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Psicologia - Processi mentali ed esperienze interiori.
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Vecchio 17-03-2005, 21.20.24   #21
VanLag
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Re: Ego-istica-mente

In merito al discorso del 3d, c’è da dire che sia Gibran che Nisargadatta vedono il dolore “umano” come uno stato di transizione dal quale usciremo transumati. Gibran addirittura lo indica come la “cura”; quindi la via….. mentre il Maharaji, in accordo con la sapienza Indiana, lo indica come uno stato da rifuggire. In altre parti, sempre lui, ha detto: - Il male è il cattivo odore di una mente malata.

Citazione:
Messaggio originale inviato da visechi
Concetti filosofico/spirituali molto complessi e difficili da accettare completamente.
Il livello spirituale, metafisico invece a me è congeniale….. anche se non mi piace indulgere troppo in termini fideistici come spirito ed anima …etc…. e preferisco parlare di identità e conoscenza, credo che si capisca che il film è sempre lo stesso. Comunque.....

Narra la “favola metafisica” che per tentare di comprendere il fenomeno del dolore occorre capire il meccanismo dell’identificazione perché le due cosa vanno di pari passo. Occorre capire cioè il rapporto tra l’esistenza “qui ed ora” che è a-temporale e quello che noi, (anzi in questo caso io), penso di essere….. nella fattispecie penso di essere: VanLag.

Il primo dato significativo è che l’esistenza è a-temporale, mentre VanLag non lo è. Per buona pace di tutti quanti, la sua esistenza è soggetta ai suoi bei limiti temporali. VanLag, è nato pochi anni or sono quando è nata la rete, di media dorme 21 ore al giorno e si sveglia dalle 20 alle 23 per andare a lavorare sul forum di riflessioni….. ed un giorno, (speriamo tardi) morirà.
VanLag non è eterno, ma VanLag è un’etichetta che ricopre un'altra identità più cospicua…. (che per comodità chiameremo Piero).

Anche Piero non è eterno è nato una cinquantina di anni fa, dorme 8 ore al giorno e si sveglia per andare a lavorare in un ufficio (un po’ schifido), ama, odia e soffre e forse un giorno, morirà….. (ri-speriamo tardi).

Ma anche Piero è solo un’altra etichetta di qualche cosa di più vasto e grande qualche cosa che chiameremo, “l’esistenza di Piero”.
“L’esistenza di Piero” c’era prima e dopo Piero, così come Piero c’era prima (e dopo VanLag)……. C’era perché l’esistenza è a-temporale. (Assumo che tutti colgano al volo il nesso tra a-temporale, (cioè “qui ed ora”) ed eterno, nel caso non fosse chiaro posso sempre scrivere 15 volumi per spiegarlo.)

L’ultima identità…. Quella a-temporale, quella che non nasce e non muore, un bel giorno decide di conoscere e di sperimentare cosa significhi identificarsi, (qui il passaggio è fideistico) e per farlo deve entrare in gusci piccoli ed angusti, (ogni contenitore lo è), abdica quindi alla sua dimensione, alla sua realtà e nel farlo porta in essere il dolore, che, altro non è, che la costrizione dei limiti, sull’illimitabile; che altro non è, che un lungo percorso per rompere il guscio e tornare ad essere ciò che in realtà siamo sempre stati.

C’è un terzo saggio che non avevo portato nel mischia per non colmare troppo la pentola, dai cui fumi, non ho dubbi, uscirà un ricco minestrone, del quale attingeranno a piene mani, tutti i frequentatori avidi di sapere, (saranno almeno 2 o forse 1).…..
Il terzo saggio è tale U.G. che più burbero degli altri non ha medicato la pastiglia, e ce l’ha somministrata, in tutta la sua nuda e scarna immediatezza: - Dice il terzo saggio: -Voi non siete realmente interessati alle risposte ai vostri problemi, perché se il problema finisse, voi come siete soliti conoscervi e sperimentarvi finireste e voi non volete questo.
Ohibò...... eccomi che scopro che, quel nobile essere lanciato verso chissà quali paradisi, che pensavo di essere altro non è che un grumo di dolore, (il pozzo nero?) obbligato ad amarsi per esistere. (sei amaro U.G.)
Ma la fine dell'identità è anche il rompersi del guscio che racchiude la nostra conoscenza, è la strada verso un'identità più grande e vasta.......

La morale della “favola metafisica” è che “amiamo ciò che ci fa soffrire” (1° saggio), perché quello che ci fa soffrire è parte costituente di noi, cioè del nostro stesso senso di identità (3° saggio), ma la conoscenza di questi meccanismi e l’accettazione dell’esistenza del dolore come componente della vita, è la pozione amara del 2° saggio, che può emendare il male ed operare la catarsi.

