Riflessioni in forma di conversazioni
di Doriano Fasoli
Interviste a personaggi della cultura italiana e straniera - Indice
Il terapeuta in gioco
Conversazione con Valter Santilli
di Doriano Fasoli per Riflessioni.it
- aprile 2014
Valter Santilli, medico e psicoterapeuta, didatta presso la Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Relazionale (IIPR) e presso la Scuola di Specializzazione in Ipnosi Clinica e Psicoterapia Ericksoniana, è tra i fondatori della Società Italiana Milton Erickson (SIME). Ha pubblicato, per le edizioni Carabba, il volume Il terapeuta in gioco, con sottotitolo: Tra arte, letteratura e psicoterapia. Un libro piuttosto intrigante, una sorta di romanzo di formazione professionale e personale. Il titolo del libro rimanda alle due dimensioni, pubblica e privata insieme, della psicoterapia e del gioco.
Santilli, puoi spiegare meglio il significato a cui allude il titolo del libro?
Se dovessi interpretare il titolo del mio libro direi che suggerisce certamente un doppio significato: da una parte il terapeuta che si mette in gioco professionalmente e personalmente; e dall’altra il terapeuta che, in questo caso, vuole rimanere in una dimensione giocosa pur volendo trattare di temi importanti, sia personali, sia professionali. Nel prologo chiarisco il mio desiderio di aver voluto mantenermi, nello scrivere e comporre il libro, in una sorta di spazio transazionale winnicottiano, un tipo di esperienza vantaggiosa in cui i confini tra realtà e immaginazione rimangono sfumati. Un assetto mentale, quindi, in cui la soggettività prevale, a scapito forse del rigore analitico che sarebbe necessario per opere più ambiziose.
A proposito di «immaginazione»: uno spazio rilevante del volume è dedicato all’arte e alla letteratura. In particolare, un capitolo intero è dedicato a La figlia di Iorio, l’opera pittorica di Francesco Paolo Michetti e la tragedia pastorale di Gabriele d’Annunzio…
Questo capitolo del libro è realmente frutto di questa dimensione ‘giocosa’, in cui le mie personali origini si intrecciano con alcuni significati di quella pittura e di quella tragedia che mi è sembrato di aver intuito. Sono quindi partito dalla singolare genesi delle due opere d’arte, così come venne narrata da Gabriele d’Annunzio. Magicamente questa genesi evoca i luoghi delle mie origini: l’ambientazione agreste di entrambe le opere d’arte richiama un luogo in particolare, Tocco da Casauria, il mio paese di origine, dove nacque il pittore Francesco Paolo Michetti.
Quindi questo tema della «genesi delle due opere d’arte» e delle tue «personali origini si intrecciano». Sviluppi quindi una narrazione in cui anche tu sei partecipe e coinvolto…
Ciò che viene elaborato artisticamente, con diversa sensibilità ed espressione artistica, dai due autori è un tema primitivo e ‘scandaloso’: dal punto di vista antropologico, psicologico e culturale nel senso più ampio. L’input drammatico è per i due artisti una ‘scena’ a cui passivamente avrebbero assistito, che prefigurava lo stupro di una giovane donna da parte di un gruppo di uomini, mietitori stagionali, abbrutiti dalle dure condizioni ambientali in cui a quel tempo erano costretti a svolgere il loro lavoro. La scena, secondo il racconto che ne fa d’Annunzio, sarebbe avvenuta non in una desolata campagna, ma sulla piazzetta del paese. Non ho avuto difficoltà ad immaginarla – descritta in maniera così scenografica dallo scrittore – proprio in quel luogo preciso: una scena piuttosto traumatica. Per cui è stata necessaria anche per me una sorta di elaborazione attraverso la scrittura. Questa mia elaborazione ‘scritta’ rimanda ad un «gioco» in cui, come un’amica e collega, Giuliana Polenta, mi ha fatto notare, «l’oggetto artistico diventa terapeutico e la terapia vorrebbe farsi arte.»
A proposito di scene traumatiche: nel breve saggio sul caso Pierre Rivière compare anche una interessante intervista al filosofo Michel Foucault, l’autore del dossier sulla Memoria di Pierre Rivière, presa dal web e tradotta…
Michel Foucault è un autore molto presente nel mio libro, molto citato anche nel breve capitolo del libro dedicato ai sogni, dopo la lettura della sua intervista che feci mentre stavo ancora lavorando al libro, centrata proprio sul dossier Pierre Rivière. L’intervista venne fatta in occasione dell’uscita del film di René Allio, nel lontano 1976, ispirato appunto al lavoro di Foucault, un film originale e bellissimo che ha nel titolo proprio l’incipit della Memoria: «Moi, Pierre Rivière, ayant ègorgè…» Dopo quella lettura, la mia ipotesi interpretativa del ‘caso’ mi sembrò non avesse più molto valore. Dal momento che Foucault, in quella intervista, piuttosto perentoriamente afferma che nessuno avrebbe potuto dire di più e in maniera esplicativa su quella tragedia familiare – meno che mai gli esperti, criminologi e «strizzacervelli» – più di quanto non avesse già detto e scritto in maniera esplicativa l’autore stesso del crimine, attraverso la sua Memoria. Non potevo non tenere conto di questo autorevole monito, apparentemente irritante, ma intellettivamente molto stimolante: per cui ho dovuto modificare il mio punto di vista. Così, partendo proprio dalla Memoria di Rivière, da quanto l’autore di quel crimine ci ha trasmesso in termini di conoscenza di quel brutale fatto di sangue… Attraverso le notizie attinte dalla Memoria ho allargato il mio campo di osservazione speculativa. Mi sono interessato a quanto Pierre Rivière scrive nella sua Memoria di reo confesso sulla sua famiglia, in un’ottica intragenerazionale e transgenerazionale. Ho sviluppato così una sorta di ‘romanzo familiare’ che, a me sembra, possa dare un contributo di chiarezza e di attualità a quel tragico evento in senso clinico, senza voler nulla togliere alla bellezza letteraria e alla straordinarietà storica di quel documento.
