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Riflessioni su Nulla di Vittorio Sechi

Riflessioni su Nulla

di Vittorio Sechi   indice articoli

 

L'atrocità del dubbio

Dicembre 2017

 

È noto che la percezione della realtà fenomenica sia un processo alquanto complesso di elaborazione dei dati sensoriali provenienti dall’esterno e captati dai cinque sensi. Processo indispensabile per riempire di senso e significato la quotidianità in cui è immerso ciascuno di noi. Niente esisterebbe se non avessimo la capacità di elaborare adeguatamente ciò che colpisce ed eccita i nostri quattro sensi, che agiscono come estensioni del nostro corpo. In assenza di questa indispensabile funzione ci troveremmo inseriti in un contesto ambientale assolutamente indecifrabile, in cui l’universo delle relazioni si ridurrebbe ad una massa informe immersa in una nebbia impenetrabile.
Siamo fatti di percezione, anche inconscia, che spesso trasformiamo in sentimenti ed emozioni e siamo anche animali particolari, non replicabili in laboratorio. Ognuno di noi è unico e diverso rispetto a ciascun altro componente la genia umana. Da ciò dipende che la percezione sia un prodotto privato, personale e soggettivo. La realtà stessa, conseguentemente, è anch’essa peculiare, diversa per ciascun individuo che la percepisce: «una, nessuna e centomila».
Poiché è la percezione a riempir di senso e significato l’esistenza, e, quindi, a costruire la realtà, va da sé che quest’ultima, essendo il prodotto finito, seppur instabile, di un processo composito e mutevole, in rapporto ad ognuno di noi di fatto non esista, perlomeno nella sua datità oggettiva, soprattutto nei suoi elementi essenziali. È sostituita da tante altre realtà particolari; tante quanti sono i soggetti che vi vivono immersi. Non essendoci un’unica realtà, è normale che le tante esistenti, forgiate dalle peculiari, differenti e mutevoli percezioni umane, entrando in contatto, possano generare conflitti, presentandosi alternative l’una all’altra.
Nessuna meraviglia! Quello appena descritto è l’ambito ove imperversa «l’atrocità del dubbio» ed è il fertile terreno ove si dispiega al massimo grado il confronto fra umani, che si realizza proprio attingendo alla fonte ove gorgogliano le discordanze: «Polemos è padre di tutte le cose, di tutte re; e gli uni disvela come dèi e gli altri come uomini, gli uni fa schiavi gli altri liberi.» (Eraclito – Diels/Kranz, frammento B 53).
È quindi ambito di relazione, entro cui si incontrano – più spesso si scontrano - le diverse opinioni: doxa, la definivano i greci. Opinioni che più spesso che no sono elette a certezze universali, che rifiutano il confronto con l’insegnamento sull’esistenza di un eccesso di verità fuorvianti che l’esperienza e la pratica psicologica e filosofica hanno messo in luce nel corso dei millenni.
Sebbene quanto precede abbia una sua logica, più volte certificata dalla ricerca scientifica, nondimeno è altrettanto ragionevole teorizzare che la realtà abbia una sua propria consistenza: quel che colpisce ed eccita i nostri organi sensoriali si compie attraverso il concatenarsi di situazioni uniche, disposte in sequenza su un ipotetico segmento temporale. La peculiare conformazione umana, non del tutto adeguata, non consente la piena e corretta accessibilità a questa catena di eventi, restituendoci così un’immagine falsata (talvolta sfumata, talaltra del tutto errata) del succedersi delle situazioni ed un quadro complessivo affatto dissimile da quello reale.
La realtà che noi percepiamo è ben diversa da quella che il complesso processo percettivo ci rende quotidianamente disponibile. È sensato, infatti, immaginare che un evento, un accadimento, una circostanza si offrano alla percezione in un modo, quel particolare modo, e, a seguito del processo di elaborazione sottostante, siano restituiti in foggia affatto diversa: ciò che ‘è’ si trasforma in ciò che è verosimile, cioè simile al vero: «Ciascuno a suo modo».
Intorno a questa nostra indefettibile carenza, Pirandello ci costruì l’intera sua filosofia, resa in prosa nei suoi romanzi e nelle sue novelle: «Così è, se vi pare».
