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Quale amore? Quale felicità?

di Domenico Pimpinella – luglio 2007

- Capitolo 2 - Come migliorarci

Paragrafo 1 - Un’altra interpretazione possibile

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Finora abbiamo cercato di capire qual è l’idea di massima impiantatasi nella mente di ogni uomo, pur ammettendo che tra una mente e l’altra ci possono essere notevoli differenze. Differenze però che sembrerebbero confermare una regola.
L’errore, il peccato originale che ci ha portato alla costruzione di un teorema, di un paradigma che si sta sviluppando orizzontalmente da centinaia di secoli è la visione immediata di un mondo costituito da una miriade di enti separati nettamente ed isolati tra loro. In esso noi, ovviamente, ci vediamo come parti di un tutto: come tanti Io, avrebbe detto Fichte, separati dal Non-Io. Da ciò ne deriva, quindi, che i concetti come quelli di altruismo, di moralità, socialità e amore che abbiamo iniziato a sviluppare in quanto esseri ragionevoli sono inficiati da una visione del mondo frammentaria, che si è sempre mantenuta come punto fermo rispetto ad altre esigenze. E’ per questo motivo il nostro destino è diventato una storia di frammenti che navigano disperatamente in un mare di incoerenza.

Da millenni, quindi, la nostra razionalità pur riuscendo a percepire due distinte correnti, due flussi d’emotività: una, che vorrebbe che preservassimo la nostra singola esistenza, la possibilità unica e particolare che ognuno rappresenta; l’altra, che ne facessimo qualcosa, che la inserissimo nel flusso incessante della vita, che la utilizzassimo legandola alle vicende degli altri o addirittura che arrivassimo a donarla ad altri, non sa come regolarsi di fronte ad esse. E così da millenni ci dibattiamo tra queste due correnti senza riuscire a fare tutti insieme una scelta precisa, coerente, davvero unilaterale. Così alla fine ognuno si lascia in un modo o nell’altro trascinare dalla corrente delle tante soggettività che è divenuta, proprio per questa generalizzazione, una corrente impetuosa che trascina perentoriamente ognuno di noi anche quando vorrebbe resistergli.

Come abbiamo visto al capitolo precedente il pensiero consapevole che si interroga sul da farsi, si divide tra coloro che  dicono: tutto sommato c’è solo un flusso, una corrente, che ci sbatte di qua e di là, quella dell’egoismo. Quello che pensiamo sia altruismo, moralità sono solo epifenomeni collegati. E tra quelli che invece insistono: le correnti sono davvero distinte ed ognuna trascina dalla parte opposta all’altra. Occorre fare una scelta precisa; decidersi da che parte andare. Decidersi se si vuole privilegiare se stessi o gli altri.
Ci sono infine coloro che hanno intuito già da molto tempo che la razionalità non potrà mai portarci a compiere le scelte giuste proprio perché non è riuscita a comprendere la nostra vera natura. La razionalità ci porta così a delle scelte che ci riguardano solo come esseri singoli. Scelte parziali dunque che non possono farci ricostruire il mondo nella sua corretta interezza. Mondo, dicono, che è sempre stato così e sempre lo sarà. Le nostre piccole esistenze diventano, secondo questa visione, marginali, irrilevanti. Più che fare, allora, dovremmo limitarci a “non fare”, ad aprire una grande finestra sul mondo (soprattutto su quello interiore), sulle emozioni, e passare una vita a guardare senza farsi coinvolgere più di tanto, poiché in questa situazione di parzialità ogni coinvolgimento è inutile e finisce per diventare dannoso.
La domanda, quindi, che non possiamo in alcun modo evitare è come porci e regolarci consapevolmente rispetto alle presunte spinte interne che avvertiamo. E iniziare, magari, chiedendoci: ci sono davvero varie spinte? E se davvero ci sono, quale sarebbe opportuno prendere in considerazione, per vivere nel migliore dei modi nostra vita e tendere verso un traguardo che ci renda felici? Oppure bisogna solo capire il modo di intrecciarle, di fonderle in una sola risultante che ci possa spingere nella corretta direzione.
Domande queste che sembrerebbero una prerogativa tutta umana; che non crediamo turbino minimamente gli altri esseri viventi che immaginiamo intenti a vivere in maniera meno problematica, per nulla  assillati da simili scelte. Potremmo anche noi comportarci come loro senza pensare troppo, senza scervellarci tanto, come si suole dire?
Gli orientali, come abbiamo accennato,  in fondo hanno tentato, se non proprio questa via, una abbastanza simile: la via permanente del qui ed ora, dell’attenzione rivolta prevalentemente sul mondo, sulle perturbazioni che ci circondano, che possiamo cogliere al di fuori di noi, come realtà concrete, ma anche dentro di noi come sensazioni, come immagini, suoni, ecc. Si eviterebbe così di vivere una vita spaccata in due: tra la partecipazione al mondo attuale e la costruzione di mille mondi futuri, al di là da venire.
Dopo un lunghissimo periodo di questo addestramento potremmo magari anche arrivare a non essere più capaci di utilizzare due parti del cervello in modo autonomo che come gli occhi del camaleonte possono guardare in direzioni diverse. Potremmo perfino arrivare a perdere queste caratteristiche che oggi, indubbiamente, ci fanno uomini. Potremmo ripiombare nella condizione di primati come lo siamo stati in passato. Ma servirebbe davvero a qualcosa? Servirebbe a migliorarci?

