Discorsi di Dharma
di Geshe Gedun Tharchin
Insegnamenti del Venerabile Lama Geshe Gedun Tharchin, Lharampa. Incontri, lezioni e scritti su Dharma, Meditazione e Buddhisimo.
I tre livelli di pratica del Dharma e gli otto Dharma mondani
- Illuminare la via che conduce all’illuminazione - Ottobre 2016
Oggi ci dedicheremo all’approfondimento del significato della parola “Dharma” in modo da poterlo praticare con sempre maggior consapevolezza. Non è un termine tibetano ma appartiene alla più antica cultura indiana e a tal proposito è interessante osservare come nel passato vi siano stati numerosi contatti tra le culture dell’antica Grecia e dell’India, in particolare al tempo del re Asoka, nel 270 a.C., tanto che i greci avevano tradotto “Dharma” con “buona condotta”, “buon cuore”.
Il Dharma rappresenta un fenomeno fondamentale nell’arricchimento della nostra umanità. Noi siamo sempre alla ricerca di una chiara definizione del Dharma perché intuiamo che in esso vi è un senso profondissimo. Da dove viene? come possiamo personalizzarlo?
Il Dharma è una “bontà universale” che da sempre è parte dell’esistenza stessa e, dunque, nella nostra esperienza umana dobbiamo essere in grado di coglierne tutto il significato, esso è ciò che dà il senso alla nostra vita ed è possibile assimilarlo completamente in noi stessi, non considerandolo più come se fosse una realtà esterna, solo attraverso la sua comprensione totale e profonda.
Il Dharma non appartiene a un dato luogo, istituzione o individuo, è semplicemente qui. Non possiamo neppure riceverlo dal maestro, né compralo in un negozio, possiamo solo essere qui cercando, insieme, di comprenderne l’essenza universale e familiarizzare con essa.
Con la presenza del Dharma nel cuore diventiamo persone più calorose, sensibili, gentili, ma quando ce ne allontaniamo siamo strumenti in balia delle nostre emozioni. Dovremmo imparare ad osservare in noi stessi la diversità della nostra esperienza quando viviamo nella presenza del Dharma e quando invece agiamo al di fuori di esso.
Questo metodo chiarisce molto bene la realtà del Dharma e la sua influenza nella vita, perché, altrimenti, ne avremmo solo una conoscenza teorica, intellettuale, limitata ad un livello superficiale.
E’ necessario procedere nel sentiero che porta alla comprensione del Dharma per fasi ordinate e susseguenti; il primo passo consiste nell’ascoltare, leggere e studiare, poi dobbiamo riflettere su quanto udito e studiato e, infine, possiamo contemplare.
Tale gradualità evita che ci si fermi ad una conoscenza intellettuale ma fa si che se ne abbia una reale assimilazione nell’esperienza. Questi tre gradini sono fondamentali e, anche se all’inizio è sufficiente studiare in maniera superficiale, è però sempre necessario procedere alla successiva fase di riflessione e di contemplazione.
Concluso questo primo approccio si riprenderà lo studio e sarà interessante osservare come esso ci sembrerà molto diverso, arricchito di elementi che prima non avevamo colto; si completerà dunque il secondo ciclo con le fasi della riflessione e della contemplazione, e così di seguito. Seguendo con costanza questo metodo il Dharma penetrerà sempre più profondamente in noi.
Pensare di comprendere il Dharma nella sua interezza in un solo istante, sin dall’inizio, è pura illusione ed è un grande ostacolo purtroppo molto frequente nella società occidentale, è invece importante il modo con cui si osserva il Dharma. Se si affronta il suo studio con ammirazione e ottimismo esso produrrà più frutti e risultati, se invece lo si affronta con un atteggiamento critico e negativo il tutto diverrà più complesso, irto di ostacoli e lo studio richiederà molto più tempo.
E’ necessario accostarsi alla meditazione, al Dharma, con atteggiamento mentale positivo, sereno, privo di aspettative, evitando di caricarlo di peso eccessivo evitando di trasformarlo in “troppo” perché, anche se il Dharma è una cosa buona, il “troppo” è sempre sbagliato. I due ostacoli sono dunque l’eccessiva aspettativa e il coinvolgimento esagerato, ed è fondamentale evitarli entrambi. Se invece si riesce a mantenere la giusta misura in ogni tipo di realtà essa diverrà automaticamente positiva; ad esempio una sostanza potente può essere nel contempo un veleno pericoloso che però, se assunto in giusta dose, può essere una preziosa medicina. Se non si ha la giusta misura anche la realtà migliore, il Dharma, diventerà un veleno trasformandosi in “non-dharma”.