............ Fine primo ..... tempo ....... Intervallo

Citazione:
Messaggio originale inviato da visechi
Credo che una delle più forti pulsioni verso il prossimo non sia l’amore, ma l’egoismo, un sano ed equilibrato egoismo…
Vabbeh…. Questa è la mia favola….. e so che non ho risposto al tuo post….. In realtà non vedo molto da risponderti. Celebrando l’egoismo o l’auto-egoismo in realtà stai attenendoti alla dimensione umana e gli stai ridando quella dignità che ogni religione tende a toglierle, dicendo, invariabilmente, - c’è di più – e, “Dio”solo sa, se questo dire c’è di più non sia in realtà l’origine del male.
In fondo l’accettazione della nostra umanità è proprio la condizione dalla quale si può spiccare il salto quantico per dare origine a quella catarsi, o alchimia, o metamorfosi rappresentata dal rompersi del guscio della conoscenza…….
(D’altro canto, ricorderai che nei miei vaneggiamenti onirici - mi apparve il saggio Visechi, con una veste bianca, la corona di alloro sul capo e l’arpa nelle mani. –)

Una cosa però la commento di ciò che hai scritto……. Ed è la seguente:

Citazione:
Messaggio originale inviato da visechi
Qualcosa con cui sono entrato più volte in contatto, qualcosa, per certi versi, ancor più inquietante: esiste la fascinazione e l’attrazione nei confronti del dolore altrui.
Nel leggere la tua affermazione, mi si sono accese tutte le spie di “alert” dei miei sistemi di difesa perché ho pensato non a chi si sente attratto dal dolore altrui per alleviarlo bensì ho pensato a quelli, (perché ci sono anche quelli), che godono del dolore altrui e che godono nel provocare il dolore agli altri, (mi pare che il fenomeno sia conosciuto in psicologia col termine di sadismo).

Non avevo pensato in effetti a partecipazione, compassione ed empatia, forse perché, in un certo senso, sono più spaventato dai dolori delle persone a cui voglio bene che dai miei, perché i miei li quantifico e li conosco, mentre quelli delle persone che amo no.

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Vecchio 18-03-2005, 11.34.27   #22
visechi
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Citazione:
Narra la “favola metafisica” che per tentare di comprendere il fenomeno del dolore occorre capire il meccanismo dell’identificazione perché le due cosa vanno di pari passo. Occorre capire cioè il rapporto tra l’esistenza “qui ed ora” che è a-temporale e quello che noi, (anzi in questo caso io), penso di essere….. nella fattispecie penso di essere: VanLag.


Il ‘qui ed ora’ è una dimensione o uno status che prescinde dal tempo, è l’attimo presente; viverlo coscienziosamente (cioè con tutte le facoltà della persona presenti e vigili) presuppone una buona dose di ‘attenzione’. Credo che ciò non sia sempre possibile. L’uomo vive per flussi di coscienza non costanti ed intermittenti, che lasciano filtrare solo parte degli eventi in cui è coinvolto, eliminandone o, meglio, lasciandone filtrare altre senza che queste raggiungano lo stato di coscienza. Esse, queste parti o frazioni di eventi, componenti anch’esse il mondo percettibile e percepito, sostano silenti in qualche angolo della nostra mente, per, talvolta, imporsi alla nostra attenzione nei momenti più impensati, senza che noi ci rendiamo conto del perché e delle motivazioni per cui riemergano all’improvviso. La mente trattiene tutto… pare. Il qui ed ora, viceversa, è una condizione che presuppone un grado di attenzione quasi assoluto, per cui si percepisca qualsiasi flusso e qualsiasi sollecitazione a livello diretto di coscienza. Parli di meccanismo di identificazione, ma non penso che questo agisca a livello di coscienza attenta. E’ l’analisi successiva che deve farlo emergere, che lo riporterà alla luce, e penso mai completamente e compiutamente, tanto da consentirci di trascenderlo o d’impossessarcene totalmente. Il dolore intride le vesti di colui che vi entra in contatto, inzuppandole. Spesso è davvero la molla che spinge una persona a rivedere sé stesso, a rileggersi, altre volte, invece, prostra e sfinisce chi lo patisce, non consentendogli di venirne fuori, forse proprio a causa di quel subdolo meccanismo d’identificazione cui hai fatto cenno tu. Perché ciò accada è forse spiegato dal concetto espresso da U.G. (di chi si tratta?) -Voi non siete realmente interessati alle risposte ai vostri problemi, perché se il problema finisse, voi come siete soliti conoscervi e sperimentarvi finireste e voi non volete questo.– . Allora, se ciò fosse vero, noi siamo anche il dolore che patiamo, e quando lo superiamo, trascendendolo, abbiamo necessità di riempire lo spazio precedentemente occupato da questo patimento, con qualcos’altro; si tratterebbe, in pratica, di ri-costruirsi, almeno in parte, e questo è l’impegno più gravoso che attende costantemente chi propende per una stabilizzazione del proprio Io. Fra l’altro, io credo che il dolore sia incessante, nel senso che la vita è intrisa di questa essenza, e vivendo si ha e si avrà sempre modo di lambirne le propaggini, o di esservi scaraventati dentro, per cui il lavoro di ri-edificazione risulterebbe anch’esso incessante, sfibrante e, in un certo senso, demotivante, perché non è concepibile che assurga a vero senso della vita. Non si può vivere con l’unico fine di ri-costruire sé stessi.



