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Riflessioni in forma di conversazioni

Riflessioni in forma di conversazioni

di Doriano Fasoli

Interviste a personaggi della cultura italiana e straniera - Indice


La distanza del nome

Conversazione con Stefano Verdino
di Doriano Fasoli per Riflessioni.it

- giugno 2005
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Come lo “giudica” come romanziere? E come traduttore?
Viviani con Folle avena ha scritto più un testo di prosa, che un romanzo. Voglio dire che l’intenzionalità verso la lingua è simile a quella poetica del nome proprio, che si è già detta. Ciò a mio parere impedisce l’elaborazione del romanzo. Narrativa di meditazione, Folle avena presenta anche varie osservazioni di "poetica" soprattutto rivolte all'identità della lingua e al suo nesso con la
morte e la vita, cercandone una declinazione fuori dalla mimesi di un decorso solo esistenziale. Su questo versante questo atipico romanzo costituisce una tappa importante per il discorso di poesia, che viene a costituire un centro del desiderio e della realizzazione, anche nel quadro meditativo di questa prosa.
Come traduttore si è occupato solo di
Verlaine a più riprese. Significativa è la scelta di Verlaine e di un Verlaine meno frequentato rispetto alla sua stagione grigia, archetipo di tutta la poesia crepuscolare. Viviani predilige il Verlaine di eco rococò (alla Watteau) e lo considera, proprio in questa veste, il primo poeta moderno, perché in quel testo la poesia è il frutto di una impareggiabile mediazione tra il gusto della simmetria compositiva del settecento e del fuoco romantico.

Lei quando si avvicinò per la prima volta alla poesia di Mario Luzi?
La prima poesia di Luzi che lessi fu Dalla torre, da Dal fondo delle campagne. Era la primavera del 1970 e io avevo poco più di sedici anni. La lessi, a Genova, in un salotto, insieme ad alcuni coetanei, in un gruppo che si riuniva al sabato pomeriggio a casa di una non comune insegnante, Domenica Bifoli, che amava leggere e commentare testi di poeti contemporanei (quell’anno tocco a
Montale e a Luzi).
Quella poesia mi colpì molto. Ricordo ancora l’impressione del grande movimento di quella poesia e alcuni versi

 

“fila un solo destino in molte guise” e “voi murati
nella crosta di questo corpo luminoso”

 

furono come un’illuminazione. Offrivano la possibilità della carità, dell’essere insieme, della continuità della genia umana, anche nella morte e oltre essa. Tutto quel libro, Dal fondo delle campagne, era per me molto intrigante: vi trovavo anche il senso della civiltà contadina, da cui anch’io provenivo e che non aveva avuto voce nei versi italiani del novecento. Era una bella scossa e un’ottima integrazione con la personale scoperta di Eliot che facevo in quei mesi e che fu ed è tuttora il mio poeta prediletto.
Portai poi Luzi come autore contemporaneo al primo esame di Letteratura Italiana all’Università, nel giugno 1973. E mi capitò di vedere dal vivo e da vicino il poeta, vestito in beige, al Gabinetto Viesseux a Firenze, nei primi giorni di novembre del 1976, durante il convegno su
Aldo Palazzeschi (fu anche l’unica volta in cui vidi dal vivo Montale).

Perché gli ha dedicato, nel corso del tempo, un’attenzione così particolare?
Fin da quella mia scelta universitaria Luzi mi sembrò un poeta decisivo, tra quelli allora al paragone (anche per l’esame) ed erano
Quasimodo, Gatto, Sereni e Fortini. Con Luzi al suo fianco per me ci sarebbe poi stato Caproni, che scoprì nel 1975, quando uscì Il muro della terra, un’altra rivelazione. Luzi e Caproni, nella mia mente, hanno sempre formato un dittico imprescindibile. Sono due poeti simili e opposti, due poeti filosofi e non lirici, due diverse mosse della lingua, una desiderante verso il pieno, quella di Luzi, una ischeletrita verso il vuoto. Due poeti a loro modo speculari, grandi anche come persone.
Probabilmente, nel rigetto (naturale) della generazione dei padri, che per me erano i Novissimi, di rimbalzo c’era il fascino dei nonni, come per generazione letteraria potevano essere Luzi e Caproni.
Varie circostanze poi mi “fissarono” su Luzi, alcune di carattere personale. Chi conosce Mario, sa bene del suo temperamento inesauribilmente giovanile, dei suoi modi ancora da ragazzo, che lo fanno un perenne coetaneo di un giovane. Così fu per me, quando entrai in consuetudine con lui dopo averlo conosciuto personalmente ad un convegno di poeti italiani (tra cui Sereni, Zanzotto, Fortini, Giudici, la Rosselli) e americani, curato da Mandelbaum, Scheiwiller e Annalisa Cima, che si tenne a Genova nell’aprile 1980. Io curavo negli stessi giorni per il Comune di Genova una serie di Incontri con i nuovi poeti e ricordo bene che un incontro (quello con Milo De Angelis e il gruppo di Niebo) era concomitante con i giorni del convegno italo-americano. Al mattino invitai Luzi, con cui parlavo per la prima volta, a parteciparvi, lui ringraziò, ma non poteva assicurarmi della presenza (per di più in un luogo diverso della città).


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