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Il ruolo della famiglia e la famiglia in Calabria

di Domenico Caruso - Agosto 2017

 

Aristotele (384-322 a.C.), per Dante il "maestro di color che sanno", sostiene che l'uomo può raggiungere la felicità soltanto pervenendo all'autosufficienza. Il filosofo greco intende per tale capacità «non il bastare a sé solo di un individuo, che conduce una vita solitaria, ma anche il bastare ai suoi parenti, ai figli, alla consorte e infine ad amici e concittadini, poiché per natura l'uomo è un animale politico (zóon politikòn)», cioè un essere sociale. (Eth.Nic., I, 7)

Fin dalla preistoria l'uomo visse in gruppi, come testimoniano numerosi reperti archeologici e pitture rupestri. In tutte le civiltà l'istituzione della famiglia svolse un ruolo indispensabile e costituì la cellula della società.

A rigore dette affermazioni potrebbero sembrare azzardate, ma è certo che la collaborazione fra persone e la loro disposizione sociale sono sempre esistite.

Il termine famiglia deriva dal latino classico familia che non trova un corrispondente al significato moderno ma, come afferma il giurista romano Gaio (II sec. d.C.), si riferisce al patrimonio. Poteva indicare soltanto persone e cose soggette all'autorità del capo famiglia (patria potestas). Anche nel greco antico mancava una voce adeguata e il sinonimo si allaccia a genea che può voler dire sia prole che generazione.

In tempi remoti si ipotizza che vigessero le società matriarcali, confermate dal culto della Grande Madre (presente fino al 1500 a.C.) rappresentato dalla statuetta della Venere del Gabàn risalente al primo Neolitico.

In Egitto, a differenza di altri popoli semiti, la donna godette degli stessi diritti dell'uomo; il suo modello si ispirava alla dea Iside, trionfante sulla morte e dispensatrice di prosperità. Il matrimonio era monogamico e la moglie, se non contenta, poteva divorziare e riprendere i suoi beni.

Fra gli Ebrei, al periodo matriarcale seguì un rigoroso patriarcato: la donna veniva acquistata con la dote (mohar) ed il marito ne era padrone.

La tradizione mosaica riconosceva all'uomo il diritto di ripudio; anche la poligamia e il divorzio erano per lui legali. L'unione coniugale per gli Ebrei costituiva, oltre che un obbligo, lo scopo della creazione stessa. L'impegno assunto nei confronti della comunità proveniva dalla Genesi (1, 28): «Crescete e moltiplicatevi e riempite la Terra». L'assenza di prole e la vita solitaria erano considerate una vera disgrazia.

In Grecia la donna andava sposa in giovanissima età, con l'uomo molto più anziano che il padre per contratto le sceglieva, e diveniva pupilla dello sposo.  Se il patto s'interrompeva, ella tornava sotto l'autorità del genitore. La moglie viveva con le figlie all'interno della casa, tessendo e filando, nel posto a loro riservato (gineceo). Nelle famiglie facoltose gli schiavi attendevano ai lavori domestici, mentre gli uomini raggiungevano la piazza del mercato (agorá).

Il fine principale del matrimonio per ogni ateniese fu di ordine religioso. Il cittadino avrebbe dovuto procreare almeno un figlio che lo aiutasse durante la vecchiaia e ne ereditasse il culto familiare. Ad esercitare il controllo della famiglia era sempre il padre, il quale poteva persino abbandonare a morire un bimbo qualora ritenesse di non avere i mezzi sufficienti per allevarlo o fosse nato cagionevole di salute.

A Sparta le giovani, al pari dei maschi, venivano sottoposte ad un rigoroso allenamento fisico. Anche le nozze si risolvevano con un atto di forza: l'uomo si caricava la donna sulle spalle e la portava via.

Nei paesi iranici furono ammessi i matrimoni fra consanguinei.

A Roma il matrimonio consistette in un accordo fra due famiglie stipulato a voce, alla presenza di alcuni testimoni adulti. Il concilium, la saggezza, ovvero la parola ricca di implicazioni, rappresentò uno dei valori della latinità. Così pure si manteneva fede alla parola data.

La moglie era coi figli sottomessa al marito (pater familias), il vero padrone di casa. Il matrimonio, che letteralmente significa condizione legale di mater - (un privilegio della donna), fu definito - fino al tardo periodo repubblicano - in manu poiché trasferiva la patria potestas dal genitore allo sposo. Quest'ultimo dava al suocero delle monete di bronzo, probabilmente come un indennizzo simbolico per avergli sottratto la figlia. Una giovane, coabitante qualche tempo con un uomo che possedeva i requisiti necessari, passava a far parte della famiglia e poteva contrarre matrimonio. Le donne - tuttavia - non acquistavano una posizione giuridica definita e rimanevano in loco filiae (come figlie).

Soltanto nella prima età imperiale si pervenne al matrimonio libero col consenso di entrambi gli sposi e l'aiuto economico delle rispettive famiglie. Pure le donne, quindi, si rivelarono capaci di amministrare i loro beni come si rileva dal nascere delle attività artigianali e commerciali gestite con successo dalle stesse. Dal primitivo passaggio di proprietà si giunse all'affectio maritalis; venendo meno questo rapporto si poteva divorziare e la donna acquistava gli stessi diritti dell'uomo. La sacralità della famiglia costituiva il fondamento della società romana. L'istruzione primaria dei giovani appartenenti alla classe aristocratica era affidata ad uno schiavo colto (paedagogus), mentre i meno abbienti ricorrevano a scuole private talvolta poco raccomandabili.