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abdica quindi alla sua dimensione, alla sua realtà e nel farlo porta in essere il dolore, che, altro non è, che la costrizione dei limiti, sull’illimitabile; che altro non è, che un lungo percorso per rompere il guscio e tornare ad essere ciò che in realtà siamo sempre stati.
Quel che descrivi è il paradosso della vita, auto-referenziata, con un senso intro-diretto, cioè il cui verso circolare prende le mosse da un punto A per svilupparsi e dipanarsi attraverso varie tappe provvisorie che sfociano nell’unica meta possibile, ritornare ad essere quel che eravamo prima di intraprendere il percorso. Insomma un cerchio che conchiude l’essere, una chiusura di senso, non una sua apertura. Io la vedrei forse in maniera diversa: un segmento incurvato le cui curve, pur nella loro continuità, imboccano tante e più direzioni diverse; un percorso tortuoso mai chiuso, che termina sospeso, e che s’innesta in altri segmenti simili, tutti, parimenti, con un andamento ondivago, ma sempre diversi per i tratteggi che disegna nella storia dell’uomo. E nessuno potrà mai più tornare ad essere quel che è stato un tempo, anche metafisico o cosmico. L’uomo è in cammino, questo cammino non è definito né nel suo percorso, né nel suo epilogo. L’unico suo Fato è proprio l’ineluttabilità del movimento ‘verso’, partendo ‘da’, per approdare ‘a’. Il movimento ‘verso’ e l’approdo ‘a’, sono due incognite assolute, l’unico elemento sufficientemente noto, anche se mai del tutto, è il punto di partenza, sia individuale, sia di specie. Temo che l’unica consapevolezza che ci sia data dalla sorte di possedere o conseguire sia proprio questa percezione dell’incompiutezza dell’esistenza, a cui noi, solo noi, non altri, appiccichiamo un senso: il nostro senso della vita. Fra l’altro questa congettura risponderebbe meglio di qualunque altra al perché siamo così tanto attratti dal mistero: perché in esso siamo immersi e, percependone l’alito o le propaggine, presuntuosa-mente, spesso sofistica-mente, pretendiamo di essere in grado di possederne il nucleo o l’essenza… per gli esoterici, la quintessenza. Ma si tratta di velleità che si risvegliano e svaniscono al tocco consapevole dell’allucinazione fideistica, lasciando così un vuoto che è colmato con altre velleitarie e fumigose certezze surreali. Io non ho certezze!


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altro non è che un grumo di dolore, (il pozzo nero?) obbligato ad amarsi per esistere. (sei amaro U.G.)
Ma la fine dell'identità è anche il rompersi del guscio che racchiude la nostra conoscenza, è la strada verso un'identità più grande e vasta.......

La morale della “favola metafisica” è che “amiamo ciò che ci fa soffrire” (1° saggio), perché quello che ci fa soffrire è parte costituente di noi, cioè del nostro stesso senso di identità (3° saggio), ma la conoscenza di questi meccanismi e l’accettazione dell’esistenza del dolore come componente della vita, è la pozione amara del 2° saggio, che può emendare il male ed operare la catarsi.
Condivido la posizione dei primi due saggi (il 1° e il 3°), ma, stante quel che ho scritto in precedenza, non riesco a trovarmi in accordo con l’epilogo. Il decesso di una persona cara: la sua assenza; un evento fortemente traumatico che trapassa le nostre viscere come un lampo al magnesio o un neutrino, ha la forza per minare qualsiasi barriera della coscienza, frantumandola e rendendo quasi vano il lavoro costruttivo precedentemente compiuto. E’ da lì che è necessario ri-partire, da quel flash o da quell’invasione ‘neutrinica’ , perché la vita è un processo dinamico, che impone una costante ed incessante ri-costruzione. Non vi può essere conoscenza circa i meccanismi del dolore, tale da rappresentare una barriera certa e sicura rispetto ai dardi che la vita ci scaglia contro. Quando si raggiunge uno status permanente di ‘equilibrio’, ciò accade perché è la vita che ha smesso di infierire, vuoi anche perché si è scelto un ritiro da essa e dalla sua dolce ed ammaliante ‘infingardia’ , sia questa scelta consapevole o meno, non perché la nostra barriera protettiva sia divenuta talmente spessa e forte da opporre un’invitta resistenza a ciò che ci colpisce.


