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Le tre fiere dantesche
di Domenico Caruso - Maggio 2015
Per i 750 anni della nascita del Divino Poeta presento un mio modesto servizio riguardante i principali vizi capitali: la lussuria, la superbia e l’avarizia.
Dante nel Convivio (II, 1) dichiara che la sua Commedia può essere intesa sotto quattro sensi: letterale (non esteso oltre le parole), allegorico (che si nasconde sotto il manto delle favole), morale («quello che i lettori devono andare appostando per le scritture ad utilità loro e dei loro discenti») e anagogico (cioè, sovrasenso). Se poi consideriamo la convinzione che ha l’Alighieri di dover riportare l’umanità corrotta sulla retta via, l’opera assume anche un alto valore didattico. Nell’aspetto figurale, il venerdì santo (8 aprile) del 1300 il poeta intraprende un viaggio immaginario ultraterreno. In senso allegorico è la sua conversione dallo smarrimento temporale nella selva oscura (il mondo dei vizi e delle passioni) in cui viene a trovarsi ogni individuo. Ma con l’aiuto di Virgilio (simbolo della ragione umana) e per intercessione di Beatrice (la verità rivelata) giunge alla visione divina. L’aspetto morale riguarda l’ammonimento di evitare il male e perseguire il bene. Gli uomini, quindi, si salvano (senso anagogico) osservando la guida dell’Impero (Virgilio) e della Chiesa (Beatrice). Non è tanto importante l’improvviso risveglio della coscienza nel ritrovare se stessi, quanto l’ansia di uscirne. In tale dimensione letterale, che coincide con il proposito etico, si affaccia l’episodio delle tre fiere che sbarrano il passo al poeta:
Ed ecco quasi al cominciar dell’erta,
una lonza leggiera e presta molto,
che di pel maculato era coverta
e non mi si partía d’innanzi al volto
anzi impediva tanto il mio cammino. (Inf. I, 31-35)
E’ la prima forza del male, la lussuria, rappresentata dall’agile lonza, che spinge Dante verso la foresta. L’eleganza del leopardo ha effetti seducenti, il suo pel maculato estingue il vizio, sicché il malcapitato è sul punto di retrocedere: «ch’i’ fui per ritornar più volte volto».
La belva è pure il simbolo della frode e dell’incontinenza, così evidenti nella sua Firenze dalla politica instabile. Una tempesta di vento trascina gli spiriti dei peccatori carnali, sbattendoli tra di loro prima ancora che contro la muraglia.
Per la legge del contrappasso, la bufera infernale travolge i lussuriosi con l’intensità che il vizio li agitò sulla Terra. Giunti alla frana (che si tramanda fosse stata provocata dal terremoto che seguì alla morte di Cristo), s’intensifica la sofferenza dei dannati:
Quando giungon davanti alla ruina,
quivi le strida, il compianto, il lamento;
bestemmian quivi la virtù divina. (Inf. V, 34-36)
Il V canto dell’Inferno raggiunge toni altamente drammatici. Come ha osservato Francesco De Sanctis: «Gloria di Dante è stata d’averci mostrata intera la passione, desiderio intenso e pieno di voluttà, ma innalzato a sentimento, ma reso verginale dal velo che la natura stessa suole insegnare all’amore, dal velo della verecondia».(1)
Il libro di Ginevra e Lancillotto (mezzano, come nel romanzo è Galeotto) infiamma i sensi di Paolo e Francesca facendoli unire in quell’abbraccio che si conclude nell’abisso di morte e di peccato, il cui racconto fa svenire Dante.
In soli tre versi, secondo i canoni dell’amore cortese e stilnovistico, vi è tutta una storia:
Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende […] Amor, ch’a nullo amato amar perdona […] Amor condusse noi ad una morte. (Inf. V, vv. 100-103-106).
Nel Purgatorio i lussuriosi, secondo la colpa, sono divisi in due schiere che procedono in senso inverso. Avvolti dalle fiamme, cantano il Summae Deus clementiae (Dio di infinita benevolenza) e predicano esempi di castità.
