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Messaggi - Koba

#16
[Rorty contro Nagel]
Ma se non esiste un criterio esterno di oggettività o comunque neutrale (come lo sguardo di Dio e del realista ingenuo, o come lo sguardo distante di Nagel), allora tutti i nostri giudizi vengono da pratiche discorsive specifiche, legate all'ambiente in cui viviamo.
Questo non significa però abbracciare un relativismo secondo cui ogni interpretazione ha lo stesso peso.
Infatti così facendo sarebbe come ammettere ancora l'esistenza di una posizione privilegiata – anche se si ritiene poi di non poterla assumere, che è impossibile e dunque una ricaduta nella metafisica – una posizione privilegiata "fantasma" da cui tutte le altre interpretazioni apparirebbero equivalenti.
In realtà noi occupiamo sempre un punto di vista specifico e i nostri giudizi sono l'espressione di esso.
Continuiamo a giudicare, a combattere, ma con la consapevolezza che lo facciamo a partire da dove siamo e da dove veniamo.

Se la filosofia è quindi costretta ad abbandonare la sua ossessione per il problema della conoscenza, vuol dire che è arrivata al termine della sua missione storica? Alla sua fine? O può avere ancora un compito?
Forse il suo compito è quello che indicava Jacopus alla fine della sua lista: la creazione del nuovo.
Non più custode della verità ma creatrice di nuove parole, di nuove possibilità
Una disciplina che si sforza di immaginare delle alternative.
#17
Citazione di: iano il 15 Ottobre 2025, 09:18:42 AMQuindi, per spirito critico, ti dico che dalla forma in cui tu hai posto il quesito, e cioè perchè una tale posizione vince, potendosi porre lo stesso quesito in diverse forme equivalenti, io induco la tu risposta non detta: ''la posizione che vince, vince perchè più si avvicina alla verità''.
Non sono d'accordo.

Stai continuamente fraintendendo quello che scrivo, ti invito a leggere con più attenzione.
Se ho proposto il problema filosofico del criterio di oggettività ponendo come obbligo il rifiuto sia del realismo che della metafisica, evidentemente è perché anch'io non credo in una concezione della verità che derivi o dall'uno o dall'altra.
Non credo che di un oggetto si possa darne una rappresentazione vera.
Non credo che ci sia un Dio che in un modo o nell'altro faccia da garanzia alla conoscibilità autentica del mondo.
Qualcuno si potrebbe chiedere: perché allora cercare questa specie di "oggettività", un criterio di robustezza ecc.?
Semplice: perché coloro che cercano di trasformare le società non sono persone colte e gentile con cui sia facile trovare un accordo attraverso il dialogo.
In fondo è sempre lo stesso problema che ai tempi di Platone si presentava con certi sofisti (non tutti).
La stessa esigenza di un criterio per determinare la maggiore robustezza di un'opzione (per Platone, la verità).
Non è detto che esista una risposta.
#18
Citazione di: Alberto Knox il 15 Ottobre 2025, 03:12:31 AMSi è parlato di realismo o anti-realismo ma nessuno  finora a parlato di razionalismo. Se la filosofia non ha raggiunto un accordo sul proprio metodo analogo a quello che caratterizza la scienza , lo si deve unicamente al fatto che è stato lo stesso concetto di razionalità a rivelarsi più complicato del previsto.