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Celebrando l’egoismo o l’auto-egoismo in realtà stai attenendoti alla dimensione umana e gli stai ridando quella dignità che ogni religione tende a toglierle, dicendo, invariabilmente, - c’è di più – e, “Dio”solo sa, se questo dire c’è di più non sia in realtà l’origine del male.
In fondo l’accettazione della nostra umanità è proprio la condizione dalla quale si può spiccare il salto quantico per dare origine a quella catarsi, o alchimia, o metamorfosi rappresentata dal rompersi del guscio della conoscenza…….
(D’altro canto, ricorderai che nei miei vaneggiamenti onirici - mi apparve il saggio Visechi, con una veste bianca, la corona di alloro sul capo e l’arpa nelle mani. –)
Sì, me ne rendo conto, mi attengo alla dimensione umana, l’unica che riesco a percepire. L’uomo è responsabile di sé stesso, perché credo che sia solo. E’ l’unico che possa percepire sé stesso e gli altri suoi simili. Non vi sono aiuti celesti, e non vi possono essere alibi rispetto a ciò che ha in potere di costruire. Non riesco proprio a credere alle religioni, così come non riesco a credere alle energie cosmiche o all’influenza planetaria rispetto al nostro agire, anche se mi rendo ben conto che alcune forze NATURALI connesse agli astri (maree e altro), interferiscono con la sua capacità di fare.
Ricordo quei vaneggiamenti onirici… divertenti, così come fu divertente scoprimi un giorno foglio di carta, qualcun altro matita, altri gomma, cestino, macchia d’inchiostro… è stato un bel viaggio fantasioso
Ciaoooooooooooooo


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Vecchio 18-03-2005, 18.44.15   #23
fallible
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dolore

L'attaccamento alla vita è attaccamento al dolore.
Credo che il Maestro Indiano con questa sua affermazione volesse mettre in evidenza la natura umana che spinta dal desiderio (mai appagato) viva nel dolore........ho questo voglio quell'altro, la società dei consumi ha esasperato tutto.....il distacco porta ad una beata tranquillità ed all'assenza del dolore.
Sorge però un quesito (ecco dimostrato il dolore) se l'uomo si fosse accontentato........evitando il dolore, sarebbe rimasto però fermo
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Vecchio 18-03-2005, 19.09.48   #24
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Vacuo

trovo inconcludente un'esprimere questi temi su un mondo fittizio tale che internet....


Come già rimarcato da Van eventualmente Internet è virtuale (chi sei, dove Abiti?) ma non fittizzio; questo lo si può avere anche in rapporti interpersonali fisici.....Internet è sotto certi aspeti pura illusione
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Vecchio 18-03-2005, 23.59.28   #25
VanLag
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Messaggio originale inviato da visechi
Perché ciò accada è forse spiegato dal concetto espresso da U.G. (di chi si tratta?)
Assumo che il di chi si tratta sia riferito a U.G. e provo a risponderti…. (ma una volta postasti tu delle parole sue….. sicuro che non lo conosci?).
Per quello che ne so e lo conosco U.G. è un uomo…. Un uomo cospicuo ed integro nella sua naturalezza e spontaneità. Si potrebbe scrivere tomi su queste persone e c’è chi lo fa, ma non credo sia importante qui svelare o svilire il saggio ma al limite “sprimacciare” la sua saggezza.….. In fondo come dice lui – ciò che dice sta in piedi o cade da solo

Direi che sono in pieno accordo con la tua prima parte della risposta…..
Mentre per quanto riguarda - il paradosso della vita auto-referenziata – avevo specificato che era fideistico. Per me è una domanda aperta legata a quella se il nostro mondo sia giusto una delle configurazioni del caos o sia frutto di un “progetto”. Quello che dici dell’ineluttabilità del movimento tra due incognite assolute, una che parte “da” e l’altra che arriva “a” non mette un punto fermo alla domanda, (e forse quel punto non si può mettere) ma per capire il tuo pensiero ti faccio una domanda diretta, per quando ripasserai da queste parti, (ma puoi sempre appellarti al V emendamento)….

C’è un film con certi personaggi ed una certa sceneggiatura. Il fotogramma successivo per forza di cose conterrà gli stessi personaggi e la stessa sceneggiatura ma qualche cosa sarà diverso. Quel fotogramma successivo è scelto a caso, (dal figlio del fornaio che si annoiava a casa), da una cesta di infiniti fotogrammi che contengano una leggera modificazione del precedente, oppure c’è un regista che sceglie con cura quello più adatto allo scopo del film?