Non bisogna dunque avere fretta, non è una corsa, si deve procedere con un passo adeguato alle possibilità del momento ed è questo il metodo più veloce per sviluppare le proprie qualità interiori. Non si deve nemmeno pensare che aver a che fare con il Dharma sia qualcosa di molto facile, è, al contrario, arduo e difficile perché la motivazione che richiede il Dharma è diametralmente opposta alle tendenze abituali, definite nei testi buddhisti: “gli otto Dharma mondani”.
Uno di questi otto riguarda la “gratificazione dell’ego”: se gli altri ci lodano e ci rispettano ci sentiamo felici ma, al contrario, quando ci rimproverano o non ci rispettano siamo profondamente infelici. Se le persone parlano bene di noi siamo veramente contenti, se però dicono cose poco piacevoli sul nostro conto sprofondiamo nella prostrazione. Altrettanto se riceviamo regali e gratificazioni, o ci sentiamo dimenticati e frustrati, il nostro umore cambia radicalmente. Questo comportamento è veramente infantile, immaturo.
E’ interessante la storia che racconta di uno yogi tibetano che si era isolato per meditare, però per sopravvivere aveva bisogno del sostegno dei devoti che regolarmente venivano a trovarlo; un giorno, in attesa del loro arrivo, mise una particolare cura nel pulire l’altare e nel prepararlo, però realizzò che la motivazione per cui si dava un gran daffare era un Dharma mondano, voleva l’approvazione dei suoi amici, e poiché questo era un impedimento, prese della terra e la gettò sull’altare. Praticare il Dharma puro era già duro a quel tempo, ma per noi è quasi impossibile perché radicalmente opposto alla nostra attuale tendenza, non dobbiamo dunque avere l’aspettativa di diventare praticanti puri, dobbiamo accontentarci di piccoli ma progressivi passi. La storia dello yogi tibetano ci dimostra comunque che il Dharma dipende esclusivamente dalla motivazione interiore e non dall’apparenza esterna. Quando l’altare era bello e pulito non vi era Dharma a causa della motivazione egoistica, rivolta all’apparenza, ma lo è diventato quando l’altare è stato sporcato perché in quel momento la motivazione è stata purificata. Il gesto di gettare la terra ovviamente non era diretto contro l’altare, ma contro l’io, contro l’attaccamento all’io. Tutti gli otto Dharma mondani si basano sull’io in tutte le sue forme ed espressioni; ogni problema, sofferenza, difficoltà che sperimentiamo quotidianamente deriva da questo attaccamento all’io.
Ogni sofferenza nasce dall’attaccamento all’io. Un tempo si seguiva un sentiero indicato dal Buddha, cercando di esserne coerenti con semplicità, oggi invece amiamo molto disquisire sottilmente se si tratta di psicologia buddhista o di filosofia buddhista, mostrando cultura e capacità dialettica, forse, ma la realtà è sempre e solo una: prima c’è l’attaccamento all’io da cui deriva il senso del mio - il mio nome e tutto ciò che mi riguarda è mio. Poi subentra l’apparenza esterna, le azioni esterne che di per sé non hanno nulla di bene o di male, ma che diventano fortemente condizionate dall’attaccamento all’io e al mio.
La sofferenza o la felicità provocata dalle azioni esterne non dipende da esse in quanto tali ma dalla loro radice, dalla loro base. Se la radice affonda in un terreno avvelenato anche i frutti saranno velenosi, se invece affonda in buona nutriente terra i frutti saranno ricchi di sostanza e questo è il principio del Dharma. Ogni giorno ripetiamo la stessa routine, ripetiamo le stesse azioni, ma la gioia o l’infelicità che da esse deriva dipende esclusivamente dalla loro radice, dalla motivazione.