Questa discrasia funzionale fra ciò che «è» e ciò che «appare» è la triste e dolente area grigia del dubbio. Il dubbio non reca conforto, non dà sicurezza, genera ansie ed angosce ed insinua nell’animo paure spesso irrazionali. Perciò è ricusato dai più, essendogli preferita la sicurezza che offre una certezza cui appigliarsi ed entro cui trovar confortevole ricovero. Il dubbio è atroce, non consente stasi, costringe ad un incessante peregrinare fra le sponde che cingono la dimensione dell’ignoto. È la forza istitutiva del viaggio; uno spazio in cui si compie un cammino privo di orizzonti e meta, perché tutto ciò che si para davanti è un orizzonte che si nega all’abbraccio. In quest’area, ove l’incertezza regna sovrana, il pensiero creativo, alieno da pastoie che lo vincolino, esplica al massimo grado la sua forza. Si tratta di uno spazio agnostico, ove i dogmi son banditi, se non quelli che fungono da puntelli imprescindibili per evitare di scivolare nell’incubo dell’allucinazione. In tale area le differenze sono gli ingredienti ed il nutrimento privilegiato, mentre è abborrito l’uniforme e l’omogeneo. Ciò perché solo dall’incontro e scontro delle differenze scaturisce il pensiero innovativo. È così anche in biologia. Mentre in un’area resa omogenea dal pensiero monocorde, non è possibile apprezzare la ricchezza policromatica dell’universo umano.
Adeguare il comportamento ad una realtà verosimile, non oggettiva e fattuale, è una peculiarità del nostro essere animale (non che i vegetali si comportino diversamente). Sulla base della nostra rappresentazione artefatta, dibattiamo con i nostri simili – gli altri –, eleggendo questa struttura artificiosa a paradigma universale ed avendo anche cura di puntellarla spesso con argomentazioni faziose e capziose, che la cingono di filosofemi astratti, tesi a renderla inconfutabile. A questo modello aderiamo in maniera fideistica, senza quasi mai renderci conto che si tratta del prodotto di un macchinoso processo elaborativo fortemente interferito dalle nostre carenze fisiologiche, culturali e cognitive. A sua difesa erigiamo fortificazioni sempre più sofisticate, rendendo così il dato della realtà sempre più complesso ed adulterato.
Gli esempi di questa umana propensione si sprecano. Più l’informazione si rende accessibile per merito della galoppante evoluzione tecnologica, maggiore è il proliferare di veri e propri cortocircuiti neuronali che disegnano realtà irrelate, che contribuiscono ad accentuare il divario fra vero e verosimile, fino a produrre vere e proprie lacerazioni che determinano uno scollamento non sanabile fra essere ed apparire.
Un esempio su tutti, molto attuale e alla portata di tutti, è la maniera di rapportarsi al complesso fenomeno migratorio: fra percezione e realtà.
L’escursus che precede è, a parer mio, utile a spiegare il perché questo fenomeno sia percepito dalla massa come l’invasione di una marea nera, che rende credibile, se non addirittura certa, l’elaborazione (da parte di chi non è dato sapere) di un progetto di «sostituzione etnica» delle popolazioni autoctone, sebbene gli invasori siano, rispetto ai residenti, in numero esageratamente inadeguato per costituire un pericolo in tal senso.
Il dubbio è come la libertà: son entrambi fertile terreno di coltura per il processo creativo. In loro assenza l’arte si tradurrebbe in riproduzione dell’esistente, come un’immagine riflessa in uno specchio; allo stesso tempo, però, entrambi rappresentano un fardello che spesso si rivela eccessivamente gravoso da trascinarsi appresso. È così che, scientemente od inconsapevolmente, si rinuncia all’uno ed all’altra, rifugiandosi nelle più rassicuranti coltri della certezza dogmatica e della cieca delega ad un leader. L’uomo ha terrore sia della libertà che del dubbio. Il Grande Inquisitore ebbe ragione ad imputare a Gesù la colpa di essere ritornato per recar danno all’essere umano: recava con sé la certezza della libertà e il dubbio sulle cose umane.
Nasciamo liberi ed immersi nel dubbio. Solo progressivamente e con l’approssimarsi della maturità disperdiamo questo patrimonio ricevuto in dono, per cui ci consegniamo ad una causa fino ad appartenerle completamente, giusto perché l’appartenenza ci affranca ed esime dalla libertà di dover decidere autonomamente e ci avvolge nella certezza delle nostre rivendicazioni, sgravandoci dal peso di dover spendere il nostro io nell’impresa di costruire noi stessi attraverso le decisioni che volta per volta la vita ci chiede di assumerci.
Dovremo smettere di appartenere ad un eccesso di certezze, e riprendere la strada del viandante, che a nessuno deve dare conto e nulla si trascina appresso se non il dubbio dell’approdo.

 

   Vittorio Sechi

 

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