.............................. ..........................

Sul seguente passaggio:

Citazione:
Messaggio originale inviato da visechi
Il decesso di una persona cara: la sua assenza; un evento fortemente traumatico che trapassa le nostre viscere come un lampo al magnesio o un neutrino, ha la forza per minare qualsiasi barriera della coscienza, frantumandola e rendendo quasi vano il lavoro costruttivo precedentemente compiuto. E’ da lì che è necessario ri-partire, da quel flash o da quell’invasione ‘neutrinica’, perché la vita è un processo dinamico, che impone una costante ed incessante ri-costruzione. Non vi può essere conoscenza circa i meccanismi del dolore, tale da rappresentare una barriera certa e sicura rispetto ai dardi che la vita ci scaglia contro. Quando si raggiunge uno status permanente di ‘equilibrio’, ciò accade perché è la vita che ha smesso di infierire, vuoi anche perché si è scelto un ritiro da essa e dalla sua dolce ed ammaliante ‘infingardia’, sia questa scelta consapevole o meno, non perché la nostra barriera protettiva sia divenuta talmente spessa e forte da opporre un’invitta resistenza a ciò che ci colpisce.

Ho dei distinguo soprattutto sulla “precarietà dell’equilibrio”…. Non perché io abbia l’equilibrio tale per cui potrei ammortizzare un’invasione neutrinica, ma perché, ad esempio, Etty Hillesum, poteva essere felice, (stupendosi lei stessa), della bellezza della vita, pur in un campo di concentramento nazista. Sembra che l’equilibrio possa dissolvere il dolore anche il più devastante, con una controindicazione fortissima però e cioè che, secondo me, si rischia un torpore psichico che potrebbe avvantaggiare il malvagio.
Ma l’equilibrio c’è fidati…. Non so dove lo vendano, o lo regalino, qualcuno dice che ci coglie all’improvviso sulla via di Binasco, (Paesello dell’interland milanese), qualcuno dice che lo si compra a caro prezzo in qualche mercato, ma per esserci c’è.

........ Mi fermo qui, perché forse sto concedendo troppo spazio alla spiritualità e qui invece occorre attenersi alle nostre risorse umane….. (so che gorgoglierai di piacere leggendo “risorse umane”)…..
Visechi lei è una “risorsa umana”. No ecco non era in quel senso che usavo le parole. Per risorse umane intendevo lo sforzo terribile che fanno i nostri cervelli (il mio lo fa), per dipanare l’intricato groviglio ed aprire una parvenza di strada nel ginepraio del pensiero umano.



P.S. abbiamo perso il dolore per strada....... ohi...ohi

Ultima modifica di VanLag : 19-03-2005 alle ore 00.10.12.
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Vecchio 21-03-2005, 00.27.06   #26
Fragola
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Re: Attaccamento al dolore

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Messaggio originale inviato da VanLag
Interrogante: E la morte libera?

Maharaji: Chi si crede nato teme molto la morte. Per chi si conosce è un lieto evento.
.....Per me la morte non è una calamità, così come la nascita di un bambino non è una gioia. Il bambino va verso i guai, il morto ne è fuori. L'attaccamento alla vita è attaccamento al dolore. Amiamo ciò che ci fa soffrire. Tale è la nostra natura. Per me la morte sarà un momento di giubilo, non di paura. Piangevo quando nacqui, e morirò ridendo.


E’ uno stralcio dei cento dialoghi con un sapiente di villaggio, dialoghi con sri Nisargadatta Maharaji, un “maestro” indiano.

Non ho letto tutta la discussione, ma intervengo lo stesso.

Sarà anche un maestro, ma io non sono affatto d'accordo con quello che dice. Non è nella nostra natura amare quel che ci fa soffrire. Molti lo fanno, certo, ma non è nella nostra natura.
E mi rifiuto di vedere la morte come una liberazione dalla vita, anche perchè nulla mi garantisce che poi ci sarà altro. E la vita è piena di bellezza se si ha voglia di fare la piccola fatica di imparare a vivere. E quando sarò morta molto probabilmente non ci sarò più e certo non soffrirò, ma nemmeno altro. Poi, se uno vede la morte come la liberazione da una vita di dolore dovrebbe, coerentemente, avere il coraggio di uccidersi.

