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La funzione della coscienza e il libero arbitrio in una prospettiva scientifica
La questione del ruolo svolto dalla coscienza nel comportamento degli esseri viventi rappresenta senz'altro un elemento di importanza fondamentale per la costruzione di una teoria della mente che aspiri a una qualche rilevanza scientifica. Purtroppo la maggioranza dei ricercatori impegnata in questo campo sembra guardare in altre direzioni, senza essere minimamente sfiorata dalla domanda se la coscienza offra o meno dei vantaggi ai fini dell'adattamento all'ambiente.
Tale orientamento conduce spesso a proporre spiegazioni dei fenomeni mentali in termini di elaborazione automatica dell'informazione. Spiegazioni che si limitano sostanzialmente a trasferire agli organismi viventi e all'uomo, sulla base di analogie tutto sommato superficiali, concetti mutuati di peso dai campi dell'intelligenza artificiale e della cibernetica. Non c'è alcun posto per la coscienza all'interno di prospettive del genere. Né, tantomeno, ci si può aspettare che esse prendano in considerazione l'idea che la coscienza possa avere una qualche funzione nella gestione del comportamento degli organismi.
Se però assumiamo come punto di partenza i nostri vissuti coscienti, è difficile affermare che essi non abbiano alcuna rilevanza nelle nostre scelte e decisioni. Al contrario, il nostro comportamento appare fortemente influenzato da ciò che sperimentiamo istante per istante nella nostra dimensione interiore. Più in generale, la credenza che la coscienza offra dei vantaggi nella gestione e nel controllo delle attività finalizzate alla soddisfazione dei bisogni si presenta largamente plausibile. In maniera strettamente analoga, non abbiamo difficoltà a riconoscere una funzione adattativa ad altre facoltà mentali, come l'intelligenza, la creatività e la memoria.
Quando però si passa dalla semplice enunciazione di principio alle sue implicazioni più profonde, la prospettiva che la coscienza svolga un ruolo adattativo, ci pone di fronte a problemi rispetto ai quali sembra non esserci via d'uscita. Cosa significa infatti che la coscienza è in grado di migliorare l'adattamento dell'organismo, se non che essa agisce in modo da "aggiungere qualcosa" a ciò che già fanno per proprio conto gli ordinari processi nervosi del cervello?
Se non aggiungesse nulla, non potrebbe dare alcun contributo; sarebbe un puro riflesso dell'attività cerebrale, privo di qualsiasi rilevanza causale. Quest'ultima eventualità sembrerebbe però esclusa dalla considerazione che la coscienza è sorta a un certo grado di sviluppo della vita biologica e si è successivamente evoluta parallelamente all'evoluzione delle forme viventi. Ciò sembrerebbe confermare l'ipotesi che, sotto una qualche forma, la coscienza giochi un ruolo positivo nel processo di adattamento degli organismi all'ambiente.
La questione della funzione adattativa svolta della coscienza, strettamente connessa a quella della sua autonomia rispetto all'attività di specifiche aree neuronali, emerge in maniera ancor più eclatante nel momento in cui ci si rivolge alle forme di coscienza più sviluppate, tipiche dell'uomo, in particolare a quella espressione del tutto peculiare che viene comunemente chiamata volontà. Ognuno di noi, benché condizionato da un'ampia serie di fattori (genetici, ambientali, sociali, culturali, ecc.), sperimenta abitualmente un certo margine di autonomia, entro il quale esercitare la propria libertà di scelta (il cosiddetto libero arbitrio). L'intero ordinamento sociale, con le sue regole e le sue istituzioni, è, del resto, costituito sul presupposto che l'individuo sia, almeno entro certi limiti, libero e quindi responsabile delle proprie azioni.
L'autonomia della volontà e il libero arbitrio si presentano però in netto contrasto con la prospettiva che vede nella mente un mero prodotto dei processi nervosi che si svolgono nel cervello. Infatti, essendo detti processi vincolati alle ordinarie leggi fisiche, di carattere necessario, essi non possono che essere deterministici. Ci troviamo quindi di fronte allo stesso conflitto insanabile costituito dall'esigenza di riconoscere alla coscienza una funzione adattativa, contrapposta alla concezione scientifica tradizionale, per la quale ogni manifestazione della mente non può essere altro che una espressione dell'attività del cervello. Si tratta, anzi, di un'altra faccia dello stesso problema, che è sostanzialmente quello di trovare spazi di autonomia (e quindi di indipendenza) all'interno di una concezione della mente che rimane irrimediabilmente fondata sul determinismo.
Da un punto di vista prettamente formale, non si può ovviamente escludere che la presunta libertà di scelta e di decisione che gli esseri umani si attribuiscono sia del tutto illusoria; come non possiamo rifiutare, almeno in linea di principio, l'ipotesi che la coscienza costituisca soltanto un epifenomeno che compare spontaneamente all'interno di un certo tipo di organizzazione della materia quando essa raggiunge un determinato grado di complessità.
Ma perché dovremmo prendere sul serio tali eventualità? Perché dovremmo negare l'evidenza che ci viene dalla nostra esperienza quotidiana? Perché dovremmo ignorare una delle conseguenze più ovvie della teoria dell'evoluzione, per la quale ogni facoltà, mentale e non, fa la sua comparsa e si afferma negli organismi viventi soltanto se risulta utile all'adattamento all'ambiente?
Non ci sono altre motivazioni, né argomentazioni di una qualche plausibilità, eccetto la considerazione che l'autonomia della coscienza e il libero arbitrio appaiono in aperto conflitto con il metodo della scienza e con i suoi presupposti fondamentali. La constatazione che le tradizionali categorie scientifiche non riescono a render conto di alcune proprietà o manifestazioni della coscienza non solleva il minimo dubbio circa l'adeguatezza di tali categorie; questa difficoltà viene invece interpretata quasi di regola come un evidente indice dell'inaffidabilità dell'esperienza cosciente allorché essa viene utilizzata come base di conoscenza. In altre parole, il fatto che la coscienza, la volontà, il libero arbitrio, come pure i desideri, le aspettative, le convinzioni, ecc., non si prestino ad essere indagati con i metodi standard della scienza e, anzi, mostrino una evidente incompatibilità con essi, starebbe a indicare che c'è qualcosa di fondamentalmente sbagliato nel trattare queste espressioni della coscienza come "oggetti" su cui basare l'indagine scientifica. Di qui le soluzioni "eliminativiste" proposte da alcuni, come unica via per superare tali contrasti ed evitare di perdere tempo dietro a questioni inconsistenti: soluzioni che impongono di ridurre tutte le caratteristiche di natura soggettiva ai processi nervosi effettivamente osservabili con metodi oggettivi, limitando l'indagine esclusivamente ad essi.
E' appena il caso di osservare che si tratta di una soluzione attuata completamente al di fuori di quei principi di ipoteticità e di provvisorietà che dovrebbero guidare l'attività degli scienziati. Infatti, la negazione della rilevanza causale della coscienza o dell'esistenza del libero arbitrio, non vengono qui considerati come ipotesi (da sottoporre eventualmente a verifica), bensì come fatti necessari e inevitabili, rispetto ai quali non sono ammesse deroghe. In tal modo, il modello scientifico viene ad assumere una connotazione assoluta, nel senso che la coerenza con esso diventa il criterio ultimo, in riferimento al quale si stabilisce ciò che deve essere accettato e ciò che deve essere respinto dal dominio della realtà.
Astro Calisi - ottobre 2005 - aggiornato: gennaio 2006
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