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Riflessioni su Nulla di Vittorio Sechi

Riflessioni su Nulla

di Vittorio Sechi   indice articoli

 

Ordine e disordine – apologia del kaos

Gennaio 2018

 

Alcune disordinate e sconclusionate considerazioni.

 

Un giorno un comico esortò D’Alema a dire qualcosa di sinistra. Da allora mi domando cosa significhi dire qualcosa di sinistra? Poi, anche, se dire qualcosa di sinistra sia, in assoluto, un valore o un disvalore? Ed ancora, quasi una palla di neve che cresce nel suo moto verso valle, dire qualcosa di sinistra in relazione o in riferimento a che cosa?

Poiché un pensiero, per quanto stupido, ne trascina appresso sempre un altro, mi sono scoperto a riflettere se sia possibile essere in un modo (di sinistra) in alcune circostanze ed essere diametralmente l’opposto (di destra) in un’altra occasione, una sorta di Dottor Jekyll. O addirittura essere di destra e sinistra nel medesimo istante e per la stessa circostanza. Che strano caso, sarebbe la negazione del principio di non contraddizione… Eppure.

Temo che anche solo dichiararsi di destra o di sinistra sia un po’ spersonalizzarsi, rinunciare a sé stesso. Oppure, ancor peggio, dichiarare un’appartenenza, essere di qualcosa di astratto, che è posizionato all’esterno del proprio Sé, non è forse alienarsi da Sé?

Ma esisteranno davvero le categorie morali destra e sinistra? Capisco a malapena che possano esistere dal punto di vista della localizzazione spaziale. Se davvero esistono in questa forma, sarebbero senza meno qualcosa di assai relativo: è sufficiente voltar le spalle e la sinistra diventa destra, e viceversa. Ma se è così semplice per le coordinate geografiche, il gioco si dovrebbe complicare per quelle intime, morali, essenziali dell’animo umano. È possibile compiere una giravolta su sé stessi per trasformarsi da umanista di sinistra a legalista di destra? Quanto mi dolgono queste due categorie, non meno di quanto abbia in uggia e diffidi di quella di moderato.

Vediamo come può essere approcciato questo dilemma se provassimo a calarlo nella realtà quotidiana.

Ipotizzo di incrociare lo sguardo di un uomo disperato - che incidentalmente è anche un operaio – che si accinge a salire su una gru, o sul tetto di un palazzo per reclamare il suo giusto salario.

Oppure mi domando il perché mi percuota l’animo la vista di un uomo – che per sventura è anche un immigrato e incidentalmente pure irregolare – che, per carpire alla vita, all’esistenza, una ragione di sussistenza, con ardimento sfida l’infida natura, consegnando le sue speranze e il proprio futuro al sogno d’un approdo confortevole e compassionevole.

O ancora mi scopro inorridito alla vista di bambini – incidentalmente palestinesi, ebrei, africani, indiani – con il ventre gonfio di sofferenza e vuoto di pane, con lacrime che colano sul viso e mosche che gli ronzano intorno.

Dicevo, quando osservo tutto questo, e questa visione, senza che io ne sia pienamente consapevole e senza che io lo voglia, provoca in me una rabbia profonda, una vergogna infinita, un’impotenza spossante, mi chiedo, io, nel momento in cui la mia collera monta, la mia rabbia cresce, la mia indignazione trabocca, sono di destra o di sinistra? O sono semplicemente un semplice uomo – che incidentalmente ha la disgraziata fortuna di essere un semplice osservatore e non il protagonista passivo di tanta devastazione – che ha ancora la fortuna disgraziata di provare emozioni, sentimenti e compassione per le sventure altrui?

Si è uomini umani o si è uomini di destra o di sinistra? Non sono già sufficientemente ideologizzate la politica, la religione, la scuola, la cultura per permettere che anche l’animo di ciascuno di noi sia stuprato dalla necessità di essere di qualcosa, di appartenere a qualcosa che non sia il nostro essere e il nostro Sé? Che non sia il nostro essere noi stessi?

Ma se osservo un ragazzo magrebino su una gru che, per richiamare l’attenzione altrui sulla violazione subita, urla e si scalmana, posso essere talmente ideologizzato da non scorgere in quel gesto, forse estremo, forse scalmanato e poco moderato, la sua sacrosanta ragione di ottenere quel che è giusto dargli? Posso riuscire a trovare qualche ragione che m’induca ad esprimere esecrazione, condanna, disprezzo per il suo gesto poco moderato? Posso essere talmente alienato da non immaginare che è sempre un evento affidato al caso se la rabbia di quel giovane – che incidentalmente è del Maghreb –, sarebbe potuta essere, sempre per un caso della vita, la mia rabbia immediata e non solo quella mediata dall’osservazione?

Se le domande che pongo non son retoriche; se chiunque, riflettendo su queste cose, dovesse esprimere un assenso al mio inquisire me stesso; se anche voi doveste affermare senza remore, senza riserve, che quel giovane sulla gru, quegli operai sui tetti dei palazzi, quei bambini scarni, affamati, assetati, già morti prima di nascere, con il fucile in mano perché la brama degli adulti ha preteso così, sono vittime di un sistema che deve, deve necessariamente cambiare, vittime di uno squilibrio della natura da correggere senza tentennamenti, vittime d’ingiustizia sociale perpetrata da sciacalli e d’ingiustizia divina perpetrata a loro danno da un Dio assente, morto, nascosto, indifferente; bene, allora questo chiunque sappia e sia cosciente del fatto che l’indifferenza, l’egoismo, l’individualismo spinto all’estremo forniscono tanti utilissimi alibi, affinché le cose che devono necessariamente cambiare, le ingiustizie da emendare, gli orrori da cancellare, gli stupri da censurare senza riserve, senza se e senza ma, senza indugio alcuno, restino per sempre angherie, ingiustizie, orrori e stupri… con buona pace per le anime belle.