I motivi per cui molti sono attaccati al solore in realtà sono pochi semplici. Il dolore non è altro che vendetta. E rimanerci attaccati è solo un modo di rimanere per tutta la vita bambini dipendenti e capricciosi che gridano di dolore per non assumersi la responsabilità di vivere in prima persona e di essere liberi e felici. Perchè per staccarsi dal dolore bisogna diventare liberi, e quindi responsabili, e questa pare una cosa faticosa. Meglio rimanere nel dolore che conosciamo piuttosto che affrontare il balzo nella libertà. Tutto qui. Rimanere attaccati al dolore solo una scelta e un'abitudine.



ps nemmeno leopardi aveva una visione così drammatica della vita, nonostante il suo "è funesto a chi nasce il dì natale".
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Vecchio 21-03-2005, 10.27.43   #27
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Citazione:
Per me è una domanda aperta legata a quella se il nostro mondo sia giusto una delle configurazioni del caos o sia frutto di un “progetto”.


Anche per me è una domanda aperta, priva di risposte certe, ma, nonostante ciò, malgrado questa incolmabile assenza di certezze, io propenderei per la versione che mi appare più verosimile, cioè quella per cui la ‘creazione’ sia affidata al caso. Dal Kaos primigenio si è generata e, attraverso un complessissimo processo evolutivo, anch’esso causale ma autoregolatosi nel corso dei millenni, è sfociata in quel che è parzialmente sotto i nostri occhi. E’ crudele ipotizzare che un progettista potesse inserire nella sua creazione anche il male, un elemento disgregante che potrebbe alla lunga minare fin nelle fondamenta il suo edificio. Io penso che l’Universo racchiuda in sé, fin dall’origine, anche i germi della sua distruzione, e compito, sempre suo, attraverso le sue contorte leggi o regole, sarebbe quello di mantenere in equilibrio le forze coesive e quelle disgreganti, come un uomo che ha in sé il potere di recare morte e vita.

Citazione:
C’è un film con certi personaggi ed una certa sceneggiatura. Il fotogramma successivo per forza di cose conterrà gli stessi personaggi e la stessa sceneggiatura ma qualche cosa sarà diverso. Quel fotogramma successivo è scelto a caso, (dal figlio del fornaio che si annoiava a casa), da una cesta di infiniti fotogrammi che contengano una leggera modificazione del precedente, oppure c’è un regista che sceglie con cura quello più adatto allo scopo del film?

Bella domanda, però ritengo che, così posta, possa essere fuorviante. Un regista deve sottostare a regole o leggi esterne a sé stesso per comporre la sequenza di fotogrammi che alfine determinerà il film. Non è pensabile, invece, che il Creatore potesse sottostare ad alcunché, se non la Sua semplice, potentissima e misteriosa volontà creatrice. Poi, in ogni caso, mi domando PROITE? Cioè perché tutto questo? A chi giova? A Lui? A noi? A nessuno? Le cose sono così, fatte e lasciate a sé stesse. Solo il concetto di ‘libero arbitrio’ risponde in una certa misura al perché del male. Il male, quindi con esso anche il dolore, è l’elemento che, a parer mio, fa svaporare o rende meno plausibile l’ipotesi creazionistica. Stiamo ancora una volta scivolando sulla spiritualità, ma credo che in fin dei conti la psicologia e qualsiasi altra disciplina che tratti questi argomenti non possano che essere strettamente connesse l’una alle altre… poi c’è Fragola che recupera la discussione e la ricolloca sui giusti binari.



Citazione:
Etty Hillesum, poteva essere felice, (stupendosi lei stessa), della bellezza della vita, pur in un campo di concentramento nazista. Sembra che l’equilibrio possa dissolvere il dolore anche il più devastante, con una controindicazione fortissima però e cioè che, secondo me, si rischia un torpore psichico che potrebbe avvantaggiare il malvagio.

Il processo cui fai cenno tu è stato oggetto di studi da parte della psicologia del comportamento e delle neuroscienze in generale. E’ stato riscontrato che l’uomo in condizioni estreme senta maggiormente il proprio attaccamento alla vita, e che, in quei momenti di maggiore difficoltà fisica, nel corso dei quali la vita pare destinata ad imboccare la strada della sua ineluttabile e repentina conclusione, s’ingeneri nell’animo e nel cervello dell’uomo un senso di attaccamento fortissimo. E’ l’estremizzazione delle condizioni di vita che esalterebbero le meraviglie della vita, in special modo quando colui che patisce questa condizione estrema ha conosciuto situazioni più idilliache: un pò come i colori per un cieco non dalla nascita. E’ un dato statistico che nei lager il numero dei suicidi fu sorprendentemente basso, non significativo, molto inferiore, in termini percentuali, a quello che si registra in condizioni sociali molto più evolute. Forse è vero, è il tempo libero, la società dell’agiatezza, che libera la mente, e questa, diceva qualcuno, quando medita su ciò che la circonda, non può fare a meno che indurre al pianto. E’ un dato statistico che il suicidio sia anche direttamente connesso alle condizioni climatiche o atmosferiche: il suo numero lievita paurosamente nel periodo a cavallo fra aprile e giugno, per scemare nel corso dell’inverno, e le società più colpite da questa disgrazia sono le più evolute, non le più ‘retrogade’… perché? Tutto è nella mente e nella sua imperscrutabilità, ed anche nella sua capacità di sentire il mondo surreale. Il corpo quando ha fame reclama cibo materiale, l’anima quello spirituale, ed avvertirne l’assenza è molto più doloroso che patire i morsi della fame. Due situazioni ben differenti, entrambe disdicevoli, ed entrambe molto comuni nell’ambito dell’esperienza umana.