Eviteremmo forse lo strabismo, ma non servirebbe a farci cogliere consapevolmente la corretta natura della nostra individualità. La vivremmo solamente in modo passivo, magari sicuramente in maniera più intensa, ma senza possibilità di costruire qualcosa di nuovo, di rivoluzionario.
E’ come se davanti a noi, sul nostro cammino, ci fosse un fosso molto lungo e profondo da superare. Qualcuno è riuscito a trovare un’asta, uno strumento flessibile  per saltare  al di là del fosso, uno strumento che tutti possiamo usare, e noi invece di utilizzarlo in questo modo lo sciupiamo mettendolo come palo vicino ad una pianta per non farla crescere storta.
Senza l’utilizzo corretto dell’asta, senza una razionalità che si occupi del vero problema, siamo bloccati a vivere eternamente al di qua del fosso. Abbiamo l’asta ma l’utilizziamo per altri scopi, in fondo irrisori. Un’asta che tutto il mondo animale probabilmente sta cercando, per poter superare come noi, quel fosso.
Noi queste potenzialità le abbiamo già e non importa se le abbiamo ottenute in maniera fortuita o meno. Fatto sta che potremmo utilizzarle e non lo facciamo.
Eppure non siamo più nell’Eden, nella non consapevolezza come milioni di anni fa.

Mi chiedo se avremmo potuto fermarci lì per l’eternità. E la Risposta che mi do e che non avremmo potuto. C’è qualcosa in noi che ci spinge ad andare al di là, a superare i nostri limiti. E’ una spinta che contribuisce a renderci esseri viventi. Non possiamo eluderla, non possiamo bloccarla. Ma se siamo usciti dall’Eden non necessariamente siamo precipitati all’inferno. Potremmo trovarci in un luogo transitorio, in purgatorio, in un posto dal quale possiamo venir via, scoprendo magari un nuovo paradiso.
Sono congetture sulle quali sarebbe opportuno impegnare meglio e di più la riflessione.
Oggi siamo fermi sull’idea che ogni cosa e noi stessi siamo il prodotto di una casualità oppure di una pura causalità come, ad esempio, un Dio. Entrambe le cose non vogliono assolutamente dire niente. Che significa la parola casuale se non che ci sono eventi, cose, che non siamo in grado di capire, di svolgere secondo una precisa successione? E che significa divinità, Dio, se non una scatola vuota impiegata per nasconderci la testa dentro e far così finta di aver trovato delle risposte?
Forse più di casualità o causalità dovremmo parlare più opportunamente di una sperimentazione. Sperimentazione che significa avere degli orientamenti di massima, come un terreno vergine su cui camminare e capire, di volta in volta, dove è possibile e preferibile andare.
In questo modo appare sensato sostenere che se è spuntata fuori la razionalità potrebbe essere stato per un bisogno intrinseco dell’essere vivente  di utilizzarla per un determinato scopo. Questo scopo può essere solo la pura e semplice sopravvivenza, ma potrebbe essere anche qualcos’altro. Potrebbe essere, ad esempio, la creazione di una nuova unità esistenziale composta di individui pluricellulari. Il che ovviamente non significa disinteressarsi della propria sopravvivenza, ma caratterizzarla in modo tale da riuscire a perseguire anche un traguardo parallelo.
Due traguardi, dunque, e non solamente quello della sola sopravvivenza, anche se immaginata il più possibile scevra di dolori e ricca di piaceri. Due traguardi componibili, sintetizzabili in uno solo: quello di modificare le caratteristiche individuali in modo che si possa sopravvivere nel miglior modo possibile stabilizzandosi all’interno di un organismo come una società.