Non si è parlato del razionalismo perché il razionalismo, dovendo spiegare la corrispondenza misteriosa tra il logos umano e la struttura del mondo, ha dovuto far ricorso a tesi metafisiche. Come le idee innate di Platone, o il Dio di Cartesio come garante di "ultima istanza" dell'edificio del sapere.
Ad essere complesso non è il logos, ma l'accettazione e la giustificazione che logos e mondo abbiano la stessa struttura.
#19
Citazione di: daniele22 il 14 Ottobre 2025, 16:22:40 PM
Ribadisco che il concetto di maggior solidità (oggettività fate voi) di una descrizione (A vs B) non possa che emergere da un confronto dialettico tra le due posizioni. Per ciò che attiene al lavoro minorile c'è in ogni caso l'intero popolo Rom a sconfessare quel cento per cento.
È poi singolare come Phil non abbia risposto al mio post 91 sul tema filosofico dedicato alla gaia scienza e abbia deciso di rientrare dalla finestra per riproporre il refrain che l'etica non possa considerarsi una scienza. Non prendo nemmeno in considerazione il distinguo tra duro e morbido, dato che una scienza è scienza e basta, e le sue determinazioni sono vincolate evidentemente al campo di studio. Forse Nagel lo ha ventilato, ma non lo conosco.
Siete tutti molto colti, non c'è che dire, ma le fondamenta della nostra (la vostra) cognizione della realtà poggiano sicuramente su di un piedistallo di argilla che il sottoscritto ha individuato. Forse il monumento non crollerà, in verità non dovrebbe neppure crollare, ma solo riassestarsi. Tutto dipenderà solo da come l'autorità che tiene in piedi questo fascismo mascherato saprà ancora nascondersi tra le pieghe delle sue astutissime menzogne confezionate soprattutto grazie a quello che chiamo "dogmatismo invisibile", ovvero l'arte di eludere o di assecondare falsamente senza in realtà concedere nulla. Certo, visto pure il trionfo di Trump (il suo discorso alla knesset sembrava quello di Gigi 'a cartelletta che dai balconi di palazzo Chigi proclamava di avere sconfitto la povertà) la cosa sembrerebbe al momento ancora abbastanza facile, ma non si sa mai
Non sei l'unico ad aver capito che siamo tutti su delle fondamenta di argilla.
Anche la tua soluzione non fa eccezione: la maggiore oggettività viene dal confronto dialettico. Bene, ma che cosa significa in pratica? Un dialogo in cui alla fine i due contendenti devono mettere da parte le loro sofisticate astuzie retoriche e una buona volta rivelare i fondamenti su cui si basano le loro posizioni.
Ora, questi fondamenti possono essere di tipo metafisico-religioso, oppure radicarsi in una concezione ingenua della scienza (nell'esempio del lavoro minorile, la convinzione di conoscere la natura autentica dell'oggetto, cioè lo sviluppo normale e naturale del bambino – ma sappiamo che questo tipo di sapere presunto se analizzato attentamente può sempre essere smontato), oppure, e questa è la situazione specifica e coerente con il nostro tempo, cercare una forma di oggettività anche in assenza di fondamenti.
Dialettica o inter-soggettività non sono la risposta. Nel senso che sì, certo, il risultato viene fuori da un confronto, da un dialogo, da interazioni sociali e culturali ecc., ma il punto è: che cosa, all'interno di questa contesa, determina il risultato, cioè la posizione vincente?
#20
Citazione di: Phil il 14 Ottobre 2025, 12:29:24 PM[...] la prospettiva di Nagel, per come è stata sintetizzata (non l'ho letto), a mio avviso confonde oggettività con mondanità: accatastando strati di interpretazioni consapevoli ci si allontana dall'oggettività, la si ricopre di operazioni soggettive (attribuzione di senso, parametrizzazione, etc.). Si rischia quindi di confondere la (postulata) oggettività della realtà con l'oggettività della sua deformazione da parte del soggetto (detto altrimenti: se guardo le lenti, magari per vedere quanto sono sporche, perdo di vista l'altro oggetto che vorrei guardare, con o senza lenti; guardare sia le lenti che l'oggetto che vorrei guardare, richiede uno "strabismo" non so quanto praticabile, ma comunque complicazione rispetto al guardare l'oggetto direttamente, dando per scontato che inevitabilmente lo guarderei tramite il medium della vista: occhi, mente, etc. v. prospettivismo).

Credo che in Nagel l'idea di "oggettività" non coincida affatto con una sovrapposizione di strati interpretativi o con una semplice "mondanità" dello sguardo.
Il suo punto è quasi opposto: la riflessione non aggiunge deformazioni soggettive, ma le riduce, rendendole trasparenti.
L'oggettività, per lui, non è guardare il mondo senza lenti — cosa impossibile — ma sapere di guardare attraverso delle lenti, e includere questa consapevolezza nella visione stessa.

Ogni passo indietro, ogni presa di distanza, non allontana dal reale: amplia la prospettiva, includendo anche il soggetto che guarda come parte del mondo. In questo senso "vedere anche lo sguardo" non significa moltiplicare i filtri, ma superarne l'inganno.

