Discorsi di Dharma
di Geshe Gedun Tharchin
Insegnamenti del Venerabile Lama Geshe Gedun Tharchin, Lharampa. Incontri, lezioni e scritti su Dharma, Meditazione e Buddhisimo.
Il Karma
- Settembre 2018
Risulta fondamentale approfondire il discorso sul Dharma: il Dharma definitivo è quello che si chiama Nirvana. Quest’ultimo può essere considerato come la fine della sofferenza; il dharma quindi è la somma via per arrivare alla liberazione. Esso non è altro che l’insieme di tutti i mezzi che portano alla liberazione, all’illuminazione: lo studio, l’ascolto e la contemplazione. C’è un altro termine in sanscrito che prende il nome di Abhidharma, e cioè la suprema realizzazione della natura. L’Abhidharma è la diretta comprensione, il sublime apparire della definitiva consapevolezza dei fenomeni. L’Abhidharma è quello che noi chiamiamo il supremo Dharma e cioè il mezzo ultimo per arrivare al Nirvana. Studiando il termine Dharma ci accorgiamo che possiede diversi significati. All’inizio, per cominciare ad apprenderlo, dobbiamo studiare ciò che è in relazione con esso e tutto quello che dobbiamo fare per collegarci al supremo, all’ultimo Dharma. Quando parliamo del Dharma vuol dire che abbiamo a che fare con ciò che ci può condurre alla liberazione dalla sofferenza, alla liberazione dal Samsara.
Samsara e Nirvana sono due entità molto distinte: il Samsara è il caos; il Nirvana è uno stato mentale di realizzazione in cui ogni cosa è chiara e limpida e non vi è più confusione alcuna. Il fatto che stiamo cercando il Nirvana vuol dire che siamo in uno stato di disordine. I mezzi per uscire da questo stato e raggiungere la realizzazione, la chiarezza, che è invece il Nirvana, sono chiamati con il termine Abhidharma.
L’Abhidharma è l’estrema realizzazione della vacuità, è la somma percezione della realtà, è la definitiva comprensione della reale natura delle cose. Il percorso è lineare: il Samsara, l’Abhidharma e poi il Dharma, ovvero il Nirvana.
Dal momento che stiamo nel Samsara, e cioè nella confusione, cerchiamo di comprendere e di studiare l’Abhidharma. Questo è il livello convenzionale dell’Abhidharma; diverso è il livello ultimo cioè quello della reale comprensione della vera natura delle cose. Quindi, quello che chiamiamo l’Abhidharma convenzionale, che è correlato con l’Abhidharma tradizionale, sono tutti i mezzi per raggiungere quello definitivo. Tali mezzi sono lo studio e la contemplazione, ed entrambi ci permettono di capire la natura della realtà.
In questo momento viviamo nel Samsara indipendentemente dal fatto che siamo Buddha, Arhat o Bodhisattva e vogliamo fuoriuscire dal esso. I mezzi che ci permettono di fare ciò sono correlati all’essenza del Karma.
Viviamo nel Samsara a causa del Karma. La volontà di uscirne implica che vogliamo cambiare il nostro Karma.
Per Karma intendiamo il nostro lavoro personale, l’azione concreta da intraprendere. Tutto ciò che succede nel Samsara dipende dal Karma. A volte ci domandiamo come è possibile che tanti eventi siano prodotti da esso, e questo è difficile da immaginare.
Il Buddha ha detto che comprendere i livelli ed i funzionamenti sottili del Karma è più difficile che comprendere il concetto di vacuità. Inoltre, ha anche affermato che tutti gli esseri supremi, Bodhisattva e Arhat, possono aver realizzato i concetti della vacuità, ma come funziona la vacuità e comprendere i sottili livelli del Karma, può farlo solo Buddha. Quindi, non possiamo aspettarci di capire tutto quello che riguarda il Karma, sarebbe impossibile. Farò comunque del mio meglio per cercare di spiegarlo.
Come possiamo comprendere che ogni evento è prodotto dal Karma?
Innanzitutto partiamo dalla sua definizione. Secondo i testi classici tibetani è uno stato della coscienza.
Esistono, a tal proposito, due livelli mentali: uno è la mente temporanea, e cioè la mente che appare e scompare, l’altro è la mente principale.
Il Karma è collegato alla mente secondaria o temporanea, cioè a quella mente che con un termine occidentale potremmo definire «volatile».
Per esempio, la rabbia appartiene alla mente secondaria e non a quella primaria perché non siamo perennemente arrabbiati, mentre questo stato mentale appare o meno a seconda delle circostanze.
Ciò non vuol dire che se non siamo arrabbiati abbiamo abbandonato la rabbia: questa è dentro di noi, nel sottosuolo, come se stesse in uno stato di sopore.
Questa è una caratteristica della mente temporanea, che, appunto, appare e scompare, a seconda del manifestarsi degli eventi.
La mente secondaria può essere meglio compresa come processo d’intenzione.
L’intenzione accompagna ogni funzione mentale ed esistono cinque stati generatori: il primo è la sensazione, il secondo è la concezione, il terzo è l’intenzione, il quarto è l’ispirazione e infine il quinto è il contatto.
Questi cinque stati onnipresenti sono quelli che accompagnano ogni funzione mentale.
Per quanto riguarda la sensazione, ne possiamo distinguere tre tipi: piacevole, non piacevole e neutra.
