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Musica cristallizzata
di Francesco Scoditti
- Luglio 2024
Cos'è una bella costruzione, per rifarci a Schelling, se non una forma musicale percepita con gli occhi, un concerto di armonie e collegamenti armonici espresso non in una successione di tempi, ma in una successione di spazi? Musica e architettura, un'analogia che affonda le sue radici nel mito e in antichi misteri, come quello di Anfione, figlio di Zeus e di Antiope, che ricostruisce le mura di Tebe con il suono della sua lira.
La consapevolezza di una sorta di ideale legame tra architettura intesa come spazio organizzato, insieme di proporzioni matematiche e Musica, rimane piuttosto costante nel tempo: ad esempio, musica e architettura, si incontrano in modo completo e avvincente nel teatro di Dioniso in Atene, che con la sua forma circolare aperta al cielo e con la sua forma di cono rovesciato, favorisce la propagazione della voce e degli antichi strumenti musicali, kithare, auloi…. Per i greci il teatro è il luogo dove regnano euritmia e armonia, attraverso una tecnica fondamentale di sintesi, la choreia, o unione perfetta dei tre linguaggi, poesia, musica e danza. Più tardi gli architetti romani, regolando le dimensioni dei templi e gli intervalli tra le colonne, stabilirono i canoni descritti nel trattato vitruviano, con le stesse misure delle consonanze fra i suoni; l’unisono (1:1), l’ottava o diapason (1:2), la quarta o diatessaron (3:4), la quinta o diapente (2:3), accordi di numeri e accordi di suoni assunti come modello dell’armonia universale.
Fondamentale per l’antichità era il concetto di educazione (paideia), basata in gran parte sulla espressione artistica completa, intesa appunto come choreia, da coltivare in spazi dove si avvertiva il sacro, creando così le premesse per la creazione e vocazione di luoghi dove si poteva entrare in contatto visivo con tutti quegli elementi costruttivi favorevoli alla sacralità. Con lo scorrere dei secoli gli architetti hanno creato luoghi che permettono di “misurare ciò che è compreso tra il cielo e la terra”(1), fondati su quelle forme che si basano sul principio della concordia discors e sullo scorrere del ritmo dei volumi, come un gioco rigoroso e libero di una partitura contrappuntistica. Ci sono templi e chiese dove si viene a creare un rapporto enigmatico fra il commensurabile fisico, che è oggetto dell’architettura, e l’incommensurabile spirituale, tra l’armonia degli occhi e il suono paradisiaco delle voci corali, quello stesso rapporto che in fondo noi cogliamo nel concetto di prassi, cioè di musica eseguita, reale e di Musica teorizzata, quest’ultima caratterizzante il pensiero antico presente nei pitagorici e in Platone(2).
Allora cogliamoli questi rapporti, ad esempio, nel grande architetto Palladio, che parla di esplicite proporzioni: 1:1; 3:4; 2:3; 3:5; 1:2, che vuol dire, in termini musicali, l’unisono, la quarta o diatessaron, la quinta o diapente, la sesta maggiore e l’ottava o diapason, una vera e propria partitura o orchestrazione di spazi in termini armonici, che dipendono strettamente dalla divisione pitagorico-platonica della scala musicale e dalla sua musica teorica(3). Il principio della proporzionalità, il rapporto, cioè, tra le tre misure che riguardano la larghezza, la lunghezza e l’altezza di un ambiente, si intrecciano con le proporzioni musicali armoniche, che poi in fondo nella riflessione antica sono proporzioni aritmetiche.
Perché, quindi, non immaginare anche accordi non pitagorici basati su semitoni e quarti di tono, rapporti di 3/5, di 4/5 di 5/6 e di 5/9, quelli individuati dal compositore e teorico Gioseffo Zarlino (1517 –1590), che potrebbero collegarsi ad armonie visive architettoniche irregolari, ardite, moderne…
Esiste, quindi, o comunque può essere intellettualmente colta tra musica e architettura una analogia strutturale che permette addirittura di tradurre in spartito o in un progetto edificabile un linguaggio nell’altro, una musica in una architettura e viceversa. “Al musicista uno spartito consente di vedere ciò che sente. Nella pianta di un edificio si dovrebbe leggere un’armonia di spazi nella luce……la vocazione musicale di una architettura o la vocazione architettonica di una composizione musicale si rivelano anzitutto attraverso la mediazione della soggettività e il meccanismo della memoria involontaria”(4).
