Scrittura e vita, simbiosi perfetta
di Matilde Perriera
Il bullismo, fenomeno del nostro tempo
Racconta una storia o dai una lettura critica alla luce delle tue conoscenze
Aprile 2018
QUATTRO MIE STUDENTESSE, anche quest'anno, hanno partecipato al MEMORIAL NUCCIA GROSSO, 2018, VI edizione - Premio al giornalismo e alla cultura - dando il meglio di sé. La proposta 2018 recitava: “Premio al giornalismo e alla cultura: “Bullismo. Dai una lettura del fenomeno attraverso una storia o una lettura critica”. Non hanno vinto, ma, con questa esperienza, hanno certamente aggiunto un tassello alla loro crescita umana e spirituale. I loro racconti, pur nel rispetto delle 45 righe previste ed esulando da teoriche riflessioni sul BULLISMO, hanno focalizzato, con delicata intensità, la problematica, "HOC ERAT IN VOTIS".
Matilde Perriera
Ecco i 4 testi:
Fragore di anime in tempesta
di Francesca Maria Costanza
V A, indirizzo linguistico - Liceo Classico, linguistico e coreutico “Ruggero Settimo” di Caltanissetta
La sera, con il suo fascino universale, è il momento della giornata preferito da Carlo. Quando, finalmente, è libero da tutte le incombenze della quotidianità, egli sfoglia le pagine di Tolkien e si rifugia negli antichi miti del Nord. Perché esercitare l’arte dell’immaginare in una dimensione tanto lontana ed evasiva? E’, forse, il suo presente un Lestrigone antropofago da cui la sua nave, sulla scia di Ulisse, tenta invano di salvarsi? L’ex liceale, con la sua mente versatile, cerca le risposte ai tanti interrogativi, ma non le trova. A vent’anni di distanza, è ancora negativamente influenzato dagli amari appellativi con cui a scuola i compagni lo apostrofavano. Confuso, “sente” di essere rimasto il “NESSUNO” dallo “sguardo imbambolato” che “non sa mai concludere nulla di concreto”. La genialità, che lo faceva rifulgere in classe, era una nota di demerito per i tanti bulletti della V A che vedevano in lui solo un “accattone balbuziente” e lo definivano “una zattera smarrita nel mare nero in tempesta”. Nessuna luce nel suo tunnel buio. Un giorno d’autunno, come consuetudine, uscendo dal laboratorio di fisica, il giovane talento camminava lungo le stradine che conducono alla sua casa in campagna. Durante il tragitto, su cui alitava il profumo degli aranci, s’inebriava osservando i paesaggi dell’entroterra siciliano con quei colori vivaci e familiari ancor più dei suoi parenti. Ogni passo lungo i sentieri onirici lo conduceva al tempio della sua infanzia ... Rivedeva l’albero di ulivo, ai cui piedi lo aspettava l’amata madre ferma ad ammirare il Sole … E ricordava il travaglio interiore di lei nel sostenere una vita contesa fra violenza e dolore … E, accarezzava il tao francescano che gli aveva donato al momento della sua morte, unica eredità dall’intrinseco spirito cattolico … Sentì il bisogno di sedersi all’ombra dell’arbusto per stringere il ciondolo che, per lui, aveva un valore incommensurabile quando, improvvisamente, dei passi ... Il signor La Russa, lo schivo imprenditore che vive vicino casa sua, forse? NO!!! La ferocia si era personificata nello studente più temuto della sua scuola. Predatore in agguato, l’aveva seguito sin dall’uscita dall’Università e, con lui, giovani alti e muscolosi. Se le nuvole in cielo avessero potuto parlare, avrebbero descritto la visione di tre giganti e un neonato intimorito. «Guardatelo, il genietto numero uno è tutto solo, facciamogli un po’ di compagnia!» - proferì il capo. Ogni espressione di quegli energumeni fu il simbolo massimo dell’inumana irrazionalità. Lo spogliarono, lo picchiarono, lo tempestarono di pugni e calci, gli strapparono dal collo il tao … IL TAO, unica eredità materna!!! … «A domani, NESSUNO” … o chissà!». E andarono via senza correre, camminando a ritroso, continuando a schernire il primo della classe e lasciandolo legato a un albero con le stesse corde