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Riflessioni sull'Esoterismo

di Daniele Mansuino   indice articoli

Nauru

Aprile 2008
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Mi resta ancora da parlare del terzo italiano, il signor Paolo C. di Catania, che non era un uomo ma un mito. Bisogna sapere che i Nauruani, come tutte le popolazioni del Pacifico, hanno dei fisici bestiali, e il lavoro di Paolo era allenatore di sollevamento pesi. Capitato a Nauru per un cambio di volo, vide dei ragazzini che giocavano ad alzare sassi sulla spiaggia; scelse di perdere l’aereo, e pochi anni dopo uno di quei ragazzini (di nome Marcus Stephen) diventava campione del mondo.

Quando arrivai io, l’eco di questo successo era ancora fresca. C’erano sull’isola quindici palestre di sollevamento pesi, e Paolo C. aveva più potere del Presidente.

Fino a che punto i Nauruani abbiano talento per questo sport lo scoprii un pomeriggio che il termometro a muro segnava trentanove; io mi sentivo troppo fiacco perfino per sollevarmi dalla stuoia, attraversare la strada e buttarmi in mare.

Sdraiata accanto a me, Eruita leggeva un giornale. A un certo punto mi disse: “voglio andare a trovare i miei cugini in Nuova Zelanda.”

“E quando pensi di andarci ?”

Con un gesto brusco mi porse il giornale. Diceva: “Campionati del Pacifico di sollevamento pesi – Auckland 1997”.

“Ah, ho capito” le dissi: “vuoi andare a vedere i campionati di sollevamento pesi”.

“No” mi rispose: “voglio andare a vincerli.”

Dopo queste parole la mia metà posò il giornale, si alzò dalla stuoia e uscì. La vidi entrare nella palestra che c’era lì di fronte. Aveva trent’anni, e non aveva mai fatto sport per un solo giorno in vita sua; quel pomeriggio, a trentanove gradi, cominciò ad allenarsi.

Quando tornai da lei nel 1998 era tutto uguale, salvo che su una parete della nostra stanzetta c’era una mensola coperta di coppe e medaglie. Non era riuscita a vincere i Campionati del Pacifico ma era arrivata seconda, ed era la sesta nelle classifiche mondiali della sua categoria.

L’avessi portata in Italia, coi mezzi che abbiamo qui, sarebbe diventata la Fiona May del sollevamento pesi. Ma Eruita, come la maggior parte dei Nauruani, a emigrare non ci pensava proprio: non avrebbe cambiato con tutte le ricchezze del mondo la miseria e la libertà della sua isoletta. Se io volevo fermarmi da lei ero il benvenuto, altrimenti ciascuno a casa sua.

Tornai in Italia, e per nove anni non ci scrivemmo. Ma una sera di luglio del 2006, davanti alla TV, proprio nell’attimo in cui gli Azzurri alzavano verso il cielo la Coppa del Mondo ebbi un flash: anche Eruita sta guardando la televisione in questo momento. Sta pensando a me e mi scriverà.

La lettera arrivò. Diceva che le mancavo, mi invitava ad andarla a trovare.

Decisi di andare nelle ferie estive del 2007. Questa volta avevo deciso di fermarmi al Meneng Hotel, lo stupendo mega-galattico albergo costruito dai Nauruani ai tempi della loro ricchezza (adesso è sempre bello, ma la gestione è quella di una pensioncina); se guardate con Google Earth, lo troverete all’angolo sud-orientale dell’isola.

Dall’hotel, procedete verso sinistra lungo la strada che fiancheggia la costa sud; dopo qualche centinaio di metri c’è un piccolo promontorio triangolare, e sulla sua destra, nella seconda fila di case soprastrada, ce n’è una con un albero presso l’angolo in alto a sinistra. Con Eruita, io vivevo lì.

Ci arrivai a piedi dall’albergo, verso le nove del mattina, pensando di farle una sorpresa. La sua famiglia infatti mi accolse con gioia e affetto, ma lei non c’era e non ci sarà più. Quando mi aveva scritto la lettera stava ancora  bene, ma pochi mesi dopo le avevano diagnosticato un tumore, e a febbraio se n’era andata.

Furono poi otto giorni di mare, con un tempo assai bello. L’intera costa est di Nauru (distretto di Anibare) è costituita da candide spiagge del tutto deserte, e quando alla sera il sole scende dietro il crinale dell’altopiano sembra vicinissimo, al punto di poterlo toccare.

Le serate le passavo con L., una sorella di Eruita con cui ho avuto sempre un ottimo rapporto. L’ultima sera decidemmo di celebrare la mia partenza trascorrendo la happy hour al bar dell’hotel, ma non era la serata adatta: erano tutti molto indaffarati, perché sul prato antistante la vetrata il Presidente stava offrendo un rinfresco a degli ospiti stranieri.

