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Vecchio 11-12-2013, 16.40.47   #11
maral
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Riferimento: Qual è il senso del vero nome delle cose

Sì Aggressor, questa è una via esplicativa che oggi appare evidente: ossia A) prima sperimentiamo la cosa, ne facciamo uso e da questo uso ne diamo il nome. Ma si potrebbe anche scegliere la via opposta: B) quando appare il nome questo, se è il vero nome suggerisce l'uso proprio della cosa. Non credo che su base logica si possa asserire un percorso anziché un altro. Forse ogni cosa ha in sé il suo nome che si rivela nel momento in cui diventa per l'altro e dunque per sé.
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Vecchio 13-12-2013, 15.10.35   #12
0xdeadbeef
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Riferimento: Qual è il senso del vero nome delle cose

@ Maral
Rispondo al post d'apertura (poi magari mi dirai che i miei rilievi sono stati affrontati nelle altre risposte).
Io trovo che si possa separare il nome da ciò che esso indica, ma sempre con la consapevolezza dell'estrema
problematicità di tale separazione (ti rimando anche al mio dialogo con Aggressor nell'altro post).
La semiotica, a mio parere, affronta la questione nel modo "corretto" (non solo essa, ma è essa che, trovo,
sviscera l'argomento in maniera chiara e congrua).
Secondo Peirce, già il solo pensare equivale a nominare (questa riflessione di Peirce mi sembra davvero
importante). Questo vuol dire che il "nominato", diciamo, "in sé" si pone assolutamente fuori da ogni tipo
di conoscenza possibile, perchè ogni tipo di conoscenza possibile è una sintesi del nominato e del nominante.
La semiotica parla di conoscibilità "orizzontale", cioè di una conoscibilità che può solo partire dalla
"orizzontalità" dei significati attribuiti ai significanti, cioè che può solo partire dalla sintesi di
nominato e nominante (in verità Peirce parla anche di conoscenza "verticale", ma a mio avviso lo fa non discostandosi
dai concetti kantiani e heideggeriani circa la "trascendentalità").
Notevole trovo la distinzione che fa Eco circa l'oggetto "gnoseologico" e quello "cosmologico", con il primo
che, solo, può essere oggetto di conoscenza (in quanto sintesi di nominato e nominante). Mentre il secondo,
dice Eco, essendo l'oggetto "in sé", è un qualcosa di cui "tutto può essere detto" (qui mi ricollego ad un
mio vecchio post su Eco, che afferma la verità come "ciò che si dice").
ciao
(se ti interessa sono in possesso di un documento di Carlo Sini in cui si parla diffusamente di questi argomenti).
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Vecchio 14-12-2013, 12.21.07   #13
maral
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Riferimento: Qual è il senso del vero nome delle cose

La mia posizione Oxdeadbeef è che la cosa e il nome che le è proprio sono due essenti diversi, ma mai separabili in quanto solo l'uno nell'altro trovano il senso compiuto che viene a determinarli. Nell'esempio del paradosso di Berry il nome del minore numero naturale nominabile con non meno di trentatré sillabe può dunque essere "il minore numero naturale nominabile con non meno di trentatré sillabe", ma lo è senza contraddizione solo in quanto essente diverso (nome a sua volta nominabile) da ciò che nomina (numero da esso nominato). Ogni cosa trova dunque se stessa proprio nella differenza dal nome che gli è proprio (differenza tra diversi essenti che si implèicano a mezzo di essa) e quindi il paradosso non è un paradosso, ma una allusione alla verità a mezzo di una contraddizione che fa apparire la verità.
Giustamente dunque Eco distingue tra oggetto di conoscenza e oggetto in sé, ma l'oggetto in sé appare come l'oggetto che è solo attraverso un venir messo in rapporto al nome che esplica la funzione dell'oggetto per sé (il suo essere costantemente per sé e non solo in sé). Questo rapporto non è arbitrario, altrimenti non solo nulla dell'oggetto tenuto isolato nella sua inseità potrebbe mai apparire, ma anche dire qualcosa di qualunque cosa non potrebbe che essere un dire il falso, un voler dire nulla.
L'in sé isolato non solo è fuori da ogni conoscenza possibile, ma è pure fuori da ogni esistenza possibile, essendo originariamente e concretamente ogni in sé anche per sé.
Certamente mi interessa sapere cosa Sini ci dice in merito a questo argomento.
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Vecchio 15-12-2013, 16.04.24   #14
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Riferimento: Qual è il senso del vero nome delle cose