Nell’attività quotidiana, nel nostro lavoro, a volte abbiamo successo e altre no perché ciò è parte naturale del ritmo dell’esistenza, non possiamo cambiare i fatti in assoluto positivo o negativo, però abbiamo piena libertà “nell’intenzione” e, anche quando tutto pare andare estremamente male, possiamo sempre mantenere un’intenzione buona conservando la serenità con attitudine ottimistica, in questo modo il principio dharmico è in grado di modificare i nostri rapporti nell’ambito dl lavoro. Ci sono dunque due livelli, quello esteriore del lavoro, della mente del lavoro, e quello interiore della mente del Dharma che può essere considerato come il nostro vero sé. A livello esterno dobbiamo gestire le situazioni che si presentano a seconda delle condizioni rispondendo di volta in volta ad esigenze diverse, mentre a livello interno manteniamo la calma e la serenità mentale. La presenza del Dharma funge un po’ da climatizzatore in grado di regolare gradevolmente la temperatura, così quando ci troviamo in un ambiente frenetico e stressante, o siamo ammalati, il Dharma mantiene il livello interiore costantemente calmo e sereno, è una realtà spirituale parte della nostra vita e dobbiamo mantenerne la presenza nel cuore sempre, anche quando stiamo dormendo. Questo è il metodo migliore per aver cura di noi stessi, sia psicologicamente che fisicamente.
Il titolo dell’insegnamento di oggi “Illuminare la via che conduce all’illuminazione” si riferisce ad un testo di Atisha, maestro indiano che svolse un ruolo fondamentale nella seconda diffusione del buddhismo in Tibet quando vi giunse nel X° secolo. Egli compose molti testi e tra questi “La Lampada della via dell’Illuminazione” che è un riassunto di tutti gli insegnamenti del Buddha, e di tutti gli insegnamenti del Dharma, perché il Dharma esisteva anche prima del Buddha, ma solo il Buddha era in grado di presentarlo. Per questo lo scritto di Atisha conosciuto anche come “Il sentiero che conduce all’illuminazione” o “Lam-rim” è il compendio di tutti gli insegnamenti del Dharma e di tutti gli insegnamenti del Buddha storico. Atisha presenta il Dharma in tre livelli:
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il primo è l’atteggiamento mentale, il desiderio, di fare del bene per realizzare situazioni mondane, per la vita;
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il secondo è l’atteggiamento mentale, il desiderio, di raggiungere la liberazione, il Nirvana;
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il terzo è l’atteggiamento mentale, il desiderio, di realizzare l’illuminazione.
La pratica del Dharma non ha dunque un unico scopo, ed è necessario procedere con gradualità. Il primo obiettivo, come abbiamo visto, è quello di appagare i desideri mondani, le bontà mondane. E quando ad esso subentra fortemente il desiderio di liberazione, di Nirvana, facciamo un passo avanti passando al secondo stadio. Nel terzo stadio infine, non solo siamo usciti dal Samsara, ma abbiamo potere ed energia per aiutare gli altri.
Le tre fasi sono consequenziali, prima di poter aiutare gli altri dobbiamo saper realmente aiutare noi stessi e ciò significa aver costruito solide basi e condizioni. Non si può raggiungere immediatamente la piena illuminazione perché essa dipende dalla liberazione individuale, la quale a sua volta dipende dalla bontà mondana. Tutti e tre gli scopi devono essere realizzati uno dopo l’altro. E’ dunque evidente che ogni cosa buona in questa vita, nel samsara, non è in contraddizione con il Dharma, è parte di esso, il problema però sorge dal fatto che la nostra tendenza abituale non corrisponde a nessuno dei tre livelli.
La prima pratica del Dharma consiste nel cambiare questa nostra tendenza abituale in modo da poter entrare nei tre stadi consequenziali. E’ necessario imparare ad osservare le proprie tendenze abituali, che corrispondono agli otto Dharma mondani, ponendole a confronto con i tre tipi di Dharma in modo da essere in grado di averne una distinzione molto chiara. In genere ci aspettiamo molta felicità dagli otto Dharma mondani e in realtà ne ricaviamo sempre e solo sofferenza, per questo è così importante distinguerli nettamente dai veri atteggiamenti dharmici. Questa è la situazione molto complessa della nostra vita nel samsara.
L’aspettarsi che dicano sempre cose belle di noi non è una semplice aspettativa ma è l’espressione di un forte attaccamento al sé che procura ansia, tensione, agitazione, sofferenza. L’attaccamento al sé ci devia, non ci permette di comprendere la verità e la sofferenza che ne deriva non è un qualcosa di esterno a noi, indipendente, ma è collegata alla nostra interiorità. Noi fatichiamo moltissimo per concretizzare il nostro attaccamento al sé e crediamo che questo sia il modo con cui appagare i nostri desideri, in realtà il nostro vero desiderio è assolutamente diverso, è il suo esatto contrario, è l’essere liberi da ogni attaccamento al sé.
