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Droga e spiritualità

di Antoine Fratini
Gennaio 2016

 

L’analisi delle motivazioni psicologiche che determinano l’uso di droga nella società moderna presenta un quadro complesso difficilmente riconducibile ad una unica fonte teorica. La maggioranza dei consumatori di stupefacenti è costituita da giovani “in male di crescita”, che sembrano rimpiangere la relativa assenza di responsabilità propria di quel mondo infantile che devono lasciarsi alle spalle e dove il ricevere primeggia di gran lunga sul dare. Adottando l’ottica freudiana, si può dire che drogarsi rappresenta per loro un tentativo inconscio di ritrovare, nello “sballo”, la condizione di pienezza narcisistica e di relativa assenza di conflitto della prima infanzia. L’importanza di questo fattore regressivo è ormai di notorietà pubblica, ma non saprebbe essere ribadita abbastanza. Tuttavia, esistono anche numerosi soggetti che si rivolgono alla droga in assenza di una viva dimensione spirituale, carenza che non li rende pronti a “passare” alla vita adulta; e anche quando tale passaggio riesce sotto al profilo legale e sociale, essi continuano a sentirsi a disagio. In quel caso il punto di vista junghiano, maggiormente dinamico, appare più appropriato alla descrizione del fenomeno.

 

Il problema centrale e più universale dell’adolescenza consiste infatti nel dover incominciare a reggersi sulle proprie gambe. Da sempre l’uomo ha avvertito la necessità di trovare dei validi sostegni spirituali a tale scopo. Non sarà di certo la clinica psicoanalitica a smentirci su questo punto. In effetti, molti analisti si trovano loro malgrado a dover rispondere, nel transfert, a questo genere di appello alla spiritualità. Una delle grandi attrattive della droga è che sembra promettere una possibile via di esperienza di una realtà psichica posta al di fuori dell’Io. Ci vuole però un notevole sforzo di coscienza per non illudersi e per evitare di confondere il misterioso abitante dell’inconscio, regista della nostra vita profonda che Jung chiama Sé, con il proprio ego. In una mia precedente pubblicazione(1) facevo notare che generalmente chi si limita volutamente al “rito dello spinello” appare in questo senso più credibile di chi cade nell’inganno della droga pesante con il suo potere alienante di cui si rimane totalmente in balìa, sia per quanto riguarda l’effetto travolgente che per la conseguente dipendenza psicofisica.

 

Se volgiamo ora lo sguardo alle società tribali che nelle loro culture prevedono l’uso di sostanze psicoalteranti, vediamo profilarsi una situazione ben diversa. Da loro tabacco, marijuana, ayahuasca, peyotl, cocaina ecc. sono riservati ai membri maturi o agli iniziandi. Uno dei loro grandi insegnamenti, purtroppo molto distante dalla nostra cultura moderna, è che gli “spiriti” delle piante si impossessano di chi profana la loro dimensione sacra, cioè di coloro che vorrebbero impadronirsi del loro potere a fini prettamente egoici e quindi impropri. Tali sostanze vengono assunte secondo riti che hanno da tempo dimostrato la validità della loro funzione spirituale. A questo riguardo, essenziale appare ai nostri occhi la sacralità dell’esperienza (la quale richiede il sacrificio di pretese nevrotiche quali l’onnipotenza, la pigrizia, l’attaccamento ai valori del passato personale...), l’accettazione dei propri limiti, l’oggettivazione e il rispetto incondizionato delle forze (archetipiche) così attivate nell’inconscio. Tali contesti di ingestione(2), oltre a costituire una valida barriera contro il pericolo della tossicomania (problema effettivamente molto raro in queste civiltà), permettono l’accesso ad una certa esperienza del numinoso e quindi lo sviluppo di una propria interiorità spirituale mediante il contatto-dialogo con l’inconscio.