Quest’idea, però, ci trasmette immediatamente una certa apprensione e un immediato rifiuto. E’ logico. Oggi siamo individui che hanno determinate caratteristiche e non possiamo certo pensare, come purtroppo ha fatto assurdamente una politica passata come quella comunista, di creare per Legge certi tipi di società. Società in cui l’interesse pubblico, collettivo prevalga su quello individuale. E’ chiaro che una società deve essere il risultato armonico di una libera associazione di individui che giungano a “desiderare” di vivere in un certo modo. Se degli individui arrivano ad avere caratteristiche tali da propendere spontaneamente alla formazione di gruppi, allora la società diventa qualcosa di realizzabile. Se gli individui, invece, non hanno alcun desiderio di vivere una vita insieme e non riescono ad immaginare nient’altro che la propria soggettività come realizzazione dei processi vitali,  allora la società non può esistere. Esisterà probabilmente, come di fatto esiste, una pseudo-società, racchiusa da un “contenitore legislativo” che cercherà di regolamentare i rapporti di territorio, di vicinanza affinché non diventino eccessivamente violenti, al punto da innescare un generalizzato processo di desertificazione ostico alla vita.
Una autentica società non si può formare per Legge o perché la ritengono utile ed auspicabile un numero limitato di persone. La società deve essere il processo ultimo di una trasformazione individuale che ci faccia assumere caratteristiche tali da tendere spontaneamente ad una realtà superiore. Durkheim lo ha sostenuto esplicitamente: può esserci vera socialità solo se c’è un processo, cosciente o anche non cosciente, a costruire una nuova unità biologica che superi quella individuale.
La possibilità di costruire un’autentica società, in teoria la si può prevedere. Ma si deve prevedere, se si vogliono vincere le attuali resistenze di carattere psicologico, anche come ciò possa essere possibile.
Se volessimo usare come riferimento, ad esempio, un’unità strutturale come un individuo formato da una miriade di cellule in grado di collaborare tra di loro, ci troveremmo subito in difficoltà perché si evince immediatamente che una compattazione spaziale come quella per noi è impossibile. La nostra idea di struttura unitaria è ricavata dalla possibilità di veder compattate in un unico spazio varie suttounità. E fintantoché non siamo capaci di immaginarci una compattazione diversa, rimarremo dell’idea che oltre alla sopravvivenza non si debba fare nient’altro di veramente significativo, se non sopravvivere in modo più agiato possibile.

Da quanto però Einstein ha avuto l’idea di spazializzare il tempo e di farci letteralmente “vedere” una dimensione allargata a quattro, la possibilità di immaginarci una compattazione diversa potrebbe avere iniziato a prendere corpo. Compattarsi in uno spazio quadrimensionale! Potrebbe essere questa la soluzione.  Ma che tipo di compattazione sarebbe? A pensarci bene potremmo unirci per quella dimensione che ci è sempre apparsa come un lunghissimo, interminabile, filo: quella sequenza di momenti  che costituisce il tempo. Potrebbe essere l’ipotesi da prendere in considerazione e non scandalizzarci se anche nella costituzione delle società, dei  nuovi esseri autopoietici di terzo ordine, si potrebbe parlare di un insieme compatto da non ammettere soluzione di continuità. Il progetto sembrerebbe possibile!
Se siamo in grado di introdurre un’ipotesi, sia pure larvata, per costruire una società biologica, allora si apre anche uno spiraglio sulla possibilità dell’individuo di oggi, di aprirsi a nuove ed entusiasmanti possibilità esistenziali. E migliorarci così in modo davvero sostanziale.
Ma procediamo con ordine e tiriamo in ballo chi ha già riflettuto su idee simili.

 

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Bibliografia

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