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Il Papa e il silenzio di Dio
di Matteo Veronesi
Può apparire paradossale parlare di silenzio a proposito di un Pontefice come Giovanni Paolo II, che forse più di ogni suo predecessore ha profuso – in accordo con la dichiarazione Lumen gentium del Concilio Vaticano II – le sue energie nell’apostolato e nello sforzo di evangelizzazione, e ha incarnato con coraggiosa coerenza l’immagine di una chiesa «pellegrina sulla terra», impegnata in quella che lo stesso Papa definisce, in Varcare la soglia della speranza, «la lotta per l’anima del mondo contemporaneo», assumendo anche – specie nel campo dell’etica e del diritto alla vita, ma anche della politica internazionale – posizioni ferme e severe.
Ma si rilegga il testo dell’Udienza generale dell’11 dicembre 2002 (pubblicato sull’Osservatore romano il giorno successivo), che destò allora una vasta, e per certi aspetti banalizzante e deformante, eco mediatica. A commento del Cantico di Geremia (14, 17-21), dell’alto lamento che il popolo d’Israele leva «in tempo di fame e di guerra», il Pontefice poneva l’accento su una tragedia ancora più grande di quella della fame e della spada: la tragedia del silenzio di Dio, «che non si rivela più e sembra essersi rinchiuso nel suo cielo, quasi disgustato dell’agire dell’umanità». Certo il Papa non serrava la porta alla speranza, non negava la possibilità della Grazia; la sua catechesi proseguiva proprio nel segno della fiducia, della convinzione che, «dopo ogni prova purificatrice», Dio «ritorni a far “brillare il suo volto su di noi”». Ma questa speranza irrinunciabile e vitale, condizione stessa della fede, della fiducia che conferisce, come dice Dante sulle orme di Tommaso, «sostanza» alle «cose sperate», non sempre vale a liberare l’uomo contemporaneo dall’agonia e dal vuoto in cui lo getta il silenzio di Dio – la sua «quiete deserta», come la chiamava un mistico tedesco – a fronte della sofferenza, dell’iniquità, delle piaghe che tramano tanto il cammino dell’umanità, quanto il percorso esistenziale di ogni uomo. La fede risponde allora con quello che è stato chiamato lo «scandalo della speranza» («continuare a sperare», dice un poeta, «è la virtù più difficile»), con il paradosso, la «scommessa» di una possibilità gettata nel futuro, dimorante al di là dei limiti e della vista dell’uomo. È il «paradosso e scandalo» di cui parla Kierkegaard, o, se si vuole, l’«assurdo», l’«impossibile» – per ciò stesso, oltre ogni logica, «certo» – di Tertulliano.
Il Verbo che si è fatto carne, che si è manifestato, si è fatto vivo e presente in Cristo, e che ha sparso, prima di Lui, i suoi semi, le sue rationes seminales nei solchi del tempo e della cultura, sembra tacere, non dare alcun segno di sé di fronte agli orrori della vita e della storia. Occorre, si leggeva in Varcare la soglia della speranza, «riascoltare la voce di Dio che parla nella storia dell’uomo. E se questa parola non si ode, può darsi che ciò accada perché ad essa non viene aperto l’udito interiore», la quasi sovrumana risonanza dell’anima del mistico, che sa fare silenzio dentro di sé per accogliere la voce inaudibile di Dio. Ma nel dolore e nel male, sul piano dell’esistenza come della storia, dell’uomo che soffre senza colpa come della civiltà messa tragicamente alla prova nelle sue fondamenta e nelle sue prospettive, il silenzio di Dio, la lontananza, l’incommensurabilità del totalmente Altro, continuano a porsi come un ostacolo duro, ostinato, come una paradossale presenza-assenza che rischia di oscurare, al limitato sguardo dell’uomo, la stessa fulgida parousía, la stessa ardente presenza del Verbo rivelato e incarnato – presenza eterna e storica insieme, trascendente e immanente ad un tempo, incisa nel solco che divide l’essere dall’esistenza.