Citazione:
risorse umane….. (so che gorgoglierai di piacere leggendo “risorse umane”)…..
Visechi lei è una “risorsa umana”. No ecco non era in quel senso che usavo le parole. Per risorse umane intendevo lo sforzo terribile che fanno i nostri cervelli (il mio lo fa), per dipanare l’intricato groviglio ed aprire una parvenza di strada nel ginepraio del pensiero umano.

Risorse umane… sapessi quanti ne ho conosciuti di ‘illuminati’ gestori di risorse umane… chissà perché li ho quasi sempre combattuti… divertendomi anche





Fragola

Citazione:
Non è nella nostra natura amare quel che ci fa soffrire.

Vero, giusta osservazione, smentendomi in parte anch’io affermo che noi non amiamo quel che ci fa soffrire, amiamo, piuttosto la sofferenza stessa, il dolore che ci avvolge.



Citazione:
Il dolore non è altro che vendetta. E rimanerci attaccati è solo un modo di rimanere per tutta la vita bambini dipendenti e capricciosi che gridano di dolore per non assumersi la responsabilità di vivere in prima persona e di essere liberi e felici. Perchè per staccarsi dal dolore bisogna diventare liberi, e quindi responsabili, e questa pare una cosa faticosa. Meglio rimanere nel dolore che conosciamo piuttosto che affrontare il balzo nella libertà.
Staccarsi dal dolore è crescere: anche questo è in parte vero, e abbandonare le situazioni affliggenti è anche abbandonare quella parte di noi che si rifiuta di andare oltre sé stessi, di compiere il passo successivo, di mettere il piede destro davanti a quello sinistro. Ma la crescita può avvenire, e penso sarebbe ancora più completa, senza dover dimenticare o abbandonare la nostra capacità di provare dolore, di sentire anche quello altrui, di piangere per un amico o un’amica che soffre, che ti ha narrato una storia coinvolgente. Ti rinvio ad una vecchia discussione/testimonianza di questo forum, nella quale ho riportato le parole di una mia carissima amica, a cui sono affezionato, che ho conosciuto nel suo più profondo e lancinante dolore. Un dolore che mi si è infitto dentro, che mi ha fortemente avvicinato a lei, che avrei voluto poter proteggere. Ricordo ancora il momento esatto in cui me le raccontava, e le sensazioni di scoramento che s’impossessarono di me quel giorno. Spero tu voglia leggere con attenzione, sono molto interessato alla tua opinione.
Ciao, era da molto che non ci si incontrava qui dentro, un sorriso per te.
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Vecchio 21-03-2005, 11.45.27   #28
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Re: dolorosa-mente

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Messaggio originale inviato da visechi

Fragola



Vero, giusta osservazione, smentendomi in parte anch’io affermo che noi non amiamo quel che ci fa soffrire, amiamo, piuttosto la sofferenza stessa, il dolore che ci avvolge.


Leggerò con attenione appena ne avrò il tempo.
Ma vedi, non ho detto che non amiamo quel che ci fa soffrire, ho detto che non è nella nostra natura!

Moltissimi esseri umani amano la sofferenza e amano ciò che la provoca. Ma non è nella natura dell'essere umano.
Ed è vero che il dolore fa crescere... (non sempre, purtroppo!!!!) ed è anche vero che non potremmo conoscere la gioia se non conoscessimo il dolore. Ed è verissimo che il dolore fa parte della vita e che è giusto fermarsi a piangere un po' quando è il caso...
Ma questo ha poco a che faer con l'attaccamento al dolore.
L'attaccamento al dolore è quella cosa persistente per cui non si soffre per la cosa contingente, ma si soffre... diciamo a priori.

Una cosa è accettare di vivere il dolore quando c'è, ben altra l'attaccamento al dolore.


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Vecchio 21-03-2005, 12.47.37   #29
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Re: dolorosa-mente

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Messaggio originale inviato da visechi
Spero tu voglia leggere con attenzione, sono molto interessato alla tua opinione.
Ciao, era da molto che non ci si incontrava qui dentro, un sorriso per te.