La lussuria diviene peccato se il corso della vita quotidiana è ostacolato da continue fantasie erotiche. Il desiderio disordinato del piacere sessuale (la concupiscenza carnale) ricercato per se stesso, che non tende alle finalità della procreazione (garanzia della sopravvivenza del genere umano) e dell’unione è condannato dalla Chiesa. S. Paolo afferma:
«Non illudetevi: né gli impuri, né gli idolatri, né gli adùlteri, né gli effeminati, né i depravati, né i ladri, né i cupidi, né gli ubriaconi, né i maldicenti, né i rapaci erediteranno il regno di Dio » (1 Cr 6, 9-10).
«L'amore sensuale», per Sigmund Freud (1856-1939), «è destinato a spegnersi una volta soddisfatto; per poter durare, esso deve essere associato, fin dagli inizi, ad elementi di pura tenerezza, deviati dallo scopo sessuale, o subire ad un certo punto una trasposizione di questo genere». (Da Introduzione al narcisismo, 1914). Per il fondatore della psicanalisi, il comportamento sessuale umano può essere influenzato o compromesso dalle regole culturali in cui l’individuo vive.
La definizione di lussuria, dal latino luxus (abbondanza, esuberanza), coincide con la parola lusso (sfarzo, eleganza).
Nel linguaggio comune spesso il termine è associato ad eros (erotismo) che per la psicologia freudiana potrebbe derivare da mela (latino malum), male. In quest’ultima accezione la lussuria, se moderata, non dovrebbe costituire peccato capitale. Durante il Medioevo, la mela era simbolo di seduzione.
Con le mutazioni culturali intervenute nei secoli, la sessualità ha subìto varie interpretazioni ed oggi - per molti - equivale ad un semplice piacere.
L’itinerario spirituale della Divina Commedia può ancora guidare a ritrovare se stessi, partendo dalle tenebre alla luce. E’ uno splendido mattino di primavera, stagione propizia al bene che ricorda il miracolo della creazione e induce a trarre lieti auspici dalla fiera dal mantello screziato (sottolineo, per inciso, il senso artistico del poema).
Dante, proseguendo nel suo viaggio, incontra un leone (il vizio della superbia; oppure, la prepotenza della monarchia francese di Filippo IV il Bello):
…ma non sí che paura non mi desse
la vista che m’apparve d’un leone.
Questi parea che contra me venesse
con la test’alta e con rabbiosa fame,
sí che parea che l’aere ne temesse. (Inf. I, 44-47)
E’ nel Purgatorio (vera storia di Dante) che, curvi sotto enormi massi, avanzano per la prima cornice i superbi. Applicando per contrasto la dura legge del contrappasso essi, che in vita tennero alto il capo, ora sono costretti ad abbassarlo.
Il poeta molesta il loro orgoglio esortandoli all’umiltà, dalla quale nascono i meriti che trasformano i miseri vermi in angeliche farfalle:
O superbi cristian, miseri lassi,
che, della vista della mente infermi,
fidanza avete ne’ retrosi passi,
non v’accorgete voi che noi siam vermi
nati a formar l’angelica farfalla,
che vola alla giustizia senza schermi? (Purg. X, 121-126)
La superbia, il vizio più radicale, è l’affermazione della propria superiorità - vera o presunta - dalla quale si attende un riconoscimento.
Imparentata con l’invidia, come questa dimostra un carattere relazionale; ma nel confronto con gli altri non sopporta di venire superata. D’altra parte è servile, in quanto è pronta a strisciare se va in rovina.
