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Antropologia della morte

di Federico E. Perozziello - Febbraio 2014

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Nell’Antichità Classica la morte aveva sempre recato con sé un destino angoscioso e angosciante di distruzione del proprio io corporeo e di dispersione dell’anima, costretta a vagare in un  mondo popolato da ombre, entità poco definibili, sia in senso propriamente linguistico che concettuale. Una regione da cui non vi era alcun ritorno. Anche i Campi Elisi, di cui si ignorava con precisione la collocazione e destinati alle anime dei trapassati benvoluti dagli dei, erano caratterizzati da un rapporto indefinito tra il merito acquisito nella vita reale  ed un premio da ricevere in quella ultraterrena. Il paganesimo amava incondizionatamente i piaceri della vita, perché provava disagio ed angoscia al pensiero della morte, la quale appariva come un futuro senza speranza e nel migliore dei casi privo di sofferenze. Uno status, quello dell’ombra del defunto,  collocato in un mondo triste e rinunciatario, che faceva apparire come desiderabile ogni altra possibile alternativa purché fosse illuminata dalla luce del sole.  Ne sono una prova il Mito di Orfeo ed Euridice e l’incontro nell’Ade di Ulisse con l’ombra di Achille, drammaticamente raccontato nell’Odissea.  L’Ade, l’oltretomba pagano vero e proprio, era descritto come un luogo con le caratteristiche di un ambiente fisicamente determinato, a cui si poteva accedere attraverso delle entrate geograficamente conosciute e presenti sulla superficie terrestre. Porte minacciose, che si aprivano verso il dolore ed il rimpianto, situate per i Greci presso il fiume Acheronte, nella desolata pianura dell’Epiro, oppure per gli antichi Romani in Campania, vicino alle cupe acque del lago Averno, dai riflessi plumbei ed insondabili.

Le ombre dei morti vivevano una condizione di esistenza sospesa, prive di forza e colme di mestizia per la luce del sole che avevano dovuto abbandonare. Spesso libere da ogni tipo di punizione per le cattive azioni commesse in vita, oppure di un premio per le loro virtù, quasi la morte fosse una condanna informe, una punizione indifferenziata e senza appello cui ogni essere vivente dovesse uniformarsi. Una condizione che non risultava attraente e di cui si rese drammaticamente conto l’astuto Ulisse nell’incontro con l’ombra di Achille, il più grande degli eroi greci e suo compagno di tante battaglie sotto le mura di Troia. Sacrificato su consiglio di Circe un montone nero, il cui sangue poteva risvegliare per un breve tempo il ricordo della vita precedente nelle anime dei trapassati, Ulisse scese nell’Ade per conoscere  dall’indovino Tiresia il destino che lo attendeva nell’interminabile viaggio di ritorno alla volta di  Itaca. Si imbatté così nell’ombra di Achille, che si distingueva nell’aspetto da tutti i restanti achei incontrati negli Inferi.  Rattristato dal colloquio appena avuto con l’ombra del defunto re Agamennone ed ammirato per la nobiltà di cui rimaneva pervaso il fantasma di Achille che gli stava innanzi, Ulisse cercò di consolare l’invincibile guerriero, che nella vita mortale aveva ricevuto i più grandi onori e che i viventi ricordavano come rivestito di eterna gloria:

 

“… un tempo, quando eri vivo, noi Greci ti onoravamo come un dio e anche adesso, in questo luogo oscuro, tu sei signore tra i morti. Pertanto non dolerti troppo d’essere morto, Achille.”

Così andavo a lui dicendo, ma rispondendomi senza attendere un momento, in tal modo egli parlò:

«Non lodare la Morte, splendido Odisseo. Preferirei essere un bifolco che serve il suo padrone, un diseredato privo di ogni ricchezza, piuttosto che primeggiare su tutte queste consunte ombre!» …”

 

da Omero, Odissea, XI, vv.  484-491

 