La discussione
https://www.riflessioni.it/forum/show...1 4#post35414

Ho letto, e mi ricordo bene che avevo già letto all'epoca ma mi erao astenuta dall'intevenire.
Per te la persona che ha scritto è un'amica e tu probabilmente vedi nlle sue parole cose che io non posso vedere.
Sono d'accordo con Basil, io vedo molto compiacimento narcisistico, ce n'è sempre nell'attaccamento al dolore.
Ma del resto la cultura giudaico-cristiana insengna a considerare il dolore un valore in sè e noi tutti, volenti o nolenti, ne siamo impregnati.
Visechi, io lo conosco i dolore, e conosco l'attaccamento al dolore per averlo vissuta in prima persona, e conosco anche il compiacimento narcisistico per averlo vissuto in prima persona.
Ma non li amo più, non posso farci nulla.
un bacione
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Vecchio 21-03-2005, 13.23.08   #30
VanLag
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Re: Re: Attaccamento al dolore

Sono indietro un po’ di post….. ma leggo in differita e quindi comincio a lasciare le riflessioni che avevo scritto leggendo Fragola……

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Messaggio originale inviato da Fragola
Sarà anche un maestro, ma io non sono affatto d'accordo con quello che dice. Non è nella nostra natura amare quel che ci fa soffrire. Molti lo fanno, certo, ma non è nella nostra natura.
E mi rifiuto di vedere la morte come una liberazione dalla vita, anche perchè nulla mi garantisce che poi ci sarà altro. E la vita è piena di bellezza se si ha voglia di fare la piccola fatica di imparare a vivere. E quando sarò morta molto probabilmente non ci sarò più e certo non soffrirò, ma nemmeno altro. Poi, se uno vede la morte come la liberazione da una vita di dolore dovrebbe, coerentemente, avere il coraggio di uccidersi.

La visione della morte come continuità della vita è molto presente nel pensiero orientale, perché si aggancia ad un reale sentire che forse può essere anche il nostro.
Nulla ci garantisce che poi ci sarà altro, certo…… ma riusciamo a concepire che la nostra esistenza finisca? Magari finirà la nostra identificazione in qualche cosa di particolare, ma non la nostra esistenza e questo è ciò a cui fa riferimento il Maharaji. (ma questo è parte di un altro film).

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Messaggio originale inviato da Fragola
I motivi per cui molti sono attaccati al dolore in realtà sono pochi semplici. Il dolore non è altro che vendetta. E rimanerci attaccati è solo un modo di rimanere per tutta la vita bambini dipendenti e capricciosi che gridano di dolore per non assumersi la responsabilità di vivere in prima persona e di essere liberi e felici. Perchè per staccarsi dal dolore bisogna diventare liberi, e quindi responsabili, e questa pare una cosa faticosa. Meglio rimanere nel dolore che conosciamo piuttosto che affrontare il balzo nella libertà. Tutto qui. Rimanere attaccati al dolore solo una scelta e un'abitudine.

Quello che dici sul dolore ricalca quello che hai espresso anche nel 3d sul male e probabilmente c’è tanta verità in esso. Anche Gibran parla di scelta e dice che siamo noi a sceglierci il nostro dolore. Capisco il senso finale di ciò che dici ma spesso le nostre scelte, coinvolgono, o ci sembrano coinvolgere anche le persone che ci stanno vicine ed allora diventa tremendamente più difficile scegliere la strada della nostra libertà, se da questa libertà, pensiamo possa nascere un dolore per chi amiamo.
Parli spesso di assunzione di responsabilità ma chi sceglie, tenendo conto anche degli altri, ha l’illusione di assumersi delle responsabilità non di rifuggirle, soprattutto se non lo fa aspettandosi qualche cosa in cambio, ma semplicemente perché sente che “andava fatto”.

Ti faccio un esempio, che è anche vicino alla mia realtà: - curare un vecchio genitore rinunciando a molto del proprio tempo libero, comporta una rinuncia di tempo per se stessi, che in alcuni momenti può essere molto dolorosa, (com’è dolorosa ogni rinuncia). Io non dico che sia giusto farlo o meno, non do il voto di “figlio esemplare” a chi cura i genitori anziani ed il voto di “figlio degenere” a chi scegli invece di metterli in una casa di risposo, perché vuole pensare a se stesso. Però dico che si può scegliere il dolore, senza per questo doverla poi fare pagare a qualcuno, (vendicarsi), e che quella scelta di attraversare il dolore non sempre e non necessariamente è sintomo di capricci.
Poi certo esiste una libertà che è “oltre” ma quanti sono arrivati ad uniformare le proprie vite a quella comprensione?

VanLag is offline  

 



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