La terza fiera, una lupa (l’avarizia riguardante la degradazione morale; la Curia romana in politica), carica di brame turba tanto l’animo del poeta da rendergli disperata la conquista della sommità del colle. E mentre viene sospinto verso la selva oscura, prova la stessa inquietudine che ha l’avaro nel momento in cui perde la sua ricchezza:
E qual è quei che volentieri acquista,
e giunge il tempo che perder lo face,
che in tutti i suoi pensier piange e s’attrista;
tal mi fece la bestia senza pace,
che, venendomi incontro a poco a poco
mi ripigneva là dove il sol tace. (Inf. I, 55-60)
Nel quarto cerchio dell’Inferno si ammassano infiniti dolori: avari e prodighi si scontrano fra loro, come le onde sopra Cariddi (nello Stretto di Messina); rotolano pesanti massi ed a metà percorso si rinfacciano le colpe:
«Perché tieni?» e «Perché burli?»
(“Perché tieni stretto il denaro?” e “Perché lo butti via?”).
Diversa è la visione nella quinta cornice del Purgatorio.
Sul far dell’alba a Dante appare in sogno:
… una femmina balba,
negli occhi guercia e sovra i piè distorta,
con le man monche, e di colore scialba. (Purg. XIX, 7-9)
E’ il simbolo dell’avarizia, della gola e della lussuria.
Mentre il poeta insiste nel fissarla, si attenuano i difetti e la megera si trasforma in una sirena fascinatrice. (Chi non abbandona il vizio, ne rimane prigioniero!):
“Io son” cantava, “io son dolce serena,
che’ marinari in mezzo mar dismago;
tanto son di piacere a sentir piena!...”. (Purg. XIX, 19-21)
Dal Vecchio Testamento rileviamo come siano condannati dalla legge divina la fornicazione e l’adulterio; l’apologo potrebbe far intendere anche il male dell’avarizia. Una sera, alzatosi dal letto, Davide scorge dal terrazzo della reggia la bella Betsabea che fa il bagno. S’informa ed apprende che è la moglie del capitano delle sue truppe: Uria l’Ittita, impegnato nell’assedio della città ammonita di Rabbah. Annebbiato dalla passione, il re d’Israele la convoca ed i due commettono adulterio. Concepito il figlio, la donna lo fa sapere a Davide. Questi, allora, per mascherare la paternità del nascituro richiama in patria Uria. Ma l’ufficiale, invece di andare a casa, dorme coi servi all’ingresso della reggia, non ritenendo giusto godere degli agi domestici mentre i compagni rischiano la vita al fronte. Davide tenta inutilmente una seconda prova facendo ubriacare Uria. Allora fa mandare e lasciar solo il capitano in prima linea dove trova la morte. Passati i giorni del lutto, il re finge di prendere sotto la sua protezione la vedova che dà alla luce il frutto del peccato. Ma il male non può essere occultato agli occhi di Dio, il quale ispirò il profeta Natan a presentarsi da Davide per esporgli quanto segue: «C’erano, nella stessa città, un ricco e un povero. Il primo possedeva greggi e armenti in abbondanza, l’altro soltanto un’agnella che aveva comprata, allevata e cresciuta assieme ai figli, e come loro era considerata. Un viandante giunse dal ricco che mandò a rubare l’animale del povero per offrire una vivanda all’ospite. Per il Signore quell’uomo era degno di morte e avrebbe pagato quattro volte il valore dell’agnella».(2) L’ammonimento era indirizzato a Davide che avrebbe perso il bambino dell’adulterio e le cui mogli sarebbero passate ad altri. Il re si pente, digiuna, consola Betsabea e da lei avrà poi il figlio Salomone, futuro erede d’Israele.
Prima di concludere il mio servizio, alquanto frammentario per motivi di spazio (prendo a prestito il paragone del poeta:
…trassi dell’acqua non sazia la spugna - Pg XX, 3),
gradirei che il più grande poema del mondo venisse meglio conosciuto. Esso costituisce il sicuro rimedio alla nostre preoccupazioni ed il vero sollievo dell’anima: dalle paure dell’inferno alla liberazione del purgatorio, fino alla gioia del paradiso vi è tutto il cammino da percorrere per la nostra piena realizzazione.
Domenico Caruso
NOTE
1) Da Lezioni e saggi su Dante, Einaudi - TO, 1967.
2) Rid. e adatt. da: La Bibbia - Samuele 2 12:1-6, Ediz. San Paolo - 2010.
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