Pensiamo a tutte quelle forme architettoniche in cui le successioni numeriche tengono conto della sezione aurea che, secondo quanto afferma il matematico Odifreddi, ha giocato un ruolo importante anche nella musica di Bach: “nei 48 preludi e fughe del Clavicembalo ben temperato egli rende popolare il sistema di temperamento equabile, tuttora in uso, che consiste nella divisione dell’ottava in dodici semitoni uguali fra loro, e che matematicamente corrisponde a una spirale aurea (per inciso, la “divisione aurea” dell’ottava corrisponde all’incirca alla sesta minore, cioè all’intervallo mi-do”(5) Del resto Bach in quest’ottica può essere colto come esempio assoluto, grazie al rigore e l’immaginazione della sua musica che sembra privilegiare il gioco matematico e libero delle sonorità; perché non immaginare un possibile rapporto dei suoi giochi contrappuntistici con un progetto di edificio in grado di far percepire diversi effetti spaziali attraverso la varietà delle superfici dei volumi architettonici, spazi statici a spazi dinamici?
Si noti, ad esempio, come l’interprete o l’ascoltatore delle straordinarie Variazioni Goldberg, un’Aria e 30 variazioni, venga a trovarsi ad un certo punto in una sorta di condizione centrale, nel percorso che lo conduce dalla provenienza (tema) alle varie destinazioni (variazioni), dalle destinazioni alla provenienza: come riconoscere il punto di partenza, il modulo iniziale, “il tema” all’interno delle sue variazioni, quando l’esecutore proviene dal tema e si inoltra nelle variazioni? Ed è possibile, al contrario, riconoscere il tema, invece, partendo dalla complessità dei moduli, dalle variazioni? Gould conclude nelle Goldberg “il tema non è terminale ma radiale, le variazioni percorrono non una retta ma una circonferenza”. Non è forse lo stesso principio palladiano della “architettura che respira” incastrando “spazi dentro spazi”, o il gusto guariniano delle cellule spaziali comunicanti e intrecciate, il gioco di variazioni delle membrature lineari che si allontanano e si avvicinano nella produzione wrightiana, una spazialità che nasce dal “tema” della dimensione del corpo umano?
Immaginiamo quindi un’architettura che si basa su continue variazioni verticali di linee orizzontali, e non è forse lo stesso percorso che si verifica con la sovrapposizione delle voci nella forma contrappuntistica della fuga, un sistema di linee orizzontali che si moltiplicano, crescono e derivano le une dalle altre per poi unificarsi?
La questione degli intrecciati rapporti tra musica e architettura si pone quindi come oggetto di riflessione ricca di spunti, sulla difficile ma possibile traducibilità tra le due discipline. È evidente che nel controllo delle proporzioni, o meglio nella realizzazione possibile della qualità dell’opera attraverso le nozioni di rapporto, di proporzione e di successione di ritmica degli elementi architettonici, possono cogliersi aspetti comuni con l’arte dei suoni: come accade in tanta musica barocca, tramite rapporti numerici semplici e proporzioni più complesse si può indurre nell’opera architettonica un senso di perfezione, di armonia che la riconduce, ad esempio, alle caratteristiche fondamentali della produzione bachiana, la stabilità ritmica e tonale, la coerenza interna tra le parti e il tutto.
Un ultimo spunto: la musica agisce sia fisiologicamente in maniera naturale tramite i ritmi organici che avvertiamo dentro di noi durante l’ascolto; ma la musica è anche un linguaggio culturale, che si manifesta nella teoria delle scale, nella costruzione di ritmi e negli intervalli sonori che variano a seconda delle culture storiche e geografiche. In fondo anche l’architettura non di rado basa la sua significatività e comunicatività su elementi di carattere culturale e naturale. Si pensi a tutta quella produzione progettuale che si basa sull’integrazione della natura nell’ambiente costruito e sulla teoria che la natura, inserita all’interno degli edifici, fornisca un senso di benessere, sia fisico che mentale. D’altro canto, la disposizione di spazi, elementi, colori, luci, maglie strutturali, non possono che dipendere dalla prassi progettuale di un determinato periodo storico e dalla formazione culturale dello stesso architetto.
Francesco Scoditti
NOTE
1) P. Portoghesi, Musica e Architettura in Leggere e capire l’architettura, Newton Compton ed. s.r.l., Roma 2006, p. 76. Cfr. V. Vinai, La formalizzazione pitagorica in Grammatica funzionale dell’armonia classica, Morfologia, Rugginenti ed., Milano, pp. 24-26.
2) AA.VV, Storia della musica, Einaudi, Torino 1999, p. 10.
3) R. Wittkower, Architectural Principles in the Age of Humanism, London, 1962 trad. it, Principi architettonici nell’età dell’Umanesimo, Einaudi, Torino p. 111.
4) P. Portoghesi, Musica e Architettura, in: Abitare la Terra. Per una architettura della responsabilità, Editoriale, anno 5, 2006, pp. 2-7.
5) P. Odifreddi, Il matematico impertinente, Longanesi & C., Milano 2005, p. 225
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