Ce ne stavamo lì a sorseggiare le nostre VB guardando il Presidente, quando in un attimo il cielo diventò nero. Ancora un attimo e venne giù un rovescio d’acqua tremendo, causando un fuggi fuggi generale di Presidente e ospiti dentro al bar.

Non so perché, questa cosa mi fece venire in mente il voodoo, e raccontai a L. dei miei viaggi a Santo Domingo e della mia iniziazione.

Lei era sorpresa. “Eruita non me ne ha mai parlato” osservò.

“Non mi sorprende” risposi: “lei era contraria…”. Le raccontai di come si fosse opposta alle mie ricerche, che d’altra parte non avevano sortito alcun risultato. Mi capitò anche di citare Maria, la mia amica antropologa, con cui alla fine mi ero trovato d’accordo nel concludere che la tradizione magica di Nauru era andata perduta.

“E’ stata proprio Maria” continuai “a regalarmi il mio primo libro sul voodoo… e adesso, dopo nove anni, eccomi qui di nuovo, e sono un maestro voodoo. Tutto questo deve avere un senso, ma quale?”

“Te lo dico io il senso” esclamò L. con uno strano sorriso. “S., il fratello mio e di Eruita, è uno stregone.”

A questa frase inattesa, pronunciata in un tono particolare, sentii uno schiocco nelle vertebre del collo. Poco prima, mentre parlavo, avevo sentito crescere dentro di me una strana agitazione e avevo dato la colpa al brutto tempo. Invece, ecco: per la seconda volta durante i miei viaggi nel Pacifico (la prima volta era accaduto durante l’incontro con il tino faivelakau), il mio punto d’unione stava di nuovo salpando le vele.

Non fu un’esperienza spettacolare come quella volta a Tuvalu: durò soltanto alcuni secondi, e i fenomeni furono modesti. Percepii fisicamente, se così si può dire, il punto d’unione portarsi al margine della posizione della realtà oggettiva, e invece di allontanarsene girarci intorno pigramente, mentre davanti ai miei occhi ruotavano vortici di colori.

Fu come se l’ignoto avesse voluto mandarmi un segnale: dopo più di dieci anni si era riaperto il contatto con i miei fratelli, gli sciamani del Pacifico. Come ho già avuto modo di spiegare, non si tratta di una società segreta che abbia un nome: io li chiamo quelli del mana, ma il nome non ha nessuna importanza.

Dopo quei pochi attimi che mi sembrarono molto lunghi, riaprii gli occhi. Mi ritrovai nel frastuono del bar affollato, pigiato da ogni parte da distinti signori di colore in giacca e cravatta che si asciugavano con i tovaglioli, imprecando contro la pioggia. Protesa verso il mio orecchio, L. – che non sembrava essersi accorta del mio mancamento - mi stava raccontando dei poteri di suo fratello.

Non mi sento autorizzato, almeno per ora, a svelare i dettagli di un’arte che non è mia: dirò solo che si tratta di tecniche sconosciute, indubbiamente mai trattate per iscritto finora né dagli etnologi né dagli studiosi di esoterismo.

Nei miei soggiorni precedenti non avevo conosciuto questo fratello perché era emigrato su un altro atollo per lavoro. A quei tempi, non si occupava di magia. Ma dopo il ritorno a Nauru, un vecchio stregone abitante sulla costa nord lo prese come apprendista, e in breve tempo imparò assai bene. Solo da pochi anni si è messo a far riti per terze persone, guadagnandosi una certa fama.

L. disse di avermelo presentato la sera stessa del mio arrivo. Allora me lo ricordai: un uomo massiccio dalla faccia seria, una specie di versione nauruana dell’attore Claudio Amendola. Non ci avevo fatto molto caso, salvo per il fatto che mi era sembrato nervoso.

“Sì, era nervoso” mi confermò L.: “appena tu sei arrivato, è andato in una specie di trance, e ha mormorato: he does magic like me. Io gli ho detto che si sbagliava, ma adesso vedo che aveva ragione.”

Le domandai se pensava che sarebbe stato disposto a insegnarmi. Rispose che gli avrebbe chiesto e mi avrebbe informato con una lettera, che sto ancora aspettando. Ma la cosa non mi preoccupa molto: che la lettera arrivi o non arrivi, ho ripreso il contatto e non intendo lasciarmelo sfuggire.

Dopo il mio rientro a casa, secondo le istruzioni di L. ho disposto sul mio altare voodoo un piccolo frutto sferico raccolto sulla spiaggia di Anibare: una specie di ghianda nota a Nauru come petyò. Questo serve per ritornare.

Non credo che andrò nel 2008: non posso permettermi un viaggio così costoso tutti gli anni. Andrò nel 2009, se gli dei di Nauru lo vorranno, e al ritorno vi racconterò come è andata.

 

Daniele Mansuino

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