Il discorso di Nagel nasce da una riflessione generale sulla costituzione stessa della conoscenza.
L'analisi del modello scientifico, con la sua capacità di astrarsi dal punto di vista individuale e di descrivere il mondo in termini oggettivi, fornisce il paradigma di un movimento più generale della ragione umana — il tentativo di vedere "da nessun luogo".
Ma quando questo stesso movimento viene applicato ai domini dell'esperienza soggettiva (la coscienza, l'etica, il senso della vita), emergono nuovi limiti e tensioni: il rischio di perdere, insieme al distacco, ciò che dà senso alla conoscenza stessa.

Per questo in Nagel non c'è una divisione rigida tra "scienze dure" e "discipline dello spirito": entrambe partecipano dello stesso impulso conoscitivo, ma ciascuna richiede un diverso equilibrio tra distanza e coinvolgimento.
L'oggettività, in questo senso, non è un assoluto né una somma di prospettive, ma un compito: il continuo tentativo di ampliare lo sguardo, mantenendo viva la coscienza di chi guarda.
#21
Citazione di: Jacopus il 13 Ottobre 2025, 20:20:12 PMIn realtà non è così semplice.
1) l'ambiente socio-culturale influenza il singolo e la sua stessa architettura cerebrale e quindi il processo è circolare perché l'architettura cerebrale, a sua volta, influenzerà l'ambiente socio-culturale rinforzando la stabilità del sistema.
2) evoluzionisticamente però possono sorgere nuovi modelli culturali, che sostituiscono totalmente o parzialmente i precedenti, oppure formano un sistema a matrioska.
3) questa evoluzione è lenta e lascia sempre le tracce dei processi culturali originari. Anche in questo caso può esserci d'aiuto la biologia. Il bauplan di tutti i vertebrati è lo stesso, con la duplicazione degli organi su un asse che regge il sistema. Sei sei una balena o un pipistrello questo modello organizzativo non cambia.
4) questo è il "respiro lungo della storia" di Braudel, oppure in chiave eroica di negazione, l'eterno ritorno di N., che ritiene possibile la formazione dell'uomo nuovo solo cancellando la storia.
5) Quindi quando diciamo che "il bambino non si sfrutta", dobbiamo fare i conti con questo processo.
6) Contemporaneamente però possiamo anche accettare lo sfruttamento minorile al di fuori di un certo perimetro, adottando un sistema del reale molto diverso da quello scientifico (per questo ho detto sistema duale).
7) il respiro lungo della storia assomiglia all'inconscio. È un deposito di conoscenze immenso ma sfumato, pieno di sentieri interrotti, di messaggi contrastanti.
8 ) Al di sopra di esso agisce il controllo dell'informazione come sistema di orientamento che definisce cosa è reale, cioè giusto.
9) Ad un altro livello ancora agisce il gruppo degli "intimi", famiglia, amici, colleghi che costituiscono un insieme che condiziona fortemente le nostre scelte di cosa è reale.
10) Non va dimenticata la dimensione, che è forse la più importante, dei nostri sistemi emotivi di base, che ci dicono geneticamente che "bisogna prendersi cura della prole", che "bisogna amare", che bisogna "giocare", che bisogna "ricercare", che bisogna "arrabbiarsi", che talvolta si soffre per "l'isolamento e la perdita", che talvolta si ha "paura".
11) Infine, la realtà in cui noi crediamo ci viene trasmessa soprattutto emotivamente. I grandi maestri sono maestri emotivi e non freddi eruditi.
12) la realtà nelle scienze soffici è anche una questione di abitudine. Se siamo abituati a pensare che la razza ariana è più intelligente e lo pensiamo da cinque anni, sarà difficile ed energivoro cambiare opinione.

Se ci pensate però questa carrellata serve più a confermare che la realtà delle scienze soffici è sostanzialmente statica. Tutto sembra cercare di confermare già ciò che è, piuttosto che cambiare.

E quindi la domanda è "cosa ci permette di cambiare il nostro giudizio sulla realtà nel mondo delle relazioni umane"? Dubito comunque che qualcuno abbia letto fin qui e se lo ha fatto gli concedo una pausa e diritto di replica.