con cui Carlo saltava da bambino, sognando di diventare un campione. Adesso, di queste fantasie, sembravano restare solo due gambe magre, massacrate, sanguinanti. Fu una notte gelida per lo studente universitario, soprattutto perché suo padre, probabilmente con in mano un bicchiere di Whiskey, uno di troppo come al solito, non andò a cercarlo. Sperava di morire. «Se tu, Cielo, avessi stelle tanto splendenti da illuminare il cuore di un bullo, in questo momento non verserei lacrime» … e, dopo queste angosciate parole, si abbandonò a un sonno privo di sogni. Il giusto prezzo da pagare per essere nato povero, ma straordinariamente intelligente. La luce dell’alba riportò, tra tanta desolazione, una parola amica. “NESSUNO” si sentì chiamare, per la prima volta dalla morte della madre, “Carlo”. Lo sguardo della ragazza era lì, “nell’hic et nunc”, a fargli provare il piacere della “social catena” leopardiana. Incantato dallo sguardo sinceramente sollecito, vi intravide la chance che non gli era mai stata offerta. Sono trascorsi dieci anni e Carlo, ora affermatissimo docente universitario, riflette e capisce. Alba, sciogliendo le corde che lo legavano all’albero, ha slegato, insieme a esse, i nodi dell’odio allacciati dalla derisione, dall’indifferenza e dall’invidia di quanti, per nascondere la fragilità interiore, costruiscono su di sé la maschera della tracotante prevaricazione. Si rende conto, pertanto, che essi, più che condannati o puniti, devono essere aiutati da un’équipe medico-sanitaria a ritrovare l’equilibrio necessario per ricostruire il proprio ego. La stessa sera, allora, scrive a chi sperava di ostacolarne la crescita facendo leva sull’odio: «Cari nemici, vi parla una vittima che ha vinto contro la vostra arroganza. Ero povero e mi chiamavate “straccione”, avevo buoni voti e infierivate. Perché tanto rancore? Potrei augurarvi un cuore sofferente e, invece, spero nella vostra maturazione spirituale. Oggi so, infatti, che le stragi sono frutto di un mancato atto di coraggio e che il bullismo, come il terrorismo e la criminalità organizzata, hanno paura del chiasso intelligente. Vi rivolgo, dunque, un appello, affinché possiate crescere attraverso un fertile confrontato attivo che vi inviti ad auscultare il FRAGORE DI ANIME IN TEMPESTA. Solo così troverete la pace». Carlo
Misteriose metamorfosi
Giulia Maria Antonella Bruno e Annalisa Maria D’Alessandro
IV B, Indirizzo classico - Liceo Classico, linguistico e coreutico “Ruggero Settimo” di Caltanissetta
Sono le 8.05 di lunedì mattina e Mario Tedeschi entra in classe. Stamattina, per gli alunni della 3A, ha in serbo una lezione diversa dal solito e inizia scrivendo sulla lavagna a caratteri cubitali “BULLISMO”. Come spiegare questo concetto così complesso a bambini di 8 anni? E prepararli alla volontà di nuocere che, ormai, si sviluppa, prende forma e si perpetua tra i banchi di scuola? O non sono nemmeno necessari trattati di sociologia o psicologia perché, già alla scuola primaria, gli scolari ne hanno sperimentato la potenza negativa? O, forse, se ne sono resi responsabili? E il bullo stesso strozza volutamente l’individualità della sua “vittima” o è sollecitato da pulsioni inconsapevoli? Molte risposte alle tante domande sono, purtroppo, affermative. Il comportamento intenzionale e sistematico di chi strozza, con glaciale inclemenza, le individualità di soggetti deboli o insicuri, infatti, delinea una voluta asimmetria di potere tra sé e la vittima. Si è di fronte a un fenomeno radicato nell’animo ed è per questo che la missione del professore d’italiano è ardua; i bambini, appunto, agendo con spontaneità, sanno essere incredibilmente solidali o incredibilmente crudeli e il modo più efficace per arginare il bullismo è educarli al sentimento. Il Docente, pensando a una strategia nuova e più incisiva, ricorre a una favola dal forte sapore gnomico.
