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Cultura e Società - Problematiche sociali, culture diverse.
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Vecchio 02-02-2004, 18.08.48   #21
visechi
Ospite abituale
 
Data registrazione: 05-04-2002
Messaggi: 1,150
L'uomo è un animale sociale nella misura in cui, per dare qualità alla propria vita, avverte la necessità di creare i presupposti per facilitare l'incontro con i propri simili. La condizione di solitudine, se protratta nel tempo o coincidente con la durata dell'esistenza, è innaturale; per essere qualitativamente accettabile deve scaturire da una scelta, solo così risulta compatibile con la vita, ma è comunque un atto che in una qualche misura produce una forzatura rispetto alla propensione a vivere in socialità. In questi casi d'isolamento cercato e procurato, la scala delle priorità è stravolta: quasi sempre si crea un rapporto in cui il soggetto apicale con cui si entra in relazione risulta essere la trascendenza, altre volte il mal interpretato orgoglio, quindi sé stessi (emblematici i casi di isolamento fra i combattenti nipponici all'indomani della sconfitta del '45). Nel caso non sia conseguente ad una scelta, si traduce in un'aberrazione che genera disfunzioni abbastanza serie nella sfera emotiva, affettiva e nella psiche in genere. Su questo argomento pare che gli studi sul comportamento siano sufficientemente concordi.
Perché accade questo? L'uomo ha a sua disposizione un intero universo, con questo interagisce quotidianamente. Questa interazione continua consente l'emersione di alcune difficoltà, non gestibili proficuamente in una condizione d'isolamento. La socialità dell'uomo è una caratteristica ancestrale dell'uomo, che risale alla notte dei tempi, e che rende palese il vantaggio che si ottiene dalla gestione comune dei problemi e dalla suddivisione delle difficoltà, determinato dalla spartizione dei compiti. E' probabile che l'avvento della caccia sia stato lo scaturigine di questa propensione, probabile pure che la necessità di trasferire, con una buona dose di certezza, i propri geni alla discendenza abbia giocato un ruolo preminente nei confronti della propensione alla socialità. Forse, questa attitudine si è generata proprio da questa necessità che a sua volta è indotta dalla biologia umana. L'assenza di estro nelle femmine umane, per cui queste sono feconde e in condizione di trasmettere il patrimonio genetico alla discendenza praticamente per tutto l'anno, e non solo in determinati periodi che agevolerebbero una vigilanza limitata nel tempo, ha determinato la necessità di vivere a costante contatto con chi è unica trasmettitrice del genoma del maschio… insomma, una semplice e complessissima faccenda di vigilanza del partner e cura della discendenza. La socialità nascerebbe dunque per effetto di un imprimatur genetico, ma, posto che siamo anche dei grandi costruttori di cultura, si tradurrebbe poi in mirabolanti costrutti culturali. Il gene nasce predisposto (egoismo del gene), ma impara anche, plasmando la propria intima struttura, modellandola così in base agli stimoli provenienti tanto dal proprio interno, quanto dalla cultura, a rispondere nel modo più consono alla preservazione e trasmissione del proprio patrimonio. La socialità, se le cose stessero davvero così, sarebbe insito a livello embrionale nella genetica umana e si svilupperebbe, nel corso dei millenni, grazie alle continue, confacenti e vantaggiose risposte fornite nel corso della continua interazione con il mondo circostante. Anche il resto delle emozioni e dei sentimenti sottostarebbero a questa regola… almeno pare. Sarà crudo, sarà poco romantico, ma penso possa essere così.
Ne consegue che la socialità sia un elemento inscindibile dell'animale uomo.

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