@ Maral
Certo, la "cosa" e il nome (non che le è proprio, trovo, ma che le viene attribuito) trovano senso compiuto
solo nella sintesi di nominato e nominante. Tuttavia, credo, questa separazione è possibile (è possibile
problematicamente, solo considerando la cosa come "assenza").
Whitehead diceva (il documento di cui ti dicevo - http://riviste.unimi.it/index.php/no...view/1908/2161
- da cui poi dovrai scaricare il pdf): "sono veri questi tavoli e queste sedie oppure queste danze di
elettroni?". Ovvero, dice Eco: "io incontro qualcosa da interpretare secondo certi livelli di pertinenza e
di interesse, ma questo qualcosa deve essere dato alla nostra interpretazione come un "primum": ciò da cui
non si può non partire né prescindere".
Ora ti chiedo: questo "primum" di cui parla Eco è solo inconoscibile (e qui concordo) o è anche "inesistente"?
Ovvero, rifancendomi a quanto si chiede Whitehead, sono "inesistenti" gli oggetti che a noi appaiono come
tavoli e sedie mentre al microscopio appaiono come insiemi di elettroni? E che significa "esistere"?
Eco, riferendosi a Wittgenstein (cose che troverai nel documento), arriva ad ipotizzare che i tavoli e le
sedie e gli insiemi di elettroni siano cose diverse. Ma lo siano, appunto, dal punto di vista "gnoseologico",
cioè del soggetto agente "in atto", e non da quello "cosmologico, cioè dell'infinito potenziale.
Il problema dunque, per come io lo vedo, è lo stabilire se l'oggetto cosmologico "c'è", ove questo "c'è" è
da me inteso alla maniera cui Levinas intende "l'essente senza essenti", cioè l'elemento che c'era prima della
comparsa del primo interpretante, e che ci sarà anche dopo la scomparsa dell'ultimo di essi (ciò che, tempo
addietro, definivo "infinito freddo ed inconsolatorio").
ciao
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Vecchio 15-12-2013, 18.56.09   #15
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Riferimento: Qual è il senso del vero nome delle cose

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Originalmente inviato da maral
Qualche esperto linguista potrà confermarlo ma mi pare che l'evoluzione delle lingue sembri proprio andare nella direzione di una progressiva semplificazione astratta dei suoi termini che si accompagna a una progressiva perdita in capacità descrittiva e a una diminuente complessità grammaticale e formale.
Può essere che si perda una capacità descrittiva da cui l'antica e dettagliata complicazione delle lingua.
Il fatto è che le lingue moderne, dovendo esprimere concetti sempre più complessi e onnicomprensivi, devono farsi sempre più efficaci nell'esprimere tali concetti e quindi sempre più astratte: non possono perdersi, ad esempio, ad esprimere il concetto di "bianco della neve" con 30 o 40 modi diversi come pare sia nella lingua Inuit...per quanto, suppongo, i vocaboli componenti la lingua Inuit stessa siano probabilmente assai meno dei nostri.

Dopo tutto le lingue antiche non esprimono concetti astratti come "entropia" o "quantità di moto", od "obsoleto", ecc... di cui noi abbiamo bisogno.

Questa corsa verso l'astrazione (assieme coi concetti da esprimere) sarà un bene o un male?

Io credo sia semplicemente un sopperire alle esigenze che si presentano di cui le lingue diventano sempre più capaci.

Ultima modifica di ulysse : 15-12-2013 alle ore 19.38.44.
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Vecchio 15-12-2013, 19.18.00   #16
ulysse
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Originalmente inviato da paul11
L'argomento è vasto e bisogna vedere Maral cosa ti proponi.
Mi limito a dire che Wittgenstein scrive che la forma logica è isomorfa alla struttura della realtà, le proposizioni sono infatti analoghe a immagini e i nomi che la costituiscono hanno come significato gli oggetti che costituiscono la realtà.Alle regole fisse della logica ,sempre Wittgenstein, dice che si contrappone la problematica di come gli umani costituiscono la loro pratica del seguire regole e di come nno si siano date una volta per tutte.

Si intuisce del perchè Wittgenstein nella sua seconda fase utilizzerà i giochi linguistici e si occuperà del linguaggio popolare.

Un nome, è un suono, un'immagine una scrittura e varia negli idiomi .

Mi sentirei di dire che i nomi e in definitiva i linguaggi seguono quella plasticità che è alla fonte cioè il cervello: definiscono per conoscere e strutturare conoscenza ,ma creano anche.
Mi pare di concordare!
Nonostante tutte le teorie di linguisti e filosofi, per l'accoppiamento o attribuzione di nomi (parole) ad oggetti e concetti, opterei per un inizio casuale, un prova e riprova, (magari onomatopeico quando possibile).
Poi tutto si è evoluto con composizioni, (vedi lingua tedesca), collegamenti, estensioni e diramazioni nelle varie lingue a seconda delle esigenze.