«Sul fondo del mare viveva una piccola ostrica di nome Marina, che conduceva una vita tranquilla circondata da molti amici. Quest’esserino pacifico vedeva scorrere i giorni nel solito tran tran, non disturbava mai nessuno e apriva la conchiglia solo per mangiare. Una sensazione strana la fece entrare in uno stato di crisi lacerante quando qualcosa - un parassita o un granello di sabbia - s’insinuò all’interno delle sue valve. Quel corpo estraneo, avvinghiato fra le lamelle squamose ondulate, le provocava un dolore insopportabile. La conchiglia tondeggiante, per un improvviso processo di antropomorfizzazione, divenne preda della paura perché si era resa conto che il pericolo poteva essere annidato ovunque e minacciare la propria stabilità. Perdette il suo equilibrio psichico e, illudendosi di alleviare il suo tormento, cominciò a manifestare reazioni abnormi. La rabbia divenne l’unica compagna e sentì crescere nel suo cuore una furia omicida che le permetteva di vincere la sua endemica debolezza. Scacciava o distruggeva ogni cosa avesse attorno, inveiva contro la vita o contro le persone e si convinse di poter liberarsi dall’oppressione infliggendo agli altri il suo stesso supplizio. Si ritrovò, invece, a vivere sola, aggrappata a uno scoglio in fondali rocciosi fino a una profondità di 50 metri. Nessuno le si avvicinò più e, anzi, tutti la respingevano come essere malefico. Dove aveva sbagliato? La regina dei palati iniziò a riflettere. Le apparve chiaro che doveva cambiare il suo atteggiamento e, più che reagire con violenza, doveva cercare dentro di sé la forza per cacciare via il male dal suo guscio striato e ruvido. Tentò, con tutta l’energia che aveva nel suo corpicino, di espellere il bruscolo, fino a quando, stremata, desistette. Rifletteva. Cosa poteva essere successo alle sue pareti interne iridescenti? Doveva ancora alimentare la sua rabbia o convivere con la nuova realtà e aspettare possibili miglioramenti? Trascorsero dieci giorni e dieci notti di travaglio e, improvvisamente … Eccola!!! … La sostanza estranea o indesiderata, ricoperta dalle cellule della madreperla, si era trasformata in una magnifica perla».
Il Professor Mario Tedeschi completò il racconto avvolto dal silenzio commosso dei suoi scolari. I Bambini erano galvanizzati. Nessun discorso sdottoreggiante avrebbe potuto incidere le loro coscienze e interagire nella loro crescita umana e sociale. L’avventura esistenziale dell’ostrica, così, rigenerata dalla misteriosa metamorfosi, aveva reso chiaro come la tracotanza di un Bullo spesso sia originata da un contesto familiare fuorviante, o dal desiderio di ribellarsi a stereotipi anacronistici, o, ancora, da uno stato di malessere interiore che ne soffoca la coscienza e lo induce ad aggredire per nascondere sostanziale impotenza. I piccoli alunni, a questo punto, se offesi da attacchi verbali, gelosie, odi, vendette, invidie, pettegolezzi, violenze, avrebbero trovato la forza per esprimere con le parole il proprio tormento, convivere con le proprie cicatrici, assaporare la gioia della condivisione. Si erano resi conto, insomma, di quanto fosse importante fare tesoro della sofferenza per educare il proprio sentire e convertirlo in un momento di crescita spirituale, come l’ostrica che aveva prodotto una perla dentro di sé, nello stesso punto in cui era stata ferita.