Mi chiedo però se la spiegazione dell'evoluzione storica, culturale e biologica del convincimento della maggiore verità di A sia alla fine un'arma utile per persuadere qualcuno a non scegliere B.
Infatti se attentamente analizzata la posizione B non è del tutto ripugnante. A 10 anni, verso la fine degli anni '50, mio padre lavorava per un panettiere. La cosa non gli ha impedito di finire gli studi e di avere uno sviluppo psico-fisico normale. Una generazione dopo, io che a 16 anni lavoro nei cantieri edili durante l'estate. Stessa cosa: nessun trauma, anzi, qualche soldo in tasca e la consapevolezza di cosa significhi lavorare sul serio. Arriviamo ad oggi con nessuna famiglia italiana (non affetta da problemi economici gravissimi) che mai e poi mai si sognerebbe di mandare il proprio figlio adolescente a lavorare (a meno che il ragazzo si rifiuti di andare a scuola e se ne stia a casa tutto il giorno).
Dunque B, almeno in certe condizioni, non appare del tutto scandalosa. Questo non significa che sia giusta, ma che la sola evoluzione storica dei valori non basta a rendere A intrinsecamente più "vera".
E allora eccoci di fronte a un conflitto di interpretazioni: come posso convincere una persona che sia A la posizione preferibile? L'evoluzione culturale, storica, il fatto che in generale l'ambiente la prediliga non è sufficiente nel momento in cui l'interpretazione opposta, B, inizia a rivelare sorprendentemente qualcosa di interessante.
Nel confronto cioè avremmo bisogno di qualche argomento che sia da una parte dal punto di vista epistemologico non ingenuo e dall'altra, nello stesso tempo, capace di indicare la maggiore "oggettività".
Nel caso non fossimo in grado di fare questo ci troveremmo nella situazione di non poter contrastare le trasformazioni dei valori della nostra società. Assistere impotenti a queste trasformazioni. E vedendo ciò che sta accadendo oggi, la reazione culturale opportunamente manipolata che cerca di rimettere in discussione valori legati alla costellazione della giustizia sociale e della democrazia, non è più il caso di illudersi che esista un progresso.
#22
Il problema filosofico l'ho tratto da un libro di Thomas Nagel, di cui ho letto solo l'introduzione.
È interessante perché pone nel modo più chiaro il problema del criterio di oggettività, che ha naturalmente conseguenze essenziali nell'etica.
Ora, lui cerca una via che riesca ad evitare sia il realismo ingenuo che la metafisica. Evitare cioè sia l'idea che il soggetto possa conoscere l'oggetto così com'è in sé, come se bastasse perfezionare le proprie rappresentazioni per raggiungere la realtà, sia l'idea che il soggetto possa assumere il punto di vista assoluto di Dio.
Il suo approccio consiste in questo: nel far dipendere la maggiore oggettività di una descrizione/interpretazione dalla distanza del soggetto. Cioè nel momento in cui il soggetto amplia la propria prospettiva, facendo un passo indietro, e, costruendo un punto di vista che includa la precedente posizione (la distanza precedente e lo stesso soggetto che guardava quel determinato fenomeno), si ha una maggiore oggettività. Questa distanza non è fisica, ma riflessiva: consiste nel comprendere anche il proprio sguardo come parte del mondo osservato.
Secondo Nagel l'essere umano, riflettendo, riesce a prendere le proprie esperienze, emozioni, persino i propri giudizi morali e a guardarli "da fuori", come se appartenessero al mondo. Ma ogni volta che compie questo passo, può ancora fare un ulteriore passo indietro, e guardare anche la posizione da cui guardava prima.
È un'espansione dello sguardo, non una negazione del soggetto.
L'oggettività, quindi, non è un dato ma un compito: un continuo esercizio di distanziamento e inclusione.

