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Riflessioni da un Paradigma Sperimentale

Riflessioni da un Paradigma Sperimentale

di Domenico Pimpinellaindice articoli

 

La Conoscenza

Aprile 2010
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Dall’emotività alla razionalità

Al culmine della parabola evolutiva del meccanismo conoscitivo emotivo, possiamo immaginare che tutte le “tipologie” di “mondo esterno” si erano oramai costituite in maniera isomorfa all’interno. L’immensa varietà degli scenari ambientali possibili era stata “incarnata” da blocchi di neuroni, riuniti a loro volta in “insiemi” a più livelli, trasferita tutta all’”interno” e legata a classi di risposte risultate efficaci. E anche se sostanzialmente un tale “sistema” non può sapere cosa in realtà siano le “perturbazioni” che “cattura” e che oggi con una certa disinvoltura chiamiamo comunemente “fotoni”, “molecole volatili”, “onde di pressione”, ed altro, sa però che non si può essere scettici su questo mondo che ci appare davanti, attraverso i suoi “input”. Esso è l’unico mondo a cui ci è possibile far riferimento. Così, con un ”esterno” ora tutto dispiegato all’interno, come un insieme eterogeneo di enti disposti in un solo contenitore tridimensionale, a formare un preciso mondo frazionato, deve essersi fatta strada la possibilità di riferirci in maniera più conveniente ad un tale mondo ricalcante l’esterno, piuttosto che all’”esterno stesso”. I vantaggi di una tale operazione ci appaiono in tutta la loro chiarezza. Se un tale “mondo interno” fosse diventato la nuova realtà da interfacciare con un “nuovo insieme” di neuroni si avrebbe avuto non solo il vantaggio di poter “collegare” tra loro i vari enti in nuovi “blocchi” significativi, ma anche quello di poter ora “studiare” il modo come i neuroni si erano precedentemente “uniti” tra di loro, il che equivale a studiare la “logica delle relazioni” tra perturbazioni. Nuovi “neuroni” avranno così iniziato a interfacciarsi sugli “output” interni invece che sugli “input” esterni, iniziando a “sommare”, “articolare”, “comporre” in una nuova specifica struttura le “idee semplici” del cervello emotivo, che assumono così il ruolo di “parole” (formate da lettere) che possono essere ulteriormente composte in una varietà infinita di  “racconti”. Racconti che rappresentano concatenamenti di situazioni passate o anche situazioni che sarebbe possibile “ritrovarsi” davanti nel futuro. E’ ragionevole, dunque,  pensare che inizia in questo modo a formarsi una sorta di “secondo cervello”, che “studia” il “primo” o come dice Ramachandran, “parassitico, per fornire una descrizione dei processi automatici in atto nel primo cervello”, che potremmo far coincidere con l’attuale “corteccia frontale” che sappiamo collegata con una serie di “rientri doppi”, con quella parte più antica del cervello costituita dal Talamo. A questo punto ci si presenta davanti una vera e propria rivoluzione del modo di conoscere! Il “sistema” non cresce solamente in complessità, stravolge completamente gli schemi precedenti. Ora, i neuroni del “secondo cervello”, in sincronia con quelli del “primo”, non devono più solo costruire una serie di “configurazioni” e attendere quali di quelle risulti adatta a dettare comportamenti idonei  alla sopravvivenza. Ora, è possibile, facendo riferimento ad una “logica” costruttiva già affermatasi con successo precedentemente, assemblare gli enti tra loro in modo causale, consapevole, in modo che le probabilità di successo delle risposte approntate risultino sempre alte. Come ha fatto rilevare Bertrand Russell, il “cervello razionale” ci consente l’opportunità davvero importante di “simulare”, di immaginare lo svolgimento di una certa azione e le conseguenze (positive o nocive) a cui potrebbe portare, senza dover vivere quelle esperienze in pratica, come accadeva prima, con il vantaggio di non essere costretti, dunque, a prendere grossi rischi. In effetti, la razionalità ci consente di passare a vivere dal mondo delle cose a quello delle idee, per poi ritornare a quello delle cose. In questa sorta di “computer” aggiuntivo di cui il cervello emotivo riesce a dotarsi è possibile ora non solo vivere il presente, “osservando” semplicemente lo svolgersi continuo (nel primo cervello) del “qui ed ora”, ma “intuire” situazioni futuribili “creando” all’interno un mondo possibile da mettere addirittura a confronto con il presente o con il passato. Da un simile confronto nasce la consapevolezza e la possibilità di ricavarne quelle azioni che sarebbero in grado di “modificare” l’esterno per fare in modo che le configurazioni “pensate” possano entrare come un sistema unitario di perturbazioni all’uscio degli apparati sensoriali. La rivoluzione apportata dal sistema conoscitivo razionale è di un portata incommensurabile.