Questo passo colpì Sigmund Freud per la terribile immediatezza, tanto da citarlo e commentarlo nelle sue riflessioni intorno alla morte. Se lo teniamo ben presente, possiamo comprendere con quanta speranza il credo cristiano sia stato accolto nel mondo greco-romano. Il ricchissimo Trimalcione, il protagonista del Satyricon di Petronio Arbitro, termina il lungo, fastoso e volgare banchetto servito ai propri ospiti con una dissertazione sulla propria morte e su come desidera gli venga costruito un sepolcro. Un progetto funebre che ci appare unicamente come un simulacro materiale, destinato a perpetuare il ricordo del proprietario presso i vivi. Un’ostentazione di denaro effettuata da di chi si era comprato, attraverso la smodata ricchezza, un mausoleo fastoso e con esso la possibilità di essere ricordato attraverso la pietra. Un disperato ed infine tristemente inutile manufatto laico, privo di ogni speranza di salvezza ultraterrena. (11)

Ariès fece notare come la morte di una persona nell’Alto Medioevo non creasse alcun imbarazzo o vergogna, né tra i familiari del morente, né nel resto della comunità. Uno sconosciuto di passaggio, animato da intenti pietosi, poteva liberamente partecipare alla veglia funebre grazie alla comune fede religiosa. Anche i bambini divenivano spettatori dell’evento senza restrizioni, abituandosi a considerare la morte come una presenza inevitabile nell’esistenza, un ospite non certo accolto con gioia, ma a cui la rassegnazione, le miserie del quotidiano e la salvezza promessa dalla fede permettevano di riservare un’accoglienza intrisa di composta e quasi rassegnata speranza. Dopo la dipartita, se come abbiamo accennato la stagione lo permetteva, il morto veniva sepolto lontano dalle abitazioni perché non disturbasse i vivi. L’inumazione avveniva di solito in piccoli camposanti vicino alla chiesa locale, che vegliava con la sua presenza sulla comunità dei vivi e quella dei morti.  Si veniva sepolti preferibilmente vicino alla chiesa matrice del luogo, di regola senza lapidi per indicare il nome del defunto oppure altre forme di riconoscimento. Nel mondo migliore che attendeva chi aveva sofferto in vita di innumerevoli privazioni, le distinzioni legate al censo ed al rango si manifestavano in tutta la loro meschina vanità. Le persone ritenute più meritevoli, che avevano reso testimonianza di una vita integerrima e caritatevole, venivano sepolte in prossimità delle mura della chiesa e all’interno delle navate, presso le tombe dei santi e dei martiri, cui era riservato un posto d’onore sotto le volte del tempio. Si trattava della sepultura ad sanctos (sepoltura vicino ai santi), la più prestigiosa delle sistemazioni per l’aldilà. Nell’Alto Medioevo la visione della morte era quindi paradossalmente più serena, nonostante l’estrema precarietà della vita materiale. Le strutture statali dell’antico Impero Romano si erano dissolte nei Regni romano-barbarici, entità politiche malcerte, che non riuscivano ad assicurare la stabilità materiale alle popolazioni europee, immiserite e ridotte di numero dalle molteplici guerre, invasioni, epidemie ed infine dalle violenze del prepotente di turno.  Ariès denominò come  Morte addomesticata questa capacità personale e sociale di affrontare il finire della vita con una relativa fiducia verso l’esistenza ultraterrena.

A partire dal  XIV secolo, con il declinare del Medioevo, nonostante la morte mantenga ancora il carattere di una presenza familiare e di un momento inevitabile alla fine del vivere cui andare incontro con l’aiuto della fede, iniziò a manifestarsi diffusamente la  paura del giudizio finale. Divenne sempre più importante l’essere seppelliti all’interno di una struttura ecclesiastica o nelle sue immediate vicinanze, il poter dare delle disposizioni agli eredi per il mantenimento del proprio sepolcro. Si iniziò a pensare che il giudizio divino avvenisse direttamente al momento del trapasso e non alla fine dei Tempi. Un giudizio che non apparve più come serenamente e benevolmente  collettivo, riguardante l’intera comunità dei sepolti nei luoghi consacrati, in attesa della resurrezione dei corpi e della gloria delle anime, ma completamente e direttamente personale.

Si sviluppò la convinzione che per salvarsi occorresse morire in modo moralmente degno ed edificante, attraverso una ritualità che specie per i nobili ed i potenti  tendeva ad assumere i connotati di una vera e propria teatralità. Le rappresentazioni del momento del trapasso appartenenti a questo periodo mostravano spesso il letto del moribondo circondato da diavoli ed angeli che combattevano tra di loro, cercando di dannare oppure salvare l'anima del morente. A partire dalla seconda metà del XIV secolo la morte divenne la conclusione di una storia personale che raccontava di una vita  da rappresentare, se possibile, come un esempio edificante. Le lapidi tornarono ad essere personalizzate attraverso ritratti ed iscrizioni identificative e celebrative del defunto.  Si intese la morte come la Morte del sé, distruttrice di una individualità che nel proprio monumento funebre cercava di riaffermare una continuità esistenziale tra i vivi. Per chi se lo poteva permettere, crebbe l’importanza di un sepolcro materiale, insieme al decrescere di un più autentico sentimento religioso.