Naturalmente non sto dicendo che Nagel abbia ragione. È solo una delle possibili soluzioni al problema filosofico posto su cui vale la pena riflettere. Tutto qua.
#23
Citazione di: Phil il 13 Ottobre 2025, 17:31:35 PML'arte del domandare è estremamente delicata; così come si può parlare a vanvera, si possono anche fare domande a vanvera. Chiunque faccia una domanda con onestà, è probabilmente interessato anzitutto alla risposta; se invece si crogiola nell'incastrare domande e incertezze (non mi riferisco a nessuno in particolare), viene il dubbio che sotto sotto ci sia un certo masochismo, sotto il quale c'è a sua volta o la voglia di non sapere le risposte (magari perché già intuite come sgradevoli) o manchi semplicemente il sincero interesse per le risposte. La retorica che esalta il ruolo del domandare, si dimentica talvolta di mettere in guardia dalle domande "infelici" (mal poste, insensate, "vuote", impossibili, puramente retoriche, "pilotate", etc.) e di ricordare che ci sono risposte molto più scomode del vivere nell'incertezza della rispettiva domanda.
In fondo, fare domande è un po' come costruire vasi: se ne possono fare molti e di molti tipi, più o meno solidi e più o meno belli, ma se poi non ci si mette dentro qualcosa, anche solo per poco tempo, non servono a molto, se non a identificare un vuoto (non c'è forse una certa malinconia, un certo "nichilismo estetico", nell'usare un vaso vuoto come oggetto decorativo, quasi per esorcizzare l'horror vacui? Ecco, alla fine, m'è scappata una domanda...).
Proprio il fatto che tu abbia sentito la necessità di dire "non mi riferisco a nessuno in particolare" significa ovviamente che ti riferivi a qualcuno, a qualcuno in particolare: cioè a me, avendo io rigettato i tuoi contributi nel topic sulla gaia scienza...
Non rimanerci male per così poco.
Nel caso ti chiedo scusa, ma avrai capito che tra le mie tante personalità ce ne sono un paio un po' aggressive: non sempre riesco a tenerle a bada...
#24
Teniamo l'esempio fatto da Jacopus.
Prospettiva A: far lavorare i bambini è sempre sbagliato.
Prospettiva B: non sempre il lavoro dei bambini è sbagliato, dipende da certe condizioni.
Ora, sono sicuro che 100 utenti su 100 voterebbero A. E non solo per delle ragioni etiche. Sentiremmo cioè tutti per istinto che B è assurda. Meno razionale. Che A non è soltanto preferibile dal punto di vista morale ma anche più vera. Per esempio saremmo tutti spinti a pensare ai danni dello stress del lavoro sullo sviluppo psicofisico di un bambino.
Ma in questo modo non avremmo risolto correttamente il problema posto.
La premessa, infatti, era di spiegare il criterio di maggiore oggettività dell'interpretazione A senza ricorrere al realismo.
Ora, pensare allo "sviluppo psicofisico normale di un bambino" significa già assumere di possedere una rappresentazione più adeguata — cioè più oggettiva — della crescita umana.
Allora questa convinzione di una maggiore robustezza, se non può essere spiegata facendo ricorso all'immagine della natura del bambino, da cosa è dovuta?

Per Jacopus è determinata dalla profonda influenza che l'ambiente socio-culturale esercita sul singolo. Quindi questa solidità, questa maggiore "verità", è il risultato di una manipolazione culturale (in questo caso benigna – anch'io ho votato A...). Se dunque ci trovassimo ad affrontare un dibattito di fronte a una giuria di persone estremamente razionali poco soggette alla commozione, come potremmo convincerle della maggiore oggettività di A? Dovremmo rinunciare?

Per daniele22 invece dipende dal valore con cui si confrontano A e B. In questo caso il valore in gioco è "l'importanza della cura dell'infanzia". Quindi la maggiore oggettività di A dipende dal fatto che per noi è importante la cura dell'infanzia. Ma allora la domanda è: perché la cura dell'infanzia è per noi "oggettivamente" importante?

Iano invece ritiene che per lui non abbia senso spiegarci (e spiegare a se stesso) perché sceglie A e non B, in quanto "non crede alla verità". In realtà, è proprio il contrario: avendo assimilato nella propria filosofia il rifiuto del realismo, proprio perché rifiuta l'idea di una descrizione privilegiata della realtà, diventa interessante capire da dove nasce quella sensazione di maggiore solidità di A.
#25
Citazione di: iano il 13 Ottobre 2025, 11:37:15 AMSe togliere senso a una domanda, vale una risposta, io ho risposto alla tua domanda.

