Riflessioni al Femminile
di Rita Farneti - Indice articoli
I dolori che cambiano
Luglio 2022
Anna Salvo ci parla di dolori che cambiano, dolori che si trasformano in un sentimento anche collettivo, dolori vissuti singolarmente. Ci narra di sete di giustizia, talvolta alimentata dalla paura che le cose finiscano dentro una nebbia fatta di ritualità arida oppure in una bolla di troppe parole. Forse ci si anima così tanto alla ricerca di una punizione perché si legittima una necessità, quella di mettere ordine dentro sentimenti turbati, magari per un mal interpretato bisogno di tranquillità sociale.
Il dolore può quindi essere collettivo quanto personale. Quest’ultimo si esprime spesso dentro un senso di smarrimento e, nel caso del lutto, anche di rabbia. Perdere una persona cara è un’ingiustizia doppia. Muove risentimento, anche astio nei confronti di un destino troppo crudele che strappa, lacera, scompiglia, senza chiederci il permesso ed in modo sotterraneo ci si rivolge asprianche contro chi abbiamo perduto.
Il libro, strutturato in quattro parti, con due sezioni ed una postfazione, presenta diversi tipi di passaggi nel dolore.
L'autrice narra la perdita, l'abbandono, la sofferenza indicibile per la malattia grave e lo sgomento per la perdita di lavoro. Sono temi trattati con molta compostezza ed altrettanto efficace intensità, soprattutto nel caso di una propria e ben seria malattia.
Di cosa ha bisogno una persona che precipita in una prova così intensa e crudele? Non c’è, ovviamente, una risposta certa e sicura a questa domanda. Soprattutto, non c’è una risposta che abbia un carattere generale o generalizzabile.
Il dolore porta inevitabilmente a cambiare sguardo sulla propria vita, ma non è a sua volta totalmente spendibile. Capita di bloccarsi nella reiterata ed avvitante, anche avvilente, forma della lamentazione. Evitare di rimanerne intrappolati significa restituire al dolore una giusta dignità, perché la sofferenza cambia, ma come canta Lucio Dalla l’amore salva.
Il dolore può essere blindato, come se portasse al suo interno un’innominabilità, non facilmente dimostrabile, irriverente nella sua lapidaria verità, talvolta dentro l’habitus di ospite inopportuno. Mai scontato però, anzi spesso acutamente imprevedibile, nuovo, crudo, sgradito. Talvolta succede anche desolatamente di smarrirsi nel dolore. Il dolore può essere spettacolarizzato, dilaniato nella sua stessa essenza, sbranato dalle sue parti e dunque costretto a diventare altro. Spesso ingabbiato nel silenzio, ma non per questo non meno assordante.
Nel libro si parla di un uso del sentimento del dolore che nutre un bisogno, primario e significativo, quello di avere spazio per dare senso a quanto così dolorosamente sentiamo. Occorre guardare le macerie ma saper vedere oltre, perché solo dando senso alla vita ed alle vite è possibile ricostruire.
Per il dolore sottaciuto, incompreso ed incomprensibile, spesso dunque negato, diventa fondamentale la parola, perché è voce che (gli) impedisce l’esilio altrove, magari dentro il corpo, oppure nell’uso dissennato di cibo ed alcool, talvolta con comportamenti nei quali si cerca di uccidere un tormento che non si vuole più ascoltare.
Spesso, invece, a fare male è l’uso improprio della parola, mal posta, a sua volta deprivata da un tempo di comprensione nel quale dovrebbe abitare il silenzio. Un silenzio denso di compassione, di vicinanza, di sguardi che toccano e semplicemente comprendono.
Il dolore sembra fermare la notte, sembra non lasciare intravedere l’alba, così affermava l’autrice in una conferenza nel giugno 2012*, ben certa però che la sofferenza aiuti a crescere proprio in virtu’ di una pena non più esule, che ci evita il rischio di farci estraniare da noi stessi. Svelata a se stessa la sofferenza riacquista una dimensione soffribile: da strazio permette di accedere ad un sentimento del dolore certo faticoso, anche amaro, percepito fino ad un attimo prima potente, sfuggente, dominante, ma in qualche modo salvifico.
Un sentire che ben riconosciamo perché per una sorta di rimbalzo, ineluttabile ed imprevedibile, ci lancia là dove sappiamo (già) di poter essere più vulnerabili e soli. Quando ci sentiamo ingiustamente colpiti il dolore può farsi occasione - per Proust l’occasione di approfittare della sofferenza - di quel tempo ritrovato in grado di promuovere un contatto forse urticante ma sempre profondo con noi stessi (davvero come noi stessi).
Una parte del dolore resta sempre, è un grumo duro o nero. Difficile sottoporlo nella sua interezza alla fatica dell’elaborazione, ma altresì impossibile evitarne l’incontro. Il dolore non può assumere la valenza di un totem solo da esibire, perché lo portiamo con noi, dentro di noi. Ci appartiene, ci definisce anche quando trafigge profondamente: dovremmo forse pensarlo come una medicina, che possiede intrinsecamente effetti scontati, quelli di non poter annullare il male nel vivere.
Rita Farneti
Indice Riflessioni al Femminile
Bibliografia
A. Salvo, I dolori che ci cambiano, Milano, Mondadori, 2012
*https://www.youtube.com/watch?v=ipuiykhaDLc
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