Il nuovo sistema ha però un difetto di non poco conto. In esso è possibile, è vero, assemblare scenari futuribili perfettamente realizzabili con una pratica corretta rivolta all’esterno: realizzazioni, dunque, razionali per antonomasia. Ma è anche possibile assemblarvi realizzazioni puramente fantasiose, che non avranno mai alcuna probabilità di entrare, come insieme unitario di perturbazioni, dalla porta dei sensi. Lo stesso sistema è in grado, quindi, di produrre cose “vere” e cose “false”, che tuttavia, non vengono “automaticamente, escluse dai pensieri successivi, perché non c’è un meccanismo, come in quello emotivo, capace di renderle un “veleno mortale” che “uccide” chi le utilizza. Se nel primo cervello si continuano a mettere in atto le risposte collaudate trasmesseci dai nostri genitori, è possibile che si riesca a vivere per lungo tempo, nonostante che nel secondo cervello si attui una vita artificiale, da “sogno”, scissa completamente o in parte da quella reale. La razionalità, contrariamente all’emotività che è deterministica, è una conoscenza interpretativa: una conoscenza che può farci puntare verso orizzonti che non vedremo mai, e se non si sta attenti, questi possono tramutarsi in “sabbie mobili” mortali. La razionalità, costituisce, una “veduta”, un “panorama interno” su cui è possibile “rimanere” per lunghi periodi, mentre l’emotività può continuare a svolgere in maniera automatica tutta una serie di interventi di “prima necessità”, che possiamo avere ereditato come istinto o imparato da esperienze reiterate. Chi non ha fatto l’esperienza di guidare e nello stesso tempo immergersi in riflessioni anche abbastanza profonde? La guida automatica da una parte e il pensiero razionale dall’altra è però possibile solo quando il percorso e le difficoltà che esso presenta possono essere affrontate in maniera automatica, mettendo in azione “gli archi riflessi” e lasciando così libero il secondo cervello di essere concentrato solo sul “milium” interno.  Il pensiero consapevole è una sorta di “viaggio nel tempo”, perché le entità costruite su più livelli e in tempi differenziati dal cervello emotivo è come se fossero disposte in uno spazio quadrimensionale che viene così vissuto attraverso uno spostamento lungo l’asse del tempo. E’ viaggiando “internamente” in questo spazio-tempo, costruito dall’unione delle potenzialità emotive e razionali, che ci è possibile incontrare in maniera ravvicinata gli altri e dialogare con loro. Il dialogo diventa allora un confronto di situazioni e costruzioni mentali rese scambiabili dal linguaggio. La possibilità di affrontare in maniera vincente il superamento dell’isolamento esistenziale di cui spesso ci sentiamo prigionieri può essere  affidata in larga parte ad un  corretto concetto sulle nostre possibilità conoscitive. Comprendere chiaramente, ad esempio, che mentre la “conoscenza emotiva” può essere trasmessa in maniera pressoché intatta alle generazioni successive, in quanto l’architettura cerebrale può essere ricostruita con una certa precisione; quella razionale, dovuta in massima parte alla costruzione di nuove sinapsi mediante l’esperienza, si “resetta” inevitabilmente ad ogni cambio generazionale. In conseguenza di ciò dovremmo capire che non ha senso concepire l’ontogenesi come nostra autentica e vera vita, ma che questa può essere rappresentata solo dalla filogenesi. Il “cervello razionale” deve potersi “aggiornare” esplorando di volta in volta, sia pure indirettamente, un ambiente che muta con estrema rapidità. Ed è probabilmente per questo che gli individui pluricellulari non possono fare a meno di essere delle creature “mortali”. Anche per la razionalizzazione religiosa ebraica, l’uomo diventa mortale solo dopo aver mangiato all’albero della conoscenza. La metafora è eloquente: la conoscenza razionale ci ha resi consapevoli di una morte che, se raffigurata come un limite invalicabile e distruttivo della filogenesi, diventa una condanna che ci rimane impossibile accettare. Non comprendere che la morte è un passaggio inevitabile della filogenesi, che tutti dovrebbero considerare come vera vita, significa poi non riuscire a capire  neppure  in quale mondo “artificiale” può farci vivere la razionalità. Se male utilizzata, se non in sintonia con quella emotiva, può significare diventare dei “demiurghi” scellerati, impazziti, dediti ossessivamente a modellare e stravolgere l’ambiente per adattarlo solo a presunte necessità. Questa razionalità può allora risucchiarci come un vortice e scaraventarci nel nulla, come ha sostenuto Sartre, condannati ad una libertà che non è più libertà di seguire la nostra intima natura. Un’intima natura che la razionalità non può conoscere d’acchito, ma su cui può comunque riflettere per scoprire quale direzione ci conviene seguire per stabilizzarci nel modo migliore, per portarci nei pressi di quella condizione ideale che ci renderebbe felici e gioiosi.

