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di Paolo Bancale   indice articoli

 

Dio è un prodotto dei nostri neuroni

Di Luigi Corvaglio

Agosto 2013

  • Occam. Chi è costui?

  • L'elmetto di dio

  • Dio è il cavallo perdente

 

Occam. Chi è costui?

«Non avevo bisogno di quell'ipotesi», così si dice abbia risposto il matematico Laplace quando Napoleone Bonaparte, commentando il suo Trattato di meccanica celeste, gli disse: «Signor Laplace, mi dicono che avete scritto questo grande libro sul sistema dell'universo, e non avete mai nemmeno menzionato il suo Creatore». In altri termini, come già espresso nel concetto noto come rasoio di Occam, non vi è motivo alcuno per complicare ciò che è semplice. Così, avendo a che fare con la fisica, non si vede il motivo di appesantire la scena con la metafisica. Eppure è proprio ciò che avviene con un nuovo corso di ricerca noto come neuroteologia.

L’idea di fondo è questa: se il sentimento religioso è talmente diffuso, ciò deve avere delle spiegazioni obiettive. La giusta osservazione ha prodotto un interessante filone di ricerca che ha però non solo perso per strada Occam al primo bivio, ma perfino superato Popper, l’epistemologo che rammentava che è scientifico solo ciò che è falsificabile in potenza. Come si può falsificare la metafisica? Alcuni autori, nel trovare i substrati fisici dell’esperienza mistica, ne hanno dedotto l’esistenza di un apparato appositamente organizzato per consentire agli uomini di trascendere la loro realtà materiale. Fra questi, i più noti sono Andrew Newberg e Eugene D’Aquili (1999), un neurologo ed un radiologo della Pennsylvania University, che hanno condotto una scansione cerebrale su persone aventi un’esperienza religiosa (meditatori buddhisti e suore francescane in preghiera). I risultati hanno dimostrato che nei soggetti preganti si ha un’accresciuta attività dell’area dell’attenzione (AAA, Attention Association Area), invero piuttosto prevedibile, congiunta ad una sorprendente riduzione delle informazioni dirette verso la Orientation Association Area (OAA), l’area dell’orientamento.

Quest’ultima area è responsabile dell’orientamento del corpo nello spazio, e per far questo necessita di definire nettamente i confini fra il corpo fisico e il resto dell’ambiente, fra sé e non-sé. La sospensione di questa attività di delimitazione comporta un senso di unità cosmica e percezione del divino. Nel commentare ciò, Newberg e D’Aquili dicono: «Quando vedete degli alberi o dei fiumi, c’è una serie di reazioni chimiche nel vostro cervello, il che non significa che gli alberi e i fiumi siano prodotti del vostro cervello». In definitiva, gli autori affermano che le esperienze mistiche sono, o possono essere, diverse dalle allucinazioni e dagli stati indotti dalla droga (che, guarda caso, interessano proprio le stesse aree).

 

L’elmetto di dio

In realtà l’iniziatore di questo filone di ricerca, Michael Persinger (1987), la pensava diversamente. Questo psicologo del Neuroscience Research Group della Laurentian University di Sudbury, Ontario, parlava delle “esperienze di dio”, cioè delle percezioni di relazioni significative e profonde con la divinità o anche con il “Grande Tutto Cosmico”, come del «nucleo dinamico di un movimento religioso». L’autore ha teorizzato che tali manifestazioni fossero il prodotto di scariche transienti del lobo temporale (TLT), cioè non sufficientemente intense da scatenare dei veri attacchi epilettici. La correlazione fra epilessia (“morbo sacro”) e sensazioni mistiche non era certo nuova ed è stata confermata dagli studi di Vilayanur Ramachandran. L’originalità del lavoro di Persinger sta piuttosto nell’“ipotesi del continuo” secondo cui tutti hanno un grado variabile di potenziale labilità verso queste anomalie transienti e nel tentativo di mettere in relazione tali fenomeni anche con i campi elettromagnetici. Il passo successivo è stato la realizzazione di un elmetto in grado di stimolare parti circoscritte del lobo temporale con piccoli campi elettromagnetici. L’apparato, che gode del suggestivo nome di “God helmet”, ha prodotto nelle persone che vi si sottoponevano per circa tre minuti sensazioni che esse traducevano nel linguaggio della propria religione. Alcuni parlano della presenza di dio o del Buddha, altri della percezione di unità con l’universo o di beatitudine cosmica. Persinger ne conclude che tutta l’esperienza religiosa si riduce a queste anomalie elettriche. In realtà, i dati prodotti dal gruppo dell’Ontario non ci permettono di concludere più di quanto i dati stessi mostrino, ossia che anomalie cerebrali causano percezioni mistiche. Del resto, anche una lesione ipotalamica causa fame intensa. Ciò non vuol dire che la fame sia prodotta da un'alterazione ipotalamica.

Sulla falsariga degli studi fin qui descritti, si pongono i  lavori di James Austin (1998), di Rhawan Joseph (2000) e di Matthew Alper (2004). Tutti concordano sull'ipotesi limbica (il sistema limbico è la parte del cervello deputata all’emozione) della percezione della divinità.

 

Dio è il cavallo perdente

In definitiva, ciò che per qualcuno è un normale processo neurologico che si sarebbe evoluto per consentire agli uomini di trascendere la loro realtà materiale, per altri, più consci di Occam, potrebbe essere solo un malfunzionamento del cervello dovuto ad una inusuale deprivazione sensoriale. Essi, come Laplace, dicono «non ho bisogno di questa ipotesi». Qui valutazioni personali non deducibili dai dati inquinano la scientificità dell’affermazione. La metafisica invade la fisica. Ma allora, come si fa a distinguere un’esperienza mistica “reale” da una indotta da epilessia o dalla schizofrenia? Forse che i fenomeni allucinatori delle psicosi non sono “reali”, cioè non hanno una controparte neurale, biochimica? Ogni evento psicologico è reale, in tal senso.

A tal proposito, Massimo Pigliucci ha scritto nel linguaggio del metodo Bayesiano: «Prima di tutto, le due ipotesi contendenti sono che i dati neurologici siano indicativi di una realtà alternativa oppure che ci dicano soltanto che il cervello funziona male in risposta a stimoli sensoriali anomali. Se consideriamo tutto quel che sappiamo del cervello e le (quasi nulle) evidenze che abbiamo dell'esistenza di una realtà alternativa, mi sembra saggio attribuire un valore iniziale maggiore alla seconda ipotesi piuttosto che alla prima. I dati nuovi, ad esempio quelli di Newberg e D'Aquili, mi sembrano aumentare la verosimiglianza dell'ipotesi della deprivazione sensoriale, mentre lasciano del tutto invariata la probabilità che l'ipotesi della realtà alternativa sia corretta (perché i dati verrebbero osservati indipendentemente dall'esistenza o meno di una realtà alternativa). Questo aumenta le probabilità finali della spiegazione naturalistica, e lasciano inalterate le probabilità finali (già basse) della  spiegazione trascendentale. Ergo, alla fine di questo round, sono giustificato a scommettere che la spiegazione naturalistica è il cavallo vincente. Ma come tutti i buoni Bayesiani, lascio aperta una  porta ad ipotesi alternative e aspetto dati ulteriori per pensarci su».

 

Luigi Corvaglio
Dirigente psicologo ASL Bari
Dalla rivista NonCredo

 


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