 

Un’altra differenza fondamentale di atteggiamento che salta per così dire agli occhi paragonando la mentalità moderna alla loro, consiste nel fatto che, mentre da noi ci si droga per “sballo”, cioè per uscire di sé(3), da loro il ricorso alla sostanza è finalizzato ad una ricerca di tipo interiore: il rapporto con gli spiriti-guida, con gli antenati totemici, con gli animali di potere, con le potenze inconsce benefiche o malefiche della natura umana. Per questo alcuni antropologi hanno attribuito a queste pratiche delle funzioni di volta in volta empatogene (che amplificano il sé) ed enteogene (che svelano o fanno percepire il dio dentro). Seguendo tale schema, si potrebbe proseguire dicendo che da noi le stesse sostanze rivestono invece funzioni exopatogene  (alienanti, che proiettano allo l’esterno) ed egogene(4) (che possiedono l’ego della persona). Tutto ciò porta ad una considerazione forse poco comoda, ma di enorme importanza: la qualità, positiva o negativa, della sostanza dipende maggiormente dall’atteggiamento psicologico (ovvero dal tipo di rapporto che si instaura con essa) che dalla natura del principio attivo ivi contenuta. Tale aspetto del problema dovrebbe, a mio modesto parere, essere tenuto in maggiore considerazione dagli addetti ai lavori in quel campo e favorire una politica di tipo educativo anziché basata sull’intervento chimico, sulla repressione e la prescrizione, come quella attuale che vieta certe sostanze solo per distribuirne altre.

 

Devo però fare notare, in guisa di conclusione, che Jung ci ha mostrato una via a noi occidentali moderni  forse più appropriata di qualunque ricorso alla sostanza per ripristinare il contatto con gli archetipi e coltivare il proprio lato spirituale. Questa via, che si inserisce tra l’altro nell’antica tradizione animista e che l'alchimia definiva anche “via umida” per l’importanza accordata al flusso delle immagini interiori(5), consiste nell’entrata nell’inconscio mediante il paziente lavoro esplorativo sui sogni, le fantasie spontanee e la propria sofferenza psichica. L’esperienza clinica dimostra infatti che da un tale lavoro non manca mai di delinearsi un senso elevato. A ciascuno poi il compito di metterlo in pratica e di realizzarlo nella propria esistenza.

 

   Antoine Fratini


 

Antoine Fratini lavora da oltre quindici anni come psicoanalista, è Vice Presidente dell'Associazione Psicoanalisti Europei e membro attivo dell’Accademia Europea Interdisciplinare delle Scienze. Egli ha scritto nel 1991 il saggio Vivere di fumo (Book Editore, Bologna) sul rapporto tra adolescenza e uso di stupefacenti leggeri, nel 1999 il saggio Parola e Psiche (Armando, Roma) sul collegamento tra gli indirizzi linguistico e archetipico in psicodinamica e decine di articoli su riviste e siti italiani e stranieri. Poeta e artista, egli ha fondato assieme all’Associazione Culturale C.G. Jung di Fidenza il Movimento per l’Arte Naturale, corrente artistica basata sul pensiero junghiano, e le sue poesie compaiono sui maggiori siti del settore. La sua ultima pubblicazione: Psiche e Natura, fondamenti dell'approccio psicoanimistico, Zephyro Edizioni, 2012.

 

 

NOTE

1) A. Fratini, Vivere di Fumo, Book Ed., Bologna 1991

2) J. Mabit, Sciamanismo e tossicomania, in Uroboros N°5, Associazione Jung, Fidenza 1994.

3) Esiste tra i  nostri giovani espressioni curiosi e molto significative a questo riguardo come per esempio “essere fuori come un balcone” o “camminare al di fuori delle proprie scarpe”.

4) Vedi rivista Altrove N°2, Società Italiana per lo Studio degli Stati di Coscienza, 1995

5) E. Perrot, La voie de la transformation, La fontaine de pierre, 1980.


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