La svolta nella concezione della morte, avvenuta tra il Medioevo e il Rinascimento, fu dovuta all’immane trauma individuale e collettivo, biologico e psicosociale costituito dalla Peste Nera. La morte causata dall’epidemia si poteva definire come una morte selvaggia, non più addomesticata dalla fede, che si era trasformata da messaggera di un Dio buono e caritatevole in una dea pagana e maligna, crudele e indiscriminata nel suo agire. Una quasi divinità, connotata da un’appartenenza al sesso femminile come evidenziato in molte opere d’arte, signora del terrore e della disperazione. I medici del tempo la vedevano come un’entità indefinibile e minacciosa, un fattore che destabilizzava la loro razionalità ed esperienza e li costringeva spesso ad una fuga colpevole per evitare un contagio di cui ignoravano l’origine. Un destino imperscrutabile  che sapeva colpire inesorabilmente anche le vite più giovani e innocenti.  La malattia si incarnava in modo orrendo ed efficace nei corpi degli appestati, esseri cadaverici nei loro cromatismi esteriori ancora prima di essere realmente morti. Una morte che poteva e doveva essere considerata non più come proveniente dalla regione del soprannaturale, elargita da un Dio misericordioso, ma una fine che si presentava senza motivazioni logiche. Una disgrazia senza ragioni a partire dall’origine della malattia, che anticipava con la sua presenza la fine senza scampo di un essere umano spesso in giovane età,  oppure,  tagliando alle radici ogni speranza di rinnovamento sociale ed abolendo qualsivoglia giustificazione,  poteva colpire perfino un bambino innocente.

Come ogni forma di epidemia massiva ed indiscriminata la peste aboliva la dimensione consolatoria del morire cristianamente. Le popolazioni europee si erano confrontate per secoli con una morte individuale, ma collettivamente condivisa, colma di significati simbolici. Una fine che veniva accettata come un inizio, basato su di una nuova nascita diretta verso un’esistenza migliore ed ultraterrena nel nome di un patto fiducioso sancito dalla religione cristiana. Il travaglio e il dolore della fine avevano annunciato a lungo il meritato passaggio solo ad un’altra e più misericordiosa condizione esistenziale. Nei secoli oscuri dell’Alto Medioevo, nella miseria più profonda delle condizioni di vita per la maggior parte degli uomini, la morte era stata vista come una porta d’ingresso da varcare per entrare in una vita migliore, beata ed eterna, per accarezzare finalmente, dopo tanta sofferenza,  un orizzonte di consolazione definitiva. Per il cristiano del Medioevo, almeno fino al termine delle Crociate,  la vera nascita era dunque costituita dalla morte,  il Dies Natalis. Nell’Antichità Classica e nell’Alto Medioevo avevano regnato una concezione di rassegnata accettazione nei confronti dell’evento luttuoso. La morte veniva accolta come un come evento domestico, di natura quasi familiare e  naturale.  Inevitabile, ma capace di generare un sentimento consolatorio nel suo pervenire alla coscienza del singolo. Era Sorella Morte, come la invocava San Francesco d’Assisi nel suo Cantico delle Creature.