Presupposto che sarebbe stato troppo complesso spiegare tutto il sentiero che conduce all’illuminazione, Atisha ne ha sintetizzato l’essenza presentando i tre livelli di Dharma con la raccomandazione di cominciare a lavorare, non per soddisfare il proprio attaccamento all’io ma, al contrario, per soddisfare i veri desideri.
La gradualità è importante, nessuno creda di poter accorciare i tempi saltando il primo obiettivo concernente la soddisfazione dei buoni bisogni mondani, perché solo dopo averlo realizzato è possibile passare alla seconda fase di intensificazione del proprio lavoro al fine di ottenere la liberazione dall’attaccamento al sé e quindi la liberazione del nirvana e, finalmente, poter raggiungere il desiderio puro di voler aiutare gli altri con l’ottenimento della piena illuminazione. E’ dunque necessario percorrere interamente i tre stadi evolutivi, perché se si pensa di essere già pronti ad aiutare veramente gli altri si incorrerà in grandi e diversi ostacoli e problemi. Non serve disperarsi e piangere di fronte alla sofferenza altrui se non si hanno gli strumenti e le capacità necessarie per aiutarli veramente e ciò è possibile solo quando si è purificati e pronti per il terzo livello.
Non è nemmeno facile liberare sé stessi completamente dall’attaccamento all’io, perché prima è necessario appagare i bisogni mondani e solo in seguito alla loro soddisfazione sarà possibile praticare il Dharma superiore.
Atisha descrivendo il primo livello consiglia di appagare le necessità che condizionano la nostra vita in questo mondo.
Domanda: Allora noi dobbiamo avere prima di tutto una vita soddisfacente per poter accedere al secondo livello? E come si fa a sapere quando la vita è soddisfacente realmente e non è solo l’illusione della rincorsa di un proprio desiderio?
Risposta: Nessuno ti può dire se sei completamente soddisfatta. Solo tu puoi saperlo con la motivazione interiore dell’equilibrare i bisogni e ciò significa accontentarsi, saper gioire. Se non sappiamo accontentarci, anche se possedessimo tutto il mondo non sarebbe sufficiente, non potremmo essere soddisfatti. Essendo capaci di accontentarsi invece saremo contenti e soddisfatti con ciò che abbiamo e non desidereremmo null’altro; ad esempio se io ho quest’orologio e ne sono contento non ho desiderio di possederne altri, di doverne cercare altri.
Domanda: Quindi una cosa fondamentale forse è quella di essere coscienti dei propri limiti, perché se io pretendo di essere diverso da quello che sono senza averne le capacità chiaramente sarò infelice tutta la vita, ma se prendo atto dei miei limiti posso essere contento con ciò che ho.
Domanda: La nostra società in effetti ci condiziona pesantemente; è significativo l’esempio dell’orologio perché noi perdiamo il senso della funzione della cose, in effetti quello che abbiamo soddisfa pienamente il nostro bisogno di conoscere l’ora, ma se lo vogliamo d’argento, o tempestato di diamanti, considereremmo l’orologio insufficiente, quindi credo che quando tu parli di soddisfare i bisogni ti riferisca soltanto ai bisogni primari quelli reali, un tetto, degli abiti e del cibo, tutto il resto è un desiderio in più.
Risposta: Il primo livello è riuscire a guadagnare le cose di cui si ha bisogno per vivere in questo mondo senza recare danno agli altri, e questo ci darà soddisfazione e piena contentezza. Se non abbiamo questa capacità è impossibile raggiungere la liberazione o la piena illuminazione. Se non siamo capaci a cucinare il nostro cibo, come possiamo pensare di essere capaci di fare le altre cose più complesse.
Il modo di presentare il Dharma da parte di Atisha è molto bello:
Nel primo stadio siamo in grado di guadagnarci le cose senza avere attaccamento all’io.
Nel secondo livello utilizziamo queste condizioni come un mezzo per raggiungere la liberazione dal samsara ed entrare nel nirvana.
Avendo dunque raggiunto la capacità di liberarci dal samsara potremo essere di aiuto agli altri. Questo è il ciclo completo del pieno Dharma.
Insegnamento tenuto all'Istituto Lamrim/Fondazione Maitreya di Roma, nel 2004
Geshe Gedun Tharchin
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