Esiste un termine molto colto, e, al tempo stesso, tanto assassino e violento quanto è accademico e dotto: precomprensione, che altro non è che la lettura degli eventi – soprattutto storici – osservati attraverso gli ipotetici occhi del tempo in cui quei fatti si sono svolti. Attraverso la precomprensione si è giunti persino a comprendere (ancora non si è riusciti a glorificare) lo schiavismo, la caccia alle streghe, la crociata contro gli albigesi e tante altre soperchierie del passato. Volevo scrivere porcherie, ma la citazione dotta mi ha fregato.

Grazie a questo artifizio semantico: la precomprensione, è concesso ad un bergamasco inquadrato da una telecamera del telegiornale nazionale, di trovare  con estrema noncuranza le giustificazioni per il datore di lavoro, anch’egli bresciano o bergamasco, che assolda (davvero un ossimoro) un magrebino, lo fa lavorare come un magrebino (uso il Maghreb perché scrivere un negro che lavora come un negro non offre spunti per cogliere il livello di arroganza, violenza e senso d’impunità cui si è giunti nel nostro grande Bel Paese) per sei mesi in un cantiere edile, rifiutandogli, alla fine, la giusta paga. Non solo, adducendo pure, a ragione della sua arrogante arroganza, motivazioni inqualificabili, vergognose, inesistenti. Tutto ciò senza che il pelo di un uomo, che incidentalmente fosse anche sindacalista, o il ghigno di un uomo, incidentalmente carabiniere, intervenissero in suo sostegno; senza che altri uomini, indignati, infuriati quanto lo sono io, offrissero una mano, un abbraccio a quei due ragazzi appena scesi dalla gru su cui erano saliti per reclamare con clamore la giusta mercé per le loro fatiche… ma in che cazzo di mondo siamo?

Cosa significa essere di destra o di sinistra? Essere qualcuno di qualcosa? Oppure, più correttamente, non essere più qualcuno perché si appartiene a qualcosa? Essere di destra: uomo d’ordine e della meritocrazia (che disastri questi appellativi malintesi); essere di sinistra: uomo dell’accoglienza e dell’uguaglianza (quanti danni queste due predisposizioni umane, malintese, mal interpretate).

È poi davvero così indispensabile appartenere? Non è sufficiente essere semplicemente umani, essere di sé stessi, appartenere al proprio sentimento, alle proprie emozioni… genuinamente? Senza più quella preposizione semplice che sa tanto di alienazione, e che ormai ci rende sempre più esseri alienati da noi stessi, per essere dentro un qualcosa che non è più sé? Non è più facile piangere e provar sgomento, nella semplicità più semplice, scaricando i fardelli ideologici, le appartenenze pre-concette, le sovrastrutture culturali, ambientali, ideologiche e religiose, pur di mantenere quel grumo di sangue che inorridisce alla vista di una violenza, di uno stupro di un’ingiustizia?

Per certi versi è comprensibile questa esigenza tutta umana di appartenere. Infatti, è l’appartenenza a contribuire in buona misura a fornire il sostrato su cui si fonda la nostra identità e, di conseguenza, anche le nostre idealità. Però, se da una parte assolve ad una funzione sociale, dall’altro impedisce una visione che sia affrancata da preconcetti, quindi libera e senza un eccesso di vincoli interni. Si tratta delle prigioni interiori, quelle che, in definitiva, non esistono, se non nel nostro animo.

Giunge un momento in cui le sbarre che trattengono l’animo diventano soffocanti e l’esigenza di abbattere queste finte barriere diviene impellente.

Io mi dichiaro non più appartenente.

Amo essere odiato quando la collera per le ingiustizie viste, gli stupri percepiti, gli arbitrii osservati m’inducono un sanissimo disprezzo nei confronti dell’ingiusto, dello stupratore e del prevaricatore. Provo disprezzo per la moderazione che fiacca e snerva la sana reazione. Disprezzo chi mai si schiera, chi interloquisce con serena calma, senza mai far trasparire emozioni o moti dell’animo; chi mai si turba e mai solleva la voce, invece di discutere e dibattere, anche con enfasi e trasporto.

Io del prossimo voglio vedere e toccare l’anima, non la sovrastruttura costruita attraverso i mille corsi di formazione manageriale. Odio il politically correct: cazzo, un ladro è ladro anche se il politicamente corretto esige che lo si definisca malversatore, distrattore di sostanze pubbliche, finanziatore occulto e tante altre stronzate che il Bon Ton pretende per il corretto vivere civile e il mantenimento di relazioni civilmente proficue e tanti alibi similari, utili solo a mascherare le vergogne.

Smettiamo di essere di destra o di sinistra. Smettiamo di appartenere a qualcosa che è posizionato al di fuori del nostro sentimento, delle nostre emozioni e del nostro cuore più autentici, per riappropriarci del nostro diritto/dovere naturale di essere sempre e solo umani, sempre e solo noi stessi, sempre e solo emotivi. Rifiutiamo l’adesione acritica, l’omologazione, la greggità.

Difendiamo con forza e coraggio la nostra specificità di esseri umani e rifiutiamo, senza resa, il paradigma dell’appartenenza, il sentimento di sentirci qualcuno solo se e quando apparteniamo a qualcosa.

 

   Vittorio Sechi

 

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