Nell'Occidente, con mutamenti vari, la famiglia subì l'influsso romano. Essa, infatti, risultò monogamica e patriarcale con l'uomo a capo che, almeno all'origine, fu il solo a rivestire un ruolo giuridico.

Con l'avvento del Cristianesimo il matrimonio non fu più un'istituzione nell'accezione formale del termine, ma divenne un sacramento e un vincolo affettivo che unisce due persone (marito e moglie) nel rispetto biblico: «Quod Deux coniunxit homo non separet». (Quello che Dio ha unito l'uomo non divida). (Mt 19, 6).

Dopo questa sommaria rassegna storica, è d'obbligo soffermarci sul ruolo svolto in passato dalla famiglia nella nostra Regione.

 

Per il calabrese la dimora paterna è un punto essenziale che esprime l'identità umano-sociale di ognuno «fino a identificarsi non solo con il luogo dove egli può incontrare la sua famiglia, ma con la famiglia stessa. Se questo vale principalmente per la famiglia "matriarcale", l'analisi resta valida anche per ogni configurazione attuale della famiglia stessa. Forse proprio per questo l'ethos familiare trasmigra naturalmente anche in quello sociale, ove si pensi che il significato originario di "ethos" è proprio quello di dimora e abitazione: così lo usano Omero ed Erodoto».

In Calabria, come per altre aree del Regno di Napoli, fin dal XVI secolo la società fu divisa in tre classi: il popolo, il ceto medio e l'aristocrazia, nonché il clero che costituiva una categoria a sé che prendeva parte a tutte le altre.

Il proletariato, formato essenzialmente da contadini, piccoli proprietari di terra ed altri individui privi di beni propri, era il settore più numeroso. Per un modesto salario giornaliero si lavoravano i campi o si esercitavano lavori manuali e artigianali che procuravano un sufficiente sostentamento della propria famiglia.

A volte ai braccianti venivano affidati i campi delle persone più agiate con varie forme di contratto: il più diffuso comportava la cessione di un quarto o di un quinto della produzione annuale del terreno da consegnare al legittimo proprietario. Così la famiglia tradizionale, essenzialmente agricola, numerosa e concorde si riuniva la sera alla stessa tavola per consumare il modesto pasto quotidiano che assolveva, oltre ad un'esigenza fisica, un motivo di dialogo tra padri e figli. Talvolta rimanevano in casa i genitori di uno dei coniugi.

Il ceto medio era composto principalmente da artigiani (piccola borghesia) e da quanti esercitavano un mestiere che procurava loro un reddito sufficiente.

La terza categoria, di provenienza feudale o aristocratica, deteneva la maggior parte della ricchezza costituita essenzialmente da vaste estensioni di terra.

Il clero, che attingeva il proprio reclutamento a tutte le classi, godeva di particolari privilegi poiché gestiva il consistente patrimonio ecclesiastico.

Soltanto le famiglie medio-alte, oltre al genitore, disponevano di qualche sacerdote per l'alfabetizzazione dei loro figli. Oggi fortunatamente anche i giovani volenterosi del popolo possono accedere all'università, una volta riservata ai signori.

Per quanto riguarda il matrimonio, al tradizionale periodo che poneva la donna in condizioni di inferiorità rispetto all'uomo, seguì quello di transizione ed infine l'epoca attuale dell'emancipazione femminile.

«Una volta», (mi riferì nonna Vincenza Femìa da Laureana di Borrello), «gli innamorati nei loro incontri a casa della ragazza stavano seduti distanti sotto gli occhi vigili dei severi genitori, senza potersi esprimere alcuna profferta d'amore o confidenza. Così soltanto dopo sposati, due giovani, ignari l'uno delle menomazioni dell'altro, si rivelarono: - Scusati se vi gabbai: cu' n'anca di lignu mi maritai! / - E jeu gabbai a vui, ca l'haju di lignu tutte e dui! (- Scusate se vi ho ingannata: con una gamba di legno mi sono sposato! / - Ed io ho gabbato voi, avendole di legno tutte e due!)».

L'immigrazione di etnie diverse, la cultura dei mass media, l'unione politica dei vari Stati tendono sempre più ad omologare il nostro stile di vita a quello degli altri popoli.

Il modello calabrese più noto è quello della famiglia nucleare allargata, per cui alla madre viene affidata la gestione interna della casa ed al padre quella del patrimonio economico e morale. La rete di rapporti e di cooperazione tra i fratelli e gli altri membri (nonni, parenti) è un autentico dono che onora l'intero paese. Infatti, «oggi la famiglia appare priva di valori da trasmettere e nella società servono valori e modelli di vita». (Evandro Agazzi).
 La sicurezza e la stabilità della nostra gente, oggi che la crisi investe ogni popolo ed ogni settore, è un presidio contro tutte le forme degenerative della comunità.

Quando la società non si basa sulle solide fondamenta della famiglia, in particolare su quelle etiche, è destinata al fallimento.

E' bene ricordare il detto riguardante le tre cose che rallegrano il cuore: la concordia dei fratelli, l'amore dei vicini e l'accordo fra coniugi.

Proprio il rispetto di questa verità distingue ogni buon calabrese!

 

Domenico Caruso

S. Martino di Taurianova (R.C.)

Servizio pubblicato sul mensile "La Piana" di Palmi-RC - Anno X, n.2 - Feb. 2011

 

NOTE

1) Da Essere famiglia in Calabria di Ignazio Schinella - pubblicato sul bimestrale La Famiglia, n.164 anno XXVIII / marzo-aprile 1994 - Editrice La Scuola, Brescia.

2) Domenico Caruso, Storia e Folklore Calabrese - Centro Studi S. Martino - S. Martino (RC), 1988.

 

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