Il riscatto di un'anima pura
di Macaluso Giada Rita
IV B, Indirizzo classico - Liceo Classico, linguistico e coreutico “Ruggero Settimo” di Caltanissetta
Sono gli ultimi giorni di maggio e in Sicilia il clima è più caldo rispetto ad altre zone d’Italia. L’estate si avvicina e, con essa, l’opportunità di trascorrere le domeniche in riva al mare. Tante volte, quando ho bisogno di stare sola per riflettere su quanto mi accade, vado là a rilassarmi mentre ascolto lo sciabordio delle onde che si infrangono contro gli scogli. Osservo il bellissimo paesaggio che mi circonda e, purtroppo, mi rendo conto dell'impatto dell'uomo sulla natura e sui danni spesso provocati dai suoi interventi massicci. Tante domande mi bombardano e, assorta nei miei pensieri, lascio vagare la mia mente. Il pensiero vola e rifletto, anche, sull’estrema leggerezza con cui l’essere perfetto per eccellenza schiaccia con inaudita facilità non solo quanto gli sta attorno ma anche la personalità di chi gli è vicino. Come sconfiggere l’idea secondo cui “lupus est homo homini”? Il sempiterno assioma plautino dell’uomo che è lupo per l'altro uomo, infatti, richiama l'istinto di sopraffare il proprio simile e, con esso, il triste fenomeno del BULLISMO. Tanti di noi sono vittime di comportamenti violenti da parte di ragazzi sempre più giovani che calpestano la dignità di coetanei più deboli presi a “bersaglio”? Io, per esempio, ultimamente, sentivo qualcosa che mi logorava dentro e tutto aveva avuto inizio circa sei mesi fa, quando avevo cominciato a subire manifestazioni di un forte impulso distruttivo. Frequento il primo anno del liceo scientifico e, fin dal primo giorno di scuola, quando varcavo la soglia di quell’edificio, mi sentivo a disagio. Non so perché provassi questo malessere. Forse perché, a differenza della stragrande maggioranza di studenti dell’istituto, non vivo in una famiglia benestante, mio padre è un semplice operaio e mia madre una casalinga? E mi “snobbano” perché, essendo “figlia di nessuno”, non posso permettermi le grandi firme che – dicono - fanno sentire importanti chi le indossa? Amo studiare e aiuto chi mi chiede delle spiegazioni, questa è la mia forza, questa è la mia ricchezza, ma, a quanto pare, per “i bulli tra i bulli” tale connotazione non basta. Dei compagni senza alcun freno morale sghignazzavano alle mie spalle, mi “appioppavano” soprannomi offensivi e mi chiamavano “secchiona”. I miei “aguzzini”, in particolare, erano due ripetenti, mi rivolgevano sguardi denigratori e, spesso, quando chiedevo spiegazioni ai professori, mi deridevano. Cercavo di andare avanti in silenzio e di essere costante nello studio, ma, ormai, quei ragazzi avevano superato tutti i limiti, m’incutevano timore, mi imponevano con prepotenza di svolgere i loro compiti in classe, minacciavano di distruggermi la vita anche con chiamate anonime notturne offensive e con l’intimazione di non parlarne con nessuno, altrimenti …. !!!. Inizialmente mi sentivo sola e, presa dalla paura, non parlavo con nessuno, la notte dormivo molto di meno; ciò mi portava a essere meno assidua nello studio e disattenta durante le spiegazioni. I miei genitori vedevano questo cambiamento in me e cercavano di farmi parlare, ma rispondevo dicendo di non avere nulla e che era solo semplice stanchezza. Stamattina, al bivio tra l’esaurimento nervoso e la voglia di riscatto, ho finalmente detto BASTA! Suonata la campana, appena i due tracotanti bulletti si sono avvicinati, accerchiandomi e imponendomi, con sottile piacere, di comprare loro i panini, sono andata a denunziarli al Dirigente scolastico. La scuola ha convocato subito le rispettive famiglie e, insieme, hanno trovato soluzioni con il supporto di operatori dei Centri di Salute Mentale. Gli esperti interverranno sulle loro difficoltà nel controllo e nell’elaborazione mentale degli impulsi. I due compagni guariranno? E altri studenti mi ringrazieranno? Forse. La mia scelta di parlare, infatti, non solo potrebbe aiutare anche altri ragazzi vittime di questi stessi atti di bullismo da me subiti, ma, soprattutto, coloro che esercitano questo genere di violenze a liberarsi dalle loro turbe psichiche. Io, comunque, non giudico né condanno quanti sono spinti da forze interiori negative perché ho capito che, alla base dei loro atteggiamenti aggressivi, vi sono problemi profondi generati, magari, da cause a loro sconosciute. Quello che conta realmente, quindi, è trovare dentro di sé la forza per non accettare passivamente la violenza gratuita e riprendere il viaggio verso il riscatto della propria identità.
