartenenza su un piano non  tradizionale.
“Grado zero”  che le avanguardie storiche hanno teorizzato facendomi privilegiare il suprematismo con Malevic, il neoplasticismo con Mondrian, l’arte concreta di Max Bill  e per finire quella di Ad Reinhardt e il minimalismo. Quindi un intreccio tra avanguardie e artisti di  segno positivo e non.  Oggetto principale dei miei lavori è quello di poter dare forma allo spazio-tempo e quindi per me è di rilevante importanza la concezione di Enrico Castellani e  di Francesco Lo Savio per lo spazio,  la finezza concettuale  per il tempo,  riflessa nella superlativa sapienza del disegno, di  Gino  De Dominicis.

Questi modi e personalità, oltre che farmi provare  tuttora grande soggezione e suggestione, rappresentano un tracciato ideale del  mio operare.

 

Quale significato assume per lei una mostra antologica?

Non trovo nessun particolare significato in una mostra antologica, se non quello di un registro, scelto da un curatore, in cui visualizzare, piuttosto che la storia dell’artista, la trasmigrazione di un’opera nell’altra. Naturalmente quando a una mostra antologica si presta molta cura.

 

Quale sentimento l’accompagna nel finire un’opera?

Penso a quello che si prova dopo aver assaporato un periodo di silenzio e di  estraneazione, più o meno lungo. Quindi riemerge il rumore di un affollarsi di domande e dubbi e un  intenso momento  di disperazione.

Il mio operare è fondamentalmente un processo costruttivo, una fase segue l’altra in un susseguirsi anche di sorprese e imprevisti fino ad arrivare a una conclusione, dove l’idea o intenzione iniziale se confermata o meno  diventa inessenziale.

 

Quando lavora ha in mente un pubblico?

No, perché come dicevo prima, il silenzio esclude naturalmente qualsiasi presenza o oggetto estraneo.

 

Un artista deve essere necessariamente colto?

No, credo che un artista più che essere colto debba saper cogliere, in qualche caso afferrare, ciò da cui è attraversato, alcune volte intuizioni rapide che lo riguardano oppure altre volte mettere insieme dati utili quasi a formare un programma. Metterei fra virgolette sia la cosiddetta ispirazione sia l’osservazione finalizzata.

Un artista dovrebbe essere a mio modo di vedere più che intelligente, innocente, meno che mai ingenuo. Ogni opera è un atto critico rispetto a quello che è convenzionale, ma al presente  le rotture che può provocare  vengono assorbite da un sistema onnivoro, che tutto oggettivizza e mercifica dilagando nella comunicazione performativa per conservare  soprattutto il senso della propria autoreferenzialità.

Perché  l’innocenza possa essere mantenuta integra deve essere sorretta da una consapevolezza di grado così elevato da apparire inedito nella storia dell’arte occidentale. Queste argomentazioni possono risultare ideologiche ma una possibile uscita da questa inevitabile circolarità è rappresentata per me dal pensiero orientale, che ha il potere  di porre al centro di ogni significazione l’esperienza, esperienza che non può essere universalizzata, ma compiuta in ogni esistenza individuale.

 

Qual  è o quali sono gli artisti che avrebbe  particolarmente voluto conoscere di persona?

Nessuno, in particolare.  Più in generale però vorrei conoscere tutti quelli che hanno prodotto opere per me significative, sapendo di correre il rischio che la conoscenza diretta dell’autore potrebbe influenzare, per coincidenze o divaricazioni, alcune intuizioni maturate  alla vista delle loro opere.

 

Particolari influenze filosofiche?

Non ho una particolare preparazione di carattere filosofico, come dicevo prima i miei studi e la mia formazione accademica e professionale è quella di architetto e devo confessare che molti testi filosofici sono per me di difficile comprensione però alcune figure di studiosi rivestono  particolare importanza per la mia ricerca. Di recente in modo preminente, quella di Carlo Sini il cui pensiero, a mio modo di vedere, e per quello che posso dedurre  è  aderente o ha a che fare con il mio operare artistico. Ritengo quelle di Sini le riflessioni  più appropriate ed importanti sulla  scrittura e il  segno e in questo senso consiglierei a chiunque il suo “Il sapere dei segni”.

Il pensiero di Sini, al di là di  una mia  lettura che può sembrare velleitaria, rappresenta un precipitato del  pensiero fenomenologico e del decostruttivismo di  Derrida, da sempre per me di grande suggestione. Concluderei, e qui  mi avventuro davvero in un campo minato, con il fascino aperto a nuove comprensioni per le attinenze e relazioni che intravedo tra la filosofia di Heidegger e  il pensiero orientale e in particolare con il buddismo giapponese.

Dal punto di vista dell’estetica ho una grande ammirazione per gli studi e il rigore di Mario Perniola e per  il fascino e le grandi sorprese che mi hanno riservato le analisi di Georges Didi-Huberman”.

 

   Doriano Fasoli

 

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