«Vo per la via ch’io non mi scelsi, oscura,
Senza scopo; e il mio cor s’inaridisce,
Come il germe caduto in rio terreno».
L’oscuro destino di Adelchi, eroe dolente, dalla volontà coartata, è in fondo quello dell’uomo davanti alla tragedia del male e dell’assurdo – l’assurdo della sofferenza che appare inutile, della colpa inspiegabile, apparentemente irrintracciabile, a cui possono rispondere, come con un colpo di dadi, solo l’assurdo della fede, solo il paradosso e lo scandalo, rischiarati dalla Grazia, dello sguardo e del grido rivolti verso il cielo.
Non è un caso che il Pontefice abbia dedicato tanta attenzione, nella sua riflessione teologica, a Juan de la Cruz, che nella Salita al monte Carmelo canta il divino paradosso, la mistica antitesi dell’anima che «per arrivare ad essere tutto» deve «non voler essere nulla in nulla», della fede che «è notte oscura per l’anima e in questo modo le dà luce», e «quanto più la oscura più luce le dà di sé».
Si è detto dell’alone di ineffabilità che circonda il Divino e i suoi disegni. È proprio su questo terreno che la preghiera incontra il discorso artistico, e la poesia porta a compimento la propria aspirazione – per citare l’abate Bremond – a «raggiungere la condizione della preghiera». Basti ricordare qui la Lettera del Papa agli artisti, che insiste sulla perpetua e sempre irrisolta tensione a cogliere e ad esprimere l’«ineffabile mistero» attraverso i mezzi e i metodi, necessariamente finiti e caduchi, dell’espressione artistica. Un’espressione che lo stesso Wojtyla, in gioventù, sentì e visse: basti qui ricordare i versi giovanili che inneggiavano, con ispirazione nutrita di fede, alla Parola divina, all’«unione d’ispirazioni e di significati» suscitata dal pensiero di Dio, che «nella moltitudine delle parole ha portato unità». Decenni dopo, questo Papa poeta tornerà, in Trittico romano, serie di «meditazioni» in versi ispirata da Michelangelo, ad interrogarsi sul rapporto che sussiste tra parola umana e parola divina, discorso e Verbo.
«Il mistero del principio nasce insieme col Verbo, emerge dal Verbo.
Verbo – perenne visione e perenne enunciazione».
La radice prima dell'essere, coessenziale e coeterna al Divino, coincide con il mistero della sua numinosa e primeva enunciazione. Solo il «linguaggio della "Genesi"», la parola poetica e profetica prossima all'origine, insediata nella casa dell'Essere, potrebbe dire appieno ciò che sta oltre la «soglia del Verbo».
«La soglia del Verbo, in cui tutto era in modo invisibile,
eterno e divino – dietro questa soglia
iniziano gli eventi!».
Molti anni, e molti eventi oscuri, segnati dalla contraddizione e dal sangue, dividono quei versi giovanili dall’udienza del 2002. E forse la voce e l’immagine più vere, perché più sofferte e più umane, del Papa sono quelle degli ultimi anni, alterate dall’affanno, offuscate dalla pena e dallo stento. Le parole dei tempi estremi, stentate e tremanti, strappate con dolore ai vincoli dell’afasia, alla serrata cortina di silenzio che avvolge il mistero della pena come quello di Dio, appaiono se possibile altrettanto brucianti e potenti quanto l’esortazione del ’78, ferma e tonante, a «non avere timore», ad «aprire, anzi spalancare le porte a Cristo», a dar voce e spazio alla sua parola, oltre le barriere delle posizioni ideologiche e dei sistemi politici. Si può dire senza enfasi che in quella voce rotta e affaticata, in quel viso a tratti scomposto dagli assalti del male, in quello sguardo dolente ai limiti del pianto, ora esausto ora assente, sembrava brillare davvero, cinto dalle nebbie del Mistero, avvolto nell’enigma ultimo della sofferenza, l’occhio di Dio.
Matteo Veronesi - novembre 2005
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