 

La filosofia come trade-union tra conoscenza emotiva e razionale

Facciamo ora un piccolo passo indietro e torniamocene al punto in cui eravamo ancora delle entità conoscitive puramente emotive. Una volta trasceso completamente il singolo essere monocellulare divenendo una struttura sociale multicellulare operante come una struttura unitaria di ordine superiore, è ipotizzabile che l’ambiente originario si fosse arricchito e riempito di tanti altri esseri viventi compresi i nostri stessi simili. Fino a quel punto è comprensibile che l’obiettivo possa essere stato rivolgersi ad una “chiusura” che permettesse di concretare tutti gli sforzi mirati a fortificare ed armonizzare i legami intercellulari. Ma una volta che l’obiettivo è stato raggiunto e ci si è ritrovati con un mondo pieno di creature simili a noi, con le quali occorreva condividere gli spazi, le possibilità procreative, la cura della prole e quant’altro, una  maggiore attenzione sarà stata spostata alla cura del rapporto con gli altri. Un individuo “chiuso” sarà andato incontro ad un necessario cambiamento di personalità. L’individuum di allora deve avere iniziato un cammino per diventare un “dividuum”, un essere cioè formato da due aspetti specifici e complementare, poiché le questioni da affrontare in parallelo sono, a questo punto,  diventate due. Da una parte rimanere la possibilità esistenziale che si è; dall’altra, cercare di superarla, di trascenderla mediante una compattazione con altri individui e formare così una società in grado di arrivare un giorno ad esprimersi, come ci è già successo,  con un essere unitario. E’ altamente probabile che questo è quello che le indicazioni dello sviluppo evolutivo ha “indicato” come la migliore opportunità per metterci al sicuro.
L’alternativa sarebbe stata la guerra perenne di tutto contro tutti è nulla faceva evidentemente sperare che fosse la mossa giusta, la soluzione corretta verso cui avviarsi. Occorreva stabilizzarci, perché è questo l’obiettivo che ogni creature vivente non può fare a meno di considerare. Tutti gli animali pluricellulari tendono verso un tipo di sviluppo che faccia emergere il massimo di socialità, che faccia emergere la possibilità di creare dei legami solidi. Anche se tra il bianco e il nero sappiamo esserci in teoria tutta una scala di gradazioni grigie, per le creature viventi possono esistere solo due opportunità  ampiamente esplorate: o si rimane essere singoli, isolati, trovando le opportunità per combattere in maniera vincente ogni battaglia; oppure, se questo non è possibile,  non rimane che diventare  un perfetto essere sociale che con la costituzione di una rete intensa ed efficace di comunicazione ed una totale identità di vedute, arriva a trascendere la propria singolarità per acquisirne un’altra ad un livello superiore. Molte creature hanno percorso questa strada , dai mammiferi agli insetti, e solo poche, forse per mancanza di mezzi, hanno continuato a rimanere dei perfetti individui. Ma per attuare un “progetto” di questo tipo occorre che l’”individuo” si avvii verso una trasformazione laboriosa che lo porterà a diventare un perfetto “dividuo”; perché solo un dividuo ottimale può riuscire nell’impresa di trovare una stabilizzazione efficace nella socializzazione ai più alti livelli. Anche, la prima cellula del primo essere pluricellulare ha dovuto affrontare questa necessaria trasformazione: assumendo una chiara identità “duale” come  nel neurone, dove i “legami” tra i nuclei sono chiaramente visibili. Tra gli animali, questi “legami” sono costituiti da messaggi ormonali o da segnali verbali che sono però perlopiù “trasparenti” alla razionalità, perché non hanno “ancora” quella compattezza e “materialità” necessaria per poter essere considerati con la dovuta attenzione. Il problema che ci ha posto l’entrata in gioco della razionalità a fianco dell’emotività è proprio questo: riuscire ad  articolare quasi esclusivamente quei “grumi di energia” che chiamiamo “enti” e che si ritrova a disposizione, senza poter fare molto per “utilizzare” anche quelle realtà più velate, più eteree, che sono i sentimenti e le emozioni. Così le realizzazioni pure della razionalità sono forzatamente scenari “freddi”, dove le emozioni non riescono ad entrare in gioco