Nel Basso Medioevo, dopo il verificarsi delle grandi epidemie di peste, le cose cambiarono. Emerse una consapevolezza della morte come un tragico destino personale, come un evento fisico da cui non si poteva separare in alcun modo la sofferenza e la  decomposizione inarrestabile delle spoglie mortali. Tutto ciò portò ad una visione ideologica della morte di tipo disperante, a cui le epidemie fornirono una giustificazione. Si pervenne da un lato ad una visione cupa dell’aldilà e dall’altro ad una sorta di ricerca di un rinnovato godimento, magari nevrotico ed eccessivo, dei piaceri terreni. Sarà questo il destino della  Firenze rinascimentale di Lorenzo il Magnifico e del Neo-Platonismo, intriso dei ripensamenti e dei rimorsi di Sandro Botticelli e di altri intellettuali del tempo. Mentre gli anni scorrevano e si attenuava il rigore delle epidemie,  cambiò in modo progressivo la sensibilità di intendere la morte. Il Rinascimento, italiano prima ed europeo poi, risentirono delle guerre religiose e di un oscillare tra le due confessioni, quella cattolica e quella protestante, accomunate dal dichiarare di possedere entrambe una salda fiducia nella vita ultraterrena. Con il consolidarsi dell’Europa come una realtà formata dagli stati nazionali e sovrani, sempre più indipendenti dal potere ecclesiastico, la morte venne lentamente privatizzata. Una tonalità di fondo ignorata e quasi forzatamente nascosta, per impedire che riuscisse a devastare il senso positivo dell’esistenza, il quale  doveva sorreggere attraverso il lavoro l’intero impianto sociale e conferire una ragione alla vita delle persone.

Il moribondo non trascorreva più il momento del trapasso circondato dai suoi familiari, sorretti a loro volta dalla comunità. La famiglia  divenne l’esecutrice di atti stabiliti in vita dal defunto. Il malato grave venne lentamente spogliato del potere di richiamo compassionevole e di condivisione sociale. Iniziò ad essere evitato da chi non aveva rapporti umani troppo stretti con lui. La morte di un conoscente diventò sempre più difficile da accettare, in quanto non riguardava più un altro da sé, ma un’esistenza diretta, concreta  e privata che veniva a mancare in modo irreparabile. Si veniva ad aprire una voragine angosciosa legata ad un distacco che entrava di prepotenza nella vita dei congiunti, provocando ai sopravvissuti un grave danno umano e spesso anche di tipo economico.

Il crescere della popolazione europea nel XVIII secolo attribuì al cadavere un nuovo ruolo anche come problema igienico. I cimiteri, in precedenza edificati in ambito cittadino presso le chiese e le tombe venerate dei santi e che avevano abituato la gente alla presenza urbana dei morti, ad una convivenza quasi naturale con questi, vennero espulsi dalle città. L’Illuminismo e le successive riforme dell’Era Napoleonica proibirono il seppellimento nell’area urbana per motivi di salute pubblica. Nel 1804 venne emanato dall’imperatore l’Editto di Saint Cloud, con cui si obbligavano le amministrazioni cittadine a spostare i cimiteri al di fuori della cerchia urbana. Il Settecento, attraversato dall’orgoglio della ragione e dalla diffusione dell’Illuminismo, fece da preambolo a quello che diverrà per reazione il  fascino morboso e romantico del letto di morte nell’ideologia dell’Ottocento. La morte venne vista e sentita in modo seducente, all’interno di legami affettivi  familiari e interpersonali romantici. Sostenuta da una componente erotica sublimata e inserita magari sullo sfondo di un fluire drammatico di eventi che provocasse una fine legata spesso al suicidio o ad una lenta consunzione per malattia.

Sono questi alcuni degli argomenti trattati con eleganza e profondità riflessiva nel saggio La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica dal critico letterario ed anglista Mario Praz (1896-1982). Un libro del 1930 in cui i temi della morte e della sua seduzione mascherata, spinta fino ad una quasi manifesta perversità, vengono analizzati e portati a raggiungere una lucida consapevolezza. Anche la malattia onnipresente del Secolo XIX, la Tubercolosi, sembrò rivestire un suo ruolo funzionale in tale contaminazione erotica, tanatologica e tanatofila. La Tubercolosi uccideva lentamente e sembrava preferire i corpi più giovani ed attraenti, anime che nella piaga inarrestabile e progressiva che le devastava silenziosamente trovavano il senso di una vita smarrita, di cui la malattia diveniva un fondamento esistenziale. (12)

Nel corso del XIX secolo la creazione di grandi cimiteri suburbani, in cui gli abitanti della città dei vivi si recavano periodicamente a far visita ai loro cari defunti, portò ad una celebrazione della figura del morto attraverso la costruzione di tombe come testimonianze concrete di un ricordo. Il fasto adoperato nella costruzione del sepolcro rifletteva il successo economico ed il prestigio sociale della committenza. Ne sono un esempio alcuni cimiteri importanti da un punto di vista storico, artistico, sociale e perfino di costume, come quello parigino del Père-Lachaise, affollato dai turisti anche ai giorni nostri. Visitatori e curiosi ne percorrono i viali alla ricerca dei personaggi famosi che vi sono sepolti. Ammiratori si fanno fotografare vicino alla tomba di uno scrittore famoso o di un divo della musica rock, assorbendone una parte della fama e sentendosi per questo gratificati.