Magari anche concentrazioni: un esempio eclatante è l'espressione
"big-bang" nota in tutte le lingue...anch'essa, tuttavia, nata (creata) casualmente.
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Vecchio 15-12-2013, 19.53.29   #17
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Originalmente inviato da maral
Sì Aggressor, questa è una via esplicativa che oggi appare evidente: ossia A) prima sperimentiamo la cosa, ne facciamo uso e da questo uso ne diamo il nome. Ma si potrebbe anche scegliere la via opposta: B) quando appare il nome questo, se è il vero nome suggerisce l'uso proprio della cosa. Non credo che su base logica si possa asserire un percorso anziché un altro. Forse ogni cosa ha in sé il suo nome che si rivela nel momento in cui diventa per l'altro e dunque per sé.
Il caso B) non mi pare realistico: il nome di una città non esprime i caratteri della città se non a posteriori...così per tutto il resto...a parte gli onomatopeici.
Non credo (non è dimostrato) esista una corrispondenza biunivoca fra un ipotetico vero nome e oggetto designato.
Ripeterei che il "vero nome" non esiste"!
Nessun oggetto o concetto ha in sé un proprio vero nome!
Le diverse lingue derivate dai più diversi ceppi, ove le stesse cose sono denominate in modi diversissimi, ne sono una dimostrazione.
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Vecchio 15-12-2013, 22.01.09   #18
maral
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Originalmente inviato da ulysse
Può essere che si perda una capacità descrittiva da cui l'antica e dettagliata complicazione delle lingua.
Il fatto è che le lingue moderne, dovendo esprimere concetti sempre più complessi e onnicomprensivi, devono farsi sempre più efficaci nell'esprimere tali concetti e quindi sempre più astratte: non possono perdersi, ad esempio, ad esprimere il concetto di "bianco della neve" con 30 o 40 modi diversi come pare sia nella lingua Inuit...per quanto, suppongo, i vocaboli componenti la lingua Inuit stessa siano probabilmente assai meno dei nostri.

Dopo tutto le lingue antiche non esprimono concetti astratti come "entropia" o "quantità di moto", od "obsoleto", ecc... di cui noi abbiamo bisogno.

Questa corsa verso l'astrazione (assieme coi concetti da esprimere) sarà un bene o un male?