e colorare con toni forti le rappresentazioni del futuro. Poiché, abbiamo detto la razionalità è una conoscenza “interpretativa”, allora le soluzioni che essa riesce a “dettare” sono manchevoli di tratti importanti, determinanti. E’ per questo motivo che l’uomo continua a considerarsi, alla stregua degli altri enti, una realtà isolata che deve occuparsi solo della propria sopravvivenza, accumulando, per quanto possibile, la maggior quantità di potere ed energia per affrontare vittoriosamente qualunque confronto, qualunque  attacco ci venga mosso. E’ di questo che si occupa prevalentemente l’intelligenza razionale, non riuscendo ad immaginare davanti a sé altre opportunità. Opportunità che, per la conoscenza emotiva sono invece di tutt’altro tipo; altrimenti non si spiegherebbero i tanti sentimenti, come la solidarietà, l’amicizia, l’amore, che comunque entrano nelle nostre singole esistenze introdottevi dalla conoscenza emotiva. Opportunità che la razionalità prova da secoli a riconsiderare, utilizzando quella particolare possibilità di pensiero che è la Filosofia, la quale rappresenta proprio un suo meccanismo interno per sintonizzarsi sui bisogni e sugli obiettivi dell’emotività, che delle due è quella che possiede “la soluzione”, mentre l’altra è possiede più che altro i “mezzi”.
Il problema diventa quindi quello di capire chiaramente se questi mezzi possono o meno attuare proprio la soluzione che si propone l’emotività. Ebbene, da un’analisi attenta sembrerebbe proprio che la razionalità abbia tutte le potenzialità per accorrere in aiuto a quello che è il nostro vero bisogno. E se è stata “fuorviata”, dirottata su bisogni falsi che possono essere intravisti come costruzione di un’individualità forte, invece che di una dualità, la “colpa” probabilmente è da attribuire alle soluzioni sbagliate finora fornite dal pensiero filosofico, rimasto intrappolato nel pantano dell’individualismo. In questo “pantano” il pensiero filosofico, che significa appunto pensiero mirato ad attuare identità di vedute, assonanza, tra conoscenza deterministica e interpretativa, ha saputo “trovare” al problema (almeno per ora) due sole pseudo-soluzioni: ridiventare immortali grazie ad un’anima introdotta ad hoc, e questa soluzione è quella Religiosa; poterci costruire su questa terra una “piccola ma sicura immortalità paradisiaca” piegando, anche violentemente,  l’ambiente (in cui ovviamente sono fatti rientrare anche i nostri simili) ad un’omeostasi dorata, e questa è la soluzione Scientifico-tecnologica. La terza soluzione, quella che potrebbe fare di noi degli esseri felici, gioiosi, amorosi, sarebbe stata (e forse c’è speranza che ancora lo sia)  assecondare la conoscenza emotiva e metterle a disposizione i mezzi necessari per la realizzazione del “dividuum” perfetto. Un’ entità che una volta realizzata potrebbe per davvero farci trascendere in un super-individuo, dove ognuno vedrebbe difesa la propria “soggettività”, arrivata al massimo dell’”apertura” possibile, insieme ad una socialità capace di concretizzare il massimo del dialogo e, quindi,  dell’amore.
I mezzi che la razionalità può mettere a disposizione per un progetto simile sono proprio quelli che ci occorrono: uno scenario interno, una sorta di macro-lavagna dove sarebbe possibile realizzare un DNA culturale condiviso. Su questo scenario interno ci sarebbe possibile simulare e poi tradurre in pratica l’intensificazione dei rapporti e dei legami, per arrivare, senza correre eccessivi rischi, a progettare una vita sociale oltremodo soddisfacente . Una “logica” a cui far riferimento e che ha portato degli esseri cellulari, sostanzialmente isolati come noi, a comporre una più grande possibilità esistenziale. E poi i linguaggi che ci possono permettere di fruire i nostri pensieri, e le nostre intime speranze:da quelli verbali alla Matematica. Se ci si convincesse di ciò, diventerebbe assurdo e inaccettabile arrendersi ad un destino che continua a portarci sempre più lontano dalla condizione ottimale, condannati a portare solo una “maschera dividuale”, in cui la socialità dettata dalla razionalità non è per  nulla autentica, ma intrisa fino all’osso di ipocrisia e falsità.

 

Domenico Pimpinella

 

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