Le Finestre dell'Anima
di Guido Brunetti indice articoli
C'era una volta… il medico
Giugno 2016
La figura del medico, insieme con la medicina, chiamata “arte lunga” o “arte’ della cura”, ha una storia antichissima. Comincia dalla mitologia terapeutica degli dèi d’Olimpo ai guaritori e sciamani dell’antico Egitto e della Babilonia, attraversa il sapere medico greco-romano e medioevale e giunge alla “rivoluzione terapeutica”, alla biotecnologia e alla genetica dei nostri giorni.
Nei poemi omerici, la malattia è interpretata come “vendetta divina” dovuta ad una colpa dell’uomo. Anche nella Bibbia, la patologia è attribuita al castigo divino. L’arte di guarire, la iatrèia, attraverso i rimedi - dal latino mederi, medicus - trova consistenza nelle teorie di Ippocrate, le quali rappresentano il monumento più alto dell’antico sapere medico.
L’età contemporanea è contrassegnata da un progresso scientifico-tecnico sempre più rapido e inarrestabile.
Alla rivoluzione terapeutica dei farmaci e dei vaccini (antibiotici, psicofarmaci) e alla rivoluzione delle macchine diagnostiche si aggiunge la rivoluzione anagrafica (longevità). Tutto ciò - come sottolinea il medico e storico della medicina, Giorgio Cosmacini, nel suo libro “La scomparsa del medico. Storia e cronaca di un’estinzione” (Raffaello Cortina Editore) - ha generato “un cambiamento di rotta” del ruolo del medico con ricadute negative sul suo rapporto con il paziente. Un cambiamento traumatico. La medicina moderna ha acquistato in tecnologia quel che ha perduto in “umanità”.
La ripetuta esigenza di “umanità” e “umanizzazione” della medicina contiene un vistoso paradosso: quello di dover rendere “umano” ciò che umano, e soltanto umano, dovrebbe essere per “statuto e definizione” e che invece si ammette essere “scaduto” a “disumano” qual è una cura stravolta in “incura”. Un medico insicuro determina una medicina del silenzio, una barriera calata tra medico e paziente.
La perdita del senso di umanità viene sempre più percepita dalla popolazione e anche da molti medici. Medici che appaiono frustrati, ansiosi e ansiogeni, insicuri e dunque aggressivi, non affabili, rigidi, scostanti, algidi. Meccanismi di difesa per rimuovere le minacce al proprio equilibrio psico-emotivo e per controllare ansia e angoscia. Medici privi di quella bonomia, serenità, affabilità e tensione umana, qualità che sono qualità fondamentali, i primi fattori, alla base della stessa cura.
L’antico rapporto interpersonale è stato sostituito con troppa disinvoltura da un insieme di tecniche, le quali sono estremamente utili, ma che prescindono dalla “cultura intersoggettiva” e dal modello relazionale sui quali si deve costruire il rapporto terapeutico.
“C’era una volta…il medico”. Che portava con sé valori considerati un patrimonio “irrimediabilmente” perduto. “L’onesta e garbata faccia del dottore di famiglia… L’umile, povera, misconosciuta figura del medico condotto, accompagnata - scrive E. Shorter - da una profonda coscienza affettiva e buono a tutto fare”.
Oggi - rileva con grande amarezza e rimpianto Cosmacini - il “dottore” non c’è più. Una figura benemerita di medico che è entrata in “dissolvenza, consumata, consunta, talora superstite in qualche sconosciuto esemplare”.
Con la rivoluzione tecnologica e farmocoterapica, il medico ha iniziato a porre “in secondo piano” gli aspetti relazionali con i pazienti, e fatalmente - come notò già nel 1953 il maggior clinico italiano del tempo, Cesare Frugoni - “diminuiscono i contatti fra curanti e pazienti”. Si è verificata una “svolta antropologico-medica” propria di una professione che gradualmente “rinuncia” alla propria vocazione “umanologica”.
Alla crisi del medico si accompagnano la crisi della medicina e la crisi della formazione universitaria “largamente carente” sia dal punto di vista didattico che da quello della ricerca (Stropeni). La medicina dunque come “grande malata” erosa anche dalla gravità di una “crisi morale”.
Ecco un altro grande paradosso. Con l’avvento degli antibiotici, delle tecnologie biomediche e delle superspecializzazioni, il mondo della medicina ha visto susseguirsi ed embricarsi le tre crisi: della formazione, della professione e della cultura medica.
Sta di fatto che il crescente impiego di tecnologie conduce - ha scritto uno studioso americano, M.G. Field - alla “incapacità” da parte del medico di soddisfare i bisogni tradizionalmente attesi di “conforto, rassicurazione, affetto, cura, soccorso, affabilità” che il sofferente, carico di ansia e paure, “esige” nel corso della malattia. Spesso poi medici che si atteggiano a scienziati considerano l’approccio tecnologico l’unico modo di rapportarsi al paziente, trasformando le tecniche in “tecnicismo” e la specialità in “specialismo”. E’ l’ideologia scientifica che esclude la comprensione della realtà soggettiva, antropologica, del malato e che ha poco da spartire con l’originaria téchne ippocratica fondata sull’“occhio clinico”, il “tatto del medico” e il “dialogo” con il paziente realizzato secondo la maieutica socratica. La tecnica è un mezzo e non un fine. Il fine ultimo o primo è il paziente, la persona, la quale è costituita di corpo (macchina), ma soprattutto di psiche e mente (anima, coscienza, pensiero).
Il medico, formato da una pedagogia che privilegia la tecnica, contribuisce ad “erodere” la qualità umana del rapporto di cura ed è “ridotto” a “burocrate”, a “somatologo”, al tecnico del corpo scisso.
In un nostro colloquio pubblicato sul “Corriere Medico” (24 febbraio 1989), lo scrittore Nantas Salvalaggio ci confermò lo stesso concetto: “il paziente diventa un motore e il medico un meccanico”. Il medico invece dovrebbe essere – aggiunse - un “incrocio” tra un confessionale e una radiografia. Per guarire “non basta la scienza, ci vuole anche l’anima, la disponibilità umana, la componente relazionale, la capacità di comunicare. E’ la dimensione morale dell’educazione medica messa in luce da molte ricerche, la quale esige l’acquisizione di un bagaglio di “qualità” e “valori” al centro dei quali ci sono i bisogni della persona.
Il rapporto medico-paziente deve essere connotato da un processo di empatia. Come mostrano recenti studi di neuroscienze, l’empatia e i neuroni specchio attivano infatti le medesime aree cerebrali sia in chi “patisce” (il paziente) sia in chi “compatisce” (il medico).
Per uscire da una crisi della quale i medici odierni non sono sempre consapevoli e superare quella che è stata definita la “disumanizzazione” della medicina (Rugarli) c’è bisogno di una “rivoluzione antropologica e culturale”: scienza, tecnica, ma anche “saper essere”. La vera riforma è l’avvento di un nuovo umanesimo capace di esprimere quei valori già sottolineati duemila anni fa da Galeno, il quale proponeva una medicina caratterizzata dal triplice modello di medicus amicus, medicus gratiosus e medicus philosophus.
Gli ambienti medici e ospedalieri sembrano parte di un mondo che non ha più nulla di “familiare”, di “domestico”, di “riconoscibile”. Essi devono essere luoghi di umanità e umanizzazione, dove non ci sia arroganza, ma professionalità, rispetto, educazione, disponibilità e gentilezza, a partire dai portantini agli infermieri ai medici ai primari.
Il sonno dell’umanità genera mostri, talvolta irrazionali e goffi, ma sempre terribili.
Guido Brunetti
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