Io credo sia semplicemente un sopperire alle esigenze che si presentano di cui le lingue diventano sempre più capaci.
Non so se i vocaboli della lingua Inuit siano di numero inferiore ai nostri, probabilmente, almeno nella lingua originaria, non avranno vocaboli per indicare ad esempio le melanzane alla parmigiana, ma certo il dettaglio con cui distinguono concretamente un tipo di neve dall'altro, data l'importanza della neve nel loro contesto vitale, sopperisce alla per noi apparente semplicità descrittiva del loro mondo. Non dubito comunque che abbiano tutti i vocaboli che a loro servono.
Trovo che la capacità di astrazione di un linguaggio sia un bene nel senso da te indicato, ossia nella capacità connotativa o intensionale di indicare con un solo senso una molteplicità di significati al fine di poterli più efficacemente controllare e usare. La trovo invece negativa per quanto riguarda la pregnanza descrittiva di ciò che si viene dicendo, ossia la possibilità di rappresentare la reale concretezza valoriale degli oggetti nominandoli.
In senso tecnico scientifico un linguaggio astraente è certo privilegiato (l'importanza della matematica che è linguaggio astraente al massimo grado lo dimostra), in senso valoriale e quindi narrativo e poetico un linguaggio che rispetta la specifica concretezza delle cose è decisamente meglio. Penso anche che privilegiare un modo di nominare (e dunque di pensare) a scapito dell'altro non sia un progresso, al massimo uno spostamento a favore di una parte che viene a scapito dell'intero che ogni cosa è.
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Vecchio 16-12-2013, 12.26.58   #19
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Originalmente inviato da 0xdeadbeef
Ora ti chiedo: questo "primum" di cui parla Eco è solo inconoscibile (e qui concordo) o è anche "inesistente"?
Ovvero, rifancendomi a quanto si chiede Whitehead, sono "inesistenti" gli oggetti che a noi appaiono come tavoli e sedie mentre al microscopio appaiono come insiemi di elettroni? E che significa "esistere"?
Eco, riferendosi a Wittgenstein (cose che troverai nel documento), arriva ad ipotizzare che i tavoli e le sedie e gli insiemi di elettroni siano cose diverse. Ma lo siano, appunto, dal punto di vista "gnoseologico", cioè del soggetto agente "in atto", e non da quello "cosmologico, cioè dell'infinito potenziale.
Il problema dunque, per come io lo vedo, è lo stabilire se l'oggetto cosmologico "c'è", ove questo "c'è" è da me inteso alla maniera cui Levinas intende "l'essente senza essenti", cioè l'elemento che c'era prima della
comparsa del primo interpretante, e che ci sarà anche dopo la scomparsa dell'ultimo di essi (ciò che, tempo addietro, definivo "infinito freddo ed inconsolatorio").
ciao
Il primum di cui parla Eco (ho letto l'articolo) è esistente nella sua possibilità fenomenologica di conoscerlo (il che non esclude però la possibilità di estrarre ciò che di esso si conosce per fingerlo definitiva, come cosa in sé). Quando chiamo sedia l'oggetto su cui mi siedo come chiamo sedia una danza di elettroni sulla quale trovo inconcepibile potermici sedere, ciò che chiamo sedia è in realtà proprio la relazione che media tra questi due diversi enti e che implica i due fenomeni (il primo immediato, il secondo mediato) che sono diversi e in antitesi (e quindi effettivamente sono due cose diverse, ma poste come unica cosa da quella sintesi che non rigetta né l'oggetto su cui immediatamente mi siedo né la danza di elettroni a cui arrivo attraverso una serie di posizioni medianti, ma sulla quale non potrei certo sedermi).
Possiamo anche dire che la sedia su cui mi siedo e la sedia danza di elettroni sono oggetti diversi alla luce di gnoseologie diverse e che sono lo stesso oggetto cosmologico che ammette gnoseologie diverse, ma a mio avviso solo ammettendo che i piani gnoseologici che consentono rispettivamente il sedersi o comprendere la struttura atomica sono inscindibili dal piano cosmologico potenziale dell'oggetto stesso e viceversa e quindi che nell'oggetto reale che nomino come sedia vi è sia l'unico infinito del suo essere che il finito del suo infinitamente molteplice apparire finito, perché costantemente essi si richiamano vicendevolmente. Il nome "sedia" sarà quindi il vero nome dell'oggetto solo se indicherà l'unità propria cosmologica di una specifica molteplicità di atti a essa inerenti, sia le specifiche molteplicità che via via vengono a mostrarsi nei momenti cognitivi che proprio a quell'unità si riferiscono e ne trattano mostrandola l'ontologia.
Per questo non sento come accettabile l'idea di Levinas (che però devo ancora leggere) di un essente senza essenti, di un uno cosmologico precedente la molteplicità gnoseologica in cui si manifesta, un puro in sé originario senza nulla a significarlo per sé. L'orizzonte degli essenti deve già essere incluso nell'essente completo, se esso è completo. E se non è completo è mancante e parte di qualcosa che lo include (e lo contraddice completandolo), dunque non può essere l'Uno (né il Dio o l'Essere) che dice di essere.
maral is offline  
Vecchio 16-12-2013, 13.24.05   #20
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Il caso B) non mi pare realistico: il nome di una città non esprime i caratteri della città se non a posteriori...così per tutto il resto...a parte gli onomatopeici.
Non credo (non è dimostrato) esista una corrispondenza biunivoca fra un ipotetico vero nome e oggetto designato.
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Nessun oggetto o concetto ha in sé un proprio vero nome!
Le diverse lingue derivate dai più diversi ceppi, ove le stesse cose sono denominate in modi diversissimi, ne sono una dimostrazione.
Bè, in ogni caso il nome di una città (come qualsiasi altro nome) non è certo arbitrario, esprime qualcosa che è caratteristico di quel luogo e non certo qualsiasi cosa indifferentemente, ora mi pare sia ragionevole pensare che quel nome sia il risultato di un incontro tra qualcosa che si trova in quel luogo con quelle caratteristiche e qualcuno in grado di recepirle nel momento in cui arriva in quel luogo (il manifestarsi di una sorta di entanglement abitante-luogo ove abita).
Certamente i nomi sono diversi a seconda delle lingue, ma perché la realtà di ciò che nominano non può escludere chi nomina e non trovo vi sia nessuna ragione a priori per escludere che siano i nomi a cercare soggetti nominanti e oggetti nominati per unirli in modo appropriato.
Può essere interessante e divertente ricordare a tal proposito la storia che si racconta stia sotto al nome canguro del canguro. Come è noto si racconta che canguro sarebbe stata la risposta "non capisco" degli indigeni australiani a cui i colonizzatori chiedevano "Come si chiama questo strano animale?". In effetti, dinnanzi a quell'animale colonizzatori e indigeni proprio non capivano: i primi di che animale si trattasse (e, nota, per questo volevano conoscerne il nome effettivo, non un nome qualsiasi), i secondi, non capendone la lingua, cosa quei colonizzatori volessero sapere di quel canguro che in quanto tale faceva apparire inequivocabilmente il diverso senso di un comune non capire. Tutto sommato credo che nessun altro nome fosse più appropriato per quell'animale e l'apparente casualità mostra una profonda soggiacente necessità proprio riferita a quel nome.
Forse comunque hai ragione a dire che il nome vero non esiste, ma non nel senso che non sia, quanto nel senso che non può apparirci, dovrebbe infatti comprendere tutti gli infiniti aspetti di un essente ed è davvero faccenda assai complicata.
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