Nel tuo lavoro compare un capitolo dedicato a «Ipnosi e ipnotismo» e alla pratica clinica della ipnosi, attraverso la descrizione di casi clinici…
Descrivo alcuni casi clinici in cui sono state determinanti, nel percorso di psicoterapia, l’uso di tecniche ipnotiche e l’induzione di una trance ipnotica. L’utilizzo quindi della ipnosi ericksoniana: un moderno uso della ipnosi, terapeutica e profondamente etica, in cui la dimensione inconscia della relazione paziente/terapeuta è tenuta in grande considerazione e impone al terapeuta di essere attento e rispettoso delle persone in trattamento. L’utilizzo e lo studio della ipnosi nella clinica, secondo i principi ericksoniani, hanno portato ad uno sviluppo piuttosto sofisticato di certe tecniche, ormai molto distanti dall’approccio autoritario che nell’Ottocento Charcot, il grande clinico che riabilitò l’ipnosi nel mondo medico dell’epoca, aveva con le sue pazienti dell’ospedale Salpêtrière di Parigi. Freud stesso, pur avendo una grande stima di Charcot, ebbe modo di criticare – trovandolo eticamente e clinicamente discutibile – quel modo autoritario di indurre l’ipnosi nelle pazienti isteriche della Salpêtrière. L’ipnosi ericksoniana aiuta a superare alcuni importanti ostacoli che spesso si frappongono in un processo di psicoterapia. Paradossalmente, a volte mi è capitato (e nel libro viene descritto un caso) di dover lavorare perché il paziente uscisse da uno stato di trance ipnotica indotta naturalmente e inconsapevolmente da familiari emotivamente vicini… In quel caso la trance ipnotica era realmente inibente e perniciosa!
È interessante, nel libro, il racconto dell’incontro, a cui poi è seguita una intervista-conversazione, con il prof. Giovanni Jervis…
Nel libro descrivo narrativamente, dal mio punto di vista, gli aspetti umani degli incontri con Jervis. E viene riportata l’intervista che feci – già pubblicata sulla Rivista di psicoterapia relazionale – in cui Jervis, rispondendo a mie sollecitazioni, parla, come fossimo in conversazione, di temi ampi e vari: psicoterapia e psicoanalisi, modernità e post-modernità, e altro ancora. Per me fu una sorta di lezione magistrale su argomenti ancora attuali e di grande interesse clinico e culturale. Giovanni Jervis è stato, culturalmente e professionalmente, un importante riferimento anche in senso generazionale, un moderno illuminista rigoroso, animato da una grande passione civile.
Nel libro, ed esplicitamente nel Prologo, vi è appunto un riconoscimento alle persone e ai personaggi che hanno contribuito alla tua formazione professionale e personale…
A parte i maestri fondatori che sono la base del mio assetto terapeutico (Sigmund Freud, Donald Winnicott, Milton Erickson), ho avuto la fortuna di aver potuto conoscere personalmente, negli anni della mia formazione, seguendo dei seminari clinici (e in alcune occasioni da ‘dietro lo specchio’ della stanza di supervisione), alcuni grandi clinici di terapia familiare. Due in particolare, Carl Whitaker e Mara Selvini Palazzoli, hanno lasciato una impronta significativa nel mio modo di fare e di concepire la psicoterapia. Poi naturalmente sono stati determinanti i maestri che direttamente hanno curato la mia formazione: Camillo Loriedo, che è stato il mio primo maestro e mi ha introdotto allo studio e alla pratica della ipnosi clinica ericksoniana (Loriedo è attualmente uno dei clinici più accreditati a livello internazionale per quanto riguarda l’insegnamento e le applicazioni della ipnosi ericksoniana); Wilma Trasarti, didatta della Scuola di Formazione, che è stata la voce italiana di Carl Whitaker, nei seminari da lui tenuti per diversi anni in Italia: Wilma ha tradotto e traduce tutt’ora quello che Whitaker ha lasciato di scritto. Per quanto riguarda il campo analitico, sono riconoscente a Lucio Russo e a Sarantis Thanopulos, che, in ruoli e funzioni diversi, mi hanno introdotto in quel mondo, arricchendo molto e in maniera significativa la mia formazione, sia personale sia professionale. In questa riconoscenza vi sono naturalmente anche aspetti personali che vanno oltre la dimensione limitatamente professionale. E nel libro accenno a tante altre persone, pazienti e amici, che hanno alimentato il mio desiderio di scrivere.
Ne Il terapeuta in gioco sono numerosi i riferimenti a storie personali e a personali memorie di vita…
Questo chiarisce meglio uno dei significati del titolo del libro: nel periodo in cui stavo concludendo la stesura del libro, ho perso mio padre. Mi è sembrato naturale e necessario che io scrivessi anche di questa esperienza di perdita, sebbene trasposta narrativamente. Devo riconoscere che in questo modo ho usato il libro come un veicolo per inviare una lettera piuttosto intima indirizzata ad amici e parenti.
Doriano Fasoli
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