Per quanto attiene alle intenzioni possiamo dire che ogni azione che viene intrapresa è sempre accompagnata da intenzioni, da motivazioni. Anche gli stati mentali positivi come la comprensione e la benevolenza sono accompagnati da questi stati mentali.
Persino quelli negativi come la rabbia e l’odio rispondono a tale meccanismo di funzionamento. Anche quando siamo arrabbiati c’è sempre un’intenzione dietro la nostra rabbia. Nell’intenzione c’è l’aspetto principale di quello che chiamiamo Karma.
Da un punto di vista psicologico è abbastanza chiaro come si crea il Karma. Se per esempio diamo del denaro a dei mendicanti per strada questo crea un buon Karma, ma come avviene ciò? Esso nasce dalla buona intenzione che motiva la mia azione.
Come esempio possiamo portare un aneddoto storico. Ashoka è stato un re indiano dell’antichità molto illuminato e chiamato il re del Dharma perché impostava le sue scelte politiche secondo gli insegnamenti del Buddha e secondo la legge del Dharma. Era un re molto ricco, buono ed apprezzato. Si racconta che quando il re era bambino e vide il Buddha passare per strada rimase molto colpito dalla sua figura e, non avendo nulla da offrirgli, gli diede una manciata di sabbia con la quale stava giocando sulla riva del fiume. Le sue qualità mentali e la sua positività discendevano anche da quel piccolo gesto. Quale fu l’intenzione del bambino in quel momento? Quella di far felice il Buddha. Il piccolo re aveva visto questa figura di monaco che lo aveva reso molto felice e quindi voleva ricambiarlo pur non avendo nulla da offrire. L’intenzione apparsa in quel momento ad Ashoka lasciò una forte impronta nel suo io, quell’impronta gli ha consentito di crescere e gli ha fornito le condizioni per far germogliare un buon frutto.
Dedicarsi alla spiritualità è molto più importante che dedicarsi agli aspetti materiali della vita.
Il Buddha fa l’esempio del seme di sesamo che è molto piccolo ma che può produrre un grande albero. Lo stesso vale per noi: una piccola intenzione positiva può produrre grandi cose.
Quindi è chiaro come sia possibile produrre un buon Karma. Non è una credenza cieca o qualcosa a cui dobbiamo attribuire una simile connotazione. Il Karma positivo crea risultati positivi, il Karma negativo crea risultati negativi.
Ci sono quattro caratteristiche del Karma:
la prima è la certezza, è certo che un Karma positivo crea un risultato positivo e viceversa;
la seconda è che non sperimenteremo alcun tipo di Karma che non sia stato creato da noi stessi; la terza caratteristica è che se creiamo un Karma positivo o negativo questo non scomparirà, non andrà perduto;
la quarta caratteristica è che un piccolo Karma positivo può generare un grande frutto.
Queste quattro caratteristiche del Karma sono la base dell’insegnamento del Buddha, che si può condensare in tre semplici versi: fare del bene, non fare del male e cercare di addestrare la mente.
È molto semplice perché se qualcuno fa qualcosa di negativo sperimenterà risultati conseguenti, il risultato della cattiveria è la sofferenza, il risultato della bontà è la felicità. Gli accadimenti, sia positivi che negativi, dipendono dalle nostre intenzioni e, quindi, dal Karma.
Cercare di addestrare la mente, di dominarla, vuol dire indirizzare le nostre intenzioni, rivolgerle al positivo. Quindi, nel verso che dice di «non fare cose malvagie» Buddha condensa tutto il suo insegnamento che riguarda l’etica (sila). Se si dimora nella moralità, nell’etica, sarà impossibile compiere azioni negative.
Il primo verso dice: «Fai cose buone, fai del bene» in quel verso è sintetizzato l’insegnamento del Buddha per quel che riguarda la concentrazione (samadhi).
La principale sostanza della concentrazione è la consapevolezza mentale. Se qualcuno vigilerà con consapevolezza, farà del bene.
Quando perdiamo la nostra consapevolezza agiamo in maniera errata.
Il terzo verso dice «Cerca di dominare la tua mente». In quel verso è focalizzato l’insegnamento del Buddha per quel che concerne la saggezza (prajna), nel senso di sviluppo delle qualità positive. Così, saggezza significa cercare di determinare ciò che è giusto e ciò che non lo è. Noi commettiamo degli errori perché non abbiamo una visione chiara. Al contrario, se possedessimo una comprensione univoca di ciò che è positivo e di ciò che è negativo ci asterremmo dal commettere errori.
Bisogna dunque possedere una solida base fondata sull’etica, essere radicati nella moralità, e sviluppare la concentrazione. Una volta che si è ottenuta la moralità e la concentrazione si sviluppa la saggezza.
Nell’insegnamento del Buddha sono molto famosi i cinque precetti fondamentali. Radicarsi nei cinque precetti va inteso come evitare di essere coinvolti nella negatività. Inoltre, ci sono le dieci azioni virtuose e le dieci azioni non virtuose, e queste a loro volta sono suddivise in tre categorie: le azioni verbali, quelle fisiche e quelle mentali.
Le azioni principali sono le mentali, dalle azioni positive o negative di tipo mentale scaturiscono quelle fisiche e, infine, quelle verbali.
Geshe Gedun Tharchin
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