Come una rosa in un giardino
di Chiara Maria Barbera
III A, indirizzo linguistico - Liceo Classico, linguistico e coreutico “Ruggero Settimo” di Caltanissetta
C’era una volta un piccolo germoglio di rosa che faceva capolino da una montagnetta di terra umida. Era difficile notarlo, nascosto così tra i folti ciuffi d’erba di un prato lussureggiante, all’ombra d’imponenti querce centenarie. In un posto del genere, in cui la natura esercita il grande potere di dar vita a piante dalla bellezza accecante, chi mai si sarebbe soffermato per ammirare un tenero e piccolo bocciolo? Lui era il difetto, lui era la vergogna di quel posto, perché, con la sua presenza, osava equipararsi alla magnificenza degli alberi che lo circondavano. Il sole si fece carico del pesante fardello di eliminare quella piaga. Per tre mesi diresse i suoi luminosi e caldi raggi sulla rosa e, per tre mesi, fallì. Le radici, benché non molto profonde e sottili, non seccarono, anzi, dal piccolo bocciolo, prima avvolto dal verde scudo della corolla, cominciò a distinguersi il rosso corallo dei petali. Il sole venne sconfitto, i suoi attacchi neutralizzati; era inutile continuare quella lotta, ma, per l’indifesa creatura, nessuna tregua; al sole, infatti, succedette l’acqua. Piogge torrenziali si abbatterono sul germoglio, venti impetuosi tentarono di sradicarlo, foglie secche provarono a reciderne il gambo.La rosa si impaurì. Si ripeteva che le difficoltà che mese dopo mese la mettevano alla prova, un giorno sarebbero finite, ma quanto era lontano quel giorno? Quanto ancora avrebbe dovuto sguainare le spine e difendersi? Perché tutti la respingevano, perché nessuno la considerava una parte integrante del giardino? La forza che la teneva ancorata al terreno cominciò a vacillare. Il tempo passò e, inesorabilmente, la forza del vento, dell’acqua e delle foglie lasciò il posto a una nuova, temibile minaccia. Il gelo della neve penetrò nelle radici e, prima che il germoglio se ne rendesse conto, lo trascinò sulla superficie di un lago ghiacciato. Quel fiore, quello splendido fiore, stava già galleggiando fra la vita e la morte. Un vento freddo lo spinse sotto il pelo dell’acqua. Era così buio, lì; un tunnel oscuro, la cui fine gli era impossibile da vedere. Ebbene sì; la rosa morì allo stesso modo in cui aveva vissuto il resto della sua breve vita; in silenzio. Non un lamento, non una parola uscì dal suo calice; si dileguò con un muto grido, che, quatto quatto, come per paura di essere percepito e soffocato anch’esso, denunciava ciò che aveva sopportato. Quando la neve si sciolse, il suo stelo rinsecchito venne illuminato dalla luce di quello stesso sole che, qualche mese prima, aveva provato a soffocarlo.
“No!” -urlò una margherita- “Io non volevo che morisse!” e pianse, le sue lacrime caddero sul fertile terreno, indignato per l’ingiustizia commessa in quel giardino.
“Sarebbe diventata una splendida rosa, peccato!” commentò una rondine.
“Vorrei che fosse ancora qui con noi!” aggiunse una nuvola. L’intero giardino- le pietre, le formiche, i tulipani, le foglie- pianse la sua morte.
“Niente riuscirà a sostituire questa rosa.” affermò la neve, ormai ridotta in pozzanghere fangose.
In memoria del piccolo germoglio, il vento soffiò, e tra i suoi spifferi, petali dai colori più svariati si lasciarono trasportare in una triste danza. I forti vivono; i deboli soccombono. È questa la legge della natura, e noi, come suoi figli, non agiamo in altro modo. Noi, bulli tra i bulli, con parole sferzanti, con insulti carichi di disprezzo e odio, ghiacciamo, distruggiamo le idee, la personalità, calpestiamo le emozioni, rimaniamo indifferenti di fronte alla sofferenza di quelle persone sole, deboli, insicure. Siamo soddisfatti quando recidiamo il sacro filo della vita che anima un uomo, una donna, un bambino, un anziano? Come possiamo definirci umani se ridiamo alla visione di un uomo che striscia nel fango, che non trova la forza di rimettersi in gioco? Con quale coraggio, la mattina, guardiamo allo specchio il riflesso del nostro viso, deformato come neve al sole? Io, tu, la signora che è appena uscita da casa, l’uomo che sta innaffiando i fiori… tutti hanno agito almeno una volta da bulli, tutti sono stati almeno una volta neve, tutti hanno soffocato il pensiero di un proprio eguale. La neve è pericolosa, la neve può uccidere, ed è per questo che dobbiamo scioglierci, trasformarci in acqua cristallina e diventare nutrimento per tutte quelle rose che sono sul punto di essere strozzate.
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