Con il  XX Secolo la morte diverrà qualcosa da nascondere, da mascherare e celare, un avvenimento che avrebbe dovuto turbare il meno possibile l’esistenza delle persone. Nella società moderna l’arrivo della morte viene in tutti i modi nascosto al malato, che non è più protagonista del suo destino, ma deve subire le volontà altrui. Le decisioni che lo riguardano vengono prese per lo più dai sanitari, i quali hanno il compito di liberare la famiglia da un peso gravoso, da scelte che i congiunti non sono stati preparati ad affrontare perché hanno vissuto fino a quel momento in un ambito di assoluta cancellazione del problema costituito dalla morte. Il luogo deputato al termine della vita diventa l’ospedale, che libera dalla morte i luoghi della quotidianità. Si nasce e si muore in ospedale, un ambito omnicomprensivo della parabola esistenziale dell’essere umano, ma tenuto sullo sfondo del panorama visivo, relegato in un angolo ben custodito del quotidiano a cui attingere a malincuore solo in caso di bisogno e di assoluta necessità. Il nosocomio si fa carico di una modalità indiretta di sorvegliare la vita delle persone, dando loro un riferimento pervaso dalla speranza di guarigione dalle malattie. Nel caso le terapie non abbiano funzionato, la presenza dell’ospedale come istituzione riduce i  timori per una possibile contaminazione da parte della morte delle abitudini quotidiane, costituisce un fattore importante di allontanamento dall’angoscia. L’exitus del malato, dell’amico e del congiunto viene così circoscritto ad un alveo di ineluttabilità a cui una sorte imperscrutabile ha condannato lo sfortunato. Gli obitori vengono costruiti nelle cittadelle ospedaliere lontano dal percorso dei sani e degli ammalati, spesso nascosti da pietose siepi e da macchie di alberi, in fondo a vialetti discreti ed a strade senza uscita, in cui si parcheggiano le automobili e si lasciano le residue speranze. Perfino i loro addetti, esercenti di un mestiere ingrato, ma necessario ed insostituibile, vengono demarcati e relativamente emarginati dalla comunità degli altri operatori della salute.

Quanto al malato, all’uomo sofferente, il moribondo non deve fare altro che preoccuparsi di mantenere un accettabile stile di vita mentre trascorre i suoi ultimi giorni, sforzandosi di ricercare una dignitosa modalità di affrontare la morte. Fino all'ultimo istante occorrerà fingere intorno a lui che non si muore mai, che in quel luogo in cui è ricoverato la morte sia un evento raro, che comunque non riguarda lui e che la sua vita ne sarà preservata. Mistificare la morte, nascondere quel sentore di irrappresentabile ed indicibile che sta aleggiando lì vicino, come uno spiffero freddo che entra da qualche parte, da una finestra socchiusa o da una porta mal accostata, è il comandamento da seguire, da osservare sempre. La si rende, la morte, un evento che riguarda gli altri, che si interessa a differenti storie umane, a vicende lontane da quelle dei malati, i quali ne avvertono comunque la presenza silenziosa e non ne possono discutere che a fatica, per il rifiuto conformista ed ipocrita degli eventuali interlocutori.

Conclusosi l’imbarazzante avvenimento con la dipartita dell’infermo, i congiunti non devono manifestare delle eccessive emozioni, abbandonarsi a manifestazioni di disperazione e neppure mantenere a lungo il lutto. Questi comportamenti possono costituire un ostacolo ad un più rapido e tempestivo ritorno nel circuito sociale e produttivo, allo stereotipo rassicurante di una vita attiva e dedita al consumo ed alla produttività. Una modalità di essere che sarebbe disturbata da comportamenti prolungati di lutto e di cordoglio, i quali inoltre non tenderebbero a nascondere la morte, ma a svelarla, a palesarla nella sua innominabile crudezza, nel suo porsi inevitabilmente e senza alcuna comprensione consolatoria davanti alla coscienza dell’uomo.

 

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NOTE

11) Petronio, Satyricon, a cura di Luca Canali, Milano, 1983.

12) Praz M., La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica,Milano, 2008.


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