Secondo te la domanda che ho posto, chiarita (come sempre) con due o tre post, non ha senso?
Dimmi solo questo: se onestamente, rileggendo quello che ho scritto, non ti sembra che si tratti di un interrogativo filosofico su cui vale la pena riflettere un po'?
#26
Tu vivi già all'interno di un mondo abitato da descrizioni/interpretazioni che orientano le tue scelte e i tuoi giudizi.
La domanda riguarda il criterio di robustezza con cui ti affidi ad una descrizione piuttosto che ad un'altra.
Perché pensi che la descrizione A sia più solida della descrizione B?
Avevo già precisato che il termine "oggettività" era da intendersi in un contesto non realista.
Quindi ti invito a non tornare continuamente sulla distinzione tra descrizione e realtà, ma ad affrontare direttamente il problema che ho posto:
qual è il criterio che determina la maggiore credibilità o solidità di una descrizione rispetto a un'altra?
#27
Non hai risposto alla domanda.
La domanda è: perché la descrizione A è più oggettiva (per me, per te, per tutti) della descrizione B?
Es.: perché la spiegazione psichiatrica della psicosi è più oggettiva di quella fatta dall'astrologia?
Che cosa determina la maggiore o minore oggettività di una descrizione? - dato per scontato che si tratta appunto di descrizioni e non della realtà stessa (nella traccia si sottolineava di tenere ferma una posizione anti-realista, quindi nella valutazione delle due descrizioni si assume che ci sia consapevolezza che si tratta di interpretazioni o descrizioni, e non di rappresentazioni capaci di restituire fedelmente l'oggetto).
#28
Ecco allora un problema filosofico da risolvere.
Traccia del problema: abbiamo due descrizioni di uno stesso fenomeno o di una classe di fenomeni.
La descrizione A e la descrizione B.
Spiegare perché la descrizione A risulta essere più oggettiva della descrizione B, tenendo fermo che ciò non può dipendere dal fatto che la descrizione A conterrebbe rappresentazioni più adeguate del suo oggetto (cioè tenendo fermo l'anti-realismo).
Le spiegazioni che si rifanno ad un generica convenzionalità o fede delle descrizioni (quindi A sarebbe più oggettiva perché in questa fase storica suscita in qualche modo una maggiore fede) saranno considerate nulle in quanto modi retorici di evitare di affrontare il problema: cioè dar conto della struttura stessa dell'oggettività.
Supplemento (solo per veri filosofi): sviluppare il tema seguente "Etica: l'oggettività come compito".
Avete sette giorni di tempo.
Buon lavoro.
#29
Citazione di: Phil il 08 Ottobre 2025, 11:40:10 AMPensaci bene: il paziente incarna il sapere della psicoanalisi, la conoscenza cha la psicoanalisi apporta nel "mucchio" delle conoscenze umane? Oppure il pazienta incarna solo i risultati di una procedura psicanalitica?
Parimenti: non c'è forse essenziale differenza fra l'incarnare la critica alle religione e l'essere semplicemente ateo? Un ateo che è tale solo perché cresciuto in una famiglia atea incarna forse la critica filosofia alla metafisica e alle religioni o incarna solo il suo personale vissuto?
L'incarnare una conoscenza non si può valutare solo dai risultati; oppure, leggendo bene Nietzsche hai concluso che con "incarnare il sapere" intenda l'essere modificati da una esterna pratica del sapere (l'azione dello psicanalista), come un sasso è modificato da una martellata ma senza che esso impari a martellare a sua volta?
Cosa va reso «istintivo», l'uso attivo del sapere o il segno passivo che il sapere ha scavato in noi?
Dai, su, non cazzeggiare per favore, non ho tempo da perdere con questa roba...
L'analisi in quanto tale è portare a conoscenza il paziente della sua "malattia", e tale risultato non può prescindere da una certa conoscenza dei principi fondamentali della psicoanalisi. Ho fatto un esempio semplice, più vicino agli ambiti trattati nel testo, nella speranza che si lasci perdere le scienze della natura, la questione della tecnica e la bomba atomica, ma è ovvio che Nietzsche sta parlando dell'uomo della conoscenza, nell'esempio una persona che conoscendo a fondo Freud e company sa fare dell'autoanalisi con se stesso.
Stessa cosa per l'ateismo.
Non risponderò più a interventi del genere.
#30
Citazione di: iano il 08 Ottobre 2025, 01:44:27 AMIn una conoscenza che mi da un obiettivo etico è sottinteso un uomo che non cambia, se non eventualmente il suo comportamento.
Non è così che funziona.
Qualunque azione genera un uomo nuovo, ed è sempre un uomo nuovo ad agire, un uomo nuovo che può avere cognizione solo di ciò che è stato, provando senso del ridicolo per ciò che era.
E' il rinnovarsi di questo senso del ridicolo, che equivale a dare centralità al presente, che non è positivo.
E' la critica che ridicolizza l'oggetto della critica a non essere positiva, e questa finora è stata una costante della critica filosofica.
La tensione verso la verità è fuorviante. La nostra filosofia si limita a determinarci.
Non ci dice cosa dobbiamo fare, ma ciò che siamo, e in base a ciò che siamo possiamo prevedere ciò che faremo.


Brano interessante.
Ci devo riflettere su un po'.